Medieval 2 Total War
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I mari della Serenissima

Ultimo Aggiornamento: 08/04/2014 01:06
07/06/2013 01:41
 
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Capitolo VII
Il prezzo degli incensieri




Nicosia, 12 febbraio 1174.

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La ragazza ansimava sotto di lui. I mugolii che mandava erano un tutt'uno con le ritmiche spinte dei lombi di lui. E più i gemiti si facevano intensi, più lui serrava il ritmo.

Fuori dalla finestra, il cielo era pesantemente plumbeo, irrorato della soffusa luce aranciata dei raggi dell'alba. V'era qualcosa di sinistro in quella coperta di nubi, quasi fosse un sudario steso per soffocare il respiro della città.

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Un uomo in cotta di maglia e veste marchiata dal leone di San Marco bussò alla porta e, senza aspettare risposta, entrò nella stanza. Non si scompose minimamente alla vista dei due affaccendati nel rozzo letto di legno e paglia.

Con fare famigliare ed un mezzo sorrisetto divertito, disse: «Quando hai finito, capitano, qui ci sono poi i dispacci che aspettavamo. Ed anche la richiesta delle navi dell'Ordine per lasciare Famagusta. L'ufficiale del porto aspetta il tuo nullaosta. Ma fai pure con comodo...».

Equilio Niccoli, capitano dell'esercito veneziano e governatore pro tempore di Nicosia, eruppe in un ansimante grugnito pieno di soddisfazione. Dopo qualche secondo si staccò dal corpo di lei, i seni che ancora s'abbassavano e s'alzavano per il fiato grosso, e si portò nudo al tavolo dove il suo attendente aveva poggiato i dispacci.

«Non si può più neanche scopare un attimo in santa pace senza che non arriva una qualche stramaledetta richiesta da quelli dello stramaledetto Ordine! Grazie a Dio se ne vanno!».

«Sono sicuro che tua moglie è dello stesso parere, Capitano. Ricordi tua moglie, sì? Quella bionda... laggiù a Pola... ad aspettarti...» lo canzonò tutto divertito l'attendente.

«Hah! Sono quasi due anni che non la vedo e un uomo che sia un uomo non può stare certo due anni lontano da una donna! E poi la mia Elena qui è molto più brava di mia moglie in certe cose...» disse ammiccando alla ragazza nel letto.

«Lo sai che puoi avere il letto ed il palazzo del vecchio governatore bizantino invece di 'sto tugurio, se solo lo vuoi, vero?».

Il capitano Equilio era sempre stato un tipo dalle pretese modeste, per quanto a donne e a lotte i suoi appetiti fossero abbastanza voraci. Originario dell'Istria e di umili natali, era stato scudiero fino a quando non si era distinto al servizio del Marchese Enrico Polani. Era stato allora fatto cavaliere. La guerra l'aveva abbastanza favorito, ed ora era lì a governare l'occupazione di Cipro, mentre i nobili e gli altri candidati migliori proseguivano i combattimenti in Attica.

«Questo tugurio – disse egli – è già molto meglio di casa tua, tanto per cominciare. Ricordi la tua casa, vero? Quella catapecchia... laggiù in Dalmazia... ad aspettarti... E poi io sono un soldato. Tutte quelle sciccherie lasciamole ai bizantini ed ai nostri illustri nobili a Venezia... Bizantini travestiti da veneziani, ecco cosa sono i nostri patrizi! Che ci fanno combattere questa dannata guerra soltanto per rubare i dannatissimi incensieri ai loro simili, i veri bizantini!».

«Capitano!» esclamò l'attendente un poco allarmato. «Non dovresti dire...».

«Sì sì, lo so: anche i muri hanno orecchie, eccetera eccetera. Perché laggiù nelle grandi case di Venezia cagano oro e tutti sono pronti e raccoglierlo e a fare le spie per loro, eccetera eccetera...».

Il silenzio calò un attimo fra i due. La ragazza era ancora nel letto vicino alla parete. Pareva addormentata. Equilio scacciò nervosamente il sospettoso pensiero che ella stessa potesse essere una di quelle spie delle grandi case di Venezia ed avvicinò il calamaio al foglio con finta noncuranza.

«Li lasci partire, quindi?».

«Perché, vuoi che restino qui con noi?».

«No, ma... Sono un terzo degli uomini armati che abbiamo sull'isola...».

«Un terzo che non è mai stato a nostra disposizione» affermò risoluto Equilio.

Firmò il foglio del nullaosta per le navi dell'Ordine Marciano e lo ripiegò, dandolo al soldato. «Per più di un anno non ci sono stati di nessun aiuto! Non hanno fatto altro che perquisire tutta Cipro da cima a fondo, portando via libri, pergamene, reliquie, ori e argenti. Ho persino dovuto ordinare che i soldati li lasciassero frugare tra i loro bottini di guerra per vedere se c'era qualcosa che gli garbava a loro!». Scosse la testa. «Non c'è nulla di peggio per un capitano che lasciar portar via ai propri soldati il bottino duramente guadagnato. E noi sempre lì a dirgli di sì e ad accontentarli in tutto: perché così erano gli ordini da Venezia! E ora che finalmente se ne vanno, tu li vuoi fermare!?».

Fece una pausa, una pausa che, a dispetto delle parole che aveva appena pronunciato, rivelava tutta la sua contrarietà al fatto di privarsi di un terzo dei soldati a sua disposizione.

«Lo sai, poi, che non li posso trattenere! Da quando il nostro vecchio Doge Vitale ha rinunciato alla carica di Gran Maestro e l'ha lasciata a quell'altro nobile là... Non ricordo mai il nome! Che è pure riuscito a fargli fare quel decreto sull'autonomia dell'Ordine... Insomma, da allora quelli dell'Ordine fanno sempre più quello che vogliono e il Doge giù a lasciarglielo fare. Se gli nego il nullaosta, loro partono lo stesso e poi sta' a vedere che dopo un mese m'arriva la strigliata dal Conte Polani da Atene! Sempre che il Conte non sia morto nel frattempo... Comunque, tanto vale lasciarli partire e non rodersi più il fegato».

L'attendente annuì. Prima di abbandonare la stanza informò Equilio: «Ah, Capitano! In piazza si sta ammassando un po' troppa gentaglia. Le persone accorrono anche dai quartieri delle mura. Si sta creando un po' troppa maretta, secondo me».

«Va bene, raduna gli uomini. Andiamo a disperderli». E finalmente prese a vestirsi.

*


L'isola di Cipro, estremo dominio sud-orientale rimasto all'Impero Bizantino dai tempi in cui i selgiuchidi avevano invaso il cuore dell'Anatolia, era stata occupata dai veneziani agli inizi dell'anno precedente, il 1173. La seconda grande isola del Mediterraneo orientale, Creta, era stata strappata dalle mani della Basileia poco dopo e da lì la grande squadra navale e terrestre veneziana, che era partita dal castello di Pola successivamente alla presa di Ras, aveva proseguito in direzione della Grecia.

La spedizione era invero possente: due terzi delle caserme della Repubblica erano state svuotate. E i veneziani avevano colpito là dove il nemico era più vulnerabile. Con la gran parte delle sue forze impegnate nell'area balcanica a contrastare la Serenissima, l'Ungheria ed il Khanato Cumano, il Basileus era stato costretto a sguarnire le coste e le terre più orientali. L'esercito bizantino era ancora poderoso e di gran lunga più numeroso di ognuna delle controparti avversarie. Ma tre nemici da combattere contemporaneamente su di un fronte così ampio potevano facilmente mettere a dura prova persino una forza come quella. E così infatti stavano facendo.

Venezia aveva dunque attaccato all'estremo est dell'Impero, a Cipro, per poi ritornare verso ovest, a Creta, sbarcare nel Peloponneso, prendendo Malvasia, ed infine invadere l'Attica e la mitica Atene. Era là che ora si combatteva la guerra, con gli eserciti bizantini che finalmente erano stati mobilitati e riportati a sud del fronte balcanico, per affrontare il colpo di lama inferto dalla Repubblica in Grecia.

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Ma lì sull'isola di Cipro, la modesta guarnigione rimasta di stanza doveva vedersela con un nemico differente: il malcontento. Non passava mese in cui non ci fossero disordini o piccole ribellioni ed in cui qualche sacca di guerriglieri e briganti si formasse nei selvatici dintorni di Nicosia o di Famagusta. La maggior parte dei disordini erano dovuti a fame e povertà: il pane era sempre meno e costava sempre più; tutte le vettovaglie possibili erano confiscate e mandate con le salmerie in Grecia; le tasse per sostenere lo sforzo bellico erano soffocanti non solo per i contadini, ma anche per artigiani, bottegai e signori. Per le strade non era raro udire cose come: "si stava meglio sotto il Basileus che sotto questi famelici leoni".

Spesso e volentieri, però, quelle piccole rivolte si risolvevano senza provocare danni, e venivano facilmente sedate sotto qualche zoccolo di cavallo e qualche colpo di spada. "Sempre la solita storia" pensava infatti il capitano Equilio Niccoli mentre si avviava in sella alla piazza del mercato, seguito da una ventina di cavalieri e da una compagnia di lancieri pavesi.

Quando sbucò nella piazza da una delle vie secondarie, s'accorse tuttavia che le cose non stavano effettivamente come aveva immaginato.

Una grande calca ingombrava tutto il centro ed il lato opposto della piazza. Altra gente non smetteva di accorrere dalle stradine vicine. Gente lacera, affamata, con uno sguardo avido, iracondo e disperato ad un tempo. Al centro di quel marasma umano v'era un piccolo palco che altro non era che un macilento carro cui era stato slegato il bue. Sul carro stava in piedi un uomo esile, il fervore del cui volto però rendeva quasi imponente la sua figura.

Dalle consunte vesti nere, Equilio capì subito che doveva trattarsi di un prete ortodosso... evidentemente uno di quei pochi che non erano fuggiti o si erano nascosti all'arrivo dell'Ordine Marciano.

Il mare di gente si muoveva quasi all'unisono con le esclamazioni dell'uomo, il rumoreggiare della folla che ondeggiava ritmico e continuo in sintonia con il vento di parole emesso dal prete in nero. Un fiume di parole greche che teneva fissa l'attenzione del suo variegato e sussultante pubblico, che lo faceva zittire quando quasi si avvicinava al sussurro e lo faceva subito dopo gridare infervorato od acclamare con rabbia quando s'alzava quasi ai limiti di un urlo.

Quanto gli sarebbe piaciuto capire che cosa diamine stava dicendo quel prete mingherlino... Dannato greco! E dannati interpreti dell'Ordine! Dove diavolo erano per una volta che si aveva bisogno di loro!? Già in alto mare, probabilmente.

Il prete ortodosso arrivò ad un punto del suo comizio particolarmente infervorato, la faccia paonazza nello sforzo di mantenere un tono grave e forte che potesse arrivare a tutti gli astanti, gli occhi adombrati di un velo quasi mistico di sacro furore. Anche se il capitano Equilio non comprese che poche parole, non gli riuscì difficile immaginare il senso generale di quelle esclamazioni.

«E i cani veneziani sono venuti dal mare a portarci via tutto. Hanno saccheggiato i nostri villaggi, hanno profanato le nostre case e le nostre mogli e le nostre figlie. Noi siamo stati remissivi, perché la remissione è gradita agli occhi di Dio nostro padre.

«Ma loro, non contenti, insaziabili nella loro famelica avidità, hanno preteso oro e pane e tasse e il nostro raccolto e i nostri guadagni e di nuovo le nostre mogli e le nostre figlie. Io dico che, giunti a questo punto, la nostra remissione non compiace più Iddio onnipotente! Hanno affamato i nostri corpi, li hanno piegati e martoriati. E volevano anche prenderci le nostre anime immortali! Loro che sono traviati dall'eresia papista, che sono senza Dio, che hanno rigettato la vera via di Cristo nostro signore e che per questo verranno dannati per i secoli dei secoli... loro volevano traviare anche noi con le loro fedi distorte, volevano far dannare anche noi se solo gli avessimo dato retta!

«La nostra fede è stata più forte, tuttavia. E noi dobbiamo avere fede. Sì, dobbiamo avere fede! In Dio misericordioso. E nel nostro Basileus, suo grande servo. Solo il nostro Basileus, unto dal santo Patriarca a Costantinopoli, ha il diritto di governarci! Poiché egli è giusto. Egli è retto e pio e combatte queste voraci locuste, immonde ed avide, che infestano il nostro mare e la nostra isola. Il nostro grande signore darà loro la morte per tutti i crimini di cui si sono insozzati. Perché i cani veneziani meritano di morire!

«Viva il Basileus! A morte i veneziani!» concluse, all'apice del climax di invettive, il prete ortodosso. E tutta la folla, ruggente e feroce, rispose: «Viva il Basileus! A morte i veneziani! Viva il Basileus! A morte i veneziani!».

Il boato delle urla spaventò alcuni dei cavalli, già innervositi, dei veneziani, che si impennarono e lanciarono striduli nitriti nell'aria. Al che, la massa di gente lì adunata, che ancora non aveva prestato attenzione ai soldati giunti alle sue spalle, si girò quasi fosse un unica creatura e si zittì un momento.

Poi riprese a gridare le proprie invettive, ancora più forte e più decisa di prima: «Viva il Basileus! A morte i veneziani!». Qualcuno in mezzo alla calca prese a lanciare qualche sasso e qualche frutto marcio.

"Ora basta!" si spazientì il capitano Equilio. «Ora basta!» disse ai suoi, dando voce ai propri pensieri. «Ne ho avuto abbastanza di questo teatrino! Disperdiamo questi zotici!».

Estrasse la spada e diede di sprone. Gli altri cavalieri fecero lo stesso.

«Carica!» urlò, spingendo il cavallo al galoppo contro il muro di persone assiepate nella pizza.

Il piccolo manipolo di cavalieri s'abbatté contro la calca, spade e lance in pugno. Lo spazio ristretto, tuttavia, non permise loro di guadagnare grande slancio e l'impatto riuscì a travolgere solo qualche decina di persone, senza frantumare la compattezza della folla roboante. Equilio sentì il secco schianto di ossa che si rompevano e di toraci che venivano sfondati dagli zoccoli dei cavalli. In un attimo vennero arrestati e circondati da ogni lato. Piovevano pietre e colpi di bastone e zappe, ed anche fendenti di qualche forcone. Qua e là baluginavano sparuti pugnali e daghe.

I cavalieri furono disarcionati e sopraffatti ed annegarono in quel mare umano che li attorniava da tutti i lati. L'ultima cosa che Equilio sentì fu la sensazione di essere artigliato da centinaia di mani che lo germivano e volevano strappargli via ogni cosa: le vesti, la cotta di maglia, l'elmo, la pelle, gli occhi, gli arti. Poi un grosso sasso gli sfondò il cranio, spargendo le sue cervella sul selciato della piazza.

Ai lancieri pavesi, lasciati indietro dalla carica dei cavalieri, non rimase altro da fare se non stringersi in formazione per sbarrare il passo alla marea umana che ora, demoniaca e senza più freni, puntava caracollando nella loro direzione. E sperare di resistergli. Ma erano troppo pochi.

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*


In una grigia stanza di pietra, da qualche parte sulle coste del Mediterraneo, il rossore del crepuscolo riempiva l'ambiente di ombre. E dava sanguigna consistenza alle lievi spire di fumo profumato che emanavano dall'incensiere lì vicino. Era uno splendido pezzo di arte orafa bizantina, interamente d'argento e modellato nella forma del mostro mitologico della Chimera. I sentori dell'incenso fuoriscivano in eterei rivoli dalle fauci leonine spalancate e si disperdevano per la sala.

Nella penombra sedevano due uomini. Tra loro v'era un alto tavolino su cui era poggiata una scacchiera, intagliata in chiaro legno di rovere. Le pedine, un poco tozze, erano scolpite in piccole figure di pietra. Il tavolino era illuminato da un fiotto di luce scarlatta che pioveva dalla piccola bifora nel muro accanto.

L'uomo che muoveva i bianchi indossava una ricca veste di velluto scuro, mentre colui che muoveva i neri era ammantato in una pesante tunica candida, orlata con fili argentati e con impresso sul petto un marchio particolare: una croce greca rosso sangue con impresso sopra, al centro, il leone alato dell'evangelista.

«Che magnifico turibolo è quello» commentò distrattamente l'uomo dalla veste di velluto, mentre teneva sollevato uno dei suoi pezzi, indeciso sulla mossa da fare.

«Un regalo. Da parte di uno sciocco... amico. M'è stato detto che è opera di un mastro orafo che risiede a Tessalonica, assai famoso per la sua bravura».

«Se questa è la considerazione che nutri per amici che ti fanno regali tanto magnifici, non oso immaginare cosa tu possa pensare di me» rispose l'altro con un mezzo sorriso, gli occhi fissi sulla scacchiera ed il pezzo finalmente posizionato su una delle caselle.

«Oh, Ruggero, non ti devi preoccupare. Tu non sei affatto uno sciocco. Altrimenti non saresti qui oggi a giocare a scacchi con me...».

«Mio signore». Un servitore era entrato dall'apertura a sesto acuto priva di porta della sala. «Ci sono giunte notizie: Nicosia si è ribellata. In tutta Cipro si stanno moltiplicando i tumulti».

«Dunque, è cominciata» si limitò a constatare l'uomo dalle vesti bianche. La sua voce, fredda e al tempo stesso vellutata, era quasi un sussurro.

«Cosa facciamo ora?» chiese l'altro.

«Muoviamo le nostre pedine, amico mio». E, preso l'alfiere nero con le lunghe dita, lo posizionò vicino al re bianco. «Scacco».
[Modificato da ~ Cerbero ~ 22/10/2013 23:47]




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