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Fuga all’Avana di Marco Archetti

Ultimo Aggiornamento: 26/08/2019 08:44
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12/08/2019 15:37

E così un giorno mi licenziai e lasciai l’ufficio della Telecom con la sua oscurità familiare per tuffarmi nella solarità promettente di un mondo nuovo: quello dei venditori di panini allo stadio. La libertà – pensavo – può assumere forme imprevedibili, ma intanto io indossavo una forma prevedibilissima: ventidue anni, senza una precisa identità, in fuga da ogni forza morale come Rimbaud. Era la selvatica estate padana del 1998, nasceva la Banca centrale europea, la mia amica Annalisa partiva per l’Inghilterra senza tornare, mio padre e mia madre procedevano con la separazione numero quattordici e io facevo il Grande passo numero uno: farla finita coi telefoni. Consegnai la lettera di dimissioni il primo aprile. La responsabile Rosanna, col suo laccato ciuffo-visiera che faceva ombra sul foglio, disse: “Me l’aspettavo”. In effetti, alla riunione del giorno prima, quella col sommo Capo area, Gran visir del sell out, mi ero segnalato per strafottenza perché avevo sghignazzato a una sua frase, questa: “Tra qualche anno faremo un mucchio di soldi costringendo la gente a camminare senza guardare dove va. La obbligheremo a tenere gli occhi fissi sul cellulare”. E’ che mi era sembrata una visione fantascientifica al servizio di un obiettivo idiota, poi ha sghignazzato la Storia e ha seppellito me, non il Gran visir, ma va bene così, negli anni ho fatto il callo alla mia fallibilità predittiva. Fallibilità che ha sempre riguardato anche le mie faccende personali, tant’è che se in quel momento qualcuno avesse prospettato il mio futuro avrei sghignazzato come un matto al sentirgli dire che di lì a pochi mesi, per colpa di un libro e di una briosa folata di incoscienza, avrei preso un aereo con destinazione L’Avana, Cuba. Non solo: che a L’Avana, Cuba, ci sarei rimasto per un anno e mezzo senza tornare mai a casa.




Avevo sgobbato duro e messo via qualche soldo grazie al lavoro notturno in una birreria. Quando non lavoravo, leggevo

Andò così: dopo il diploma, straniero a me stesso e impregnato di ribellismo post adolescenziale, avevo sgobbato duro e messo via qualche soldo grazie al lavoro notturno in una birreria, a un centinaio di weekend da cameriere e ai turni in un’impresa di pulizie. Quando non lavoravo, leggevo. Così ero venuto in contatto col poeta cubano Omar Pérez, fatalmente, proprio attraverso un libro. Omar poi l’avevo incontrato davvero, però in Italia, una sera in piazza Vittoria, a Brescia, perché in quei giorni era ospite di Mira, una sua amica che viveva in provincia, in una casa di campagna, insieme a un indiano cherokee e a uno stormo di uccelli che svolazzavano per l’aere domestico e scagazzavano indisturbati, e che trasformarono in un incubo l’unica notte in cui, abbozzolato in un’amaca, dormii lì. Avevamo parlato a lungo, la mattina seguente, io e Omar. Mi disse che si trovava all’estero da un po’, ma che la sua storia era un po’ complicata. Prima che me ne andassi mi pregò di portare dei medicinali a sua madre e mi affidò una sporta che conteneva cinque o sei scatole di aspirine, svariati antipiretici e dieci confezioni di Aulin. “Aulin, non sembra un cavaliere della Tavola rotonda?” aveva riso nel consegnarmela. Il mio primo contatto con Cuba fu questo: bustine, pastiglie, blister, l’immaginario farmaceutico del bisogno. Il secondo fu l’aeroporto José Marti, in cui atterrai un mese dopo. Mentre l’aereo si abbassava guardavo attraverso l’oblò e vedevo, oltre al mare dell’Avana – carcassa liquida, bestia lucente –, la parata di tutte le questioni che avevo troncato unilateralmente, ossia lavoro, comunicazioni familiari e rapporto con la fidanzata, mollata su due piedi perché si era rifiutata di seguirmi. Ma in poche ore dimenticai tutto e vinse l’eccitazione di essere lì, a ottomila chilometri da casa e in un altro mondo: il mondo dei poster, dell’immaginario di generazioni, dei ribelli grandemente fotogenici.



Cenavo a base di TropiCola e cucchiaiate di maionese Los Atrevidos, mentre gli amici vaneggiavano di grandi romanzi

Un anno e sei mesi in tutto. A Cuba ho sempre vissuto in pesos tranne una volta, in cui ho corrotto due impiegatos, due sentinelle della revolución ritte a prua della Gloriosa Bagnarola Statale, i quali, per accorciare la pratica e allungarmi il visto, dimostrarono – e senza vistosi patemi – di gradire più gli euro che l’impotente moneta nazionale. La vicenda aveva fatto sorridere maliziosamente Victor, medico psichiatra che mi affittava una stanza di casa, solidale, fratello e amico di quei giorni avaneri, libero prosatore dei testi di Silvio Rodrìguez, gran decostruttore di miti e flâneur – tante le nottate a ridere a morte e a bere e camminare su e giù. Il suo ricordo riempie quel mio anno e mezzo cubano di luce e familiarità. Strabiliato, mi chiedeva come diavolo potessi vivere lì con tanta apparente disinvoltura, io che avevo la fortuna di venire dal mondo del sapone dalle mille marche, dall’Italia, anzi, dall’Europa, luogo civile, Elisio della stampa libera anche di essere cialtrona e della carta che si può sprecare. Già, come potevo? Cominciai a chiedermelo anch’io. E così, grazie a Victor e a un implacabile bisogno di sguardo leale sulle cose – vizio che mi è rimasto da allora – vidi pian piano sbiadirsi la Cuba che, suggestionato da mitizzazioni mediocri, avevo amato in Italia, e prender corpo la Cuba con cui avrei dovuto fare i conti a Cuba, l’Avana per l’Infante defunto che ero, perfettamente riassunta negli occhi sfatti dei cubani: mentre mi pigiavo con loro in un taxi collettivo, assolato e graveolente, mi sembrava perfino di udirli pensare “ecco l’ennesimo straniero che vuole un’esperienza autentica noleggiando dieci minuti del nostro malessere quotidiano”. Cuba mi ha cambiato la vita e soprattutto la testa. Cuba vissuta ogni giorno per cinquecentocinquanta giorni. Cuba e alcune persone. Il dénouement avvenne subito: ero arrivato per tuffarmi nel paradiso in terra, e fu subito evidente – dalle facce fameliche, dalla miseria culturale, dalla sistematica riduzione a non-persona di ogni persona – che a Cuba non si poteva vivere ma solamente strisciare, vegetare e lentamente svanire: come mi sarei sentito, da quel momento in poi?



Nel frattempo, ingordo, acceso, non dormivo mai e imparavo a memoria quella splendida Avana delirante – labirinto costruito per l’ombra, maestosa Saint Honoré andata a male, imponente bordello che aveva inventato il turismo di massa caraibico – perdendomi in quel dedalo giallo, in quell’arabesco fatiscente, camminando pensieri e odorando sentori acquitrinali e infernosi sprigionamenti di marcescenza. Ma come mi sentivo mentre percorrevo quelle strade abbacinanti e deturpate dalle parole d’ordine di regime? Come mi sentivo mentre discendevo per la calle 23 in direzione oceano, tra alveari coloniali con donne affacciate alle grate delle finestre come canarini in gabbia, investito da folate di quinzeañeras che scherzavano tra di loro, bianche, nere e mulatte, in posa per le foto con ombrellini decorati da martin gale di raso scadente, regine di rayon sullo sfondo di saracinesche arrugginite, sidecar sovietici e vessilli di mutande stese? Come mi sentivo quando raccontavo di Ariadna, la scrittrice di cui mi ero innamorato, alla mia amica Annalisa che viveva in quella lontanissima e implausibile Inghilterra, usufruendo dell’unica connessione internet disponibile cioè quella del Nacional, torreggiante hotel tutto mogano e passamanerie retrò (connessione ovviamente di merda, che ci metteva un’ora per farmi leggere due mail e un attimo a strapparmi sensazionali sacramenti, mentre l’addetta mi fissava)? Come mi sono sentito quando passeggiavo con Victor lungo il Malecòn, la Polizia fermava entrambi ma poi si scusava con me e chiedeva i documenti solo a lui, e quando, rientrati a casa, lui si sfogava con sua madre e i cognati e il nipote insieme ai quali viveva in cinquanta afosi metri quadrati, dando in escandescenze al punto che tutti si precipitavano ad abbassar tapparelle in un coro di “cretino, prima o poi ci farei passare dei guai”?



Un anno e sei mesi in tutto. A Cuba ho sempre vissuto in pesos tranne la volta in cui ho corrotto due impiegatos che apprezzavano l’euro

Come mi sono sentito quando, in riunione clandestina con lo sparuto manipolo di amici artisti, lunatici da marciapiede, scrittori senza romanzo espulsi dal consesso comunista ma miei fratelli nella grande patria immateriale della letteratura e disillusi sostenitori dell’unico progetto sostenibile – il Proyecto Varela – cenavo a base di TropiCola e cucchiaiate di maionese Los Atrevidos, e li amavo mentre vaneggiavano dei grandi romanzi epocali che avrebbero scritto quando Cuba se li sarebbe meritati, cioè quando sarebbe stata finalmente libre? Come mi sono sentito quando, tornando a casa alle quattro del mattino dopo uno di questi incontri, mi ha accostato una Lada della polizia a fari spenti, il finestrino si è abbassato in un guaito ed è spuntato fuori il muso di uno che, con voce collosa, mi ha chiesto: “Dieci dollari e ti accompagniamo a casa. Taxi in giro non ce ne sono”, io ho risposto “no, grazie”, allora quello ha spento il motore, è sceso – giovanissimo, ubriaco cotto – mi ha barcollato davanti e ha aggiunto: “Sicuro? Con noi non sei in pericolo. Da solo… io non posso garantire…”? Come mi sono sentito quando constatavo le vite grame dei miei amici e delle loro famiglie, il terrore continuo, la violenza e la miseria nera che affliggevano le loro vite di esiliati in patria, eppure, chiudendo gli occhi, contraddittoriamente e vergognosamente, mi rendevo conto che in quei mesi la voglia di vivere mi stava saltando tutta addosso, con foga famelica, come un demone acrobata?



E come mi sentivo quando, pagina dopo pagina, quel libro di strade e amicizie e conversazioni infinite, si rivelava sempre più doloroso? Un libro che più andava avanti, più tornava indietro, e le pagine che mi erano sembrate divertenti lo erano sempre meno, finché a un certo punto tornavo in Italia, a Brescia, a capofitto nella sporta di Omar e nel suo immaginario farmaceutico, perché una notte, Ulyses, un amico, scrittore senza speranza, uno del nostro circolo della maionese, aveva ingoiato due blister interi di Zerinol che gli avevo portato proprio io, me li aveva chiesti, e li aveva buttati giù con due caraffate di rum? L’avevano ricoverato d’urgenza e non ci avevano permesso di andare a trovarlo. Poi sì. Sennonché, arrivati lì, ci avevano detto che si erano sbagliati, niente da fare. Poi un giorno ci ridissero di sì, io ero insonne da giorni, sbranato dal senso di colpa, e lui era là, sguardo vuoto, le mani molli, una lumaca in bocca, letto senza lenzuola, afrore di piscio, che mi diceva: “Adesso mi toccherà lo psichiatra. Suicidarsi, qui, è comportamento antisociale, sospetto, e quando passi dallo psichiatra la tua vita è finita.”



Con loro condividevamo la patria immateriale della letteratura ma anche il controllo telefonico da parte della Sicurezza di stato

La storia di Omar, invece, me l’ha raccontata sua madre Lilia Rosa, un pomeriggio: le intemperanze giovanili di suo figlio, il campo di rieducazione a Pinar del Rio, Fidel Castro in persona che si era scomodato ed era andato a trovarla per chiederle di stare attenta, il ragazzo doveva mettere la testa a posto, insomma – le aveva detto – con tutto quel che Omar rappresenta… “Perché, cosa rappresenta?” le avevo chiesto io. E Lilia Rosa cominciò a raccontare davvero solo in quel momento. Finì a sera, quando concluse: “Che Omar sia figlio di Che Guevara lo sanno in pochi e lo sospettano in tanti. Tu, adesso, lo sai”. Pochi mesi dopo, a cena, Omar mi portò in regalo “Hadzi-Murat” di Tolstoj, e anche se non gli parlai dei racconti di sua madre mi guardava come se sapesse tutto. Quel silenzio con cui ci parlammo fu il momento culminante della nostra amicizia profonda, indicibile. L’epilogo fu “Come puttane in Quaresima”, titolo di romanzo di cui resta solo il titolo, perché il romanzo l’abbiamo cominciato quella sera e non l’abbiamo terminato mai. Negli anni non mi sono mai tolto dalla testa certi suoi versi: “Morte dell’intelletto / e irrefrenabile dolore musicale”, diceva una sua splendida poesia.



Quanto agli altri amici, la polizia ne ha arrestati molti, perché condividevamo la patria immateriale della letteratura ma anche il controllo telefonico da parte della Sicurezza di stato. E anche se ci ho provato – tornato in Italia, non ho praticamente fatto altro – non sono mai riuscito ad aiutarli. Ulyses l’ho sentito qualche anno dopo, nel 2008. Io ero ospite al Festival Letteratura di La Paz, lui era fuggito da Cuba e viveva a Santo Domingo. Era davvero lui? Attraverso il telefono la sua voce non era quella che ricordavo. “Non scrivo più, me ne hanno tolto la voglia. Faccio la guardia in un parcheggio. Adesso però ti devo salutare”.

Marco Archetti è nato a Brescia nel 1976. Collabora col Foglio e ha pubblicato nove romanzi con i principali editori italiani (Feltrinelli, Rizzoli, Mondadori, Chiarelettere). Quest’anno è andato in scena il suo adattamento teatrale de “La storia” di Elsa Morante, per la regia di Fausto Cabra e la produzione dello Stabile di Brescia. A ottobre debutterà al Piccolo teatro di Milano “La parola giusta”, il monologo che ha scritto per Lella Costa, regia di Gabriele Vacis.


www.ilfoglio.it/societa/2019/08/11/news/fuga-allavana-268743/amp/?fbclid=IwAR042vaeIPRyYcwt3LyUh19dOL5xawTaRzGrL8Lp9ygw26xhuVp...
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12/08/2019 16:02



www.marcoarchetti.it



Marco Archetti è nato a Brescia il 26 marzo del 1976.

Esordisce nel 2003 con un reportage pubblicato dalla rivista letteraria “Nuovi Argomenti” (Mondadori), intitolato Cuba: patria y muerte.

Dopo la partecipazione all’antologia di racconti Gli intemperanti (Meridiano zero, 2003) e un altro reportage sul terremoto nelle Marche, dà alle stampe la sua prima prova letteraria, Lola Motel (Meridiano Zero, 2004; Feltrinelli Super Ue, 2008).

Nel 2005 abbandona suo malgrado il progetto di Come puttane in Quaresima, diario-saggio concepito a quattro mani col poeta cubano Omar Pérez, e pubblica il suo secondo romanzo, Vent’anni che non dormo (Feltrinelli; Feltrinelli UE, 2007).
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Cuba: Patria y Muerte - 2003 - di Marco Archetti

it.scribd.com/doc/41462361/Patria-y-Muerte-Nuovi-Argome...
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12/08/2019 16:10

Lola motel di Marco Archetti




"Aveva una fica bellissima. La prima che avessi mai visto non chinato a una serratura." Così comincia, sfrontato e buffo, il romanzo di Archetti. Il protagonista si muove da lì in poi con furore e allegria. Nell'atmosfera calda e opprimente di una assolata Cuba, Felipe insegue su e giù per il Malecòn il miraggio di una bella prostituta. Nel frattempo suo padre sconta - in un crescente senso di straniamento - il passato politico. Amori e dissidenza, guasconate alla luce del sole e notti di regime. Nelle camere del Lola Motel, un sordido albergo dell'Avana, si incrociano vite diverse lì convocate da un oscuro destino. All'ombra di Bukowski, il giovane Archetti libera il suo sogno di libertà, di sesso, di magia.
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12/08/2019 16:19


Era la selvatica estate padana del 1998
...avrei preso un aereo con destinazione L’Avana, Cuba
...a L’Avana, Cuba, ci sarei rimasto per un anno e mezzo senza tornare mai a casa



Il racconto é triste... com'era triste il periodo especial e la fine degli anni '90 [SM=g27992]

Ma una domanda sorge spontanea: Perché un ragazzo di 22 anni resiste un'anno e mezzo a Cuba dovendo sopportare tutta la tristezza che racconta? [SM=g27985]
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12/08/2019 20:36

Sarà stato devastato dalla coca?
.

Rev.............nte, Emanuele
Patria o muerte, venceremos!!! y abajo de la cama nos meteremos...
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Re:
enmanuel, 12/08/2019 20:36:

Sarà stato devastato dalla coca?




Anche e soprattutto in quel caso, vista la difficoltà nel rimediarla (specialmente a quei tempi), non capisco perché é restato 18 mesi a Cuba [SM=g27992]

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13/08/2019 20:28

Magari è partito così...la si è curato a forza di ciulate e ron.

.

Rev.............nte, Emanuele
Patria o muerte, venceremos!!! y abajo de la cama nos meteremos...
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13/08/2019 21:49

Re:
enmanuel, 13/08/2019 20:28:

Magari è partito così...la si è curato a forza di ciulate e ron.





[SM=g27987]

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25/08/2019 10:47




"Aston Villa":

Parliamo di un ragazzo di 22 anni che decide, bonta' sua, di vivere nella Cuba del 1998, momento conclusivo del periodo especial.
Sono sbarcato a Cuba un paio d'anni dopo, conosco la Cuba di quel preciso periodo storico.
Un anno e mezzo, a suo dire, vissuto a lo cubano in un'Avana complicata dove erano piu' le cose che mancavano che quelle che si trovavano.
Perche' poi un ragazzo italiano decida di passare un anno e mezzo a Cuba, in quella Cuba resta un mistero insondabile ma, come dico spesso, ogni testa e' un piccolo mondo.
Rimango sempre della mia idea originale, prima di scegliere un posto in cui penso di fermarmi per un lungo tempo preferisco conoscerlo a fondo facendo, in un secondo momento, le mie valutazioni.
Ma parliamo di un ragazzo.
Ognuno di noi sceglie come compagnia chi ci assomiglia, difficilmente decidiamo di trascorrere troppo tempo con persone diverse da noi, un conto sono le frequentazioni di una vacanza, differente sono quelle che possiamo avere quando decidiamo di risiedere in un paese nuovo.
Personalmente, pur avendo qualche amico chulito da parque la mia Cuba, cosi' come la mia Italia e' fatta di gente che ogni mattina si alza dal letto presto per andare a lavorare, tornando a casa nel tardo pomeriggio quando non di sera.
Magari non sono del tutto concordi col regime ma ogni giorno fanno la loro parte per lo sviluppo del paese e della loro famiglia.
Non frequento “artisti” a cui qualcuno dovra' pagare sempre la cuenta come avviene da quando esiste l'umanita'.
I grandi artisti del rinascimento italiano campavano grazie ai mecenati che li mantenevano, in cambio di uno spicchio del loro talento.
Conosco, da quasi 20 anni, uno di artista...2 volte al gabbio per prosineta, ora lavora come artista per lo stato, 250 pesos al mese per un impegno di uno o al massimo 2 pomeriggi ogni settimana.
Credete che nell'immenso tempo libero si sia cercato un altro lavoro per incrementare le entrate? Col cazzo! C'e' chi lo mantiene, lui si alza alle 11, chiede cosa c'e' da mangiare e passa il giorno a fare il vago.
Gli artisti che frequentava l'autore non mi pare si discostino molto da questo cliche, magari se frequentava albaniles con le mani spesse 3 dita avrebbe avuto di Cuba una considerazione differente.
Non voglio dire che, sopratutto in quegli anni, fossero tutte rose e fiori ma io di gente “oppressa dal regime” non ne conosco.
Magari non si e' in sintonia con l'attuale forma di governo (noi lo siamo col nostro?) pero' ogni persona che conosco e frequento fa la sua parte ogni giorno.
Ai lunatici da marciapiede, agli scrittori senza romanzo a quelli del circolo della maionese qualcuno la caldosa nel piatto ce la deve mettere ogni giorno, magari qualcuno che alle 5 di mattina si alza per andare a “ruscare” come diciamo in Piemonte.



Milco, vedo che anche tu non hai risposta alla mia perplessità



Il racconto é triste... com'era triste il periodo especial e la fine degli anni '90 [SM=g27992]

Ma una domanda sorge spontanea: Perché un ragazzo di 22 anni resiste un'anno e mezzo a Cuba dovendo sopportare tutta la tristezza che racconta? [SM=g27985]



ma forse ha ragione Emanuel e sicuramente si puó capire meglio con la sua bibliografia [SM=g27990]
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25/08/2019 14:49

Re: Re:
cocoloco, 12/08/2019 20.59:




Anche e soprattutto in quel caso, vista la difficoltà nel rimediarla (specialmente a quei tempi), non capisco perché é restato 18 mesi a Cuba [SM=g27992]


Coco ti sbagli... Nel 1998 la rimediavi facilmente e te lo dico per esperienza personale comprata direttamente e piu di una volta...ero insiene ad un amico che sporadicamente pippava... Lo sapeva dove e a chi comprarla la chica che mi allietava la vacanza ed era una habitue mi diceva che aveva convissuto con un romano per un tempi a cuba che era dedito.... E io ero alka 1 vacanza
Secondo me é molto piu difficile trovarla ora...anche se da allora non ho piu cercata
[Modificato da giumiro 25/08/2019 14:53]
no es facil!!!
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25/08/2019 23:43

Re: Re: Re:
giumiro, 25/08/2019 14:49:

Coco ti sbagli... Nel 1998 la rimediavi facilmente



Quasi come in Perú o in Colombia o molti altri paesi di quell'area?! [SM=g27985] [SM=g27987]

Se la bamba era quello che cercava ha scelto il paese piú complicato dove restare 18 mesi


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Post: 10.062
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26/08/2019 08:44


"giumiro":

Vivere a cuba in quel periodo con soldi non é tanti diverso da oggi anzi i prezzi erano molto piu bassi i paladares c erano già... Io mi rucordo almeno 3 dalle parti di guanabo il famoso il piccolo dove mangiavo carbonara decente.... Perche dite vivere in quella cuba... Vorrei capire



Io dicevo: "non capisco perché é restato 18 mesi a Cuba". Non ho fatto differenze tra la Cuba del 1998 e quella attuale... semplicemente perché non risolverebbe la mia perplessità sul perché é rimasto tanto tempo sull'isola

Ma visto che vorresti capire... ti dico che La Habana di quei tempi era molto ma moooolto diversa da quella attuale... anche con i soldi come dici tu

Adesso nella capitalll trovi TUTTO e comunicare con il mondo é piú facile ed economico (forse hai dimenticato le cabine telefoniche dove si parlava pochi minuti con una scheda da 10$)

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