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L'EVOLUZIONE è STATA DIMOSTRATA?

Ultimo Aggiornamento: 18/07/2021 14:54
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05/12/2015 23:30
 
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CIO’ CHE GLI EVOLUZIONISTI DOVREBBERO PROVARE.

Tipo 3 di evoluzione Questo tipo di evoluzione comporterebbe una generazione di informazioni genetiche totalmente nuove e utili all’interno del codice del DNA di un organismo, causata da un processo naturalistico, il cui esito consiste in una funzione completamente nuova, che non esisteva precedentemente. Un esempio potrebbe essere un verme che si evolve in modo tale da avere arti e articolazioni per poter camminare oppure da sviluppare occhi per vedere. In realtà queste nuove funzioni richiederebbero necessariamente quantità enormi di nuova informazione genetica, ad esempio, nel caso di un arto, per codificare tutte le parti dello stesso, con i loro rispettivi meccanismi di controllo, e di programmazione del cervello per usarle. In modo analogo, per permettere la comparsa, ad esempio, di un occhio, tutti i componenti, il cristallino, i meccanismi di messa a fuoco, il nervo ottico, il rifornimento di sangue e così via, dovrebbero essere codificati nel DNA dell’organismo.

Il biofisico Lee Spetner, che insegnò sia all’università di Harvard, che all’università di John Hopkins, afferma che questo tipo di evoluzione, appunto il tipo 3, non è mai stato osservato (Lee Spetner, “Not by chance!”, p 107). Infatti non c’è alcun meccanismo dimostrato che spieghi la formazione di grandi quantità di nuova informazione genetica richiesta per la produzione di grandi cambiamenti fenotipici, come lo spuntare di arti aventi articolazioni, durante, secondo l’immaginario evoluzionistico, il periodo in cui, per esempio, si sarebbero evoluti gli artropodi, che sono i crostacei, gli insetti e i ragni. Queste sfide significative nello spiegare come questi tipi di evoluzione potrebbero essere avvenuti sono ora un grande e fondamentale argomento di studio della biologia moderna.

Ad oggi gli evoluzionisti non sono in grado di fornire nessun esempio di queste nuove informazioni, che sarebbero invece necessarie per supportare l’evoluzione darwiniana. La spiegazione di come quindi si possano formare, da organismi più semplici, organismi molto più complessi è indispensabile per una teoria che asserisce che tale cosa sia realmente avvenuta.

Nel libro di Dawkins, uno dei testi considerati più convincenti per provare il darwinismo, “The Greatest Show on Earth”, si trova solo un esempio che può essere considerato fare parte di questo tipo di evoluzione. In 470 pagine di libro infatti, l’autore non fa altro che citare esempi di evoluzione che possono tutti ricadere nei primi due tipi di cui abbiamo parlato prima; solo a pagina 131 parla di un esempio di un organismo che acquisisce informazione genetica funzionale non precedentemente esistente.

Questo esempio è un esperimento effettuato dal biologo Richard Lenski.

Vediamo in dettaglio il suo esperimento: Lenski e un equipe di ricercatori studiò per trent’anni le mutazioni di 12 separate popolazioni di batteri Escheria, inizialmente identiche tra di loro.

Durante questo periodo di trent’anni si susseguirono decine di migliaia di generazioni, subendo, nel complesso miliardi di mutazioni. Questo fu come avere la possibilità di provare ogni mutazione puntiforme per i 4.6 milioni di coppie di basi azotate del DNA del batterio. Eppure l’unico significativo tipo di cambiamento evolutivo fu che dopo più di 31.500 generazioni in una delle 12 popolazioni si è trovata una mutazione che permise al batterio di usare il citrato chimico come fonte di cibo, infatti una caratteristica particolare del batterio E.Coli è che normalmente non può usare il citrato come fonte di cibo. Nonostante l’E.Coli abbia il metabolismo interno finalizzato a utilizzare il citrato, esso non ha una molecola trasportatrice. Questa mutazione semplicemente ha portato alla disponibilità dell’informazione genetica per generare la molecola trasportatrice.

Ma andiamo nel dettaglio dell’esperimento: Lenski si aspettava di vedere velocemente l’evoluzione in atto. Questa era una aspettativa appropriata per coloro che credono nell’evoluzione, poiché i batteri si riproducono velocemente e hanno enormi popolazioni. I batteri possono anche sostenere tassi di mutazione estremamente più alti rispetto a organismi con genomi molto più grandi, come i vertebrati. Tutto questo, secondo il neo-Darwinismo, porterebbe alla quasi certezza di poter osservare molti casi di evoluzione “dal vivo” (anziché immaginandoli accaduti in un passato inosservabile). Con tempi generazionali brevi, in 20 anni si susseguirono 44.000 generazioni, ovvero l’equivalente di qualche milione di anni di generazioni di una popolazione umana. Tuttavia le opportunità evoluzionistiche per gli umani sarebbero molto, ma di gran lunga minori, dovute ai piccoli numeri della popolazione che limitano il numero di possibilità di mutazione; e a un genoma di gran lunga più grande e estremamente più complesso, che non può sostenere un simile tasso di mutazione senza affrontare un “errore catastrofico” (ovvero l’estinzione); anche la riproduzione sessuale porta ad una significativa possibilità di fallire nella trasmissione di una mutazione benefica (positiva).

Dopo molti anni in cui nessun risultato si è verificato, Lenski abbandonò “l’evoluzione in laboratorio” per dedicarsi a programmi informatici (lui usò “Avida”), che cercano di simulare i processi evolutivi in natura. Ebbe infatti buone ragioni per perdere la speranza, poiché egli calcolò che tutte le possibili mutazioni semplici devono essere già avvenute più volte, ma senza generare neanche una semplice nuova caratteristica. Ma in seguito, con grande entusiasmo, annunciò che una delle 12 popolazioni di batteri oggetto dell’esperimento, aveva acquistato l’abilità di usare il citrato sotto condizioni aerobiche.

Già nel 2008 lo scienziato anti evoluzionista Donald Batten, ipotizzò che questa nuova funzione non fosse dovuta ad una mutazione positiva, ma fosse dovuta alla distruzione/soppressione del meccanismo che sopprime l’assunzione di citrato in presenza di ossigeno. Infatti sotto condizioni anaerobiche questi batteri erano già in grado di assimilare e digerire il citrato. Successivamente, nel 2012 Lenski trovò la mutazione che aveva causato questa tanto acclamata “evoluzione” (Blount, Genomic analysis of a key innovation in an experimental Escheria coli population, Nature 489:513-518, 2012). Il citrato è infatti portato nella cellula da una proteina trasportatrice. Questa proteina è specificata dal gene trasportatore del citrato, citT, che è solitamente spento/latente in presenza di ossigeno. Molto vicini al gene citT, sono presenti geni che hanno un promotore che attiva quei geni in presenza di ossigeno. Una singola mutazione risultò nella duplicazione del promotore in una posizione che attivava il gene citT, cosicché la proteina trasportatrice del citrato era adesso prodotta in presenza di ossigeno. Altre mutazioni duplicarono il citT, facendo sì che venissero prodotti più trasportatori di citrato e quindi più citrato era trasportato. Le previsioni dell’anti evoluzionista Don Batten erano corrette: qualcosa si era rotto: il meccanismo che sopprimeva il citT in presenza di ossigeno. Le mutazioni non crearono nulla di nuovo, nessun nuovo gene, né promotore fu creato; semplicemente avvenne (per semplificare) il cosiddetto “copia e incolla” su informazioni che già erano presenti, in un processo che fece sì che il batterio non fosse più in grado di spegnere il relativo gene in presenza di ossigeno.

Dopo decine di migliaia di generazioni il batteri erano sempre batteri, infatti erano sempre batteri E.Coli.

Il Dr Lenski riportò anche altri cambi evoluzionistici durante i suoi studi, per esempio: generazioni successive crebbero più in fretta e aumentarono in dimensioni rispetto ai loro antenati, e tre geni in ogni popolazione furono osservati subire una sostituzione genetica. Dieci popolazioni svilupparono cambiamenti nell’avvolgimento del loro DNA, che è noto incidere sull’espressione genetica. Variazioni della forma si svilupparono e si evolsero tra le popolazioni. Quattro delle popolazioni, un terzo di tutte le popolazioni, evolsero difetti nei loro meccanismi di riparazione del DNA che portò a tassi di mutazione più alti.

Gli aumenti di dimensione, come dimostra lo scienziato anti evoluzionista J. Sarfati non si avvicinano neanche ad essere una prova di un aumento dell’informazione, in quanto questo aumento di dimensioni ha a che fare con la degradazione di un gene che cambia il tempo di divisione cellulare. Inoltre cambiamenti di proprietà in un organismo (altezza, velocità, peso ecc.) non possono essere usate come prove dell’evoluzione in quanto non spiegano il formarsi di nuove strutture (per una critica più dettagliata all’aumento di dimensione dei batteri “The Greatest Hoax on Earth?”, Jonathan Sarfati, p 63-65).

In poche parole il batterio E.Coli era ancora un batterio E.Coli, non si è evoluto in un altra specie di batterio.

Il tipo 3 di evoluzione richiede tanta, tantissima nuova informazione genetica. Ad esempio l’evoluzione del Saccharomyces Cerevisae (lievito) richiede ben 12.1 milioni di basi che codificano l’informazione genetica del lievito (assumendo quindi che si sia evoluto da un batterio E.Coli, il lievito ha dovuto acquisire una quantità enorme di informazione, in quanto il batterio ha “solo” 4.6 milioni di coppie di basi di DNA). Il lievito ha circa 6,000 geni, circa il 50% più dell’E.Coli. I singoli geni del lievito inoltre contengono molta più informazione rispetto ad un batterio unicellulare. Se il batterio dovesse evolversi in lievito, queste migliaia di nuovi geni contenenti migliaia di coppie di basi di nuovo codice si sarebbero tutte dovute evolvere grazie a mutazioni casuali. E il lievito è ancora un organismo unicellulare.

Per far sì che si possa evolvere un organismo multicellulare è richiesta una quantità di informazione ancora più grande. L’informazione in un verme è codificata in 97 milioni di coppie di basi di DNA le quali formano circa 19,000 geni; quindi per far sì che il lievito si evolva in un verme ci vogliono circa 13,000 geni. E per di più ogni singolo gene del verme contiene migliaia di coppie di basi in più, codificate nel DNA, rispetto ai geni del lievito. E siamo ancora alla base dell’albero della vita darwinista! Eppure anche negli animali apparentemente più semplici la quantità di nuova informazione genetica è enorme.

E’ bene enfatizzare che tutti questi esseri viventi apparentemente semplici, rispetto ai batteri, necessitano una quantità di informazione completamente nuova, ovvero informazione che prima non esisteva. Il lievito infatti, anche se sempre unicellulare, ha una struttura molto diversa e il DNA è contenuto nel nucleo.

E’ chiaro quindi che, anche solo per passare da un batterio al lievito, deve esserci stata un’enorme quantità di mutazioni che aggiungevano informazione. Il problema però di questo approccio, è che oltre a non essere fornito di alcuna prova, come scritto prima, va contro ogni forma di osservazione: infatti nella successione di migliaia di generazioni di batteri osservate per più di quarant’anni in tutto il mondo in tantissimi laboratori, tra qui quello di Lenski, non si è vista nemmeno una, risottolineiamo una, mutazione che aggiungesse informazioni.

Organismi considerati più in alto nella “scala evolutiva”, non solo hanno una complessità genetica enormemente maggiore di un batterio, ma anche impiegano molto più tempo per raggiungere l’età della riproduzione. La maggior parte dei batteri, infatti, si raddoppia da una a tre ore e in laboratorio l’E.Coli riesce a generare una nuova generazione ogni mezz’ora. Per molti mammiferi e rettili, invece, le nuove generazioni posso impiegare mesi o anni a raggiungere l’età in cui possono riprodursi. Questo significa che per i mammiferi e i rettili è necessario un tempo migliaia di volte superiore a quello per i batteri, affinché possano accumularsi mutazioni nei gameti (le cellule riproduttive). Anche le mutazioni casuali non guidate devono produrre sufficiente informazione genetica per codificare un’informazione genetica individuale ed unica come quella che caratterizza e che ha caratterizzato il DNA dell’insieme di milioni di differenti specie che sono vissute sulla terra dall’inizio della prima forma di vita. Questo includerebbe non solo tutte le specie estinte che noi conosciamo, ma anche le specie intermedie che la teoria darwinista prevede, includendo anche quelle non rivenuteci dai fossili (n.b come se ne fossero state rinvenute alcune). Inoltre gli animali più in alto nell’albero evolutivo hanno un DNA ben più complesso di quelli alla base. Ad esempio il DNA del topo ha all’incirca 2600 milioni di coppie di base e 25000 geni con dimensione media di 100.000 basi, ciò che significa che un gene di topo è venti volte più complesso nel suo codice comparato a quello di un verme. Inoltre il topo ha anche il 30% di geni in più rispetto al verme.

Il topo è solo uno dei 5487 mammiferi, ognuno dei quali ha una informazione genetica differente, questo significa che un rinoceronte ha geni differenti nel suo DNA, una mucca ha geni differenti nel suo DNA, un orso ha differenti geni nel suo DNA, e ogni differente tipo di orso ha un differente DNA con nuovi geni differenti. Ognuno di questi geni differenti contiene decine di migliaia di pezzi di codice unici e caratteristici di solo quella specie o variante di specie. L’evoluzione necessariamente implica che questi pezzi unici di codice debbano venire in esistenza come un risultato di mutazioni casuali. E non abbiamo neanche considerato i geni totalmente nuovi in ognuna delle 9,990 specie di uccelli, o i geni totalmente nuovi in ognuna delle 8734 specie di rettili, o geni totalmente nuovi in ognuna delle 31.153 specie di pesci, né abbiamo considerato i geni totalmente nuovi che caratterizzano ognuna delle oltre 100.000 specie di insetti, e nemmeno i miliardi di geni differenti ognuno costituito da migliaia di basi delle 1.700.000 specie complessive stimate esistere su questo pianeta. Per non menzionare i miliardi di differenti geni che sono esistiti nel passato e si sono estinti nel tempo. Non solo gli scienziati non hanno mai osservato il formarsi di nessuna nuova informazione genetica, ma sulle basi del calcolo delle probabilità non c’è semplicemente tempo sufficiente nei supposti 4 miliardi di anni di evoluzione per far sì che tutta l’informazione genetica contenuta nei genomi di tutte le milioni di differenti specie di batteri, funghi, piante e animali si sia formata come un semplice risultato di mutazioni casuali.

I calcoli statistici sull’impossibilità dell’evoluzione sono numerosi, e in questo articolo ne vedremo uno: il “limite dell’evoluzione di Behe”, in futuro vedremo tanti altri problemi statistici della teoria evoluzionistica, come quelli individuati da Lee Spetner, Stephen Meyer, Douglas Axe e Ann Gauger.
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