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MEDITIAMO LE SCRITTURE (anno A)

Ultimo Aggiornamento: 04/12/2014 07:14
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28/03/2014 07:12
 
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padre Lino Pedron


La domanda che lo scriba pone a Gesù non è oziosa. Data la molteplicità delle prescrizioni della legge (se ne contavano 613, ripartite in 365 proibizioni - quanti sono i giorni dell'anno - e 248 comandamenti positivi, quante si credeva fossero le parti del corpo umano), ci si poteva legittimamente interrogare sul loro valore e chiedersi quale fosse il comandamento più grande.
La risposta di Gesù che pone nell'amore di Dio e del prossimo il centro della legge, non è una novità assoluta: lo insegnavano anche i rabbini di allora. La novità consiste nell'avere unificato il testo del Dt 6,4-5 con il testo del Lv 19,18. Ma per cogliere questo centro sono necessarie due precisazioni. La Bibbia insegna che il nostro amore per Dio e per il prossimo suppone un fatto precedente, senza il quale tutto resterebbe incomprensibile: l'amore di Dio per noi. Qui è l'origine e la misura del nostro amore. L'amore dell'uomo nasce dall'amore di Dio e deve misurarsi su di esso. E qui si inserisce la seconda precisazione: chi è il prossimo da amare? La Bibbia risponde: ogni uomo che Dio ama, cioè tutti gli uomini, senza alcuna distinzione, perché Dio si è rivelato in Gesù come amore universale.
La nostra vita è amare Dio e unirci a lui (Dt 30,20), diventando per grazia ciò che lui è per natura. Il nostro amore per lui è la via per la nostra divinizzazione, perché uno diventa ciò che ama. Chi risponde a questo amore passa dalla morte alla vita, mentre chi non ama Dio e il prossimo rimane nella morte (1Gv 3,14). Dio è amore più forte della morte (Ct 8,6). La sua fedeltà dura in eterno (Sal 117,2). Quando noi moriamo, egli ci ridà la vita. "Riconoscerete che io sono il Signore quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri" (Ez 37,13). Dio ha creato tutto per l'esistenza, perché è un Dio amante della vita (cfr Sap 1,14; 11,26).
L'amore per l'uomo non è in alternativa a quello per Dio, ma scaturisce da esso come dalla sua sorgente. Si ama veramente il prossimo solo quando lo si aiuta a diventare se stesso, raggiungendo il fine per cui è stato creato, che è quello di amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stesso. Alla luce di questa verità, dobbiamo rivedere radicalmente il nostro modo di amare: molto del cosiddetto amore, che schiavizza sé e gli altri, è una contraffazione dell'amore, è egoismo. Quanta purificazione, quanta grazia di Dio occorrono perché l'amore sia vero amore!
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29/03/2014 09:56
 
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padre Lino Pedron


In questo brano abbiamo due modelli di fede e di preghiera. Da una parte il fariseo che sta davanti al proprio io. Egli è sicuro della sua bontà, giustifica se stesso e condanna gli altri. Dall'altra il pubblicano che, sentendosi lontano da Dio e non potendo confidare in sé, si accusa e invoca il perdono.
Il fariseo non sta davanti a Dio, ma a se stesso, non parla con Dio, ma con se stesso. La sua preghiera non è un dialogo, ma un monologo. Essa sembra un ringraziamento a Dio, ma in realtà è una strumentalizzazione di Dio per il proprio autocompiacimento. Egli si appropria dei doni di Dio per lodare se stesso invece del Padre e per disprezzare i fratelli invece di amarli.
Se la preghiera non è umile, è una separazione diabolica dal Padre e dai fratelli. E' lo stravolgimento massimo: in essa si usa Dio per cercare il proprio io. E' il peccato allo stato puro.
Il fariseo accusa gli altri di essere rapaci proprio mentre lui sta cercando di appropriarsi della gloria di Dio. Accusa gli altri di essere ingiusti, ossia di non fare la volontà di Dio, mentre lui trasgredisce il più grande dei comandamenti: l'amore per Dio e per il prossimo. Accusa gli altri di essere adulteri mentre lui si prostituisce all'idolo del proprio io, invece di amare Dio.
La religiosità che egli vive è solo esteriore; dentro c'è presunzione, ma anche molta grettezza, cattiveria, arroganza che lo spinge a giudicare con disprezzo il fratello peccatore che ha preso posto in lontananza.
Matteo scrive che i farisei assomigliano ai sepolcri imbiancati, belli all'esterno, ma pieni di putridume all'interno (23,27). All'esterno il fariseo è un perfetto credente, ma, dentro, i suoi pensieri e i suoi sentimenti sono totalmente diversi da quelli di Dio, che ama tutti indistintamente e in primo luogo i peccatori.
Il nostro fariseismo esce proprio tutto e bene quando preghiamo. La preghiera è lo specchio della verità: ci fa vedere che abbiamo dentro tutto il male che vediamo negli altri. Non c'è preghiera vera senza umiltà, e non c'è umiltà senza la scoperta del proprio peccato, anche del peggiore: quello di considerarsi giusti.
La preghiera del pubblicano è quella dell'umile: penetra le nubi (cfr Sir 35,17). E' simile a quella dei lebbrosi e del cieco (cfr Lc 17,13; 18,38); è la preghiera che purifica e illumina. E' una supplica con due poli: la misericordia di Dio e la miseria dell'uomo. L'umiltà è l'unica realtà capace di attirare Dio: fa di noi dei vasi vuoti che possono essere riempiti da Dio.
La fede che giustifica viene dall'umiltà che invoca la misericordia. La presunzione della propria giustizia non salva nessuno. Il giusto non è giustificato finché non riconosce il proprio peccato.
Senza umiltà non c'è conoscenza vantaggiosa né di sé né di Dio, e si rimane sotto il dominio del maligno.
Se il peccato è la superbia e il peccatore è il superbo, l'umiltà che il vangelo richiede ad ogni credente è quella di riconoscere la propria umiliante realtà di fariseo superbo.
L'autore dell'Imitazione di Cristo sintetizza perfettamente l'insegnamento di questa parabola: "A Dio piace più l'umiltà dopo che abbiamo peccato che la superbia dopo che abbiamo fatto le opere buone".

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29/03/2014 09:57
 
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padre Lino Pedron


In questo brano abbiamo due modelli di fede e di preghiera. Da una parte il fariseo che sta davanti al proprio io. Egli è sicuro della sua bontà, giustifica se stesso e condanna gli altri. Dall'altra il pubblicano che, sentendosi lontano da Dio e non potendo confidare in sé, si accusa e invoca il perdono.
Il fariseo non sta davanti a Dio, ma a se stesso, non parla con Dio, ma con se stesso. La sua preghiera non è un dialogo, ma un monologo. Essa sembra un ringraziamento a Dio, ma in realtà è una strumentalizzazione di Dio per il proprio autocompiacimento. Egli si appropria dei doni di Dio per lodare se stesso invece del Padre e per disprezzare i fratelli invece di amarli.
Se la preghiera non è umile, è una separazione diabolica dal Padre e dai fratelli. E' lo stravolgimento massimo: in essa si usa Dio per cercare il proprio io. E' il peccato allo stato puro.
Il fariseo accusa gli altri di essere rapaci proprio mentre lui sta cercando di appropriarsi della gloria di Dio. Accusa gli altri di essere ingiusti, ossia di non fare la volontà di Dio, mentre lui trasgredisce il più grande dei comandamenti: l'amore per Dio e per il prossimo. Accusa gli altri di essere adulteri mentre lui si prostituisce all'idolo del proprio io, invece di amare Dio.
La religiosità che egli vive è solo esteriore; dentro c'è presunzione, ma anche molta grettezza, cattiveria, arroganza che lo spinge a giudicare con disprezzo il fratello peccatore che ha preso posto in lontananza.
Matteo scrive che i farisei assomigliano ai sepolcri imbiancati, belli all'esterno, ma pieni di putridume all'interno (23,27). All'esterno il fariseo è un perfetto credente, ma, dentro, i suoi pensieri e i suoi sentimenti sono totalmente diversi da quelli di Dio, che ama tutti indistintamente e in primo luogo i peccatori.
Il nostro fariseismo esce proprio tutto e bene quando preghiamo. La preghiera è lo specchio della verità: ci fa vedere che abbiamo dentro tutto il male che vediamo negli altri. Non c'è preghiera vera senza umiltà, e non c'è umiltà senza la scoperta del proprio peccato, anche del peggiore: quello di considerarsi giusti.
La preghiera del pubblicano è quella dell'umile: penetra le nubi (cfr Sir 35,17). E' simile a quella dei lebbrosi e del cieco (cfr Lc 17,13; 18,38); è la preghiera che purifica e illumina. E' una supplica con due poli: la misericordia di Dio e la miseria dell'uomo. L'umiltà è l'unica realtà capace di attirare Dio: fa di noi dei vasi vuoti che possono essere riempiti da Dio.
La fede che giustifica viene dall'umiltà che invoca la misericordia. La presunzione della propria giustizia non salva nessuno. Il giusto non è giustificato finché non riconosce il proprio peccato.
Senza umiltà non c'è conoscenza vantaggiosa né di sé né di Dio, e si rimane sotto il dominio del maligno.
Se il peccato è la superbia e il peccatore è il superbo, l'umiltà che il vangelo richiede ad ogni credente è quella di riconoscere la propria umiliante realtà di fariseo superbo.
L'autore dell'Imitazione di Cristo sintetizza perfettamente l'insegnamento di questa parabola: "A Dio piace più l'umiltà dopo che abbiamo peccato che la superbia dopo che abbiamo fatto le opere buone".

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30/03/2014 07:57
 
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don Roberto Rossi
Gesù, il Signore è la luce e la gioia della vita

La liturgia di questa domenica, chiamata domenica della letizia, invita a rallegrarci, a gioire, così come proclama l'antifona d'ingresso della celebrazione eucaristica: "Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l'amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell'abbondanza della vostra consolazione, che è il Signore". Qual è la ragione profonda di questa gioia? E' il Vangelo, è Gesù stesso, accanto a noi come luce e salvezza. Ha scritto per noi papa Francesco: "La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall'isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia". Ne abbiamo la prova nel Vangelo di oggi, nel quale Gesù guarisce un uomo cieco dalla nascita. La domanda che il Signore Gesù rivolge a colui che era stato cieco costituisce il culmine del racconto: "Tu credi nel Figlio dell'uomo?". Quell'uomo riconosce il segno operato da Gesù e passa dalla luce degli occhi alla luce della fede: "Credo, Signore!". È da evidenziare come una persona semplice e sincera, in modo graduale, compie un cammino di fede: in un primo momento incontra Gesù come un "uomo" tra gli altri, poi lo considera un "profeta", infine i suoi occhi si aprono e lo proclama "Signore". In opposizione alla fede del cieco guarito vi è l'indurimento del cuore dei farisei che non vogliono accettare il miracolo, perché si rifiutano di accogliere Gesù come il Messia. La folla, invece, si sofferma a discutere sull'accaduto e resta distante e indifferente. Gli stessi genitori del cieco sono vinti dalla paura del giudizio degli altri.

Possiamo chiederci: E noi, quale atteggiamento assumiamo di fronte a Gesù? Anche noi a causa del peccato di Adamo siamo nati "ciechi", ma nel fonte battesimale siamo stati illuminati dalla grazia di Cristo. Il peccato aveva ferito l'umanità destinandola all'oscurità della morte, ma in Cristo risplende la novità della vita e la meta alla quale siamo chiamati. In Lui, rinvigoriti dallo Spirito Santo, riceviamo la forza per vincere il male e operare il bene. Il Signore Gesù è "la luce del mondo", colui che illumina la nostra vita e che continua a rivelare nella complessa trama della storia quale sia il senso dell'esistenza umana. Nel rito del Battesimo, la consegna della candela, accesa al grande cero pasquale simbolo di Cristo Risorto, è un segno che aiuta a cogliere ciò che avviene nel Sacramento. Quando la nostra vita si lascia illuminare dal mistero di Cristo, sperimenta la gioia di essere liberata da tutto ciò che ne minaccia la piena realizzazione. In questi giorni che ci preparano alla Pasqua possiamo ravvivare in noi il dono ricevuto nel Battesimo: quella luce, quella fiamma che a volte rischia di essere soffocata. Possiamo alimentarla con la preghiera e la carità verso il prossimo. Scrive ancora papa Francesco: "la Chiesa, come madre sempre attenta, si impegna perché tutti abbiano la possibilità di una conversione che restituisca loro la gioia delle fede e il desiderio di impegnasi per il Vangelo".

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31/03/2014 08:15
 
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padre Lino Pedron


Nel racconto del secondo segno di Cana il protagonista è un pagano. I giudei, i samaritani e i pagani erano le tre categorie che formavano l'umanità. Questi tre gruppi sono valutati in base alla loro fede in Gesù. I giudei non credono nel loro messia: Nicodemo con il suo scetticismo ne è il tipico rappresentante (Gv 3,1-12). Gli eretici samaritani invece accettano la testimonianza di una donna e soprattutto quella di Gesù, pur non avendo visto alcun prodigio (Gv 4,1-41). Il pagano crede alla parola di Gesù, ancor prima di vedere il segno (Gv 4,46-50).
La seconda visita di Gesù a Cana si riallaccia alla prima, in occasione delle nozze (Gv 2,1ss). I due miracoli di Cana costituiscono una grande inclusione di questa prima parte del vangelo di Giovanni. In essa Giovanni descrive la prima rivelazione di Gesù nelle tre principali regioni della Palestina: la Galilea, la Giudea e la Samaria, e alle tre categorie di persone che le abitavano: gli israeliti ortodossi, gli eretici samaritani e i pagani.
Dalla Samaria Gesù ritorna in Galilea perché non era stato accolto a Gerusalemme, nonostante avesse operato numerosi prodigi. Il funzionario regio di Cafarnao era al servizio di Erode Antipa, il tetrarca della Galilea. Il viaggio da Cafarnao a Cana è abbastanza disagiato: 26 chilometri in salita.
Gesù richiama subito il centurione alla fede vera, fondata sulla sua parola e non sui segni. Come i samaritani, anche questo pagano crede prontamente alla parola di Gesù e diventa, in tal modo, modello di fede per i discepoli.
Egli è tanto in ansia per la salute del figlio che non si preoccupa dell'ammonimento di Gesù, ma gli ripete con insistenza di scendere a Cafarnao prima che suo figlio muoia.
In antitesi con i giudei che non credono alle parole di Gesù, questo pagano crede immediatamente. Nell'apprendere che il figlio era guarito nell'ora nella quale Gesù gli aveva parlato, il funzionario credette, e con lui tutta la sua famiglia.
Nelle scelte, anche importanti, della nostra vita non dobbiamo cercare dei segni per credere. La parola di Gesù può bastarci per le decisioni grandi e anche per le scelte quotidiane. Dio ci ha già detto tutto in Gesù.
In caso di malattia cerchiamo ansiosamente medici, medicine, ospedali, interventi chirurgici. Gesù, Signore della vita e della morte, ha qualche significato e qualche peso nella nostra lotta contro il male e la morte?
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01/04/2014 07:10
 
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padre Lino Pedron


Gesù per la seconda volta sale a Gerusalemme in occasione di una festa ebraica non precisata. L'ambiente dove si svolge il miracolo è presso la porta delle pecore, un luogo riservato agli agnelli destinati ai sacrifici del tempio. Una piscina con cinque portici, accoglieva costantemente sul suo bordo "un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici" (v. 3).
La piscina di Betzaetà conserva resti di un culto pagano a divinità guaritrici. In questo luogo ci sono chiari segni di culto al Dio Asclepios-Serapis. L'attesa del moto dell'acqua ad opera di un angelo è forse il residuo di una leggenda popolare. Il movimento dell'acqua poteva essere il travaso da una vasca all'altra, o l'acqua che usciva a intermittenza dalla sorgente. L'angelo indicherebbe un incaricato al culto del Dio Asclepios.
Anche in questo caso è Gesù che prende l'iniziativa. Egli è presentato come padrone della salute e può guarire dalle malattie anche più gravi. La sua parola è tanto potente da produrre immediatamente la guarigione. Cristo è il vero guaritore di tutto l'uomo. In particolare il prodigio mette in luce che Gesù è il Salvatore dei più deboli, dei più abbandonati e trascurati da tutti.
Gesù guarendo di sabato imita la condotta del Padre, il quale opera continuamente, anche di sabato (Gv 5,17). Secondo Gesù "il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato" (Mc 2,27-28). Egli contesta le tradizioni umane che sono in contrasto con la carità.
Alcuni esegeti vedono nell'acqua della piscina di Betzaetà un'allusione alla legge mosaica che non può guarire, in contrasto con le parole di Gesù che invece guariscono. Scrive Loisy: "L'acqua di Betzaetà, come il battesimo di Giovanni, raffigura il regime della legge, e il caso del paralitico è destinato a mostrare che questo regime non porta alla salvezza. Vi è una paralisi inveterata che Gesù solo può guarire; egli solo infatti rigenera l'umanità con il dono della vita eterna".
Altri esegeti scoprono nei cinque portici della piscina una raffigurazione dei cinque libri della legge mosaica, mentre l'infermo che da trentotto anni attende la guarigione sarebbe tipo di quanti cercano invano la salvezza nella legge. Scrive Braun: "La cifra di trentotto anni verosimilmente è simbolica. Vi è una buona ragione di accostarla ai trentotto anni durante i quali, secondo Dt 2,15, gli israeliti avevano errato nel deserto, prima di giungere alle frontiere della terra promessa".
La guarigione dell'uomo infermo da trentotto anni, compiuta da Gesù, non è tanto un'opera di misericordia, quanto il manifestare l'opera di salvezza di Dio stesso, del Padre suo, attraverso la grazia del perdono e della salvezza.
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02/04/2014 07:15
 
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padre Lino Pedron


Per la tradizione rabbinica, solo Dio era dispensato dal riposo del sabato. Infatti, poiché l'uomo nasce e muore anche in giorno di sabato, Dio deve sempre dare la vita e giudicare. Egli, in questo giorno, non può rimanere inattivo, senza guidare la storia e il destino degli uomini, altrimenti il mondo avrebbe fine e sfuggirebbe al suo controllo. Questo è il senso della difesa che Gesù pronuncia davanti ai giudei: egli, come Figlio di Dio, ha gli stessi diritti divini del Padre. Va notato che il verbo operare è usato al presente e in senso assoluto sia per il Padre che per il Figlio, e indica uguaglianza e unica coordinazione nell'operare.
Circa la controversia sul sabato, dunque, Giovanni chiarisce che la discussione di Gesù non verte tanto sulla relatività della legge del riposo, ma sulla sua personale autorità, che è superiore all'osservanza del precetto. Egli intende far riscoprire il senso profondo e teologico del sabato, riproponendo il valore di Dio e della salvezza. Se Gesù opera in giorno di sabato è perché egli, che è Figlio di Dio, è in relazione col Padre e ne segue l'agire. Come il Padre è superiore al sabato e può lavorare anche in questo giorno, anzi può operare sempre, così Gesù, essendo uguale al Padre (v. 18), è padrone del sabato e può affermare: "Il Padre mio opera continuamente e anch'io opero" (v. 17). Per Gesù, dare la vita e la libertà interiore all'uomo, non è trasgredire il sabato, ma realizzarlo in pienezza secondo la volontà del Padre.
Gesù è il Figlio del Padre, l'inviato per la salvezza dell'uomo, colui che compie la stessa attività di Dio, incarnandone la volontà e il progetto. Essere con Gesù è essere con Dio. Agire contro Gesù è agire contro Dio.
Ascoltare la parola di Gesù e credere nel Padre sono due atteggiamenti religiosi che conducono l'uomo alla fede. Credere in Gesù e nel Padre vuol dire accettare il messaggio di Dio, il suo piano di salvezza per l'uomo; è possedere la vita eterna, perché per mezzo della parola del Figlio, l'uomo entra in comunione col Padre e, quindi, nella vita divina. La strada da seguire per giungere alla vita eterna è unica: dall'ascolto alla fede, e dalla fede alla vita.
Tutti gli uomini morti spiritualmente per il peccato sono in grado di udire la voce del Figlio di Dio, ma solo quelli che ascoltano, aprendosi alla dinamica della fede, possono entrare nella vita.
Oltre il potere di dare la vita, il Figlio dell'uomo ha nelle mani anche il potere del giudizio. Tutti, alla fine dei tempi, udranno la voce del giudice universale, e i morti, uscendo dalle loro tombe, riceveranno il premio o il castigo secondo le opere di bene o di male compiute. Coloro che avranno scelto il bene e l'amore, risorgeranno per la vita, coloro che avranno scelto il male e le tenebre, risorgeranno per la condanna. In questo giudizio Gesù avrà un solo criterio di valutazione: la volontà del Padre.
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03/04/2014 07:55
 
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fr. Massimo Rossi
Commento su Giovanni 11,1-45

La profezia di Ezechiele, si presta a più di una interpretazione: se la confrontiamo con la pagina, ancor più famosa, ove il profeta descrive la scena delle ossa inaridite che prodigiosamente riprendono vita, si ricoprono della loro carne, ed ecco, risorgono i morti (cfr. Ger 37), anche il passo di questa V domenica annuncia la risurrezione finale per la salvezza eterna.
La stessa profezia si può tuttavia riferire alla salvezza presente, (la salvezza) dal peccato.
I sepolcri sono i nostri corpi disgregati dal peccato, la Grazia di Dio ci libera appunto dalla disgregazione e ci ricostituisce nuove creature.
Lo Spirito del Signore ci pervade, corpo e anima, ci santifica, ci fortifica.
Per dirla con le stesse parole di Paolo: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me." (...). L'apostolo dei pagani annuncia che vivere nella carne non è un condanna, non è una maledizione ineluttabile: vivere nella carne non significa vivere secondo la carne....Che, poi... sta carne... Che cos'è la carne senza lo spirito? Niente! Così come, del resto, anche lo spirito senza la carne. La vocazione dello spirito è quella di elevare la carne alla dignità della persona umana, la quale dignità consiste nell'essere immagine e somiglianza di Dio: dunque lo spirito deve rimanere spirito incarnato.
L'uomo vivente, gloria di Dio, come dicevano gli antichi padri, diventa veramente se stesso se e soltanto se si arrende allo spirito e si lascia condurre dallo spirito.
Tutte queste elucubrazioni per dire che tra la carne e lo spirito può e deve esserci armonia, ordine; la carne e lo spirito sono fatti l'una per l'altro.
Quando una persona muore diciamo che il suo spirito abbandona la sua carne: viene a mancare il principio di ordine, quell'armonia che garantiva la vita dell'uomo. E senza ordine, senza armonia, senza quel principio aggregante che è lo spirito, la carne si dis-grega, si corrompe. La morte produce nella natura umana l'esatto opposto della creazione. Dall'ordine degli elementi ben distinti tra loro, al fine di entrare in mutua e feconda relazione (cfr. Gen 1), si torna al dis-ordine; dall'armonia al caos... dalprofumo soave della carne in fiore - i neonati profumano di buono - all'odore cattivo del cadavere. È ciò che Marta sussurra al Signore, parlando del fratello Lazzaro: "Manda già cattivo odore!", per esprimere anche lei il senso del non-ritorno che la morte porta con sé, nell'immaginario collettivo, e anche nella realtà, vista con occhi umani-solo-umani.
La differenza cristiana interviene qui: il mondo ha bisogno che la nostra fede annunci con la vita ciò in cui crede: che cioè la morte non è l'ultima (realtà).
Se non crediamo questo, se per noi, sì, anche per noi la morte è ancora e sempre l'evento ultimo fatale, la nostra fede è vuota!
Il Vangelo di oggi mette a confronto due modi di pensare la risurrezione: quello di Marta e quello di Cristo; non si tratta di contrasto tra due mentalità, ma piuttosto di 2 verità complementari: la risurrezione dei morti, la risurrezione finale non è un principio di fede esclusivamente cristiano; ci credevano anche alcune scuole di pensiero ebraico; e Marta, da buona ebrea, lo confessa all'amico e maestro di Nazareth.
La risposta di Gesù - "sono io la risurrezione e la vita; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno!" - vuole inaugurare un modo nuovo di concepire la risurrezione - questo sì, tipicamente cristiano! - svincolandolo dall'unica accezione di marca escatologica, legata cioè alla fine del mondo.
Il Figlio di Dio afferma il valore della risurrezione per la vita presente, la possibilità e l'opportunità offerta a tutti noi credenti di vivere da risorti, prima che la morte arrivi a traghettarci sull'altra riva, la vita eterna.
Se Gesù è la risurrezione e la vita, credere in Lui significa appunto vivere davvero da risorti!
Vi sarà certamente capitato di incontrare persone talmente innamorate di Dio, talmente convinte e fondate sulla risurrezione di Gesù che la loro esistenza è chiaramente un'esistenza di risorti, animata da quella "gioia che nessuno potrà più toglierci",promessa da Gesù agli Apostoli prima della Sua passione, dono dello Spirito Santo.
GIOIA: in tempo di Quaresima può sembrare una parola fuori luogo... Non dimentichiamo gli ammonimenti che il Signore ci ha lasciato nel Vangelo del mercoledì delle Ceneri: "Quando digiunate, non assumete quell'aria affranta degli ipocriti che vogliono far vedere al mondo che digiunano; invece, lavatevi il viso e profumatevi il capo, perché la gente non veda che digiunate, ma solo Dio che vede nel segreto. E Dio, che vede ne segreto, vi ricompenserà.". 

"A volte, la fede ribalta il significato della parole nel loro esatto contrario: quello che il mondo chiama ?morte', noi chiamiamo ?vita eterna'"

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04/04/2014 07:49
 
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Messa Meditazione
Camminiamo nel silenzio

Lettura
Gesù si muove dalla Giudea verso la Galilea: il Messia non è stato accolto dai Giudei che, anzi, cercano di ucciderlo. La ricorrenza che riporta Gesù a Gerusalemme è la Festa delle Capanne, alla quale partecipano anche i suoi fratelli (si intende "cugini", infatti, tra appartenenti alla stessa tribù ci si appellava come "fratelli"), una festività di ringraziamento a Dio per il raccolto dei campi e durante la quale gli ebrei vivevano in capanne per ricordare il passaggio nel deserto durante l'Esodo. Gesù partecipa di nascosto ma, riconosciuto, afferma nuovamente di essere il Cristo, suscitando altra ostilità nei suoi confronti. Nuovamente i giudei confermano la loro incapacità di interpretare correttamente le Scritture, aspetto che Gesù coglierà anche durante l'Ultima Cena (Gv 16,3; 17,25).

Meditazione
Gesù preferisce allontanarsi da Gerusalemme: sa, infatti, che i giudei non possono accoglierlo come il Messia, il loro cuore è chiuso e, anzi, si è convertito al male, tanto da progettare di ucciderlo. Egli si ferma dove è accolto, dona la salvezza a chi lo cerca con cuore sincero, non impone la sua presenza. Gesù torna a Gerusalemme per la Festa delle Capanne, ci torna di nascosto, in modo sommesso, non per paura, ma per testimoniare l'importanza di vivere quel momento per rievocare le grazie ricevute da Dio nel cammino esodale, nel deserto, luogo della non parola, del silenzio, in cui far stagliare la Parola. In questo tempo di Quaresima, allora, siamo chiamati a camminare nel deserto, per ascoltare la Parola che suscita in noi interrogativi, ai quali è urgente rispondere: quale senso ho dato alla mia vita? Sono alla sequela di Gesù, realmente, oppure seguo più una tradizione, un rito del quale non posso fare a meno per abitudine? Dobbiamo imparare a vivere i momenti forti della liturgia, la Quaresima in particolare, non come un "tempo di mezzo" prima della festività, ma come l'opportunità che ci viene offerta per vivere a pieno la Resurrezione di Cristo. Il cammino di Gesù verso la Pasqua è costellato di opposizioni e contrasti; noi lo seguiamo per imparare a tradurre nell'oggi la forza che egli ha saputo comunicare con la sua esperienza terrena. «La Quaresima è il tempo privilegiato del pellegrinaggio interiore verso Colui che è la fonte della Misericordia. È un pellegrinaggio in cui Egli stesso ci accompagna attraverso il deserto della nostra povertà, sostenendoci nel cammino verso la gioia intensa della Pasqua» (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2006).

Preghiera
Signore, fa' che ti accogliamo, e che la tua Parola non sia motivo di scandalo, ma produca in noi la conversione del cuore. Amen.

Agire
Fa' parlare la tua coerenza e non spaventarti se qualcuno avrà da ridire sul tuo stile di vita ispirato al Vangelo.

Commento a cura di don Gian Franco Poli
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05/04/2014 11:02
 
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Di essi è il regno dei cieli

Lettura
La liturgia di oggi apre uno spiraglio di speranza. Le parole di Gesù sono così forti da fermare le guardie mandate dai Sommi Sacerdoti per ucciderlo. Saranno proprio i soldati a rendere testimonianza al Sinedrio della potenza della Parola di Cristo, davanti alla quale hanno abbassato le armi. "Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo", un'affermazione che spesso torna nei Vangeli, soprattutto da parte del popolo, degli umili, oppressi da una Legge che non è più per l'uomo, desiderosi di conoscere un Dio diverso da quello presentato dai Sommi Sacerdoti. L'altro segno di speranza viene da Nicodemo, un uomo del Sinedrio, colto conoscitore della Legge, il quale ha però lasciato aperto il cuore all'accoglienza, si è recato da Gesù di notte (Gv 3,1-21) e renderà in seguito culto al Cristo morto (Gv19,39-42).

Meditazione
Il primo ostacolo all'accoglienza di Gesù come Messia, che emerge dalla lettura del Vangelo di oggi, è quello dell'ignoranza, della non conoscenza profonda della vita del Cristo. Gesù appartiene per nascita alla stirpe di Davide, è nato a Betlemme, in Giudea, ma chi lo conosce poco afferma che viene dalla Galilea, da Nazareth, dove in realtà ha solo vissuto gran parte della sua vita. Questi avvenimenti ci richiamano alla necessità di una fede adulta, consapevole, che non conosce Cristo per sentito dire, ma per esperienza diretta e di questo dà testimonianza. I Sommi Sacerdoti che accusano di ignoranza le guardie, perché non conoscono la Legge, sono in realtà loro ad ignorare la Verità su Cristo, nato in Giudea, nato a Betlemme. Rifiutano anche l'intervento di Nicodemo, che spinge a giudicare Gesù con maggiore giustizia, in questo caso per non ascoltarlo lo accusano di essere "partigiano": «Sei forse anche tu della Galilea?», come a voler dire che Nicodemo cercasse gloria per una terra, piuttosto che un'altra. Il Vangelo ci sprona a trovare la Verità su Cristo, a scegliere se Gesù debba essere per noi rovina o resurrezione (Lc 2,34-35). Il santo di oggi ci permette di fare ancora un passo avanti, dall'accoglienza di Cristo a quella dei fratelli. Modello di carità, san Giovanni di Dio ha saputo incarnare la Misericordia di Gesù. Nelle sue Lettere scrisse: «Se guardessimo alla misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare il bene tutte le volte che se ne offre la possibilità. Infatti quando per amor di Dio passiamo ai poveri ciò che egli stesso ha dato a noi, ci promette il centuplo nella beatitudine eterna» (San Giovanni di Dio, Lettere).

Preghiera
Signore, voglio pregarti per ridirti tutta la confidenza di cui sono capace e per chiederti di salvarmi e di non giudicarmi per i miei peccati, ma per il tuo infinito amore per me. Amen.

Agire
Niente sia di ostacolo al realizzarsi in te del mistero della salvezza; anzi, la potenza di Dio integri le debolezze e ti disponga ad essere un testimone credibile.

Commento a cura di don Gian Franco Poli
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06/04/2014 07:19
 
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Giovani Missioitalia
L' Amico

Anche il Vangelo di quest'ultima domenica di quaresima è una pagina ricchissima di spunti preziosi per la nostra vita. Non potendoli annoverare tutti quello su cui vogliamo soffermarci è l'Amicizia di Gesù. Per i nostri parametri gli amici si vedono nel momento del bisogno: è questo che misura l'affetto e la veridicità del legame: più forte è il bisogno più forte sarà "vero" l'amico. Per questo sono proprio i momenti difficili della tua vita che mettono in luce la falsità di alcuni rapporti.L' Amicizia di Gesù è qualcosa di differente dalla nostra e da come noi ce l'aspettiamo, ma proprio per quello che ci dicevamo prima è messa sotto esame da quelli che lo circondano: il suo amico Lazzaro sta male ma lui arriva solo quando è ormai morto. Le folle allora si chiedono come mai sia arrivato tardi visto che era suo amico; lui che fa tanti miracoli non poteva arrivare prima e salvarlo? Che amico è questo? La stessa Marta lo rimprovera, pur essendo contenta che comunque sia arrivato. Per Maria invece c'è solo un freddo rimprovero: lei si fidava, sapeva che se fosse arrivato in tempo il fratello non sarebbe morto. E Gesù che fa? Sembra comportarsi stranamente, nessuno lo capisce: piange, come un vero amico piange, poi fa richieste strane, chiede di aprire il sepolcro nonostante siano passati quattro giorni, e qui di nuovo viene rimproverato da Marta: ma cosa ci chiedi? È assurdo, impensabile, puzza, è morto, è finita.
Il fatto è che la logica di Gesù non è la nostra. Lui non è amico al nostro livello, Lui non interviene nelle cose poco difficili perché ti viene a riprendere lì dove nessuno lo può fare, perché arriva dove puzzi, dove tu stesso non ti accetti, dove sei in decomposizione. Lì nessuno ti guarda, lì nessuno si cura di te, invece Gesù non si allontana di fronte a quella mostruosità che sai di essere, a quella puzza che nascondi anche a te stesso, ma è li che ti ama. Lui ci ridà la vita li dove non l'abbiamo più, nei nostri sepolcri: in quelle situazioni irrisolte, nelle nostre necrosi, nel nostro esser brutti, cattivi, malati.L' Amicizia di Gesù quindi è qualcosa di più grande, perché viene a mostrare altro, viene a mostrare che la morte non ha l'ultima parola, viene a mostrare che Lui è padrone della morte ed è padrone della vita, ed è capace di tirarti fuori da qualsiasi tomba in cui ti sei rinchiuso. Gesù arriva in ritardo perché non viene semplicemente a risanare una piaga o una malattia, ma viene ad annunciarci una Speranza immensa, ossia che Lui ci ama non per quello che vorremmo apparire ai suoi occhi, non per il nostro essere bravi cristiani, bravi ragazzi, educati, socialmente accettati, carini, profumati e piacevoli di aspetto (che ci costa una fatica immane)...NO! Dio lo sa perfettamente che non siamo questo, sa perfettamente cosa abbiamo nell'anima, la nostra sozzura: una realtà interiore che si fa fatica ad accettare, e se non l'accettiamo noi figuriamoci se la può accettare chi ci sta accanto. Invece SI è a questo livello che ci ama Lui e che ci richiama alla vita. Lui non solo ti visita e ti ama lì in quel vissuto, in quel dolore, in quella puzza, ma ti ordina di Venirne Fuori! SI, te lo ordina, perché Lui ha il potere di farlo.
Nessuno di noi è adeguato per stare dinanzi a Dio, nessuno per quanto possa faticare sarà mai degno: è Dio
a renderti tale. Una preghiera recita così" Voglio l'amore del tuo povero cuore; se aspetti di essere perfetto, non mi amerai mai. Non potrei forse fare di ogni granello di sabbia un serafino radioso di purezza, di nobiltà e di amore? Non sono io l'Onnipotente? E se mi piace lasciare nel nulla quegli esseri meravigliosi e preferire il povero amore del tuo cuore, non sono io padrone del mio amore? Figlio mio, lascia che ti ami, voglio il tuo cuore". Aprire la tomba non è una cosa semplice: occorre avere coraggio per affrontare lo spettacolo che vi sta dentro. Gesù lo fa', lo affronta, ti ama proprio lì dentro, e può chiamarti e riportarti alla vita fuori dal tuo sepolcro.
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07/04/2014 07:18
 
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Misericordia io voglio e non sacrificio

Lettura
La Chiesa ci presenta oggi un brano che è forse tra i più noti e commoventi del Vangelo. In un clima di giudizio sulla sua persona, nei brani che precedono e seguono quello di oggi, infatti, Gesù è continuamente sottoposto al giudizio che riguarda la sua natura divina, Gesù è chiamato a fare da giudice. I giudei cercano di farlo cadere in errore e, come anche in altri momenti (cfr. Mt 12,9-14; Mc 10,2-12), lo mettono a confronto con la Legge mosaica. La donna colta in flagrante adulterio dovrebbe essere lapidata; Gesù non risponde, invece lancia una provocazione: «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra». Rimasto da solo con la donna, la esorta a non peccare più e la lascia andare, non la condanna. Egli, unico senza peccato, le usa misericordia.

Meditazione
Gesù viene spesso messo a confronto con la Legge mosaica che i farisei credono di interpretare e vivere nel modo più giusto; ma Cristo ha già chiarito il rapporto di continuità e allo stesso tempo di superamento della Legge (Mt 5,20-48). Tutto si ricapitola in Cristo, anche la Legge, che deve essere al servizio dell'uomo e non viceversa. I farisei, però, sono troppo sicuri di essere nel giusto, convinti di possedere la verità e chiedono la "giusta" condanna per l'adultera, ma Gesù si china e comincia a scrivere e tutti dai più anziani ai più giovani se ne vanno, spaventati dai propri peccati. Nessuno di loro ha il coraggio di confrontarsi con le proprie debolezze. Così Gesù si trova faccia a faccia con la "donna", stesso modo con cui Egli chiama Maria a Cana (Gv 2,4), la tratta con la stessa dignità, non è squalificata dal peccato, anche se non tralascia di ammonirla, non identifica la donna con l'errore che ha commesso. Alla fine, quindi, l'unica che torna a casa giustificata è proprio la pubblica peccatrice, mentre gli altri, considerati i giusti, sono tornati alla loro vita con il peso del peccato; non hanno avuto il coraggio di ammetterlo, né l'umiltà. E noi, siamo capaci di fermarci davanti al Padre per lasciarci inondare dalla sua misericordia, oppure siamo più preoccupati di salvaguardare una reputazione, di non disturbare la nostra coscienza? Papa Giovanni Paolo II scrive nella sua enciclica Dives in misericordia: «La conversione a Dio consiste sempre nello scoprire la sua misericordia, cioè quell'amore che è paziente e benigno a misura del Creatore e del Padre [...] L'autentica conoscenza del Dio della misericordia, dell'amore benigno è una costante e inesauribile fonte di conversione» (Dives in misericordia, 13).

Preghiera
Signore, Salvatore dell'umanità, siamo peccatori, ma guardiamo a te che sei Misericordia infinita per imparare a ricominciare sempre. Amen.

Agire
Vivi avendo nel cuore la misericordia divina, e dimostrala con gesti di perdono per essere in sintonia con Cristo.

Commento a cura di don Gian Franco Poli
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08/04/2014 07:51
 
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padre Lino Pedron


Gesù, per stimolare i suoi avversari a cambiare atteggiamento nei suoi confronti, diventa polemico e fa balenare la minaccia della morte nel peccato. Egli sta per tornare da Dio: con la sua passione e risurrezione passa da questo mondo al Padre (cfr Gv 13,1); i suoi nemici non potranno raggiungerlo nella gloria eterna; anzi, con la morte nel peccato di incredulità, si separeranno eternamente da lui.
La reazione dei giudei è molto più sarcastica che in 7,35. Lì i suoi avversari ipotizzavano il suo trasferimento in terra pagana, qui parlano di suicidio. L'idea che la fonte della vita e della luce possa suicidarsi è possibile solo ai figli del diavolo. In nessun altro passo del vangelo troviamo espressioni più sarcastiche e blasfeme contro il Figlio di Dio.
La risposta di Gesù all'insulto satanico dei giudei è tagliente e aspra: voi siete dal basso, dal mondo tenebroso del maligno, io sono dall'alto, di origine divina. In Gv 8, 44 Gesù espliciterà maggiormente l'origine satanica dei suoi avversari: il loro padre è il diavolo, l'omicida fin dal principio. Scrive Loisy: "I giudei pensano di deridere il Cristo; ma sono loro tragicamente ridicoli".
Se i giudei si ostinano a non aprirsi alla luce, che è Cristo, la loro sorte è segnata: essi moriranno nei loro peccati. L'ostinazione nel rifiuto della luce (cfr Gv 9,41), cioè l'opposizione fondamentale contro il Figlio di Dio, conduce alla morte eterna (cfr 1Gv 5,16-17). Questo è il peccato specifico del mondo tenebroso (cfr Gv 16,8-9).
La risurrezione e la vita si trovano in Gesù; per non morire bisogna credere alla sua divinità (cfr Gv 11,25-26). Le parole "Io sono" indicano con chiarezza la divinità di Cristo. "Io sono" è la traduzione del nome ebraico di Jahvè, quindi esprime la divinità della persona di Gesù.
Gli interlocutori di Gesù non hanno ancora afferrato la sua dichiarazione, davvero inaudita, di essere Dio. La comprensione piena dell'"Io sono" è riservata alla scena finale (vv. 58-59). Per questo i giudei chiedono a Gesù: "Tu chi sei?". L'interrogativo: "Chi è Gesù" è fondamentale nel vangelo di Giovanni. La risposta di Gesù appare molto enigmatica. Fin dal principio il Logos è ciò che dice, ossia la parola di Dio (Gv 1,1), la manifestazione della vita e dell'amore del Padre.
Il Logos incarnato non manifesta solo il mistero di Dio, ma conosce bene anche l'uomo; quindi può parlare dei suoi interlocutori senza sbagliarsi. Gesù rivela al mondo ciò che ha udito dal Padre che lo ha mandato. L'evangelista annota: i giudei non capirono che parlava loro del Padre.
La divinità di Gesù sarà riconosciuta quando sarà innalzato sulla croce. Anche i giudei per avere la vita dovranno credere nel Logos incarnato esaltato sulla croce. Con l'esaltazione dell'uomo Gesù sulla croce non avverrà solo il riconoscimento della sua divinità, ma anche quello della sua funzione di rivelatore definitivo, in piena e perfetta dipendenza dal Padre.
Il Padre e il Figlio vivono sempre intimamente uniti e formano una cosa sola per cui il Logos incarnato non può mai essere abbandonato da Dio. Questa unità perfetta tra Gesù e il Padre ha come conseguenza il perfetto compimento della volontà del Padre. Nella Trinità esiste una sola volontà divina.
La pausa descrittiva sulla fede di molte persone in ascolto serve come passaggio a un'altra scena nella quale è svolta una nuova tematica teologica, quella della vera libertà dei figli di Abramo. Anche qui sembra trattarsi di una fede superficiale, come quella di Nicodemo e degli altri abitanti di Gerusalemme.
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09/04/2014 07:50
 
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Riccardo Ripoli
Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato

Ci vantiamo tanto di essere liberi. Liberi dal giogo di una dittatura, liberi nelle nostre abitudini, liberi di fare qualunque cosa ci passi per la mente. Ma siamo sicuri di essere veramente liberi? Non sarà piuttosto un'illusione per addolcire un'amara realtà?
Ditemi se vi sentite liberi dalla cupidigia, dall'alcool, dalla droga, dalla bramosia di potere, dal voler tenere tutto sotto controllo, liberi di dire la vostra opinione qualunque essa sia in qualunque circostanza a qualunque persona, fosse anche il vostro datore di lavoro o colui che può decidere se darvi un permesso o meno per la vostra attività.
No, non siamo completamente liberi, ci illudiamo di esserlo perché "libertà" è una bella parola, suona bene, ti fa credere di poter fare qualunque cosa. L'adolescente lo impara alla svelta, è su questo valore che si gioca la vita. Quante volte un ragazzo di circa sedici, diciotto anni decide di prendere un bivio piuttosto che un altro, quante volte decide se studiare o ascoltare la musica, giocare al computer, evitare la scuola per uscire con gli amici. Una volta rappresenta un'eccezione, la seconda un piccolo svago, ma ripetere costantemente questa scelta, anche se in piena libertà, lo condurrà ad essere schiavo della propria ignoranza, perderà l'occasione di farsi una cultura, imparare un mestiere, costruirsi il proprio futuro.
Una volta cresciuto sarà imprigionato, schiavo dell'errore fatto da ragazzo, gli mancherà qualcosa, avrà poca libertà di poter scegliere un lavoro e dovrà accontentarsi di svolgere mansioni che avrebbe volentieri evitato, costretto ad accettarle per necessità, per sopravvivenza. Quelle catene le ha costruite lui e solo lui potrà spezzarle riprendendo in mano i libri di studio e migliorando le proprie conoscenza. Più tardi lo farà e maggiore sarà il peso che dovrà sopportare.
La mia mamma smise di studiare a sedici anni, andò a lavorare, poi un giorno la provincia le disse "signora lei è un'ottima professoressa di stenografia e dattilografia, ma per continuare ad insegnare deve prendere un diploma". Con grandissima fatica, io avevo otto, dieci anni, il lavoro, la casa da mandare avanti, un marito ed un figlio da accudire si iscrisse alle serali. Quei due anni che la portarono a prendere il diploma in maniera forzata le insegnarono quanto fosse bello studiare, approfondire, imparare al di là del proprio ambito, così si iscrisse all'università conseguendo la laurea in lettere quattro anni dopo con un voto vicinissimo al massimo. La laurea le aprì nuove opportunità lavorative e si sentì libera di decidere della propria vita, libera di andarsene da un ambiente ostile, libera di fondare una scuola per aiutare tanti ragazzi in difficoltà, sogno che si infranse contro il muro del cancro, ma è morta da donna libera.
E' così per tutti noi. Siamo legati a mille debolezze e solo abbandonando, non senza lotta e senza fatica, il nostro peccato saremo veramente liberi di poter agire a testa alta senza doversi nascondere, senza la paura che qualcuno ci punti il dito contro e infici il nostro operato.
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10/04/2014 08:31
 
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padre Lino Pedron


Gesù riprende la tematica dell'immortalità derivante dall'osservanza della sua parola. In 5, 24 aveva assicurato il passaggio dalla morte alla vita per chi ascolta la sua parola, cioè crede nella sua rivelazione e vive secondo essa. Cristo è la risurrezione e la vita, perciò chi crede in lui, anche se sperimenterà la morte temporale, eviterà la morte eterna, cioè l'inferno (cf. Gv 11,25-26).
Gesù fa dipendere la vita eterna e l'immortalità dall'ascolto della sua parola, dall'adesione esistenziale e pratica al suo messaggio. In antitesi con il diavolo menzognero che ingannò i nostri progenitori con la sua parola falsa (cf. Gen 2,17; 3,2ss) e portò nel mondo la morte (cf. Sap 2,24), Gesù, con la sua parola divina, è fonte di vita e di immortalità.
La reazione dei giudei è scomposta e oltraggiosa. L'affermazione di Gesù è veramente inaudita per un semplice uomo, perché anche i personaggi più grandi della storia della salvezza sono morti. Se Gesù non fosse il Figlio di Dio, la sua pretesa di donare l'immortalità sarebbe assurda.
La risposta pacata di Gesù fa vedere la sua grandezza eccezionale. Nella frase finale di questo dialogo drammatico (v. 58), Gesù proclama esplicitamente la sua divinità e quindi anche la sua superiorità anche di fronte al più grande patriarca del popolo ebraico, Abramo.
L'affermazione dei giudei che ritengono Dio loro padre è falsa. Essi ignorano del tutto Dio perché non osservano la sua parola. La conoscenza di Dio infatti non si riduce alla sfera speculativa, ma si acquista e si dimostra osservando i suoi comandamenti. La conoscenza vera di Dio e del suo Figlio si riduce all'amore concreto e operativo.
Alla domanda dei giudei: "Sei tu forse più grande del nostro padre Abramo?", Gesù risponde che il padre del popolo ebraico era completamente orientato verso il tempo del Messia e visse in funzione di lui. La nascita dl suo figlio Isacco fu motivo di gioia (cf. Gen 18,1-15; 21,1-7) perché in lui si realizzavano le promesse messianiche. All'annuncio di questo lieto evento il patriarca rise (cf. Gen 17,17), ossia si rallegrò e gioì, perché nella nascita di suo figlio previde la discendenza dalla quale sarebbe nato il Cristo. Abramo vide il giorno di Gesù, come Isaia vide la sua gloria (cf. Gv 12,41) e Mosè scrisse di lui (cf. Gv 5,46): tutto l'Antico Testamento è in funzione di Gesù.
"Gli dissero allora i giudei: 'Non hai ancora quarant'anni e hai visto Abramo?'". Questo intervento finale dei giudei prepara la solenne proclamazione della divinità di Gesù. Notiamo che essi deformano e capovolgono l'affermazione di Gesù. Egli ha detto che Abramo vide il suo giorno. Essi rovesciano il soggetto e l'oggetto e fanno dire a Gesù di aver visto Abramo. Per gli
increduli giudei è inconcepibile che Gesù sia oggetto della contemplazione di Abramo, tanto sono lontani dal comprendere la vera identità del Figlio di Dio.
"In verità in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono". La risposta di Gesù è il vertice di tutto il dialogo drammatico del capitolo 8. Essa contiene la proclamazione esplicita della divinità di Gesù. Contrapponendosi al più grande patriarca dell'Antico Testamento, del quale la Scrittura descrive la vita e la morte, Gesù si presenta come l'"Io sono", il Vivente, il vero Dio, Jahvè in persona.
La reazione dei giudei conferma il significato divino dell'espressione usata da Gesù. Per loro è un bestemmiatore, perché si è proclamato Dio e quindi merita la lapidazione come prescrive la legge di Mosè (cf. Lv 24,16).Questo nascondersi di Gesù ha un profondo significato teologico: è l'eclissi del Sole, che è il Logos incarnato, dinanzi all'incredulità dei suoi interlocutori.
Il capitolo 9 continuerà questo tema della luce di Cristo nell'episodio della guarigione del cieco.
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11/04/2014 07:15
 
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padre Lino Pedron


Il dialogo con i giudei, riportato nei capitoli 7 e 8 aveva avuto come epilogo il tentativo di uccidere Gesù a sassate. Qui tentano ancora una volta di lapidarlo. Le parole di Gesù di essere una cosa sola con Dio si rivelano scandalose agli orecchi degli increduli giudei.
Gesù dimostra di essere il Figlio di Dio con una duplice argomentazione, quella della Scrittura e quella delle opere straordinarie compiute nel nome del Padre. Gesù reagisce in modo pacato al gesto violento dei suoi avversari: "Vi ho mostrato molte opere buone da parte del Padre; per quale di queste opere mi lapidate?" (v. 32). I giudei replicano che lo vogliono lapidare per la bestemmia pronunciata, perché si proclama Dio. Gesù argomenta dal Sal 81, di valore incontestabile per i giudei, che se dei semplici uomini sono chiamati dei e figli dell'Altissimo, quanto più è Figlio di Dio colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo per essere il rivelatore definitivo e il salvatore universale.
La seconda argomentazione di Gesù a prova della sua divinità è costituita dalle opere eccezionali compiute nel nome del Padre (cfr Gv 10,37-38). E' il Padre che, nel Figlio, compie le sue opere (cfr Gv 14,10-11).
I giudei sarebbero senza colpa se Gesù non avesse compiuto opere che nessun altro al mondo ha mai fatto; ma ora non sono scusabili per questo peccato (cfr Gv 15,23-25). Le opere eccezionali compiute da Gesù hanno una finalità ben precisa: favorire la fede nella sua divinità: "Credete alle opere, affinché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io sono nel Padre (Gv 10,38).
Gesù si ritira a Betania, non il villaggio di Lazzaro, ma una località situata sulla sinistra del Giordano dove il Battista aveva svolto il suo primo ministero (cfr Gv 1,28). Questo ritorno di Gesù nel luogo dove aveva avuto inizio la sua rivelazione pubblica forma un'inclusione solenne tra Gv 1,28ss e 10,40ss. Forse l'evangelista vuole insinuare che la sua manifestazione davanti al mondo iniziata a Betania si conclude, dopo essersi infranta contro il muro dell'incredulità dei giudei.
Queste persone che vanno da Gesù (v. 41) indicano il movimento della fede. I nuovi discepoli constatano che le cose dette da Giovanni Battista sul conto di Gesù erano vere. Queste persone che credono esistenzialmente nel Figlio di Dio si rivelano come pecore di Cristo: ascoltano la sua voce e lo seguono (cfr Gv 10,27).
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12/04/2014 07:16
 
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padre Lino Pedron


Questo brano illustra la reazione opposta al segno della risurrezione di Lazzaro: molti spettatori del miracolo credono in Gesù, i capi del popolo decretano la sua morte, ostinandosi nella loro cecità volontaria.
Gv 11,45-57 prepara la passione e la crocifissione del Cristo. Questo brano ha un profondo significato teologico. Non solo determina che Gesù deve morire, ma stabilisce anche lo scopo e l'effetto di questa morte: egli muore "per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (v. 52).
Questo è uno dei pochi brani del vangelo di Giovanni che parla del valore salvifico della morte di Gesù.
Il prodigio della risurrezione di Lazzaro ha favorito la fede di molti giudei venuti da Maria. I segni operati da Gesù devono favorire la fede (cfr Gv 20,30-31). Bisogna credere nel Figlio di Dio almeno per i segni eccezionali da lui operati (cfr Gv 14,11). Tuttavia la fede profonda deve prescindere dal vedere, per cui Gesù proclama beati i discepoli che credono senza aver visto (cfr Gv 20,29).
Non tutti i giudei presenti a Betania hanno creduto, anzi alcuni andarono subito ad informare i sommi sacerdoti e i farisei i quali prendono occasione da questa notizia per radunare d'urgenza il consiglio supremo.
I sommi sacerdoti e i farisei mostrano la loro preoccupazione per il comportamento di Gesù e implicitamente riconoscono la loro impotenza dinanzi ai segni operati da lui. L'ammissione che Gesù compie molti prodigi non stimola i giudei a credere, ma al contrario li spinge a prendere misure repressive nei suoi confronti. La preoccupazione maggiore dei capi religiosi degli ebrei è di carattere politico: essi temono di perdere il potere.
Quando Giovanni scriveva il suo vangelo, la deportazione degli ebrei e la distruzione di Gerusalemme operata dai romani era un fatto compiuto. I capi del popolo che temevano dei disastri sociali a motivo della fede in Cristo, non previdero che questi mali sarebbero stati una conseguenza della loro incredulità, un castigo per aver rifiutati il loro Messia (cfr Lc 19,41-44).
Caifa nel suo intervento dichiara che è conveniente sacrificare un uomo per evitare la rovina dell'intera nazione. Per l'evangelista queste espressioni di Caifa acquistano un significato molto profondo. Gesù muore a favore dell'intera umanità, per donare la vita al mondo (cfr Gv 6,51), per salvare il gregge di Dio (cfr Gv 10,11.15), per santificare i discepoli nella verità (cfr Gv 17,19).
I figli di Dio sono i discepoli di Gesù, generati da Dio (cfr Gv 1,12-13). Il loro distintivo è la fede e l'amore. Questo popolo che è stato acquistato dal Signore (cfr 1Pt 1,19) è la Chiesa, la sposa santa e immacolata di Cristo (cfr Ef 5,25-27).
La morte di Cristo ha una finalità salvifica perché raduna in unità i dispersi figli di Dio. Il peccato è divisione, la salvezza è vita in unità con Dio e con i fratelli. La morte di Gesù realizza l'oracolo di Ezechiele 34,12-13 che prediceva la riunione delle pecore del Signore, radunandole da tutte le regioni nelle quali erano state disperse, per formare un solo gregge condotto da un solo pastore.
Dopo la decisione del sinedrio Gesù si ritira ai margini del deserto di Giuda. Questi avvenimenti si verificarono a pochi giorni dalla Pasqua. I giudei che abitavano in campagna salivano qualche giorno prima della solennità per purificarsi secondo le prescrizioni della legge, sottoponendosi ai riti di aspersione con il sangue degli agnelli (cfr 2Cr 30,15 ss). Questi pellegrini cercano Gesù. La loro ricerca era sincera. Questi pii campagnoli osanneranno Gesù in occasione del suo ingresso trionfale in Gerusalemme (cfr Gv 12,12).
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13/04/2014 08:29
 
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Gaetano Salvati
Commento su Matteo 26,14-27,66

Oggi celebriamo l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme (Mt 21,7) e il penoso "Crocifiggilo" (27,22) della folla riunita per condannare Cristo.
La liturgia della Domenica delle Palme propone due letture del vangelo, entrambe di san Matteo. La prima, proclamata all'inizio della processione delle palme, narra l'accoglienza trionfale che il popolo d'Israele ha concesso al "profeta" (21,10). Gesù, mite ed umile (v. 5), vuole essere acclamato da noi non solo come un profeta, ma anche riconosciuto come il vero Re e il Signore dell'universo, Colui che è stato inviato dal Padre per condurre l'umanità verso la libertà e la verità. È necessario, quindi, seguire la processione del Salvatore con attenzione, senza perdere alcun segno o parola, fino al giovedì santo, fino in fondo, persino dinanzi all'amore estremo della croce, di un Dio che muore per noi: ai Suoi piedi, se avremo l'umiltà di chiedere la forza di non cedere alla tentazione di tornare indietro, sta o cade la nostra fede.
La lunga lettura del Passio introduce il discepolo verso la comprensione del mistero Pasquale. San Matteo, infatti, ci permette di cogliere il dramma delle ultime ore di Gesù: dalla cena con gli Apostoli, all'arresto del Figlio di Dio; dal processo dinnanzi al Sinedrio e a Pilato, alla via crucis fino e alla morte del Nazareno.
Le due letture del Vangelo sono in forte contrasto fra di loro. Gli "Osanna" che accolsero Gesù, si tramutano, adesso, in grida di odio verso di Lui: "Crocifiggilo". Dov'è la gloria che spetta al Re? Il Maestro, parlando dal trono della croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi ha abbandonato» (27,46), insegna al mondo che la vera gloria bisogna nasconderla in Dio. Offrendo se stesso al Padre, mostra che la sua gloria è crocifissa, pienamente realizzata secondo il disegno divino: Egli ha fatto la volontà di Dio. Abbandonandosi a Lui, Egli attua, con il sacrificio della sua vita, la salvezza per tutti gli uomini. E noi, sotto la croce, lo riconosciamo vero Re, Colui che immola la sua esistenza per rendere partecipi ciascuno della vita divina.
Prima si è detto che sotto la croce inizia, si fortifica o cade la nostra fede. In effetti tutto comincia dal Calvario: Egli raduna l'umanità per insegnare che il destino dell'uomo è l'amore, da donare agli altri gratuitamente e con sincerità, senza volere nulla in cambio. Forse, se non capiamo questo è inutile andare a messa, si rischia solo di essere ipocriti, perché non si punta all'essenziale, alla croce.
Noi, comunità ecclesiale, riflettiamo sulla regalità del Messia. L'unico Re, innocente, andato incontro al giudizio e alla morte senza fare resistenza, è la fonte della nostra speranza. Lui che raccoglie tutte le croci sparse per il mondo, tutte i patimenti che affliggono la nostra quotidianità, trasforma la tristezza in gioia, lo sconforto in consolazione, la malattia in dono da presentare all'Onnipotente. Accostiamoci al nostro Re, glorioso e crocifisso. Meditiamo e facciamo memoria della bellezza di un Dio che ci invita a seguirlo fra le sofferenze del mondo perché possiamo annunciare che la morte e i dolori sono sconfitti dalla risurrezione del Salvatore.
Amen.
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14/04/2014 08:01
 
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a cura dei Carmelitani
Commento Giovanni 12,1-11

1) Preghiera

Guarda, Dio onnipotente,
l'umanità sfinita per la sua debolezza mortale,
e fa' che riprenda vita
per la passione del tuo unico Figlio.
Egli è Dio e vive e regna con te...


2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Giovanni 12,1-11
Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento.
Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: "Perché quest'olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?"
Questo egli disse non perché gl'importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: "Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me".
Intanto la gran folla di Giudei venne a sapere che Gesù si trovava là, e accorse non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. I sommi sacerdoti allora deliberarono di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù.


3) Riflessione

? Siamo entrati nella Settimana Santa, la settimana della pasqua di Gesù, del suo passaggio da questo mondo al Padre (Gv 13,1). La liturgia di oggi pone dinanzi a noi l'inizio del capitolo 12 del vangelo di Giovanni, che fa da legame tra il Libro dei Segni (cc 1-11) ed il Libro della Glorificazione (cc.13-21). Alla fine del "Libro dei Segni" appaiono con chiarezza la tensione tra Gesù e le autorità religiose dell'epoca (Gv 10,19-21.39) ed il pericolo che correva Gesù. Diverse volte avevano cercato di ucciderlo (Gv 10,31; 11,8.53; 12,10). Tanto è così che Gesù si vide obbligato a condurre una vita clandestina, perché poteva essere preso in qualsiasi momento (Gv 10,40; 11,54).
? Giovanni 12,1-2: Gesù, perseguitato dai giudei, si reca a Betania. Sei giorni prima della pasqua, Gesù si reca a Betania a casa delle sue amiche Marta e Maria e di Lazzaro. Betania significa Casa della Povertà. Lui era ricercato dalla polizia (Gv 11,57). Volevano ucciderlo (Gv 11,50). Ma pur sapendo che la polizia stava dietro Gesù, Maria, Marta e Lazzaro lo ricevono nella loro casa e gli offrono da mangiare. Era pericoloso accogliere in casa una persona ricercata ed offrirgli da mangiare. Ma l'amore fa superare la paura.
? Giovanni 12,3: Maria unge Gesù. Durante il pasto, Maria unge i piedi di Gesù con mezzo litro di profumo di nardo puro (cf. Lc 7,36-50). Era un profumo caro, anzi carissimo, che costava trecento denari. Gli asciuga dopo i piedi con i suoi capelli. Tutta la casa si riempì di profumo. Maria non parla durante tutto l'episodio. Agisce solo. Il gesto pieno di simbolismo parla da solo. Nel lavare i piedi, Maria si fa serva. Gesù ripeterà il gesto nell'ultima cena (Gv 13,5).
? Giovanni 12,4-6: Reazione di Giuda. Giuda critica il gesto di Maria. Pensa che è uno spreco. Infatti, trecento denari erano lo stipendio di trecento giorni! Lo stipendio di quasi un intero anno speso in una sola volta! Giuda pensa che il denaro si sarebbe dovuto dare ai poveri. L'evangelista commenta che Giuda non aveva nessuna preoccupazione per i poveri, ma che era un ladro. Avevano una cassa comune e lui rubava il denaro. Giudizio forte che condanna Giuda. Non condanna la preoccupazione per i poveri, ma l'ipocrisia che si serve dei poveri per promuoversi ed arricchirsi. Giuda, nei suoi interessi egoisti, pensava solo al denaro. Per questo non si rende conto di ciò che Maria aveva nel cuore. Gesù legge nel cuore e difende Maria.
? Giovanni 12,7-8: Gesù difende la donna. Giuda pensa allo spreco e critica la donna. Gesù pensa al gesto e difende la donna: "Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura!" E subito Gesù dice: "I poveri li avrete sempre tra di voi, ma non sempre avrete me!" Quale dei due viveva più vicino a Gesù: Giuda o Maria? Giuda, il discepolo, viveva insieme a Gesù da circa tre anni, ventiquattro ore al giorno. Faceva parte del gruppo. Maria lo vedeva una o due volte l'anno, in occasione di alcune feste, quando Gesù si recava a Gerusalemme e visitava la sua casa. Ma la convivenza senza amore non fa conoscere gli altri. Anzi acceca. Giuda era cieco. Molta gente vive insieme a Gesù e lo loda perfino con molti canti, ma non lo conosce veramente e non lo rivela (cf. Mt 7,21). Due affermazioni di Gesù meritano un commento più dettagliato: (a) "I poveri infatti li avrete sempre con voi", e (b) "Perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura".
(a) "I poveri li avrete sempre con voi" Forse Gesù vuol dire che non dobbiamo preoccuparci dei poveri, visto che sempre ci saranno dei poveri? O vuol dire che la povertà è un destino imposto da Dio? Come capire questa frase? In quel tempo le persone conoscevano l'Antico Testamento a memoria. Bastava che Gesù citasse l'inizio di una frase dell'AT e le persone già sapevano il resto. L'inizio della frase diceva: "I poveri li avrete sempre con voi!" (Dt 15,11a). Il resto della frase che la gente già sapeva e che Gesù volle ricordare è questo: "Per questo vi ordino: aprite la mano a favore del vostro fratello, del povero e dell'indigente, nella terra dove voi risiedete!" (Dt 15,11b). Secondo questa legge, la comunità deve accogliere i poveri e condividere con loro i suoi beni. Ma Giuda, invece di "aprire la mano a favore del povero" e di condividere con lui i suoi beni, voleva fare carità con il denaro degli altri! Voleva vendere il profumo di Maria per trecento denari ed usarli per aiutare i poveri. Gesù cita la Legge di Dio che insegnava il contrario. Chi, come Giuda, fa campagna con il denaro della vendita dei beni degli altri, non scomoda. Ma colui che come Gesù insiste nell'obbligo di accogliere i poveri e di condividere con loro i proprio beni, costui è scomodo e corre il pericolo di essere condannato.
(b) "Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura". La morte in croce era un castigo terribile ed esemplare adottato dai romani per castigare i sovversivi che si opponevano all'impero. Una persona condannata a morte in croce non riceveva sepoltura e non poteva essere unta, e rimaneva appesa alla croce fino a che il cadavere era mangiato dagli animali, o riceveva sepoltura semplice, da povero. Oltre a questo, secondo la Legge dell'Antico Testamento, doveva essere considerata "maledetta da Dio" (Dt 21, 22-23). Gesù era già stato condannato a morte in croce per il suo impegno verso i poveri e la sua fedeltà al Progetto del Padre. Non sarebbe stato sepolto. Per questo, dopo morto, non poteva essere unto. Sapendo questo, Maria anticipa l'unzione e lo unge prima di essere crocifisso. Con questo gesto, dimostra che accettava Gesù Messia, anche se crocifisso! Gesù capisce il suo gesto e l'approva.
? Giovanni 12,9-11: La moltitudine e le autorità. Essere amico di Gesù poteva essere pericoloso. Lazzaro è in pericolo di morte a causa della vita nuova ricevuta da Gesù. I giudei decisero di ucciderlo. Un Lazzaro vivo era la prova vivente che Gesù era il Messia. Per questo la moltitudine lo cercava, poiché la gente voleva sperimentare da vicino la prova viva del potere di Gesù. Una comunità viva corre pericolo di vita perché è la prova viva della Buona Novella di Dio!


4) Per un confronto personale

? Maria è stata mal interpretata da Giuda. Sei stato/a interpretato/a male qualche volta?
? Cosa ci insegna il gesto di Maria? Cosa ci dice la reazione di Giuda?


5) Preghiera finale

Il Signore è difesa della mia vita,
di chi avrò timore?
Egli mi offre un luogo di rifugio
nel giorno della sventura. (Sal 26)
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15/04/2014 08:01
 
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padre Lino Pedron


Gesù aveva già parlato in modo enigmatico dell'amico intimo che lo avrebbe tradito (cfr Gv 13,18), ma ora che denuncia chiaramente il traditore è preso da un turbamento profondo. Questa denuncia così chiara del traditore provoca grande costernazione nel gruppo dei discepoli: essi ignorano di chi stia parlando Gesù.
Il discepolo, "quello che Gesù amava" (v. 23) si trovava a mensa a fianco del Signore. Secondo l'usanza greco-romana, diffusa anche in Palestina, i commensali stavano adagiati sui divani, poggiandosi sopra il gomito sinistro, mentre con il braccio destro prendevano i cibi e le bevande.
In questo brano appare per la prima volta sulla scena questo discepolo innominato, del quale si parlerà anche nel seguito del vangelo: nel brano della morte di Gesù (19, 26ss), nella scoperta della tomba vuota (20,2ss) e nel brano della pesca miracolosa (21,7).
Gesù accoglie la richiesta del discepolo e indica il traditore. Satana entrò nel cuore di Giuda dopo che questi ha mangiato il boccone offerto da Gesù. Il nemico di Dio si impossessa del traditore, immergendolo nelle tenebre dell'incredulità e dell'odio, fino alla consumazione del delitto più grande: l'uccisione del Figlio di Dio (19,11).
Con l'ingresso di satana nel cuore di Giuda, gli eventi precipitano; per questo Gesù esorta il traditore ad affrettarsi nell'attuare il suo disegno criminoso. Il traditore esce dalla luce, abbandona il Cristo luce del mondo (8,12) e si immerge nelle tenebre della notte (v. 30). Nel cuore di Giuda si è spenta la luce della fede; in lui regnano le tenebre dell'incredulità e dell'odio. E' notte!
Appena il traditore è uscito, Gesù apre il cuore ai suoi amici che lo circondano. Egli è consapevole di essere giunto alla vigilia della sua morte e per questo si premura di spiegare loro il vero significato della sua partenza da questo mondo. La sua morte in croce non è la sua sconfitta, ma il suo trionfo, la sua glorificazione e il suo ritorno al Padre. Con la sua passione e morte Gesù esegue con obbedienza eroica il piano di salvezza voluto dal Padre e dimostra fino a che punto ama Dio e gli uomini.
Attraverso la glorificazione di Gesù si compie anche la glorificazione del Padre. Dio è glorificato per mezzo di Gesù e in Gesù. Il Padre è glorificato dal Figlio con l'esaltazione di Gesù sul trono regale della croce. Da questo trono Gesù manifesta in pienezza la sua divinità (8, 28) e attira tutti a sé (12,32).
L'appellativo "figlioli" (v. 33), usato da Gesù, esprime tutto l'amore e la confidenza per i suoi discepoli. Gesù avverte i suoi amici che sta per lasciarli. In questo momento essi non possono seguirlo; lo raggiungeranno più tardi.
Il ritorno di Gesù al Padre non è un viaggio di piacere, ma di dolore: egli allude alla sua passione e morte. Pietro al momento presente non è in grado di imitare Gesù, nonostante la sua protesta di fedeltà fino al sacrificio della vita; egli lo seguirà con la prigionia e la morte, ma in seguito.
Data l'insistenza di Pietro nell'affermare la sua fedeltà a Gesù fino al sacrificio della vita. Il Signore gli predice l'imminente rinnegamento. Il riferimento al canto del gallo vuole indicare con chiarezza che Pietro rinnegherà tre volte Gesù proprio in quella stessa notte.
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16/04/2014 07:53
 
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padre Lino Pedron


Giuda, non avendo potuto intascare i soldi del prezzo dell'unguento (Mt 26,8-9), ha rimediato alla meglio vendendo Gesù al prezzo di uno schiavo (cfr Es 21,32): trenta denari. Pessimo commerciante! "L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali" (1Tim 6,10).
L'indeterminatezza dell'indicazione: "Andate in città, da un tale..." (v. 18) è voluta certamente da Gesù per non fornire indicazioni al traditore prima del tempo stabilito.
E' anzitutto nella comunità dei discepoli che si gioca la passione di Gesù: è là che viene "consegnato" e che egli "consegna" se stesso, donando il suo corpo e il suo sangue.
All'annuncio del tradimento da parte di uno di loro, i discepoli si addolorano profondamente. Ognuno è toccato da questo annuncio perché ognuno si sente capace di tradire, come lo evidenzia la loro domanda: "Sono forse io, Signore?" (v. 22) ripresa come eco da Giuda con una variante significativa: "Rabbì, sono forse io? (v. 25). Per gli undici discepoli Gesù è il Signore, per Giuda è un semplice maestro di dottrina.
A Giuda Gesù risponde come risponderà al sommo sacerdote (v. 64) e al governatore Pilato (27,11): "Tu l'hai detto" (v. 25). E' l'uomo infatti che giudica se stesso attraverso il suo rapporto con il Cristo: "Poiché in base alle tue parole sarai giudicato e in base alle tue parole sarai condannato" (Mt 12,37).
La lamentazione di Gesù su Giuda (v. 24) non è una profezia sulla dannazione finale del traditore, ma un invito a ciascuno a esaminare la propria coscienza. "Noi tutti, così come siamo, potremmo inserire nel vangelo il nostro nome al posto di quello di Giuda" (J. Green).
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17/04/2014 07:30
 
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padre Lino Pedron


Gesù ha cominciato la sua vita per opera dello Spirito Santo, ora comincia la sua opera nella potenza dello stesso Spirito Santo.
Lo Spirito lo conduce in Galilea: Là era iniziata la sua vita, là comincia la sua opera. Nella disprezzata "Galilea dei pagani" zampilla la salvezza per la forza dello Spirito.
L'operare dello Spirito Santo provoca ammirazione e fama, che si diffonde per tutti i paesi all'intorno. Lo Spirito agisce in estensione: la sua forza vuole mutare il mondo, santificarlo, riportarlo a Dio.
In una città della Galilea, di nome Nazaret, Gesù fu concepito e allevato, giunse a maturità e dovette cominciare la sua opera secondo la volontà dello Spirito. Il suo inizio porta l'impronta di questa città insignificante e non credente, che si scandalizza del suo messaggio e cerca di assassinarlo. Il suo inizio parte dal nulla, dalla mancanza di fede dei suoi compaesani, dal peccato, dal rifiuto... Eppure Gesù comincia!
Comincia nella sinagoga annunciando che lo Spirito Santo è sopra di lui e che Dio l'ha mandato a portare la salvezza ai poveri, ossia a tutti, perché tutti siamo poveri.
Alla lettura segue la spiegazione, che è riassunta in una frase piena di penetrazione e di forza: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi" (v. 21). La parola di Dio ha la sua radice nel passato, ma si realizza nell'"oggi", ogni volta che la Parola è annunciata. La Scrittura trova il suo compimento nell'orecchio dell'uditore che ascolta e obbedisce.
Anche per il lettore del vangelo il problema dell'attualizzazione della Parola consiste prima di tutto nell'ascolto del vangelo: l'obbedienza ad esso ci rende attuali all'oggi di Dio, contemporanei di Gesù, moderni, perché in Cristo ogni uomo trova il suo compimento.
Gesù annunzia e insieme porta il tempo della salvezza. Che il tempo della salvezza sia iniziato e che il Salvatore sia ormai presente, lo si può comprendere solo accogliendo questo messaggio. Non lo si vede né lo si sperimenta. Il messaggio della salvezza esige la fede; e la fede viene dall'ascolto, è risposta a una proposta.
Tutto il vangelo è un ascolto della parola di Gesù che ci rende contemporanei a lui: nell'obbedienza della fede, accettiamo in lui l'oggi di Dio che ci salva.
La profezia, che ora si compie, è il programma di Gesù. Egli non se l'è scelto da sé, ma gli è stato preparato dal Padre. Egli è l'Inviato del Padre. In lui il Padre visita gli uomini.
Gesù opera con la parola e con i fatti, con l'insegnamento e la potenza. Il tempo della grazia è sorto per i poveri, per i prigionieri e per gli oppressi. Il grande dono portato da Gesù è la libertà: libertà dalla cecità fisica e spirituale, libertà dalla miseria e dalla schiavitù, libertà dal peccato.
Finché Gesù rimane in terra, dura l'"anno di grazia del Signore". Cristo è anzitutto il donatore della salvezza, non il giudice che condanna. E' il centro della storia, la più grande delle grandi opere di Dio.

La parola di Gesù non è un commento alla promessa di Dio giunta a noi per mezzo dei profeti, ma è la realizzazione che compie ciò che era promesso: è la buona notizia che è giunto tra noi colui che era stato promesso.
La Scrittura si compie sempre "oggi" e negli "orecchi" di chi ascolta. La parola di Gesù è chiamata "parola di grazia": in lui la grazia e la benevolenza di Dio si sono rese visibili e operanti.
Invece di aprirsi nella fede e lasciarsi coinvolgere nel dono di Dio, i suoi compaesani si bloccano e si irritano. Il messaggio viene accolto, ma il messaggero viene rifiutato. Il rifiuto nasce perché il messaggero pretende di essere ascoltato come inviato da Dio. La patria di Gesù lo rifiuta perché è un cittadino qualunque e non porta prove per sostenere la sua pretesa di essere l'Inviato da Dio.
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18/04/2014 09:13
 
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Omelie.org - autori vari


COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di don Nazzareno Marconi

Al centro delle letture della Azione liturgica del Venerdì Santo c'è la Passione del Signore Gesù secondo Giovanni, la Chiesa propone ad ogni fedele di meditare questo ampio testo denso di simbologia e teologia. Offriamo una breve scheda che può aiutare a fare questa contemplazione orante.

La prima cosa che colpisce l'attento lettore del vangelo è l'attenzione che Gesù dedica alla morte ed alla sua morte in particolare. Per certi versi tutto il vangelo di Giovanni è una lunga ed organica preparazione di questo momento centrale: "quando Gesù sarà elevato da terra".
Scorrendo i 4 vangeli alla ricerca di quando Gesù parla delle sua morte ho trovato almeno 25 occasioni in cui Gesù si riferisce esplicitamente alla sua morte.
"Il Figlio dell'Uomo sta per essere consegnato...
C'è un battesimo che devo ricevere, e come sono angosciato finché non lo abbia ricevuto...
Il Figlio dell'Uomo resterà tre giorni nel cuore della terra...
Allora lo prenderanno e lo condanneranno a morte...
Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo farò risorgere...
Bisogna che il Figlio dell'Uomo sia Innalzato...
Io vado da Colui che mi ha mandato...
Se il chicco di grano non muore rimane solo, se invece muore produce molto frutto...
Per poco tempo la luce è con voi...
Il mondo non mi vedrà più...
Lascio di nuovo il mondo...
Io non sono più nel mondo..."
La morte di croce per Gesù, dice Giovanni in modo estremamente esplicito, non è stato "un incidente di percorso" imprevisto ed inatteso. Gesù guarda la passione e la morte da lontano e si prepara a viverle. Non è fuggito spaventato, non ha chiuso gli occhi censurando mentalmente la sofferenza e la morte che lo attendevano. In questo già ci indica una strada che per certi versi scorre contro corrente, nei confronti del nostro modo di vivere.
Una delle regole non scritte, ma non per questo meno ferree della comunicazione pubblicitaria moderna, è che nessuna frase e nessuna immagine deve richiamare l'idea della morte e della sofferenza, l'unico tabù che la pubblicità moderna si impone è il discorso sulla morte.
Gesù invece non sfugge, ma affronta il problema della sofferenza e della morte, con grande rispetto per tutto il tragico senso di assurdità, che prende l'uomo di fronte a questo apparente "errore" del Creatore. Contrariamente ad una sensazione che la lettura della passione in Giovanni può indurre, Gesù non è l'eroe Western che va al duello con il sorriso sulle labbra, né lo stoico che si fa forza contro la paura.
Scriveva il Card Martini in un libro degli anni '80, Gli esercizi spirituali secondo Giovanni: «A me pare che l'uomo cosiddetto saggio, quando cerca di non svicolare di fronte al tema della morte, ma la affronta nella sua realtà esistenziale, istintivamente tende a rifugiarsi in un atteggiamento Stoico, cioè a rendersi padrone delle emozioni, a dominare le paure, a fare il viso coraggioso, a guardarla in faccia, la morte. Gesù non fa così. Gesù ha anche paura della morte e lo mostra nella sua agonia. Semmai Gesù la guarda in faccia come parte di un cammino di senso infinitamente più grande. La morte è dunque per Gesù una tappa, un passaggio che porta alle estreme conseguenze la sua forza di Vita. Il suo amore si mostra senza limiti proprio di fronte alla morte, che non è un passaggio "anche", o "malgrado il quale", ma è un passaggio "nel quale" Gesù si esprime».
Gesù giunge alla morte attraverso la vita, vi giunge con una vita coerente nel suo atteggiamento di fondo di fronte al dolore ed alla sua assurdità. E' la continuazione "nonostante ed attraverso" la morte di questo atteggiamento, che segna lo "stile" con cui Gesù vive la sua morte.
Nella notte dell'ultima cena, celebrando la pasqua giudaica, Gesù ed i suoi discepoli celebrano e mangiano la prima Pasqua cristiana. Le parole di questa celebrazione che riecheggiano il ricordo della prima Pasqua sono Salvezza, Liberazione, Alleanza. I segni sono gli stessi, ma il significato è nuovo come nuova è l'Alleanza, la Liberazione, la Salvezza.
Scrive Andrè Louf: C'era l'agnello pasquale, c'erano le spezie rituali, c'era il pane e il vino. Questi ultimi ci sono sempre, ma, da simboli che erano, si trasformano misteriosamente in una nuova realtà. Gesù dirà che il pane è ora il suo corpo ed il vino il suo sangue. Di colpo, anche l'agnello pasquale passa dalla apparenza alla realtà, perché è Gesù l'Agnello di Dio venuto a togliere i peccati del mondo, ed è suo il sangue sparso per tutti gli uomini. Usciamo dunque dalla prima pasqua che commemorava il primo Esodo che condusse il popolo eletto dall'Egitto alla terra promessa, e passiamo, dall'oggi al domani, dal giovedì al venerdì santo. Già celebriamo il nuovo esodo che Gesù sta per inaugurare nel suo sangue e che deve condurre il nuovo Popolo di Dio da questa terra al Padre.
Questa è la cornice entro cui Gesù invita i discepoli a vedere la sua morte in croce, una morte che fonda in pienezza l'alleanza, il desiderio intenso di Dio di salvare, di liberare l'uomo gratuitamente, senza chiedere nulla, per puro amore, per essere fedele fino in fondo a quel patto di amore, a quell'Alleanza con cui Dio ha voluto liberamente legarsi a noi.
La morte in croce va letta dunque come segno estremo di fedeltà all'amore. Gesù continua coerentemente la sua vita fatta di dono d'amore senza condizioni e passa con questo atteggiamento anche l'estremo limite: la sofferenza e la morte. La croce di Gesù inaugura un cammino attraverso la sofferenza, lungo il quale non cessa mai, né l'amore di Dio per l'uomo né quello dell'uomo-Gesù per il Padre.
Sembra l'attuazione meccanica e serena di un piano, la recitazione esatta di un copione già scritto, la cronaca piena di luce di una morte annunciata. Ma la presentazione evangelica non deve trarci in inganno. La croce resta un assurdo ed immenso abisso di tenebra: la creatura ha ucciso il suo creatore, dalla croce il deicidio sconvolge alle fondamenta l'universo. Luce e tenebra si mescolano di continuo in ogni discorso sulla croce di Gesù. Il trionfo di Cristo è iniziato con una sconfitta: la croce.
La passione e la morte di Gesù, come ogni passione ed ogni dolore umano, non sono una necessità proposta e voluta da Dio, un sacrificio necessario per "soddisfare" la sua giustizia. Sono piuttosto una realtà che Dio permette entro un più grande piano di salvezza e redenzione.
Gesù ha vissuto una esistenza profetica. Se è stato condannato a morte e giustiziato, è perché la sua vita, il suo messaggio, il suo insegnamento, le sue iniziative l'hanno messo in opposizione al potere costituito presente in Palestina ai suoi tempi, potere politico e religioso assieme. Gesù non è morto dunque per "soddisfare" un Dio giudice vendicativo, ma per venire in aiuto agli uomini, aiutarli a liberarsi da tutte le loro schiavitù. Questa missione Egli l'ha portata a termine fino al culmine, in una fedeltà totale al Padre ed in una costante solidarietà con gli uomini suoi fratelli. Attraverso questa fedeltà e questa solidarietà che l'hanno portato fino alla morte in croce, Gesù ha rinnovato l'Alleanza che Dio aveva stretto con il Popolo Eletto, aprendo definitivamente a tutti gli uomini la possibilità d'essere salvati. Si tratta di un mistero d'amore e non di un "Debito" da pagare.
La croce diventa dunque il luogo privilegiato della lezione di Gesù sul "senso" che anche il dolore e la morte possono assumere, ma si tratta di una predica più ricca di pause riflessive e di silenzi che di chiare dimostrazioni e di dichiarazioni apodittiche. Gesù, come ogni vero uomo che ha toccato il fondo della sofferenza, vive di un profondo pudore silenzioso di fronte a questo mistero.
Le parole tragiche e vere di alcuni uomini che hanno vissuto una profonda sofferenza in spirito di fede, di veri crocefissi dell'oggi ci possono aiutare a conquistare questo pudore pieno di rispetto. Descrive così la sofferenza un malato di cancro nel suo diario: " E' una sofferenza che ti entra dentro da tutte le parti. Che prende possesso di te in modo tale che gli appartieni completamente, ed ogni opposizione è inutile. E' questa la sofferenza che mi era piombata addosso a partire dal 13 febbraio. Non si riesce più a pensare, parlare, pregare. Si cerca disperatamente il proprio respiro, ci si concentra, si lotta per cercare di non gridare... non si è altro che sofferenza. Le lacrime mute mi scorrevano sul viso senza che potessi arrestarle.
Le infermiere che mi assistevano rispettarono la mia pena in un modo tale che non dimenticherò mai. Non mi dicevano niente. Cosa avrebbero potuto dire senza ferirmi? Mi accudivano in assoluto silenzio. Ma ogni volta che lasciavano la mia camera, una semplice pressione della mano, uno sguardo affettuoso, mi parlavano, meglio di qualsiasi parola. Se sapessero quanto mi hanno confortato!".
E sembra fargli eco nel testo già citato il Card Martini: «Dice in un celebre passo Paul Claudel: "Dio non è venuto a sopprimere la sofferenza. Non è neppure venuto a spiegarla, è venuto a riempirla della sua presenza". Io ritengo che la domanda: "Perché la sofferenza?" in un certo senso non ha risposta. Neanche Gesù vuole dare una risposta logica, dottrinale, quasi che uno poi sia tranquillo: "Ah, ho capito perché si ha il dolore". E basta: No. Ciò che insegna Gesù è un modo di vivere questa esperienza negativa e di per sé assurda, la quale non può essere che l'effetto di un'assurdità. Ed ecco allora il peccato: l'assurdità del peccato, della ribellione a Dio, di cui la morte è una manifestazione. Gesù non da una risposta logica, ma apre un cammino di senso. L'esperienza della Croce è appunto un cammino, non è un discorso; è un cammino percorrendo il quale uno ricupera la positività di un certo modo di essere».
La croce di Cristo ci propone dunque un cammino, una scoperta di senso di cui abbiamo grandemente bisogno. Di fronte alla sofferenza ed alla morte siamo ancora più indifesi di quanto potevano esserlo gli uomini del secolo appena trascorso. Infatti il nostro relativismo, ci ha portato anche a relativizzare la fede nella scienza e nel progresso, come sicura risposta a questi problemi. Oggi nessuno si illude in una vittoria del progresso sulla radice della sofferenza e della morte. Produciamo palliativi sempre più sofisticati, cerchiamo sempre più di limitare il fenomeno, ma nessuno oggi attende più dalla scienza e dal progresso l'instaurazione dell'età dell'oro.
Questo fatto è positivo dal punto di vista cristiano: è la fine di una idolatria, l'idolatria della scienza, della tecnica e del progresso, per ricondurre queste realtà nel loro ambito: mezzi utilissimi e benedetti posti nelle mani dell'uomo, ma nulla più di questo. La positività sta nel fatto che possiamo ripresentarci davanti all'uomo di oggi, ormai disilluso dal trovare spiegazioni che guardano solo alla terra, con la proposta di aprirsi ad uno sguardo più ampio e veritiero sul reale, che comprenda anche Dio e che proponga la fede come risposta umana adeguata alla Sua presenza.
Non si tratta di un ritorno indietro, verso un mondo popolato di misteri che mescola fede e superstizione, né, tanto meno, di una fuga dalla reale tragicità del problema del dolore con una fede letta come "oppio dei malati"; ma del tentativo di affrontare il problema alla radice, in quella che chiamiamo un'ottica di fede: nell'ottica del messaggio sul senso della sofferenza che ci viene proposto dalla croce di Cristo.
Annunciare la croce come proposta cristiana sul senso del vivere e quindi del morire; e sul senso della pienezza di vita, e quindi anche della crisi della vita, della malattia, non è un aspetto marginale della proposta cristiana. S.Paolo la pone addirittura al centro della predicazione, dell'evangelizzazione della Chiesa: "Noi predichiamo Cristo crocefisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani, ma per colui che crede noi predichiamo Cristo: potenza di Dio e sapienza di Dio". (1Cor 1). Proporre la Croce di Cristo come itinerario di risposta al problema della sofferenza, non è affrontare una comoda scorciatoia, chi lo credesse dovrebbe riflettere al fatto che Paolo indica questa spiegazione come problematica.
Essa è accolta come uno scandalo dai Giudei, e per rispettare il senso del parallelismo del testo, come un segno di una visione impotente di Dio.
E' altresì accolta come una stoltezza dai pagani, una mancanza di quella saggezza che dovrebbe essere propria di Dio, il Signore del mondo. Il Dio che si propone e che propone questa risposta al problema del male, appare a prima vista un Dio che scandalizza e delude.
Ma la sapienza muta che sgorga dalla contemplazione della croce come stile di cammino nella sofferenza ha una forza particolare che solo chi soffre sa comprendere ed apprezzare. A questa contemplazione ci chiama l'azione liturgica di oggi.
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19/04/2014 08:11
 
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padre Gian Franco Scarpitta
La notte dell'amore che vince il mondo

"La notte è fatta per amare", diceva una vecchia canzone. E in effetti proprio la notte è il tempo nel quale si consumano i più grandi atti d'amore a beneficio dell'uomo, come ad esempio quello della divisione del mare diventato asciutto per il passaggio degli Israeliti e la disfatta gdegli Egiziani; o quello dell'Incarnazione a Betlemme (Dio si fa uomo di notte), oppure quello dell'"ora" nella quale su Gesù imperano le tenebre che ne decretano l'arresto e la consegna alla turba giudaica, e adesso il momento della vittoria definitiva sulla morte.
Era infatti ancora buio quando le donne raggiungono il sepolcro per cospergere di oli il cadavere di Gesù: non avevano potuto farlo al momento della sepoltura, essendo quella la Parasceve precedente al Sabato e vi vanno adesso, quando appunto il sole non si era alzato ed era ancora buio fitto.
Secondo la versione di Matteo si trovano nel bel mezzo di una teofania straordinaria e impetuosa, per la quale restano stranite. L'angelo disceso appositamente per loro apre la tomba dove è deposto il Signore al solo scopo di convincere le sue spettatrici attonite che il Signore non è più lì già da parecchie ore: è risuscitato e adesso si trova in Galilea, come egli stesso aveva annunciato ai suoi discepoli.
Gli altri evangelisti tacciono sul terremoto e parlano ciascuno in modo differente delle apparizioni angeliche; tutti però concordano nell'affermare che la pietra, in un modo o nell'altro, non ostruisce più il sepolcro e che il corpo di Gesù non è più dove era stato collocato. Gesù insomma ha preso iniziativa sulla morte e l'ha sottomessa e la notte del tradimento di Giuda viene ribaltata dalla notte della fedeltà di Dio nei confronti dell'uomo. Della notte Cristo vince le tenebre e le oscurità del male imponendosi come "luce del mondo" alla quale tutti quanti attingiamo, così come è stato significato nella liturgia di apertura del Lucernario.
Appunto questo è lo scopo della risurrezione di Gesù dai morti: essere luce che illumina i sentieri rendendoli percorribili e dare orientamento all'uomo mentre questi si trova confuso e disperso nell'arruffio delle sue felicità illusorie e passeggere; illuminare l'uomo perché ritrovi se stesso e la propria dignità personale; tracciare il destino ultinmo della sue meta e determinare nuovi criteri e impostazioni di vita alternative a quelle del male. Il Risorto è l'orientamento universale dell'uomo, il riferimento comune d'ispirazione quanto alla giustizia, all'equità, alla pace e alla realizzazione di quanto possa essere utile al progresso reale della vita comune.
Questa notte trova compimento l'intera storia della salvezza prefigurata dall'Antico Testamento e si adempiono tutte le promesse già realizzate al momento dell'Incarnazione.
Cristo Risorto che rischiara le tenebre dell'errore e del peccato ci sprona a vivere da risorti e a scongiurare che il male seguiti a dissipare la nostra vita: vivere nella continua discordia, nell'errore e nel peccato e nelle reciproche belligeranze vuol dire costringere Gesù a restare nel sepolcro e continuare a cercare fra i morti colui che è vivo.
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20/04/2014 09:54
 
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Wilma Chasseur
Dio scritto sulla croce

"Mia gioia Cristo è risorto" (San Serafino di Sarov). Ecco finalmente la risurrezione che attesta sia la regalità che la divinità di Cristo.

Cosa significa la scritta sulla Croce?

Cosa significa quella parola che posero in cima alla croce di cui vi avevo fatto le domande? Alla prima domanda avete risposto senza difficoltà: INRI = Jeus Nazarenus Rex Judaeorum. Ma era scritta solo in latino? Noi che siamo in paesi latini, vediamo sempre e solo Inri, ma in realtà, se voi andate a leggere il Vangelo di Giovanni, vedrete che era scritta in tre lingue: latino, ebraico e greco. In latino perché era la lingua dei Romani; in ebraico che era la lingua locale, ma anche in greco. Perché in greco? Perché vi erano in Palestina delle colonie greche, le cosiddette Pentapoli. Nel Vangelo si parla della decapoli (dieci città), ma c'erano anche le pentapoli, cioè le 5 città che avevano trasportato usi ellenici nella Palestina e parlavano il greco. Dopo la trasmissione a Radio Mater dove avevo posto queste domande, un'ascoltatrice di Cremona, mi mandò una foto scattata al santo Sepolcro dove, sul crocefisso, la scritta era nelle tre lingue: INRI (latino) INBI (greco), la "b" significa "re" in greco cioè "basileus". Mentre in ebraico le iniziali Gesù Nazareno Re dei Giudei, sono nientemeno che YHWH= Yaveh. Ecco la cosa straordinaria: in ebraico quella sigla non significa solo "re dei giudei" ma DIO. Ecco perché i sommi capi erano furibondi e dicevano a Pilato di non scrivere "re dei giudei". Ma Pilato, quella volta fu irremovibile. E i sommi capi non potevano tirarla via quella scritta perché avendola posta il procuratore romano non avevano il diritto di toglierla. Ed erano furibondi perché i pellegrini che affluivano a Gerusalemme per la Pasqua, vedevano quella scritta che diceva che Gesù era Dio. Così, seppur in modo drammatico, aenne rivelata in quella tragica morte, la divinità di Gesù. Ma la prova ancor più straordinaria è il sepolcro vuoto.

Uscito vivo dal sepolcro dopo che era morto...

Finché un uomo muore e poi non risorge, è sicuro che è solo un uomo, ma quando un uomo muore e poi risorge, non è più solo un uomo: non può essere che DIO! E Dio in persona! Perché oltretutto di quell'Uomo -per quelli che lo vorrebbero solo uomo- non si è mai e poi mai trovato il cadavere.
Vediamo nel Vangelo di oggi, le donne che preparavano gli unguenti, le erbe e gli aromi per andare ad imbalsamare quel corpo: Ebbene quel corpo non l'hanno trovato, né nel sepolcro, né fuori né nei paraggi. Mentre le donne preparavano gli aromi, LUI STAVA GIÀ RISORGENDO DA MORTE.

Corpo scomparso, ma Lui dov'è?

Ed è vivo ancora oggi con il Suo corpo glorioso e vivrà per i secoli dei secoli. In cielo e in terra!
Sì, Gesù Cristo vive, anzi è IL VIVENTE. Ed è una realtà storica! Non è un simbolo, né un mito, né una leggenda: io non sarei qui a parlare se Lui non fosse vivo e presente con il suo Spirito (non sarei capace di parlare di un mito o di un essere leggendario) e voi non sareste qui ad ascoltarmi perché -ne sono certa- non vi interesserebbe leggere la storia di uno che non è mai esistito e che non cammina con voi ogni giorno, dandovi forza e coraggio per andare avanti.
Coraggio dunque, amici: Non siamo soli nel cammino. Colui che passava per le contrade della Palestina, attraversa ancora le nostre vite, parla al nostro cuore e oggi si eleva in alto, vincitore anche della morte, per dirci che è andato a preparaci un posto. E per dirci che anche per ognuno di noi arriveranno le tre del pomeriggio, cioè l'ora in cui deporremo per sempre le nostre croci e vivremo nella gioia senza fine del Paradiso.
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21/04/2014 07:18
 
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padre Lino Pedron


Le donne eseguono l'incarico ricevuto dall'angelo. Alla paura è subentrata la gioia che vince la paura e caratterizza il sentimento pasquale. Il timore di Dio fulmina (Mt 28,4) o dà gioia (Mt 28,8) secondo il cuore in cui abita.
Le donne hanno colto il messaggio dell'angelo. Questa rivelazione le invia in missione: devono trasmettere la parola di vita che già le riempie di gioia. Esse hanno dato un ammirevole esempio di fedeltà, di dedizione e d'amore a Cristo nel tempo della sua vita pubblica come durante la sua passione; ora sono premiate da Gesù con un particolare gesto di attenzione e di predilezione. Il loro comportamento riassume l'atteggiamento del vero credente davanti a Cristo.
Gesù stesso viene loro incontro e dà loro il compito di essere le apostole degli apostoli: "Andate e annunziate ai miei fratelli..." (v. 10). Esse sono inviate dal Risorto e hanno compreso, almeno confusamente, il senso della Pasqua, mentre le guardie vanno a riferire ai sommi sacerdoti l'accaduto, ma ne ignorano il senso.
Questo annuncio portato dalle guardie ai capi del popolo d'Israele è il segno di Giona che Gesù aveva promesso loro in Mt 12,38-40.
I sommi sacerdoti tengono un consiglio con gli anziani che stranamente assomiglia a quello che preludeva la passione (Mt 26, 3); anche qui rispunta il denaro: come la morte di Gesù era stata valutata in denaro, così anche la sua risurrezione.
Al messaggio cristiano, che le donne comunicano, essi contrappongono un anti-messaggio, che i soldati sono incaricati di trasmettere: il messaggio cristiano della risurrezione è una menzogna messa in scena dai discepoli col furto del cadavere. Ma i testimoni che dormono al momento del fatto non hanno alcun valore.
Le guardie divulgano tra i giudei questa lezione appresa in fretta e pagata bene dai maestri. Così la morte e la risurrezione del Cristo continuano ad essere "fino ad oggi" la questione cruciale della storia, partendo dalla quale tutti gli uomini di ogni tempo devono fare una scelta libera e decisiva.
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23/04/2014 08:58
 
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padre Lino Pedron


Questo episodio è una pagina esemplare per mostrarci come il Signore risorto è presente ancora oggi nella nostra vita di credenti e come possiamo incontrarlo. I due viandanti sono figura della Chiesa. Essa cambia cuore, volto e cammino quando incontra il suo Signore nella Parola e nel Pane.
Centro del racconto è il Cristo morto e risorto davanti al quale ogni uomo "è senza testa e lento di cuore a credere" (v. 25).
Potremmo anche noi, come le donne e come Pietro, andare al sepolcro. Come loro, lo troveremmo vuoto. Non è lì il Vivente. E' per le strade del mondo in cerca dei fratelli smarriti. Li segue, li incontra, li accompagna per trasformare la loro fuga da Gerusalemme in pellegrinaggio verso il Padre.
Come ai due discepoli di Emmaus, Cristo si fa vicino a tutti noi. Ci incontra nella nostra vicenda quotidiana di viandanti della vita e si associa al nostro cammino, ovunque andiamo. Egli non si allontana da noi anche se noi ci allontaniamo da lui. E' venuto per cercare e salvare ciò che era perduto (cfr Lc 5,32; 19,10).
Cristo in persona ci spiega le Scritture e ci apre gli occhi. Anche se rimane invisibile, lo percepiamo con l'occhio della fede. Tutti possono giungere a lui attraverso l'annuncio che lo rivela risorto e il gesto dello spezzare il pane.
La Parola e il Pane, con cui egli resta nel nostro spirito e nella nostra carne, sono il viatico della Chiesa fino alla fine dei tempi. La Parola e il corpo di Cristo ci assimilano a lui, donandoci lo Spirito, che è la forza per vivere da figli del Padre e fratelli tra di noi.
Il messaggio della risurrezione avanza attraverso la celebrazione dell'Eucaristia. E' qui che la Chiesa fa esperienza che Cristo è il Vivente. L'annuncio della risurrezione, che si era aperto con diffidenza all'inizio del racconto (v. 23), dopo l'incontro con il Cristo che spiega le Scritture e spezza il Pane si trasmette da una Chiesa all'altra con partecipazione e gioia (v. 35).
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24/04/2014 08:36
 
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padre Lino Pedron


In questo brano Luca collega direttamente il nostro conoscere il Risorto con l'esperienza di Simone e degli altri con lui. La differenza tra noi e loro sta nel fatto che essi contemplarono e toccarono la sua carne anche fisicamente; noi invece la contempliamo e la tocchiamo solo spiritualmente, attraverso la testimonianza della loro parola e la celebrazione dell'Eucaristia.
Luca insiste molto sulla corporeità del Signore risorto. E' una necessità nei confronti dell'ambiente ellenistico, che credeva all'immortalità dell'anima, ma non alla risurrezione dei corpi (cfr At 17,18.32; 26,8.24). Con la risurrezione della carne sta o cade sia la promessa di Dio che la speranza stessa dell'uomo di superare l'ultimo nemico, la morte (cfr 1Cor 15, 26).
Chiave di lettura e sintesi delle Scritture è il Crocifisso, che offre la visione di un Dio che è amore e misericordia infinita. Ai piedi della croce cessa la nostra paura di Dio e la nostra fuga da lui, perché vediamo che egli è da sempre rivolto a noi e ci perdona. I discepoli saranno testimoni di questo (v. 48): faranno conoscere a tutti i fratelli il Signore Gesù come nuovo volto di Dio e salvezza dell'uomo.
La forza di questa testimonianza è lo Spirito Santo, la potenza dall'alto (v. 49). Come scese su Maria, scenderà su di loro (cfr Lc 1,35; At 1,8; 2,1ss). L'incarnazione di Dio nella storia continua e giunge al suo compimento definitivo. Dio ha reso perfetta la sua solidarietà con l'uomo: al tempo degli antichi fu "davanti a noi" come legge per condurci alla terra promessa; al tempo di Gesù fu "con noi" per aprirci e insegnarci la strada verso il Padre; ora, nel tempo della Chiesa, è "in noi" come vita nuova.
Gesù ha terminato la sua missione. Noi la continuiamo nello spazio e nel tempo. In lui e con lui, ci facciamo prossimi a tutti i fratelli, condividendo con loro la Parola e il Pane.
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25/04/2014 07:20
 
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padre Lino Pedron


Il capitolo 20 del vangelo di Giovanni ha descritto il cammino di fede pasquale dei discepoli a partire dalla tomba vuota fino all'incontro personale con il Risorto che reca i doni pasquali. Il capitolo 21 ci presenta Gesù risorto nella comunità che è in missione tra le ostilità del mondo e che viene invitata a seguire il Maestro, anche se le è riservata la medesima sorte (cfr 21,29).
Il ritorno dei discepoli alla loro terra di Galilea e al loro lavoro di pescatori forse rivela un momento di dispersione e di smarrimento della comunità dopo lo scandalo della croce. Ma l'esperienza con il Risorto, vissuta in una normale giornata di fatica, mette in luce che la fede si può vivere sempre in qualsiasi tempo e circostanza.
Il Signore si rivela loro presso il mare di Tiberiade svelando con gradualità il suo mistero e la loro vocazione.
Pietro è il primo del gruppo ad essere nominato. E' lui che prende l'iniziativa della pesca. La sua funzione nella comunità cristiana è già delineata chiaramente.
Il loro numero di "sette" ha un significato: come il numero "dodici" indica la totalità di Israele, il "sette" è la cifra simbolica dell'universalità. Questi sette discepoli sono simbolicamente il primo seme della Chiesa che viene sparso tra le nazioni pagane, perché la parola di Gesù possa generare altri figli di Dio. Ma senza Gesù l'insuccesso è totale e non prendono nulla. Senza la fede nel Risorto, che è la Vita della comunità, è impossibile riuscire nella missione e portare frutti nella Chiesa.
Sul far del giorno, quando i discepoli tornano dal loro lavoro infruttuoso, egli va loro incontro, ma loro non lo riconoscono. L'"alba" in cui agisce Gesù è l'opposto della notte e delle tenebre in cui hanno agito i discepoli. Nel linguaggio biblico, è il momento dell'intervento straordinario di Dio (cfr Es 24,24; ecc.); essa coincide con la risurrezione di Cristo e con la sua presenza nella comunità ecclesiale.
E' spuntato il nuovo giorno e Gesù rivolge la sua parola autoritativa: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete" (v. 6a). Il risultato è una pesca miracolosa e abbondante, tanto che "non riuscivano più a tirare su la rete per la grande quantità di pesci" (v. 6b).
Allora il discepolo che Gesù amava dice a Pietro: "E' il Signore!". Pietro non discute minimamente l'intuizione di fede del suo compagno: Tutto proteso verso il Signore si cinge la veste e si getta in mare: è l'uomo della risposta immediata. Anche gli altri credono dopo aver visto, ma il loro modo di agire verso il Signore è diverso: tirano la rete piena di pesci e nel servizio ecclesiale tutti prendono contatto con Gesù.
Per ordine di Gesù, Pietro riprende il suo servizio nel gruppo, sale sulla barca, tira la rete a terra e fa il computo della pesca: centocinquantatrè grossi pesci. Dietro a questo numero c'è qualcosa di misterioso. Scrive Strathmann: "L'esegesi della Chiesa antica aveva ragione quando intuiva che dietro a quel numero c'era qualcosa di misterioso; è particolarmente degno di nota quanto dice Gerolamo a proposito di Hes. 47,9-12, che gli antichi zoologi avrebbero conosciuto 153 specie di pesci; inoltre, si poteva considerare il numero 153 come la somma dei numeri da 1 a 17, o come numero di un triangolo di base 17, cioè come un numero di misteriosa perfezione. Così la pesca apostolica degli uomini è definita universale e misteriosa, nessun popolo ne è escluso (cfr At 2,9-11) e tutti si raccolgono nell'unica rete della Chiesa universale, che può accogliere tutti senza lacerarsi. Ma gli apostoli come pescatori di uomini possono compiere con successo questo lavoro soltanto su comando di Gesù" (Il vangelo secondo Giovanni, Brescia 1973, pag. 435).
La pesca è seguita da un banchetto in cui il Cristo risorto dà da mangiare ai discepoli. Il testo, parlando di pane e di pesce, allude in modo esplicito all'Eucaristia, momento vertice della vita della Chiesa. Il Signore è al centro della sua comunità rinnovata, che egli nutre familiarmente con il pane e il pesce, simbolo dell'Eucaristia, ossia dono della sua vita (cfr Lc 24,30.41-43; At 1,4).
Solo nell'ascolto della parola del Signore e nell'incontro eucaristico con il Risorto la Chiesa rende fruttuoso ogni suo impegno. Sempre e dovunque vale il detto di Gesù: "Senza di me non potete fare nulla" (Gv 15,5).
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27/04/2014 07:27
 
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mons. Gianfranco Poma
Mio Signore e mio Dio!

Il Vangelo di Giovanni, dall'inizio alla fine, è la rivelazione progressiva di Gesù: all'inizio presenta Gesù come il Logos divino preesistente e alla fine, al termine del percorso del Vangelo, mette sulle labbra di Tommaso, la stessa proclamazione: Gesù è "Signore e Dio".
Tutto ha inizio da quando Giovanni, il Battista, guardando Gesù che passava, lo ha indicato a due dei suoi discepoli: "Ecco l'agnello di Dio", ed essi andarono dietro a Gesù. Comincia così una catena di testimoni, trasmettitori di un annuncio, che non si ferma più, lungo l'arco di tutto il Vangelo.
Gesù, voltandosi, chiede ai due che lo seguono: "Che cosa cercate?". Seguono Gesù, perché Giovanni lo ha indicato loro, ma adesso, subito, è Lui che li interpella: seguire Gesù è un cammino di verità, di libertà, di realizzazione profonda. "Maestro, dove dimori?": anche la loro risposta indica che essi cercano il luogo dove potranno trovare la pienezza della vita e che essi associano questo cammino alla persona di Gesù. "Venite e vedrete": Gesù offre loro un cammino, un'esperienza, una rivelazione nella quale sperimenteranno l'incontro con Lui come risposta alla loro domanda. "Essi, andarono, videro e rimasero con Lui, tutto quel giorno".
Il cap.20 di Giovanni è il punto d'arrivo, il compimento, la risposta definitiva alla domanda che Lui pone, oggi a noi: "Che cosa cercate?", "Chi cercate?". "Maestro, dove dimori?": oggi, a noi, egli mostra dove è radicata la sua vita. "Andarono, videro, rimasero con Lui": a noi, discepoli di oggi, svela definitivamente se stesso, perché possiamo scoprire il senso pieno della nostra vita e rimanere con Lui dove Lui è veramente.
I discepoli lo hanno seguito, hanno cominciato a vedere la sua gloria, nei segni che egli faceva: vedere la gloria dentro la fragilità quotidiana, veder Dio in tutte le cose, significa credere, secondo Giovanni. L'ultimo segno è la Croce: veder Dio nell'annientamento totale, nell'estrema umiliazione, vedere l'Amore nel dono totale di fronte al quale si svela l'estrema fragilità peccatrice dell'uomo, accogliere l'Amore che perdonando ricrea. Che cosa cerca l'uomo se non l'Amore? E che cos'è l'Amore se non l'annullarsi perché l'amato viva? E chi può amare così, se non Dio solo, che davvero si annulla perché l'uomo viva? E questo è Gesù, non un'utopia impossibile, un sogno irrealizzabile, ma Dio che si incarna, Dio dentro la storia, la Gloria dentro la carne e la carne che entra nella Gloria. Questo è Gesù che ai discepoli che vanno con Lui, fa compiere il cammino con Lui dentro l'umanità, per aprire gli spazi alla Gloria, per introdurli "là dove Lui è" e renderli partecipi della vita del Padre.
Il segno della Croce: la realtà drammatica della Croce è segno della Gloria di Dio. Gesù è morto, è disceso nel sepolcro: lì sta la Gloria di Dio. Ma se è solo il ricordo di un Amore finito vuol dire che davvero non c'è che la delusione di un desiderio che fallisce.
E tutto invece riprende: la catena delle testimonianze sembrava finita nella vittoria della banalità del male. Sembrava che l'unica cosa che rimane fosse il pianto accanto a una tomba: e invece tutto è ricominciato. Certo è bastato il desiderio e il pianto di una donna che aveva creduto l'amore perché Dio cominciasse a svelare la potenza dell'Amore che diventa infinito quando muore.
Cercava l'Amore, Maria di Magdala: cercava un corpo morto su cui piangere. Trova un sepolcro vuoto: nulla, neppure un corpo morto! Bisognava che l'Amore fosse così totale, il Dono così infinito! E riprende la corsa: come nelle nozze a Cana di Galilea, è una donna che si accorge del vuoto ma ricomincia a cercare la vita. "Venite e vedrete!": tutto ciò che accade è attorno a questi due movimenti. "Venire" e "vedere", nella pluralità delle modalità espresse dai diversi verbi greci. È il cammino della fede: non restare fermi, camminare dentro se stessi, desiderare un incontro, trovare l'Amore. Bisogna entrare fino in fondo dentro il vuoto dell'uomo: poi Lui si fa incontro.
"Ho visto il Signore": è l'esplosione di gioia di Maria che ha riconosciuto la voce di Colui che, chiamandola per nome, le ha riempito il cuore di Amore e di senso la vita. È Lui, il Maestro, è vivo: al termine del suo pianto, della sua ricerca, del suo desiderio di trattenerlo, è Lui che si fa incontro, nuovo, Lui che morendo le ha dato tutto, scomparendo fino a non lasciare nulla neppure nel sepolcro, può entrare nel suo cuore e donarle un Amore che la fa vivere.
Adesso lei "ha visto" il segno, ha visto l'Amore, "ha visto il Signore". Adesso Maria di Magdala è la prima testimone: adesso che il cuore di una donna l'ha accolto, la sua presenza può manifestarsi e la sua vita, quella nuova può fare nuova l'umanità.
È ancora sera per i discepoli di Gesù, hanno ancora paura: non basta l'annuncio di Maria. "Venne Gesù e stette con loro": è l'annuncio di un fatto, sperimentato dai discepoli, Lui "venne" e "si fermò con loro". Ormai Lui è con loro per sempre, " dice" infatti, al presente: "Pace a voi". La sua Parola entra nel loro cuore impaurito e lo trasforma: Colui che ha attraversato la morte, tramette la pace di cui ormai vive, a coloro che sono ancora nella paura. Le mani e il fianco sono il segno della sua morte: ma adesso è vivo, è lì, nuovo, non è un fantasma. Lo "vedono", e sono pieni di gioia. Adesso i discepoli, nella sua pace, possono vivere la sua vita, non per i loro sforzi, ma perché Lui è con loro: con il soffio del suo Spirito, comincia l'umanità nuova, Lui li guiderà, li sosterrà, farà di loro la via per un'umanità liberata dal peccato. Tutto è gioia, in quella sera, del primo giorno di una creazione nuova: l'Amore ha vinto davvero la morte, il Perdono ha vinto il peccato...Eppure, continua la storia, continua la fragilità amata da Cristo.
Quella sera, non c'era Tommaso, uno dei Dodici: il Vangelo sottolinea, "uno dei Dodici". Il Vangelo di Giovanni parla poco dei "Dodici", non dà neppure la lista, ne parla quattro volte, per sottolineare una fedeltà vacillante o tradita. Anche Giuda è "uno del Dodici": Tommaso è assente quando dovrebbe essere con gli altri perché non accetta la prima testimonianza di Maria. E adesso non accetta la testimonianza della comunità nascente, che per Giovanni ha un valore essenziale.
Tommaso, detto Didimo, è "gemello", di chi? Alla fine di ciascuno di noi, del non credente che rimane in ogni credente.
Otto giorni dopo, viene Gesù, e Tommaso è presente: tutta l'iniziativa viene da Gesù che rivolge di nuovo la parola ai suoi discepoli: "Pace a voi", e poi a Tommaso: "Prendi il tuo dito, guarda le mie mani, prendi la tua mano e affondala nel mio costato e non essere senza fede, ma credente". Sono parole di un realismo meraviglioso: Gesù si offre al suo discepolo che aveva detto: "Se non vedo, se non tocco..."
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