Medieval 2 Total War
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I mari della Serenissima

Ultimo Aggiornamento: 08/04/2014 01:06
21/06/2013 23:30
 
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Capitolo IX
Uno sciocco amico




Isola di Lesbo, 8 settembre 1174.

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Niceforo Paleologo fu il primo a giungere là dove la spiaggia incontrava il sottobosco di arbusti ed aghi secchi all'ombra della piccola macchia di pini marittimi. Smontò da cavallo, mentre il suo seguito frugava i dintorni ed allestiva una modesto padiglione sotto cui vennero disposti un tavolo malfermo e due sedie da campo. I cavalli furono legati ai tronchi dei pini e lasciati a brucare quel poco di erba che riuscirono a trovare. La mezza dozzina di armati bizantini prese a montare la guardia qua e là in un raggio di poche decine di metri.

«Ci sono tracce di pattuglie da Mitilene?» s'accertò Niceforo.

«Nessuna, signore» gli rispose uno dei suoi armigeri. «Saranno tutti belli rintanati dietro le mura per paura di attacchi della flotta nemica».

Il Paleologo assentì pensieroso col capo.

Il cielo di quel sereno pomeriggio era di un azzurro intenso macchiato da grosse e soffici nuvole completamente bianche che si spandevano, pigramente stiracchiate dalla brezza, per leghe intere. L'aria era intensamente tiepida, di quel tepore tipico del Mar Egeo, venato dalla frescura della brezza, dall'acre sentore della salsedine e da quello penetrante dei pini marittimi. Il clima mite sembrava quasi esprimere la sua serena malinconia per l'estate ormai prossima a finire.

Il lento sciabordio del mare faceva da sottofondo al frinire delle cicale che si levava tenue dagli arbusti. Dalla spiaggia dov'erano, i bizantini potevano spaziare con lo sguardo verso sud per un vasto tratto di mare e di orizzonte, limitato unicamente ad ovest dal rilievo fatto di scogli e rocce di un basso promontorio, poco distante dal quale, già addentro alla tenue insenatura della lunga spiaggia, stava placidamente ancorato il dromone con cui erano giunti.

I due servitori coprirono con un telo purpureo la sedia da campo del loro signore, così come si addiceva al suo rango. Lo stesso fecero con l'altro sedile ed il tavolo, per ricevere degnamente l'ospite che attendevano e per impressionarlo: anche in un luogo sperduto ed in una situazione come quella avrebbero dimostrato la raffinatezza del mondo cui appartenevano. Niceforo, un uomo di trentun'anni, alto, affilato, la chioma bionda diradata dall'incipiente calvizie, era l'erede della antica e potente casata dei Paleologi, nonché secondo in linea di successione al trono della Basileia. Figlio primogenito di Costantino Paleologo e della sorella maggiore del Basileus morente, Elena Comnena, egli era quindi il primo dei nipoti in linea femminile dell'Imperatore suo zio, Andronico.

La fortuna aveva in parte favorito i Paleologi negli accadimenti recenti. Manuele I, negli ultimi anni di vita, s'era dimostrato particolarmente malleabile alle manovre delle grandi famiglie romee, gravato com'era dalla senilità. Alla sua morte, gli era succeduto il secondogenito, il maggiore dei suoi due figli maschi e l'unico dei due ancora vivo, Andronico Comneno, il quale però si era gravemente ammalato di tifo poco dopo esser salito al trono. Nel frattempo la guerra con Venezia era già scoppiata e, a sorpresa di tutti, i veneziani si erano rivelati particolarmente aggressivi: in breve tempo Durazzo era stata attaccata ed espugnata in un bagno di sangue bizantino. A guidare i difensori della città conquistata era stato Giovanni Comneno, Synbasileus ed unico figlio dell'Imperatore Andronico, caduto anch'egli sotto i colpi delle lame veneziane. La notizia della morte del figlio aveva provocato in lui un grande dolore, il quale, assieme al morbo, l'aveva consumato e, in pochi mesi, ne aveva abbattuto le forze residue. Da allora, le condizioni vitali di Andronico Comneno erano sciamate in un lento declino verso la fine, segnato da fuggevoli giornate di lucidità della mente. Ormai la morte era prossima.

Malauguratamente, il fratello minore già defunto del Basileus aveva avuto un figlio, Alessio Comneno, il quale poteva vantare più diritti al trono di Niceforo, poiché, sebbene fosse anche lui nipote del Basileus, lo era però in linea maschile ed era l'ultimo della discendenza diretta a portare il nome dei Comneni. Per questo, subito dopo la morte del figlio Giovanni, l'Imperatore Andronico aveva nominato Alessio suo legittimo erede e Synbasileus bizantino.

Ed ecco che, man mano che Andronico Comneno s'avvicinava alla morte, la lotta sotterranea per accaparrarsi il trono era esplosa. Il Synbasileus Alessio aveva cominciato a governare già de facto, di fronte al progressivo aggravarsi delle condizioni dello zio. Ma i grandi nobili rimanevano insoddisfatti ed inquieti, aperti ad un possibile cambio di dinastia, ma diffidenti, indecisi: la guerra stava prosciugando le energie dell'intera Basileia; veneziani, magiari e cumani imperversavano ai fronti settentrionali; i selgiuchidi musulmani minacciavano l'oriente; e per finire la Repubblica aveva colpito il cuore dell'Impero, strappandogli diversi territori. Il popolo, così come l'aristocrazia, era preoccupato e profondamente insoddisfatto.

Gli Angelo-Ducas, l'altra principale casata romea, potevano anch'essi vantare pretese al trono, sebbene più blande, con Andronico Angelo-Ducas, la cui nonna, Teodora Comnena, era stata la sorella del vecchio Basileus Manuele I. Tuttavia gli Angelo-Ducas sembravano aver rinunciato a far valere il loro candidato e ancora non avevano deciso con chi schierarsi per sostenerne la pretesa: se con il Synbasileus Alessio o con Niceforo Paleologo. Con tutta probabilità erano in attesa di capire da che parte spirasse il giusto vento, così da allearsi con chi ne sarebbe uscito vincitore e riuscire a guadagnare vantaggi per sé il più possibile.

Gli Angelo-Ducas rappresentavano un'incognita di una certa rilevanza, Niceforo non poteva negarlo. Tuttavia, con l'aiuto dell'ospite che stava attendendo in quel luogo così insolito per un incontro, il giovane Paleologo sarebbe riuscito a far pendere la bilancia dalla sua parte. Ne era certo.

*


Arrivarono dopo poco meno di tre ore, dal lato orientale della spiaggia, spuntando dietro la macchia silvestre in lontananza. Il sole si stava già abbassando nel cielo, avanzando lentamente incontro all'orizzonte.

Niceforo osservò la nuvola di polvere che le loro cavalcature al trotto sollevavano, infrangendo l'omogenea e levigata superficie della rena. Al di sopra del polverone, poteva scorgere lo svolazzare, lieve ma continuo, di vesti bianche. Erano sei uomini in tutto, riuscì a distinguere.

Quando il drappello giunse vicino al piccolo accampamento, i sei smontarono, legando anch'essi i cavalli ai pini marittimi, e li raggiunsero. L'uomo in testa al gruppo aveva il capo scoperto ed era ammantato di un mantello dal lungo strascico, bianco come gli abiti che indossava sotto. Su tutte le vesti di quegli uomini era impressa una croce greca rosso sangue con al centro il leone dorato di San Marco.

Il capo del candido drappello, dalle sembianze nobiliari, non appariva armato e non portava elmo né cotta di maglia. Le bianche sopravvesti degli altri cinque non celavano invece l'armatura che vi stava sotto né i foderi delle lunghe spade appese al fianco. Uno di loro sembrava essere lo scudiero o l'attendente dell'uomo alla testa del gruppo.

Niceforo guardò un attimo il suo di attendente, per assicurarsi che avesse ancora il piccolo cofanetto ligneo che continuava a tenere stretto, con aria protettiva, sotto il braccio.

«Spero che tu non abbia dovuto attendere molto, mio signore» si scusò con fare non curante il nobile in bianco, rivolgendosi al Paleologo in un greco fluente. Di sicuro non c'era la minima traccia di contrizione nell'espressione del suo volto. Tutt'altro.

«Siamo giunti da poco anche noi, Gran Maestro» mentì Niceforo, intenzionato a non dare di certo all'altro la soddisfazione di averli fatti attendere.

Giovanni Dandolo, Gran Maestro dell'Ordine Marciano, gli angoli della bocca piegati in un lieve sorriso, accolse le parole del Paleologo con quella ambigua espressione tipica di lui, la quale sempre dava l'impressione che ciò che aveva appena udito fosse per lui della massima importanza e ad un tempo non contasse assolutamente nulla, che ciò fosse per lui la più fulgida delle verità e ad un tempo la più evidente delle menzogne. Per quella sua espressione, Niceforo non aveva mai faticato ad immaginarselo perfettamente a proprio agio nella infida e opulenta Corte bizantina.

Il Gran Maestro aveva ventinove anni; la sua figura, non particolarmente alta, appariva però slanciata e forte, in uno strano miscuglio di finezza e vigore. Folti riccioli castani gli affollavano il capo, tagliati molto corti sulle tempie e lasciati più lunghi sulla sommità. Enigmatici occhi verdi, increspati da venature color del rame, scrutavano il mondo, penetrando la superficie di ogni cosa, e sovrastavano il naso regolare e gli zigomi pronunciati. La dura mascella, leggermente allungata, era ricoperta da un ampio pizzetto, tenuto corto, alla stessa lunghezza dei baffi che gli ricoprivano il labbro superiore; il resto del volto era invece rasato. Il tutto gli dava un aspetto elegante e, a suo modo, fiero.

Il nobile Enrico Dandolo, Marchese di Verona e Consigliere della Repubblica, ormai morto da cinque anni, aveva avuto quattro figli. Renier, il primogenito e maggiore dei maschi, erede del casato e del feudo; Maria, la figlia secondogenita, di un'intelligenza pari alla propria bellezza, la quale aveva sposato Riccardo della nobile famiglia veneta dei Natale, per consolidare il Marchesato da poco acquisito; Marino, il terzo e l'erede attuale di Renier, la cui sposa era Bianca dell'antica casa veneziana dei Falier; e Giovanni, il minore. Se per i suoi primi tre figli il Marchese Enrico s'era dimostrato un padre severo, ma anche affettuoso, orgoglioso in particolare del primogenito ed erede Renier, il suo rapporto con il minore invece era sempre stato più freddo.

Venendo alla luce, Giovanni aveva infatti causato la morte della madre, la quale non era sopravvissuta al parto. Sebbene non lo avesse mai esplicitamente detto, Enrico Dandolo, che amava grandemente sua moglie, in cuor suo aveva addossato la colpa al figlio, prendendo a nutrire un celato risentimento nei suoi confronti. Al risentimento s'era poi aggiunto il disprezzo derivato da alcuni incresciosi episodi dell'adolescenza del ragazzo, e ciò l'aveva convinto ad allontanare il figlio minore. A diciassette anni, Giovanni era sta mandato a Venezia, sull'isola di Rialto, presso il quartier generale dell'Ordine Marciano, affinché prendesse l'ordine di obbedienza e vi entrasse quale membro laico, venendo là educato.

La qual cosa si era rivelata, contro ogni iniziale aspettativa, la sua fortuna.

Grazie alla sua acuta intelligenza, Giovanni aveva ampliato enormemente la sua cultura, imparando a parlare e scrivere fluentemente in latino, francese e, soprattutto, in greco; aveva appreso le basi e le sfumature del diritto, così anche quelle della retorica, della grammatica e della teologia. Essendo un aristocratico, era stato istruito inoltre nell'arte militare, nella strategia come nella tattica, nelle cose della politica e del denaro, ed in tutte le faccende della gestione dell'Ordine. La sua grande ambizione, poi, unita ad una mente che difficilmente si lasciava imbrigliare dagli schemi, gli aveva permesso con gli anni di scalare velocemente la gerarchia marciana.

Aveva ventiquattro anni ed era Cavaliere Generale dell'Ordine, quando era riuscito, con un notevole esercizio di mascherata persuasione, a convincere il Doge, di cui era divenuto fido consigliere, a rinunciare alla carica di Gran Maestro. Il Doge Vitale II Morosini-Michiel era stato infatti sempre più preso ed oberato dalle questioni dello Stato. Poi era venuta la guerra, che l'aveva affaticato nell'animo come nelle forze, una guerra difficile e sanguinosa da condurre, la quale aveva travalicato le previsioni iniziali e aveva preso a consumare molte più risorse umane ed economiche di quanto si fosse pensato. Il fatto poi che non si prospettasse una fine prossima del conflitto acuiva la tensione in tutta la Repubblica, ed in special modo nel Consiglio, contro le lagnanze e gli intrighi politici del quale Vitale II era costretto quotidianamente a scontrarsi. Egli era un uomo mite, poco incline alla collera, diligente, riflessivo e niente affatto stolto, addirittura lungimirante, talvolta; ma era anche un uomo inadatto alla guerra. E questo Giovanni Dandolo l'aveva capito perfettamente.

Nel 1169, il Doge aveva rinunciato alla sua carica di capo dell'Ordine e l'aveva rimessa al Capitolo Generale, che aveva quindi eletto Giovanni Dandolo secondo Gran Maestro nella breve storia dell'organizzazione monastica, facendo di lui uno degli uomini più potenti della Repubblica. Sotto la sua guida, l'Ordine era cresciuto velocemente in potere e ricchezza, aumentando il numero delle sue terre, delle abbazie e la forza del proprio braccio armato. Aveva incamerato beni, donazioni, diritti e, non ultime, tutte le ricchezze che aveva confiscato nei territori bizantini occupati. Tanti libri, pergamene e manoscritti erano confluiti nelle sue mani, che le biblioteche della sedi marciane abbondavano della cultura secolare di mezzo Mediterraneo.

Nonostante fossero ormai passati cinque anni, ancora si raccontava talvolta di come, un po' stranamente, il Marchese Enrico Dandolo fosse morto poco dopo. C'era chi diceva che era spirato poiché consumato dal rancore verso quel figlio, praticamente esiliato, cui la Provvidenza aveva permesso di tornare così prepotentemente e beffardamente alla ribalta. Chi invece parlava di normali malanni dovuti alla vecchiaia. Chi ancora raccontava sottovoce di un calice avvelenato o di un sicario mandato dal figlio minore stesso, mosso da spirito vendicativo.

In ogni caso, due anni più tardi, allo scoppio della guerra, sempre a seguito dell'infaticabile opera di persuasione delle parole sussurrategli dal suo fido consigliere, il Doge Vitale aveva emanato un decreto col quale accordava diverse libertà e prerogative all'Ordine Marciano, tra le altre slegando il suo braccio militare ed il relativo comando dall'esercito statale. Ciò gli era stato prospettato come la soluzione più opportuna affinché, visto l'incombere della guerra con l'Impero Bizantino, l'Ordine potesse muoversi al meglio per contribuire alla vittoria di Venezia.

Ma nelle intenzioni di chi aveva ideato il progetto e convinto il Doge a farlo avverare, la nuova autonomia dell'Ordine aveva uno scopo diverso. Una volta divenuto Gran Maestro, Giovanni Dandolo aveva potuto dire conclusa la partita per la scalata all'Ordine. E aveva potuto darne inizio ad un'altra.

«Prego, siedi» lo invitò Niceforo Paleologo, facendo cenno alla sedia da campo drappeggiata. Il Gran Maestro dell'Ordine Marciano rappresentava, nei piani di Niceforo, la chiave per riuscire a strappare il trono romeo al Synbasileus Alessio e per accaparrarselo. Tuttavia, quell'uomo non mencava di metterlo in soggezione, spingendolo spesso a tentare, come in una sorta di inconscia compensazione, di impressionarlo con manifestazioni di ricchezza o potere, una delle quali era stata regalargli uno splendido incensiere in puro argento, cesellato nella guisa di una Chimera. Ma se era stato impressionato, nulla era mai trapelato dal volto del Dandolo. In ogni caso, Niceforo era certo di esser ormai riuscito a legarlo alla sua causa.

«Grazie» disse Giovanni Dandolo, con cortesia ma senza alcun calore. S'accomodò. «La tua ospitalità è sempre grande, persino in un luogo come questo».

«Una brutta tenda e due sedie non fanno di me un grande ospite» si schermì il Paleologo.

«Ma una sola grande sedia nel posto giusto farebbe di te un Basileus, dico bene?». Il Gran Maestro sorrise insinuante.

«Vero» disse cauto Niceforo. V'era qualcosa in quel sorriso che non lo faceva sentire a proprio agio.

«Hai portato la mappa, mio signore?» chiese il Gran Maestro.

«Sì, eccola». L'attendente bizantino pose sul tavolo il piccolo e lungo scrigno che aveva vegliato fino a quel momento.

«Sei certo che sia l'unica copia esistente?».

«Assolutamente» rispose con convinzione Niceforo, mentre apriva il cofanetto ligneo.

«Bene» approvò sottovoce Giovanni Dandolo, guardando l'altro che distendeva la pergamena sul tavolo. Su quella preziosa carta, l'unica riproduzione di un antica mappa risalente ai tempi dell'Imperatore Giustiniano ed aggiornata nel corso dei secoli da mani coscienziose, si basava il loro piano.

*


Finirono che il sole era ormai immerso per metà nella linea marina dell'orizzonte, per una parte nascosto alla vista dal piccolo promontorio occidentale alla fine della lunga insenatura. Il dromone bizantino, sempre fermo all'ancora, galleggiava placido sui flutti scarlatti alla stregua di un pigro uccello marino.

«Bene. Direi che abbiamo terminato, qui». Niceforo Paleologo s'alzò dalla sedia, imitato dal suo ospite, ed arrotolò con cautela la delicata pergamena della mappa, riponendola nello scrigno. «Sono splendidi i tramonti del nostro mare, non è vero?» chiese, girando lo sguardo verso il sole rosso.

Il Gran Maestro si astenne dal fargli notare che metà del “loro mare” era al momento sotto il controllo di Venezia. «Invero» convenne.

Niceforo stava per voltarsi verso di lui, per aggiungere un altro ameno commento, quando qualcosa attirò il suo sguardo.

La nera figura in controluce di un galea sottile, lunga e slanciata, era comparsa da dietro il piccolo promontorio e s'era avvicinata al dromone bizantino.

L'imbarcazione era tipica della flotta veneziana: un affusolato scafo, basso sulla superficie marina, lungo circa una cinquantina di metri e largo cinque, senza quasi alcunché a proteggere l'equipaggio dall'aria aperta se non un modestissimo castello di poppa e la stiva. I venticinque banchi di rematori che si stendevano in lunghezza erano praticamente l'unica cosa che occupava il ponte, eccetto per gli spazi necessari agli armati e alle baliste. Per quanto la brezza che spirava non fosse certo sostenuta, la nave, viaggiando controvento, non montava l'albero di cui poteva disporre e s'affidava alla sola forza dei remi. Ma anche così filava velocemente sulla linea del mare, tagliando rapida i flutti. Era grazie alla velocità e alla manovrabilità di quelle “lame del mare” – come avevano prese a chiamarle i marinai bizantini – che la flotta della Serenissima era andata imponendosi, in quei quattro anni e più di guerra, su quella bizantina.

Giovanni Dandolo seguì lo sguardo del suo compare romeo e, notata la galea veneziana, disse pacatamente, come se l'aspettasse: «Giusto in tempo».

“Dev'essere la sua nave...” fece appena in tempo a pensare Niceforo, lo sguardo fisso sul mare, quand'ecco che dalla galea sottile partì una fitta selva di linee scarlatte contro il profilo ben più tozzo e alto del dromone.

“Frecce incendiarie!”. Niceforo era basito e allarmato. Due linee rossastre e fiammeggianti, più grosse e pronunciate della miriade di quelle di prima, si allontanarono anch'esse velocissime verso la nave bizantina allorché le due grandi baliste prodiere della galea veneziana scagliarono i loro dardi incendiati.

“Dannazione! Sono venuti da occidente. I nostri con il sole in faccia e con loro così bassi sul mare non devono essersi accorti di nulla. Ma se quella nave è sua, allora...” concluse tra sé con il panico che aumentava. Si voltò di scatto, sbraitando con tono incerto: «Gran Maestro, che cosa significa tutto que...».

Gocce di sangue gli schizzarono il volto.

Vide il suo attendente, lì appresso, stramazzare al suolo con le mani che si stringevano la gola nel vano tentativo di richiudere il rosso squarcio dal quale, assieme al sangue, gli fuoriusciva la vita. Dietro, in piedi, stava il Gran Maestro Giovanni, una sottile daga insanguinata stretta nella mano destra, mentre la sinistra teneva il cofanetto della preziosa mappa. Sul suo volto era dipinta l'espressione del gatto che tiene tra gli artigli il topo.

Diversi dardi sibilarono nell'aria, scoccati dalle balestre di un gruppo di armigeri nascosto all'ombra dei pini marittimi. I corpi dei bizantini caddero sulla sabbia, che bevve avidamente il sangue sparso. Gli ultimi due soldati romei ancora in piedi furono uccisi dalle spade dei cavalieri dell'Ordine che accompagnavano il Gran Maestro. L'intero, fulmineo massacro era durato meno di dieci secondi.

Niceforo Paleologo, tremante, tentò di arretrare da dove si trovava. Incespicò nella sedia da campo e cadde a terra, riverso sulla schiena. Lo scudiero del Dandolo gli pose un piede sul petto, trattenendolo al suolo, e gli punto la spada alla gola. «Ti arrendi?» chiese in tono ironico.

I balestrieri dell'Ordine uscirono dai propri nascondigli e li raggiunsero, mentre Giovanni Dandolo scrutava il mare. Non una goccia di sudore gli imperlava il volto, nessun tremito lo scuoteva né il respiro rilassato dava la minima impressione che avesse appena sgozzato un uomo.

La parte centrale del dromone aveva preso fuoco. L'incendio s'era avviluppato all'albero, alle sartie ed alla vela ammainata; più in basso, implacabile, avanzava lentamente, accingendosi a divorare sia la prua che la poppa dell'imbarcazione bizantina, fino a quel momento ancora illese. La galea veneziana, frattanto, i remi che si muovevano rapidi e all'unisono, stava effettuando una ampia curva che, oltrepassata la poppa bizantina, l'avrebbe portata fianco a fianco alla murata del dromone, alla portata del tiro dei balestrieri veneziani. Gli arcieri continuavano, dal canto loro, a lanciare frecce incendiarie contro la nave nemica, dalla quale, sempre più numerose, piccole figure nere si gettavano in mare, alcune avvolte dalle fiamme.

«Prendete tutto: tavolo, sedie, tenda e drappi. Bruciateli e gettateli poi in acqua» ordinò il Gran Maestro.

«E i loro cavalli, mio signore?».

«Li portiamo con noi».

Prese a camminare sulla sabbia per raggiungere le cavalcature. Gli armigeri dell'Ordine fecero bruscamente alzare Niceforo Paleologo, il quale ancora stentava a capacitarsi di essere vivo, per legargli le mani.

«Tu mi hai tradito!» trovò la forza di gridare al candido strascico svolazzante del Gran Maestro, che s'allontanava dandogli la schiena. Una risata di scherno scosse Giovanni Dandolo, senza che egli arrestasse il cammino o si girasse. Gli arrivarono però le sue parole: «Credevi davvero che mi sarei lasciato coinvolgere nel tuo ingenuo e sconclusionato piano? Sciocco amico mio...». Il tono era quasi compassionevole.

«Bastardo! – urlò Niceforo con la forza della disperazione – Che ne farai di me!?».

La bianca figura allora si fermò, voltandosi lentamente. Gli imperscrutabili occhi verdi e rame che lo trafiggevano da parte a parte, le labbra chiuse in una smorfia indecifrabile. Brividi corsero lungo la schiena del Paleologo.

«Non so, ancora non ho deciso» si limitò a dire Giovanni, lentamente, come se stesse emettendo una sentenza ineluttabile per pronunciare la quale ci si poteva prendere tutto il tempo necessario. Voltatosi nuovamente, riprese a camminare, celando un ghigno di soddisfazione.

Sapeva esattamente che cosa ne avrebbe fatto di lui.
[Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 21:24]




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