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GIAMPIERO MUGHINI - Scritti & Interviste

Ultimo Aggiornamento: 29/07/2022 14:29
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01/12/2019 11:04
 
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Caro Dago, e ci mancherebbe altro che non sia venuto il tempo di dare a Bettino Craxi, uno dei giganti della politica italiana del dopoguerra, quel che è di Bettino Craxi. Il sindaco di Milano, Beppe Sala, aveva accennato al dedicargli una via, e subito lo avevo elogiato con un messaggio personale.



Un paio di sere fa eravamo nello studio televisivo presieduto da Barbara Palombelli, e c’erano Daniele Capezzone, il professore Miguel Gotor, il mio amico Stefano Zecchi. All’idea di ricordare Craxi a vent’anni dalla morte eravamo tutti entusiasti. Zecchi, che alcuni anni fa era stato assessore nella giunta comunale di Milano, disse che a suo tempo era riuscito a fare intestare una via di Milano addirittura a Giovanni Gentile, assassinato dai gappisti comunisti a Firenze. Figuriamoci se non era d’accordo nell’intestare una via del capoluogo lombardo al protagonista massimo del riformismo socialista milanese.



E’ appena uscita, a cura del mio vecchio amico Luigi Covatta, una ricca antologia dei settant’anni (1948-2018) di “Mondoperaio”, il mensile del Psi socialista che ai tempi della rivoluzione d’Ungheria (1956) e dell’avvento di Craxi alla segreteria del Psi (1976) marchiò due momenti cruciali della storia politica e intellettuale del socialismo italiano e della sua “revisione” rispetto alla storia politica e intellettuale del Partito comunista italiano.




Uno dei più bravi librai antiquari italiani e mio carissimo amico, il bolognese Piero Piani, mi segnala una sua bruciante raccolta di libri e riviste che hanno ad oggetto il socialismo autonomista di Pietro Nenni e di Craxi e che lui mette in vendita.

Craxi merita a Milano una via, una targa? Molto di più. A vent’anni dalla sua morte dopo un’operazione chirurgica fatta nelle condizioni disperate di un ospedaletto tunisino, Craxi merita la sua piena e totale reimmissione nella storia politica italiana recente la più importante se non la più drammatica.





Non capisci nulla, ma proprio nulla, di quel che è successo nell’Italia che va dalla metà degli anni Settanta all’alba di Tangentopoli se al centro di quello scenario non metti l’omone che aveva cominciato a far politica nell’Ugi universitaria degli anni Cinquanta e che negli anni Sessanta era andato una volta a far visita al suo amico Carlo Ripa di Meana, uno che era andato a vivere e a lavorare nella Polonia del comunismo reale. “Che roba è tutto questo?”, chiese a Carlo. “E’ una roba che fa schifo” gli rispose Carlo.



Era ancora il 1975, e il dominio etico e culturale dell’italocomunismo in Italia era assoluto, quando in un’auletta della Casa della Cultura di Largo Argentina a Roma organizzarono la presentazione di un mio libretto che faceva da antologia ragionata del “revisionismo socialista”. A difendere le ragioni dei comunisti c’erano due pezzi da novanta, Gerardo Chiaromonte e Alfredo Reichlin.




Craxi arrivò in ritardo e subito prese la parola: “Ma di che cosa stiamo discutendo e finché in Europa esiste quel muro di Berlino che separa le democrazie occidentali dai Paesi dove imperversa la dittatura dei partiti comunisti?”. Vi assicuro che detto a quel modo e detto in quel momento faceva il suo porco effetto.



Era ancora un tempo della storia politica e culturale italiana in cui Lenin e le sue gesta bolsceviche la facevano da padroni. Guai a toccarglieli agli intellettuali comunisti persino i più aperti di allora. Ci vollero ancora un po’ di anni, ossia quel che stava avvenendo nella Polonia in cui avevano tentato di aprire uno spiraglio all’incombere del comunismo pro-Urss, perché Enrico Berlinguer dichiarasse “esaurita” la spinta propulsiva che veniva dal colpo di stato bolscevico del 1917.




S’era dunque esaurita nel 1979, non prima, già negli anni Trenta, quando Giuseppe Vissarianovic Stalin aveva fatto ammazzare a milioni e milioni i russi di ogni specie e classe. Panzane. Cose di cui oggi nessuno obietta neppure una virgola, tanto è assodato che si andata così. Non lo era nel 1977, quando senza Bettino Craxi il mio amico Carlo Ripa di Meana non avrebbe potuto organizzare quella Biennale del dissenso sovietico che la gran parte dell’intellettualità comunista avversò fino all’ultimo, ed è per pietà intellettuale che non cito le fetenzie che scrissero al riguardo.



Certo, Bettino divenne capo di un partito che esercitava alla grande la spartizione delle spoglie, ossia il prelievo illegale di tangenti eccetera. Lo facevano tutti, a tutti i livelli, e finché nel 1989 il parlamento – all’unanimità – amnistiò quel reato. All’unanimità. Cancellato.




Cancellati i milioni e milioni di dollari che il Partito comunista aveva ricevuto da una potenza straniera e nemica e che permettevano l’opulenza della sua organizzazione nel territorio, della sua attività interna, della sua stampa, e ferma restando la dirittura morale dei suoi uomini e dei suoi dirigenti. Ve li immaginate Chiaromonte o Reichlin che si mettono in tasca un solo centesimo?





Indubbiamente la linea separatoria tra etica politica e etica privata non era in Craxi così netta, e ciascuno ha il diritto su quest’argomento di accludere fatti e dati. Cosa diversa è stato l’annientamento del Psi craxiano, una cosa diversa e delittuosa. Delittuosa perché il Psi craxiano aveva avuto ragione su quasi tutto, lo dice oggi Massimo D’Alema e lo dicono molti degli intellettuali ex comunisti degli anni Settanta che replicavano a muso duro a quello che noi di “Mondoperaio” scrivevamo sull’Urss di Lenin e di Stalin.



E resta che quando Craxi nell’aula di Montecitorio puntò il dito alla sua destra e alla sua sinistra verso tutti i parlamentari italiani dicendo “C’è qualcuno di voi che non sa fin da quando aveva i pantaloni corti che la politica democratica del nostro Paese si regge sul prelievo di tangenti illegali?”, non uno di quei parlamentari fiatò.



In quegli anni Norberto Bobbio aveva criticato il comportamento morale del Psi craxiano. Adoravo Bobbio. Gli portai in casa uno dei dirigenti del Psi, il torinese Giusy La Ganga, il quale era stato suo allievo all’università. C’era una elezione politica all’orizzonte.



La Ganga disse quanto sarebbe costata al minimo la sua imminente campagna elettorale in Piemonte. Quattrocento milioni secchi. Al minimo. Il prezzo della democrazia. Bobbio allibì e non replicò.

Di questo dobbiamo discutere a vent’anni dalla morte di quell’omone. Una via a Milano? Il minimo dei minimi.




GIAMPIERO MUGHINI



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