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"L'uomo sull'albero" di Mark Strand

Ultimo Aggiornamento: 08/07/2020 07:28
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06/07/2020 14:09
 
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Sedevo tra i rami freddi su un albero.

Ero senza vestiti, soffiava vento.

Tu eri lì sotto, con un cappotto pesante,

il cappotto che hai adesso.

E quando l’apristi, scoprendoti il petto,

tarme bianche presero il volo, e ciò che dicesti

in quel momento cadde a terra in silenzio,

la terra ai tuoi piedi.

La neve scendeva dalle nuvole fin nelle mie orecchie.

Le tarme del tuo cappotto volarono nella neve.

E il vento, sotto le mie braccia, sotto il mento,

piangeva come un bambino.

Non saprò mai perché

le nostre vite volsero al peggio, e neanche tu.

le nubi mi affondarono nelle braccia e le braccia

si sollevarono. si sollevano ora.

Oscillo nell’aria bianca invernale

e lo strido dello storno mi si stende sulla pelle.

Un campo di felci mi copre gli occhiali: li pulisco

per poterli vedere.

Mi giro e le foglie mutano colore con me.

Le cose non sono solo se stesse in questa luce.

Tu chiudi gli occhi e il cappotto

ti cade dalle spalle,

l’albero si ritrae come una mano,

il vento si adatta al mio respiro, ma nulla è certo.

La poesia che mi ha rubato queste parole dalla bocca

potrebbe non essere questa poesia.


[Modificato da Falkenna 06/07/2020 14:09]
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06/07/2020 14:29
 
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La prima cosa che mi colpisce, in questa poesia, è che questa

scena è senza parole, tutto accade nei movimenti e nelle

sensazioni.

Le frasi dette sono tarme bianche che cadono pesantemente per

terra, le frasi svuotate di suono diventano cose luminose che si

perdono. L’unico riferimento ad una storia vissuta è un accenno di

sfuggita (non saprò mai perché le nostre vite volsero al peggio, e

neanche tu). Ma ogni ulteriore riferimento a vicende reali sfuma

nell’indeterminatezza dello scenario.

I suoni (il piangere del vento, lo stridio dello storno) si

accordano con la visione dei due, l’uomo e la donna, persi nella

lontananza ovattata di un vuoto-di-senso desolato.

Uniche presenze, le sensazioni che il corpo conserva. Il freddo

dell’aria invernale sulla pelle. Le nubi che affondano nelle

braccia (una sensazione visivamente evocata). Le felci che

impediscono la vista. Eppure nemmeno le sensazioni sono certezze:

le foglie mutano, le cose non sono più se stesse, l’albero si

ritrae. Non resta neanche la solidità di un ricordo, perché perfino

la narrazione non è vera, si ritrae da ogni pretesa di afferrare la

realtà e lascia solo la stessa traccia impalpabile e slabbrata che

i sogni lasciano al risveglio.

Perché questa poesia mi piace tanto. Perché è come un quadro di

Magritte, in cui ogni cosa è situata in maniera “aliena” nei

confronti delle altre, e gli elementi classici di una poesia

(in questo caso, di una poesia sulla lontananza e sulla perdita: il

gelo, il silenzio, le nuvole, gli uccelli) sono combinati fra loro

secondo una logica non terrestre, una disposizione spaziotemporale

che sembra una intersezione fra mondi diversi, una apparizione

oltre la soglia di un’altra dimensione.

Mi affascina e mi disorienta perché queste cose semplici si

compongono in combinazioni irreali, le tarme escono dal petto, le

nuvole penetrano nel braccio..... Questo disorientamento genera

stupore, abbandonarvisi genera incanto ma anche lo sgomento di non

sapere più in quale delle tante realtà possibili ci si trovi in

quel momento.

Ma in fondo quando si legge una poesia di Mark Strand basta

lasciarsi alle spalle l'dea di realtà, diventare un aquilone e

volare nelle sue visioni.





[Modificato da Falkenna 06/07/2020 14:33]
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Post: 3.029
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08/07/2020 07:28
 
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grazie per la lettura!

bellissima la poesia, a apprezzato ancor di più il tuo commento che ci immerge nella tua sensibilità e nel meraviglioso viaggio delle tue parole, tra le parole di questo poeta.

[SM=g2829700]



"Il bambino è la mia garanzia. E se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato" (McCarthy Cormac)
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