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Gli Ordini Mendicanti -Francescani e Domenicani - e la Predicazione

Ultimo Aggiornamento: 26/01/2013 15:38
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26/01/2013 14:28

La predicazione nell'età comunale

di Carlo Delcorno

Tratto da Carlo Delcorno, La predicazione nell'età comunale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1974
(riprodotto con il permesso dell'autore e dell'editore)

© 1974-2005 – Carlo Delcorno

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Indice


Bibliografia

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Premessa

La storia della predicazione è «solo un aspetto della vita movimentata della Chiesa» (Schneyer); di per sé richiederebbe una trattazione globale, da Cristo ai nostri giorni, dove fosse possibile cogliere la continuità e la varietà di un tipo di letteratura eccezionalmente importante per la formazione della cultura e delle lingue nazionali dei popoli europei.

Vi sono caratteristiche strutturali che, a prima lettura, permettono di distinguere da un'omelia dei Padri o da una predica barocca un sermone dell'età scolastica. Meno facile è distinguere un sermone medievale da uno dell'età umanistica poiché, nonostante le innovazioni tematiche e gli adattamenti morfologici, la predicazione perpetua le stesse strutture fino al maturo Rinascimento. I teorici delle Artes praedicandi, che fioriscono tra il XII e il XV secolo, definiscono «moderno» il tipo di sermone le cui regole sono fissate a partire dal XIII secolo. L'aggettivo (modernus), usato così frequentemente dagli scrittori del Duecento per sottolineare la novità di una cultura a base logico-scientifica, vuole caratterizzare la perfezione tecnica del nuovo sermo, costruito secondo i precetti della dialettica, ricco dei nuovi contenuti elaborati dalla Scolastica.

Ci muoveremo nell'àmbito della predicazione moderna o scolastica, dall'inizio del XIII secolo alla fine del XIV secolo, quando, particolarmente in Italia, le nuove forme di cultura e di spiritualità che vanno sotto il nome di Umanesimo incidono anche sul genere omiletico. Il discorso sarà delimitato da una parte dell'apparizione dell'ordine dei Predicatori, dall'altra dalla diffusione del sermone come mezzo di espressione del laicato. La predicazione medievale è internazionale, legata ai, nuovi ordini Mendicanti (francescani e domenicani), i quali sfuggono al particolarismo delle Diocesi e sono piuttosto connessi alla vita delle grandi Università europee (Parigi, Oxford, Bologna): ha dunque un orientamento amplissimo e una capacità di penetrazione ecumenica. L'angolo di visuale di un italianista deve essere forzatamente riduttivo.
Occorre innanzitutto fissare limiti geografici: alcuni dei più grandi predicatori dell'epoca, pur essendo nati in Italia, recitano i loro sermoni a Parigi, davanti agli studenti dell'Università; ci sforzeremo di fissare la nostra attenzione sulle grandi città italiane, in particolare sui comuni dell'Italia centro-settentrionale. In parte dovremo sacrificare i livelli alti della predicazione per cogliere le dimensioni sociologicamente più interessanti, cioè le forme di predicazione in cui la cultura clericale, di lingua latina, viene proposta in volgare al vasto pubblico delle città.


1. Il pubblico

L'attenzione al pubblico è uno dei canoni fondamentali che la retorica sacra medievale eredita da quella antica. Sant'Agostino, studiando nel De doctrina christiana le circostanze in cui avviene la predica, seguendo uno schema fissato già dai grandi maestri della scuola classica (da Cicerone a Quintiliano), considera «chi parla, dove, quando, perché, come, davanti a chi». È un'impostazione teorica comune a tutti gli autori di Artes praedicandi. Per Umberto di Romans, quinto maestro generale dell'ordine domenicano, uno degli uomini che più influirono sulle prime generazioni dei frati predicatori, il sermone consiste soprattutto nel volgarizzamento presso gli strati più bassi della popolazione della dottrina acquisita nella scuola.

La predicazione – afferma nel De eruditione praedicatorum – deve essere come un canto («quasi quidam cantus»), il predicatore deve essere accetto come un giullare, abile come un mercante. Non serve intrattenere il clero e i laici più colti, ma è necessario piuttosto recarsi dove vi è maggiore necessità, nei luoghi meno popolati, perfino nelle campagne, dove nessuno osa spingersi. Nelle parole di Umberto si avverte un'urgenza reale: la cultura del clero deve rispondere alla sfida lanciata sia dai movimenti ereticali sia dalla nuova cultura volgare, laica, organizzata all'interno degli ordinamenti democratici del Comune. Mano a mano che si procede nel XIII secolo, la predicazione, rinnovata dai Mendicanti nella stretta dell'assedio delle sette ereticali, si incanala nelle forme più tranquille e grigie di una parenesi rivolta alla nuova classe di mercanti e di imprenditori, che reggono ormai la vita politica delle città.

Al pubblico vario e irrequieto del primo Duecento, aperto alle sollecitazioni dell'eresia, sensibile alle più drastiche proposte penitenziali e apocalittiche, succede un uditorio composto nelle salde strutture delle Confraternite laiche affiliate ai conventi francescani e domenicani. Ai temi teologici e aspramente penitenziali della predicazione duecentesca, che investe alle radici il significato del comportamento cristiano e propone una difficile, a volte rivoluzionaria, verifica sul modello di Cristo e della Chiesa primitiva, succede una tematica morale, quasi casuistica, che risponde punto per punto alle domande di una società opulenta, preoccupata di amministrare saggiamente la propria vita morale. Non è casuale che tanta parte della predicazione trecentesca, a cominciare da quella del Passavanti, tenda a cristallizzarsi nella forma del trattato.


2. La lingua

In un famoso Capitolare emanato dal Concilio di Tours nell'813, Carlomagno disponeva che i sermoni fossero tenuti al popolo «in rusticam romanam linguam», cioè nei volgari locali. Ovviamente non si deve credere che i predicatori si servissero di un volgare perfettamente elaborato e distinto dal latino. Il frammento di Valenciennes, registrato da un uditore nel IX secolo, è un esempio della lingua «rustica romana», la quale presenta «un'ossatura latina in cui si incastona il volgare» (Contini). Una «farcitura» analoga, ma più artificiosa, si riscontra in un documento del XII se colo, i Sermoni gallo-italici, provenienti dalla regione piemontese: in essi il latino si alterna con elementi francesi, provenzali e piemontesi. Ma in Francia, a partire dal XII secolo, in cui si assiste a una grande fioritura della predicazione popolare, non è raro imbattersi in sermoni totalmente redatti in volgare. Basti ricordare le omelie tenute tra il 1168 e il 1175 da Maurice de Sully, vescovo di Parigi. Poco più tardi la predicazione in volgare è documentata anche in Inghilterra e in Germania. In Italia occorre attendere l'alba del XIV secolo per trovare la prima ampia documentazione in volgare nel corpus delle prediche di fra Giordano da Pisa. Non che manchino testimonianze sulla predicazione in Italia precedenti a quell'epoca, anzi sono abbondanti, ma tutte ci sono giunte in veste latina. Federico Visconti, arcivescovo di Pisa (1254-1277) tenne spesso sermoni «in vulgari», come avvertono le rubriche del codice della Biblioteca Medicea Laurenziana (Firenze) che li conserva, ma essi sono trascritti in latino. Sembra che la prassi corrente prevedesse l'uso del latino nel sermone universitario o rivolto al clero, e riservasse il volgare alla predicazione per i laici, salvo a registrare anche quest'ultima in latino.

Questa tesi, sostenuta da illustri storici della predicazione (da Lecoy de la Marche all'Owst al Galletti), non va intesa in modo troppo rigido. Non è da escludere che, a volte, soprattutto fuori di Toscana, nelle regioni dove il volgare non era ancora giunto a un livello letterario, i predicatori si servissero di una lingua ibrida, mista di latino e di volgare. Il fenomeno, come ha rilevato la Lazzarini, è imponente nel Quattrocento, ma appare già dal XIII secolo. Espressioni in volgare si notano nei sermoni latini di Bartolomeo di Breganze, vescovo di Vicenza, e di Ambrogio Sansedoni di Siena. Fra Remigio de' Girolami ama introdurre nei suoi sermoni, tenuti in Santa Maria Novella, pittoresche locuzioni fiorentine. In uno schema di predica per la prima domenica di Quaresima, per descrivere la lotta tra Cristo e il diavolo nel deserto (Matteo 4, 1), egli ricorre alla terminologia della «lotta libera»:

Et nota quod diabolus primo expertus est si posset eum vincere a le pugnerecciole, scilicet cum lapidibus; secundo a le brachia, unde assumpsit et allegavit in manibus [Deuteronomio 6, 161]. Considera quomodo primo voluit ei dare la volta boccaia, quando dixit si cadens [Matteo 4, 9], secundo la volta del pecto o sopracapo.

[E nota che il diavolo prima cercò di vincerlo, se fosse possibile, a le pugnerecciole, cioè con le pietre; poi a le brachia, e perciò prese e allegò un passo del Deuteronomio essi (gli angeli) ti porteranno sulle mani. Considera come dapprima gli volle dare la volta boccaia, quando disse se in ginocchio mi adorerai; poi la volta del petto o sopracapo].

Uno studio sistematico della tradizione manoscritta della predicazione due-trecentesca raccoglierebbe una documentazione interessantissima sulla diffusione di questa lingua ibrida peculiare dei predicatori.

3. La predicazione degli eretici

I movimenti ereticali hanno condizionato per certi aspetti la mentalità e l'opera dei fondatori degli ordini Mendicanti; certo la nuova predicazione cattolica fa conto delle esperienze compiute in questo campo dagli avversari. Purtroppo non c'è rimasto quasi nulla della predicazione degli eretici: l'unica reliquia è rappresentata dalla predica conservata dal rituale di liturgia catara, pubblicato dal Dondaine in appendice al Liber de duobus principiis. Possiamo farcene un'idea attraverso gli atti dell'Inquisizione (istituita nel 1233) e le testimonianze degli scrittori cattolici.

I capi delle sette ereticali sono innanzitutto geniali predicatori, capaci di piegare il volgare a strumento di una capillare penetrazione degli ambienti urbani. Il Tractatus de hereticis di Anselmo d'Alessandria riferisce che Marco di Concorezzo, primo diffusore della eresia catara in Italia, creato diacono a Napoli dal vescovo eretico, si diede a un'intensa predicazione «in Lombardia, et postea in Marchia, et postea in Tuscia» suscitando un'entusiastica adesione alla nuova setta. Valdo, il fondatore della setta dei Poveri di Lione, che prese da lui il nome (Valdesi), si rivolge al popolo lionese nella sua lingua, con una predicazione evangelica, basata sul commento del Nuovo Testamento tradotto in volgare. L'abilità nel maneggiare la Scrittura, la finezza della penetrazione psicologica è una caratteristica che accomuna tutti gli eretici: lo nota con preoccupazione Gioacchino da Fiore nella Expositio in Apocalypsim, identificando gli eretici con le locuste dell' Apocalisse (cap. 10).

La tecnica dei missionari eretici è sostanzialmente ispirata alla primitiva predicazione apostolica. Bernardo Gui, nel suo celebre Manuale dell'Inquisitore, dedica un capitolo al modo di insegnare tenuto dai Valdesi (v. TESTO N. 1). Passata la fase della tolleranza e delle discussioni pubbliche coi cattolici, costretti alla prudenza, gli eretici si radunano in luoghi privati. Tema della loro predicazione, affidata ai «perfetti», è il comportamento dei veri cristiani in base al Vangelo: essi parlano (come faranno i francescani) «delle virtù e delle buone opere, e della fuga dai vizi»; ma poi passano ad attaccare le istituzioni ecclesiastiche giudicate indegne del modello evangelico. I Valdesi predicano per lo più nelle case dei «credenti», ma anche per le vie della città o per le strade fuori dell'abitato.

Altri eretici, come gli Apostoli di Gerardo Segarelli di Parma, danno la preferenza alla predicazione itinerante, proclamando la penitenza per i paesi, sulle piazze e dovunque si imbattono in potenziali uditori. Al di là delle differenze dottrinali, tutti i movimenti ereticali sono d'accordo nel proporre un tipo di predicazione del tutto diverso da quello ex cathedra, che da secoli era affidato e limitato al vescovo. Si tratta, per quanto si può ricavare dalle testimonianze indirette di parte cattolica, di una predicazione adatta alla mentalità, all'ambiente, alla lingua di gruppi in generale non troppo numerosi, basata sulla lettura del Vangelo, tradotto in volgare, e sull'interpretazione letterale e spontanea della Parola di Dio. Queste caratteristiche del sermone ereticale saranno riprese nei loro valori positivi dai grandi predicatori francescani e domenicani.


[Modificato da Caterina63 26/01/2013 14:32]
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4. Gli ordini Mendicanti

Per Domenico di Guzman il contatto con l'eresia albigese, avvenuto a Tolosa nel 1203, fu decisivo. Nato a Caleruega, nella Vecchia Castiglia (Burgos), nel 1170, egli aveva ricevuto una formazione agostiniana, basata sullo studio prolungato della Scrittura. Il giovane canonico, cresciuto finora in un ambiente raccolto di tipo monacale, muta radicalmente, sotto l'urto della realtà, il suo orientamento spirituale, che da contemplativo diventa ferventemente missionario. I primi passi della nuova esperienza egli li compie sotto la protezione del vescovo Diego d'Asma, che organizza nel 1306 una serie di dispute pubbliche con gli albigesi, nelle quali brilla l'erudizione scritturale del santo. Secondo le fonti biografiche Domenico continua la sua opera missionaria anche durante la terribile Crociata bandita contro gli Albigesi da Innocenzo III (1208-1214). In questi anni difficilissimi si definisce sempre più chiaro nella mente del santo un tipo nuovo di religioso, che ponga al centro della sua attività la predicazione ai laici.

L'idea è presentata a Innocenzo III durante il Concilio Laterano II (1215), ma il papa, che fiuta in ogni novità il pericolo dell'eresia, esorta Domenico a scegliere per suoi predicatori una delle grandi regole monastiche esistenti. È comprensibile che questi, tornato a Tolosa, decidesse di aderire alla regola agostiniana, nella quale era cresciuto, e che meglio di ogni altra sottolineava il taglio intellettuale e l'esigenza contemplativa strettamente funzionale, nella concezione domenicana, al momento missionario (v. TESTO N. 2). Le linee principali e originali del nuovo ordine sono già chiare: quando il vescovo di Tolosa, Folco, dona a Domenico la chiesa di Saint-Roman (1216), il santo si preoccupa di costruire un chiostro con celle abbastanza comode per studiare e dormire; il problema della povertà non si pone neppure. Onorio II conferma nello stesso anno la Regola dei Predicatori, detti «figli speciali» della Santa Sede. Negli anni successivi la conoscenza diretta del grande movimento francescano indurrà san Domenico a trasformare l'ordine dei Canonici Predicatori in un ordine Mendicante. Ciò verrà sancito nel Capitolo Generale di Bologna del 1220, dopo l'incontro con san Francesco a Roma e l'esperienza esaltante del Capitolo Generale della Porziuncola del 1218, al quale Domenico assistette con il cardinale Ugolino d'Ostia, l'uomo che, divenuto papa Gregorio IX, sarà destinato a canonizzare i due santi fondatori degli ordini mendicanti.

Domenico di Guzman, nato da famiglia di antica nobiltà, a servizio della gerarchia ecclesiastica, pronto a impossessarsi della migliore cultura e a rinnovarla all'interno dell'Università, fa certo un singolare contrasto con Francesco d'Assisi, un uomo di estrazione e di cultura borghese, riluttante a codificare la sua esperienza religiosa in una qualsiasi Regola, che solo dopo molte perplessità e travagli gli sarà per così dire strappata dall'abile cardinale Ugolino. L'opposizione tra questi diversi ambienti e temperamenti è innegabile, ma non va troppo schematizzata, sulla traccia di alcuni celebri biografi di san Francesco, a partire dal Sabatier. Non bisogna dimenticare che anche l'ordine domenicano, soprattutto nel ramo femminile, conosce fin dalle origini modelli religiosi di un'estrema povertà e semplicità (come Diana d'Andalò); e che san Francesco, pur nella sua originalità, cerca puntigliosamente l'autorizzazione della gerarchia, e persegue con grande intelligenza e chiarezza il recupero delle aspirazioni, delle esperienze manifestatesi drammaticamente nei movimenti penitenziali e nelle eresie del secolo precedente. La genialità di san Francesco sembra proprio consistere nella capacità di liberare ed esprimere nell'àmbito dell'ortodossia le urgenze di una sensibilità popolare, troppo spesso esclusa da un'autentica partecipazione alla vita religiosa, o peggio repressa quando si manifesta nelle forme ereticali.

Il momento cruciale della conversione di Francesco, figlio del ricco mercante assisiate Pietro Bernardone, si colloca nel febbraio del 1209: ascoltando il Vangelo della missione degli apostoli secondo Matteo (10, 7-14) egli individua il nucleo di quella Regula evangelii che l'anno dopo verrà verbalmente approvata da Innocenzo III, e nel contempo trova i temi essenziali della sua predicazione: «regnum Dei, contemptus mundi, abnegatio», come dirà il suo biografo Tommaso da Celano. Per san Francesco predicare è soprattutto dare l'esempio di un modello di vita diverso da quello mondano: prima che colla parola si predica con tutta la persona atteggiata secondo l'esempio di Cristo. Vi è addirittura un momento, nel 1215, in cui il santo dubita della sua missione di predicatore: solo l'incoraggiamento di fra Silvestro e di Chiara d'Assisi lo inducono a iniziare quella predicazione itinerante per l'Umbria, luminosamente inaugurata dalla famosa predica agli uccelli presso Bevagna. Non ci è giunta nessuna predica di san Francesco, ma sappiamo da testimonianze coeve che essa fu geniale e irripetibile, e che esorbitava dalle tecniche consuete del sermone latino, insegnate nella Facoltà di teologia lungo tutto il XII secolo. Nel 1213, giunto al castello di Montefeltro, egli improvvisa un'allocuzione sul thema, di gusto lirico cortese:

"Tanto è il bene ch'aspetto
i ch'ogni pena m'è diletto."

Il gesto acquista tutto il suo significato rivoluzionario, se si pensa che le Artes praedicandi, apparse già nel XII secolo, condannavano l'uso di qualsiasi thema che non derivasse dalle Scritture. È certo che Francesco doveva contare su qualità mimetiche, su una sublime inventività giullaresca, che soggiogava gli uditori. Tommaso di Spalato, che lo udì a Bologna nel giorno dell'Assunta del 1222, riferisce che il suo modo di predicare non seguiva l'ordine tenuto dagli altri predicatori, ma somigliava piuttosto a un'arringa di un concionator, cioè di un oratore politico (v. TESTO N. 4b). Tommaso da Celano racconta la dichiarazione di un medico, che pur essendo abituato a raccogliere sermoni, non era in grado di registrare quelli di Francesco d'Assisi (v. TESTO N. 4c). Giacomo di Vitry, vescovo di Acri, uno dei più popolari predicatori della Quinta Crociata, dà la più antica e preziosa testimonianza sulla missione di san Francesco presso il Saldano assediato in Damietta (1219). La sua è la predicazione di un uomo ispirato, che soggioga perfino una «bestia crudele» qual è Malek-el-Kamel: il quale, temendo che i suoi uomini si convertano, lo fa riaccompagnare «con ogni riguardo e senza noie» al campo cristiano, non senza chiedergli di pregare il suo Dio a suo favore (v. TESTO N. 4a).


5. L'organizzazione degli studi

È merito di san Domenico e dei suoi primi compagni l'avere pensato un tirocinio intellettuale in funzione della predicazione al clero e soprattutto ai laici, e di avere predisposto nei primi Capitoli Generali dell'ordine le istituzioni adatte allo scopo. Si trattava di rinnovare e adattare a nuovo e più ampio pubblico il programma già sperimentato dai grandi maestri parigini del secolo precedente, da Pietro Mangiadore a Stefano Langton, i quali avevano concepito la lectio universitaria in funzione della praedicatio. Ma i predicatori formati da quei grandi cattedratici erano pochi: un pugno di intellettuali destinati a rinnovare i quadri dell'alto clero e a difendere la politica papale contro gli assalti dell'autorità laica. I domenicani, senza trascurare le esigenze di una cultura ad altissimo livello, istituiscono accanto agli studia generalia (come quello parigino di Saint Jacques aperto nel 1229 o quello di Bologna del 1248) una rete fittissima di scuole inferiori: dagli studia conventualia, insediati nei singoli con venti, agli studia sollemnia, posti sotto il controllo del Capitolo Provinciale [1]. Negli studi generali l'insegnamento fondamentale è impartito da un magister, che commenta solitamente un libro della Scrittura, mentre la lettura di base della Bibbia e delle Sententiae di Pietro Lombardo (il manuale di teologia) è affidato a un lector, cioè un chierico che ha superato il primo stadio della carriera universitaria (le Artes) e si avvia allo studio della teologia. Anche gli studia sollemnia possono essere affidati a un semplice lettore, scelto dal Capitolo Provinciale.

Ogni convento diventa un fuoco di cultura e di spiritualità, che agisce potentemente sulla vita della città che lo accoglie. Non si può pienamente capire la storia della cultura medievale senza riflettere su questa presenza continua, più o meno discreta: si pensi a quel che significa per Firenze il convento di Santa Maria Novella (1221), per Pisa e per tutta la Toscana il convento di Santa Caterina (1222), per Milano Sant'Eustorgio (1220). Le costituzioni domenicane contengono una serie di disposizioni molto severe riguardo alla predicazione. Solo i Capitoli Generali o Provinciali abilitano a questo ufficio i candidati, e nessuno può aspirare a tale compito prima dei 25 anni, e senza una forte preparazione scritturale e teologica. Già dal 1220 si istituisce un maestro che sorveglia gli studi dei giovani frati: essi non dovranno occuparsi di leggere i libri dei pagani e dei filosofi, e in generale delle cosiddette Arti liberali, salvo dispensa, ma basare la loro formazione sui tre libri di testo elaborati dall'Università del XII secolo: la Glossa (cioè il commento alla Bibbia), l'Historia Scholastica di Pietro Mangiadore, cioè un manuale di storia sacra e profana, e le Sententiae di Pietro Lombardo.

San Francesco, che pure non era sprovvisto di cultura, mostrò sempre una forte diffidenza nei confronti del mondo degli studi. Egli proibì ai suoi frati l'uso privato dei libri. Sono ben note le sue parole al novizio, contenute nella Intentio Regulae: « Quando hai avuto un Salterio, allora vorrai un breviario; dopo che tu abbia avuto un breviario, ti siederai sulla tua sedia come un grande prelato e dirai al tuo fratello: portami il mio breviario». Proprio su questo punto, già negli ultimi anni di san Francesco, si scontrarono le opposte correnti degli Spirituali, fedeli alla primitiva ispirazione del fondatore, e dei Conventuali, influenzati dal modello domenicano e docili alle pressioni della gerarchia ecclesiastica. Gli inizi drammatici della storia francescana non furono favorevoli all'organizzazione degli studi, e in questo settore i discepoli di san Francesco, una volta prevalso l'indirizzo conventuale, ebbero molto da apprendere dall'ordine dei Predicatori. Scuole francescane sorsero infatti accanto a quelle domenicane in ogni Università. Le Costituzioni Generali approvate nel Capitolo di Narbona (1260) testimoniano che a quell'epoca ogni provincia francescana aveva le sue istituzioni scolastiche, dalle quali affluivano allo Studium di Parigi (aperto nel 1231) gli elementi più dotati.

[1] Già dal 1224 esistono otto province domenicane, delle quali due (lombarda e romana) in Italia.

**

6. I libri del predicatore

Le Costituzioni primitive domenicane, approvate a Parigi nel 1228, dedicano un intero capitolo (DistinctioII, cap. XXXI) al predicatore. Chi è capace e abilitato alla predicazione, uscirà dal convento con un socius, che gli deve obbedienza come a superiore; non porterà e non accetterà né oro né argento né danaro, secondo il precetto evangelico (Matteo 10), ma avrà solo il vestito, gli oggetti più necessari, e i libri per la predicazione. Quali erano i libri di cui il predicatore poteva giovarsi per assolvere il suo compito? Viaggiando egli poteva portare con sé solo i suoi schemi di predicazione o qualche fortunato sermonario, cioè una raccolta di prediche adatte a tutte le circostanze liturgiche; ma in qualsiasi biblioteca conventuale avrebbe trovato tutto l'occorrente per costruire secondo le regole il suo sermone.

Era necessaria innanzitutto la Bibbia, da cui era obbligatorio scegliere il versetto iniziale della predica, il thema, donde discende tutto il discorso. Le Concordanze, una novità realizzata in équipe dai domenicani di Parigi sotto la direzione di Ugo di Saint-Cher, maestro di teologia dal 1230 al 1235, permettevano di identificare i passi paralleli della Scrittura destinati a costituire la filigrana del sermone. I più raffinati potevano risalire a un testo filologicamente più sicuro di quello vulgato (la cosiddetta Bibbia parigina), servendosi dei correctoria, liste di emendamenti al testo preparate da domenicani e più tardi anche dai francescani. Alle Concordanze verbali si aggiunsero le Concordantiae moralium, attribuite a Sant'Antonio da Padova, cioè una raccolta di testi ordinati per argomento.
Ma il nerbo del ragionamento era già fornito dalla Glossa, strettamente unita al testo stesso della Bibbia; lo schema e le articolazioni del discorso erano già pronti nelle Distinctiones. Tra le più celebri di queste enciclopedie della spiritualità medievale sono la Summa Abel di Pietro Cantore, così chiamata dalla prima parola che appare in ordine alfabetico; le Distinctiones Mauritii del domenicano Maurizio Anglico, le Distinctiones di Pietro di Limoges, che introduce nella sua enciclopedia interi sermoni dei più famosi predicatori del Duecento, il Dictionarius Pauperum di Nicola di Byard e molte altre. Ci si rende conto dell'enorme importanza di questo strumento se si pensa che il sermo modernus si sviluppa o per divisione in diversi membri delle parole che compongono il thema, oppure con la distinctio dei molteplici significati che si possono attribuire a una sola delle parole tematiche. Supponiamo che il predicatore scelga come thema il famoso versetto di Giovanni (4, 13): Qui biberit ex hac aqua sitiet iterum (Chi berrà di quest'acqua avrà ancora sete).
Egli potrà dividere questo thema, ed è il metodo più difficile e ambizioso; ma potrà anche scegliere di illustrare il significato di una delle parole del versetto, ad esempio aqua. Apriamo la Summa Abel sotto aqua, e vi troveremo lo schema di una predica composta da cinque parti o membri, uno per ogni possibile significato della parola:

"Aqua est: cupiditatis in presenti. Unde Qui biberit ex hac aqua sitiet iterum [Giovanni 4, 131].
viciorum generaliter vel voluptatis. Unde Iacob filio suo Ruben Eflusus es sicut aqua, ne crescas quia ascendisti cum patre tuo [Genesi 49, 41].
tribulationis. Unde Transivimus per ignem et aquam et eduxisti nos in refrigerium [Salmo 65, 12].
caritatis. Unde Qui credit in me, flumina de ventre eius fluent aque vive [Giovanni 7, 38].
doctrine. Unde: Fontes tui devientur f oras et aquas tuas in plateis divide [Proverbi 5, 16]; Posuit desertum in stagna aquarum [Isaia 41, 18]."

"[L'acqua può significare: la cupidigia delle cose presenti. E perciò è scritto Chi berrà di quest'acqua avrà ancora sete - i vizi in generale, soprattutto la lussuria. Perciò Giacobbe disse al suo figlio Ruben (che aveva profanato il letto del padre giacendo con la concubina Bilha) Sei bollente come acqua, non avrai la preminenza perché invadesti il letto di tuo padre – la tribolazione. Si legge Passammo per il fuoco e per l'acqua e ci hai condotto al refrigerio – la carità. Dice infatti Dall'intimo di chi crede in me scaturiranno fiumi d'acqua viva – la dottrina. Dice infatti Si riversino fuori nelle piazze le tue sorgenti, dividi le tue acque nelle piazze e Farò del deserto uno stagno – d'acque]."

Un altro strumento importante, dove si poteva trovare già costruito il grosso del sermone, è la Summa de virtutibus et vitiis: le rationes, cioè gli argomenti dottrinali, vi sono me scolati alle auctoritates, cioè alle citazioni, e agli exempla (vedi d 8) secondo i gusti dell'uditorio meno colto. La più celebre di queste Summae è certo quella di Guglielmo Peraldo (morto verso il 1261), notissima anche in Italia: basti pensare che gran parte dell'erudizione di fra Guittone d'Arezzo deriva da questa enciclopedia. Grande diffusione ebbe pure il Liber de virtutibus et vitiis del francescano Servasanto da Faenza (v. TESTO N. 13). L'auctoritas, cioè la citazione di sentenze dei Padri della Chiesa o di autori profani particolarmente accetti al Medioevo (ad esempio Seneca), era un ingrediente indispensabile del sermone.

Il predicatore aveva a sua disposizione una quantità di catenae (come la Catena Aurea di san Tommaso d'Aquino) e di florilegi (come il Manipulus florum di Tommaso Hibernus o la Pharetra attribuita a san Bonaventura), che gli permettevano di completare con lieve sforzo l'apparato di citazioni scritturali già fornito dalle Distinctiones. Se nel versetto tematico compariva il nome di un animale, di un'erba o di un minerale, il predicatore poteva ispirarsi alla scienza fantastica degli erbari, dei lapidari e dei bestiari. Una summa fortunatissima di questa materia è il Liber de similitudinibus et de exemplis del domenicano Giovanni da San Gimignano. Ma ancora più note, an che fuori dagli ambienti clericali, erano le enciclopedie naturali di Bartolomeo Anglico (il De proprietatibus rerum, volgarizzato dal mantovano Vivaldo Belcalzer) e di Vincenzo di Beauvais (Speculum Naturale). Elemento essenziale della predicazione popolare era pure l'exemplum, che per le sue implicazioni letterarie verrà trattato a parte.


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26/01/2013 14:39

7. Struttura dei sermone «moderno»: le «Artes praedicandi»

Tommaso Waleys († c.1349), personalità vivacissima della cultura avignonese dell'inizio del XIV secolo e conoscitore profondo dell'Italia (era stato lettore per alcuni anni nel convento domenicano di Bologna, predicando in questa città e anche ad Arezzo) sostiene nel prologo del De modo componendi sermones che in pratica si attuano molteplici forme di predicazione, difficilmente riconducibili a un'unica regola.

"Tradere vero omnes modos et formas praedicandi – dichiara nel Prologo – non solum superfluum sed etiam impossibile judicarem, cum vix inveniantur duo, sermones a seipsis compositos praedicantes, qui in forma praedicandi quoad omnia sint conformes."

"[Ritengo superfluo e anche impossibile decrivere tutti i modi e le forme della predicazione, dal momento che si stenterebbe a trovare due predicatori i quali, recitando sermoni da loro stessi composti, vadano completamente d'accordo nel modo di strutturare il loro discorso]."

Eppure una predica moderna si distingue nettamente dall'«antiquus modus praedicandi», praticato dai Padri della Chiesa, e ancora vivo soprattutto in Italia nella predicazione più popolare. Il buon modo antico, rimpianto da Waleys, consiste nel commentare versetto per versetto il Vangelo del giorno; il tipo moderno è basato invece sullo sviluppo attento del thema. Anche Giovanni di Galles, reggente della scuola francescana di Oxford (1260) e poi maestro a Parigi (c. 1270), nel suo trattato De arte praedicandi, pur professando grande venerazione per l'antica omelia, ne mette in rilievo l'aspetto meno accettabile per la mentalità contemporanea, improntata dalla dialettica scolastica: cioè la mancanza di una chiara articolazione del discorso rispetto al thema scritturale. Giacomo da Fusignano, priore del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva a Roma (1290), secondo Provinciale della Provincia del Regno di Napoli (istituita nel 1294) e cappellano di Carlo II d'Angiò, è molto più esplicito. Nel De arte praedicandi, un trattato che descrive il tipo più diffuso di sermone e rispecchia bene i gusti dei domenicani, egli afferma che il modo antico di predicare, che si limita a esporre il Vangelo, va bene solo per gli ignoranti:

"Est autem hoc satis populo rudi utilis. Ceteris literatis et intelligentibus auditoribus populariis exposicio non est necessaria."

"[Questo modo può andar bene per il popolo rozzo. Ma l'esposizione letterale del Vangelo non occorre alla gente colta e ai laici che abbiano un po' di cultura]."

L'elemento fondante del sermone moderno è il thema, scelto dalla liturgia del giorno o da altri passi della Scrittura (soprattutto se si predica per la festa di un santo o per commemorare un defunto o per altre occasioni non connesse alla liturgia). Il thema è la radice di tutta la predica, spesso paragonata dai teorici dell' ars praedicandi a un albero. Se il versetto tematico – spiega Giacomo da Fusignano – è la radice, l'introduzione è il tronco, le divisioni, ricavate dal thema con una sottile e complicata tecnica di estrazione, hanno la funzione dei rami principali e secondari. Thema, introductio e divisiosono le parti essenziali del sermone, la cui struttura può essere arricchita da altri elementi accessori; cioè il prothema e la subdivisio.

«Prothema magistralis pars est, subdivisio subtilis» [Il prothema è una parte riservata ai grandi maestri, la subdivisio implica una certa sottigliezza intellettuale] sentenzia nel Tractatulus de arte praedicandi Enrico di Langestein (1325-1397), cancelliere dell'Università di Parigi e poi Rettore dell'Università di Vienna. Il prothema è uno svolgimento più o meno breve dedotto dallo stesso thema oppure da un'altra citazione scritturale (o patristica) attinente ad esso; questa parte del sermone veniva conclusa da una preghiera. In questo preambolo magistralis, caratteristico dei sermoni tenuti dai magistri della Facoltà di teologia, si trattano di preferenza argomenti che riguardano il senso stesso della predicazione: l'inadeguatezza del predicatore, il contegno degli uditori, la parola di Dio (v. TESTO N. 14). Se ne può spigolare una messe di osservazioni e di notizie sulla tecnica della predicazione e sull'ambiente in cui si svolgeva.

Tuttavia il prothema era una rarità nella predicazione rivolta ai laici, che iniziava solitamente con l'introductio, destinata ad attirare l'attenzione degli ascoltatori e a orientarli sui criteri di interpretazione del versetto tematico. L'introduzione di una predica assomiglia spesso all'esordio di un qualsiasi testo medievale: si inizia con una auctoritas o con un proverbio o con una sentenza; talvolta, se si vuole solleticare la curiosità degli ascoltatori, con qualche rara e bizzarra similitudine naturale o morale, con qualche notazione di costume (v. TESTO N. 15).

Segue la parte più impegnativa della predica, cioè la divisione: ricorrendo alle tecniche più scaltrite della grammatica e soprattutto della dialettica e della fisica aristotelica, si smembra il versetto iniziale in varie parti (di solito tre o quattro, più raramente due o cinque) che costituiranno le articolazioni del discorso. La divisione è col thema l'elemento caratteristico della predica moderna: è essa che dovrebbe garantire che il sermone si attiene al testo ispirato scelto come base del discorso. In realtà è proprio mediante questa tecnica che il predicatore riesce più o meno abilmente e in buona fede a piegare il testo della Scrittura nella direzione che preferisce. La predica popolare spesso rinuncia alla divisio e si limita a fare alcune distinctiones basandosi (come si è visto al cap. 6) sui molteplici valori attribuibili a una delle dictiones (parole) del thema. In entrambi i casi era d'obbligo usare un colore retorico ben noto anche all' ars dictandi (che regolava la prosa epistolare), cioè il similiter cadens o similiter desinens: le varie parti della divisione (o della distinzione) venivano proposte con formule monotonamente concluse da omoioteleuton o omoioptoton (V. TESTO N. 15). Una volta stabilito lo schema della predica era agevole svolgere i vari membri ricorrendo alle disparate tecniche della dilatatio. Riccardo di Thetford, un monaco inglese del XIII secolo, e con lui gran parte dei trattatisti, distingue otto procedimenti di dilatazione.

Il più raffinato, riservato quasi esclusivamente alla predicazione universitaria, è la subdivisio, che consiste nel dividere una auctoritas, citata di solito a conferma dei singoli membri del sermone, secondo i criteri già esposti. Un metodo elegante è pure la catena di autorità, concordate verbaliter, cioè per il ricorrere di una stessa parola o di una medesima radice verbale, o realiter, cioè per l'analogia dei concetti, o per entrambi i motivi (v. TESTO N. 17). È questa la tecnica che allettò il Petrarca nella stesura del De ocio religioso. L'esegesi biblica, basata sulla quadruplice interpretazione del testo (letterale, morale, allegorica e anagogica) era un momento essenziale della dilatatio. Ovviamente, tranne poche eccezioni, è il senso morale che attrae il predicatore: anche quando l'esegesi (soprattutto con san Tommaso) diventa più esigente e attenta all'interpretazione letterale, filologica, del testo, la predicazione tende a perpetuare l'allegorismo spiritualistico di origine alessandrina, che aveva dominato pressoché incontrastato nei secoli precedenti.
Il predicatore poteva anche fare sfoggio di una scienza acquistata a poco prezzo «ponendo orationem pro nomine», come dice Riccardo, cioè infarcendo il discorso di definizioni filosofiche, di interpretazioni dei nomi propri e di fantasiose etimologie: materiale che si attingeva a piene mani nel De interpretatione hebraicorum nominum di san Gerolamo e nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia. L' argumentatio o ratiocinatio forniva il pretesto per una serie di divagazioni scolastiche. Più volte i trattati dovranno richiamare i predicatori all'opportunità di lasciare le tecniche del sillogismo e della quaestio ai maestri dell'Università, usando modi di argomentazione (come l' oppositum ) più comprensibili a un uditorio laico.

L'ora più opportuna della predicazione era il mattino, o anche dopo nona (che è il nostro mezzogiorno). Ma spesso il sermone mattutino proponeva una materia molto vasta ed estesa, ed era completato dalla collatio, una brevissima predica tenuta la sera sullo stesso thema proposto al mattino. La collatio, introdotta nell'uso universitario da Giordano di Sassonia, il primo Generale dei Domenicani, venne usata durante il Trecento anche dai predicatori popolari, come fra Giordano da Pisa, che sullo stesso versetto tematico predicava fino a quattro volte in un giorno. Il termine Collationes venne anche a indicare le allocuzioni occasionali, anche di contenuto politico, e soprattutto una serie organica di sermoni, quasi un trattato, come quelli celebri tenuti da san Bonaventura sul Genesi (Collationes in Hexaëmeron) la sera nel convento francescano di Parigi.


8. L'«exemplum»

L'argumentatio più adatta alla predicazione popolare è l'exemplum, definito da Aristotile (Rhetorica 1, 2) forma retorica dell'induzione (epagoghé rhetoriché). Si tratta in realtà di un genere narrativo, che conosce una fortuna secolare: esso occupa infatti un posto di rilievo già nell'insegnamento retorico greco-romano e nella letteratura cristiana; a partire dal XII secolo, col fiorire della letteratura cistercense, e quindi col diffondersi della predicazione dei Mendicanti e l'affluire in Occidente del materiale narrativo orientale, esso diventa l'ornamento più specifico della predica popolare, «la forma più pronta e idonea, di cui disponga il Medioevo, di rappresentazione del reale» (Battaglia). In senso stretto si deve intendere per exemplum un breve racconto che illustra e prova un principio morale, un concetto: una illustrative story, se vogliamo usare la formula del Crane, al quale si deve la prima edizione moderna degli esempi di Jacopo di Vitry, massimo responsabile della fortuna di questa narrativa in Occidente. In senso più ampio il termine sta invece a designare «tutto il materiale narrativo e descrittivo del passato e del presente» (Welter): non solo racconti dunque, ma anche similitudini, proverbi, episodi tratti dalla Scrittura e dalla letteratura profana, dall'agiografia e dalla favolistica.
Questo materiale narrativo, ricchissimo soprattutto nei sermoni rivolti al popolo, ma presente, sia pure in dose più ridotta, nel sermone universitario e perfino nella lectio universitaria, è di enorme interesse per lo studioso di letteratura, e in particolare delle origini della narrativa europea. L' exemplum è morfologicamente la prima manifestazione della narrativa medievale; storicamente l'àmbito della predicazione interferisce continuamente in quello della letteratura (novellistica e teatro) e viceversa, in un gioco di azione e reazione che è stato solo in parte svelato. Pulpito e letteratura sono strettamente connessi nella cultura europea medievale, talvolta anche a scapito della serietà della predica. È significativo che il Passavanti paragoni i più disinvolti predicatori del suo tempo a «giullari e romanzieri e buffoni»; e che Dante attacchi i mestieranti del pulpito pronti a intrattenere i fedeli «con motti e con iscede» (Paradiso XXIX, 103-117) anziché con la dottrina di Cristo. Federico Tubach ha recentemente descritto l' exemplum come una struttura narrativa caratterizzata. dal rapporto tra il nucleo dottrinale, o la tesi morale da dimostrare, e il motivo propriamente narrativo.

In base al variare di questo rapporto si possono determinare vari tipi di exemplum. Storicamente a un proto-exemplum, documentato dalle Vitae Patrum (una raccolta agiografica tradotta in latino a partire dal VI secolo) e dalle sillogi cistercensi (ad esempio il Dialogus Miraculorum di Cesario di Heisterbach [v. TESTO N. 11a]), dove prevale l'intento morale, succede quello che il Tubach denomina «esempio in declino», dove l'interesse per la pura narrazione ha la meglio sull'impegno didascalico. È questo l'esempio che viene diffuso per tutta l'Europa dalla predicazione in volgare dei Mendicanti, i quali raccolgono ad uso dei predicatori una serie imponente di prontuari.
I francescani sono particolarmente sensibili a questo tipo di letteratura, che si presta mirabilmente a captare l'attenzione di un pubblico illetterato: basti ricordare il Breviloquium de virtutibus di Giovanni di Galles, volgarizzato in toscano in ben quattro redazioni diverse (v. TESTO N. 11b); il Liber exemplorum composto in Inghilterra da un Minore alla fine del XIII secolo; la Summa de exemplis contra curiosos di Servasanto di Faenza. Anche i domenicani non trascurano di compilare ampie raccolte di esempi. Il De habundancia exemplorum (noto anche col titolo De dono timoris) di Umberto di Romans e gli aneddoti di Stefano di Borbone († c. 1262) hanno un successo enorme. Spetterà a due domenicani inglesi compilare in età chauceriana le summae più massicce, in un certo senso i capolavori di questo genere, destinate ad agire sulla letteratura profana ben al di là dei limiti solitamente fissati alla cultura medievale. Queste enciclopedie dell'exemplum sono la Scala coeli di Giovanni Gobi (1350) e la Summa Praedicantium di Giovanni Bromyard († 1390).

Queste raccolte, a torto ignorate nelle storie generali della letteratura italiana, sono il punto d'avvio dei più fortunati motivi della narrativa europea. Si pensi che gran parte delle novelle del Decameron nascono dall'abilissima rielaborazione e dalla contaminazione geniale di elementi narrativi da secoli tramandati nella tradizione omiletica. Così è motivo carissimo ai predicatori quello della «caccia infernale» (nov. 48a), che getta un brivido di terrore nel cuore della bella e crudele Traversari: probabilmente il Boccaccio lo trovò nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais, se pure, come supposero alcuni studiosi (tra cui il Monteverdi), non ripensò a una predica del Passavanti rifusa nella celebre pagina del «carbonaio di Niversa». Una variante dell' exemplum, particolarmente adatta alle prediche in onore dei santi, è la leggenda agiografica. Nei sermonari de sanctis spesso càpita di leggere alla fine della predica, proprio nella posizione dove di solito si trova l'esempio, questo avvertimento: «Dic legendam». Il predicatore sapeva bene dove mettere le mani: sul suo scrittoio non poteva mancare la Legenda Aurea, composta dal domenicano Jacopo da Varazze tra il 1260 e il 1267 (v. TESTO N. 12c) o il più antico Liber epilogorum in gesta sanctorum di un altro domenicano, Bartolomeo da Trento († 1251), il primo manuale agiografico ad uso dei predicatori. Molti aneddoti relativi ai santi si trovavano anche nelle già citate Vitae Patrum, e nel Dialogo di san Gregorio Magno (v. TESTO N. 12a e b), libri fondamentali della spiritualità medievale.


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26/01/2013 14:44

9. La prima generazione domenicana

San Pietro Martire è il personaggio di maggior rilievo della prima generazione domenicana. Nato a Verona da una famiglia catara, viene allo Studio bolognese e qui, dalle mani stesse di san Domenico, riceve l'abito (1221). Perfettamente conscio degli scopi del Fondatore dell'Ordine, che del resto collimano con quelli del Papato, egli si getta nella lotta contro gli eretici, e nello stesso tempo dà impulso all'organizzazione della borghesia cittadina ortodossa nei quadri delle confraternite laiche: la Società della Fede e la Società della Vergine Maria; che, dopo la sua morte, si chiamerà di san Pietro Martire. La sua azione di abile organizzatore e di temibile controversista si svolse a Firenze, dove fu chiamato dallo stesso Inquisitore, il domenicano Ruggiero Calcagni; e soprattutto in Lombardia. Secondo il cronista milanese Galvano Fiamma, Pietro era a Milano già nel 1233, l'anno dell' Alleluja, ma non tutti gli studiosi sono d'accordo sulla validità della testimonianza. Certo Pietro vi fu nel 1251: Inquisitore a Cremona, poi a Milano e a Como, egli cadde infine sotto i colpi degli eretici, mentre viaggiava in compagnia di un socius da Como a Milano (v. TESTO N. 7).

La leggenda e l'iconografia hanno cristallizzato la scena del martirio in tratti di un sublime macabro, fissando indelebilmente nell'immaginazione popolare la figura del santo che, in ginocchio, con il capo spaccato da una pesante mannaia, recita i versetti del Credo. Pietro da Verona segna la via a tutta la predicazione domenicana del secolo: per l'ordine dei Predicatori non si tratta solo di domare l'eresia, ma di educare con una predicazione specifica la borghesia cittadina e di controllare i pericolosi e incomposti moti della devotio popolare, incanalandola nelle salde e pacate strutture delle confraternite. Sarà questa la preoccupazione dei domenicani e dei francescani durante l'anno dell' Alleluja (1233) e di nuovo, nel 1260, quando il movimento dei Disciplinati o Flagellanti, suscitato a Perugia da Ranieri Fasani, guadagnerà tutta l'Italia in un turbine di esaltazione mistica e penitenziale. Purtroppo non ci è giunto nulla della predicazione tenuta in queste circostanze dai Mendicanti; ma, per quanto riguarda l' Alleluia, possiamo contare su di un testimone eccezionale, il francescano fra Salimbene de Adam, che ci ha lasciato nella sua Chronica, scritta in un pittoresco latino che ricalca il volgare padano, alcuni ritratti indimenticabili di predicatori.

L' Alleluja nasce spontaneamente a Parma, la patria di Salimbene, nel 1233, in una pausa delle lotte tra i comuni lombardi e Federico II, come effusione di gioia popolare, la quale si manifesta in processioni e acclamazioni di lode trinitaria. A capo di questo moto di pietà è da principio una bizzarra figura di predicatore popolare: fra Benedetto. « Homo simplex et illitteratus» – così lo definisce fra Salimbene – , sciolto da ogni ordine religioso, veniva soprannominato «fra Cornetta», perché al suono terribile o dolce della sua tromba la folla si raccoglieva nelle chiese e nelle piazze (v. TESTO N. 6). Da Parma il movimento si allarga ben presto ai comuni vicini; ed è a questo punto che i Mendicanti, soprattutto i domenicani, intervengono a conferire all' Alleluia un aspetto politico e penitenziale. La figura più eminente tra i predicatori dell' Alleluia è il domenicano Giovanni da Vicenza, che ebbe un grande successo a Bologna, dove esercitò per alcuni anni un potere quasi tirannico.
Accanto a lui Salimbene ricorda Iacobino da Reggio, uomo colto (era lettore in teologia), ma capace di parlare semplicemente alle folle trascinandole in un entusiasmo che, nel racconto del cronista parmigiano, sfiora il grottesco. A Parma predicò in quegli anni anche fra Bartolomeo di Breganze, primo Reggente della Facoltà di Teologia dello Studium Romanae Curiae fondato da Innocenzo IV (1244-1245), poi vescovo di Vicenza, dove istituì il convento di Santa Corona. In questa città si conserva, inedita, la sua Cronica sermocinalis: una serie di prediche tenute al clero e al popolo da fra Bartolomeo, quando non era ancora vescovo, più tardi rimaneggiate in forma di sermonario e dedicate a Clemente IV (1265-1268). L'opera di Bartolomeo da Vicenza non ebbe molto successo: contrastando l'indirizzo aristotelico che stava conquistando la scuola domenicana, egli si ispira alla tradizione mistica dei Vittorini.

La sua predicazione è basata su una conoscenza e un amore vivissimo per le Scritture, ma si apre anche alle suggestioni neoplatoniche dello pseudo-Dionigi e alla poesia di Adamo da San Vittore. Scopo fondamentale della sua opera è chiarire i principi dell'ortodossia, colpendo implacabilmente gli eretici, ma anche i cattolici più tiepidi (come i Frati Godenti bolognesi), oggetto di battute sarcastiche e di impietose denunce. Il suo linguaggio, che convoglia un ricco lessico vernacolo appena mascherato da forme latine, è quello di uno scrittore robusto, un poco arcigno, ma degno di essere studiato.

10. I sermonari domenicani

Secondo un uso inaugurato nelle Università, i sermoni venivano raccolti da uditori, spesso gli allievi stessi dello Studium dove il predicatore insegnava e predicava. A volte, servendosi dei suoi appunti o utilizzando le reportationes degli ascoltatori, il predicatore raccoglieva i suoi discorsi in una sorta di manuale, un sermonario, che forniva per ogni occasione liturgica un modello facilmente usufruibile dai discepoli o dai confratelli meno dotati. Gran parte della predicazione domenicana del XIII secolo, anche quando ebbe un piglio popolare, ci è giunta in questa forma rimaneggiata. Tra i più antichi e venerandi sermonari è quello di Giacomo di Benevento, definito «excellentissimus predicator» da Gerardo de Frachet nelle Vitae Fratrum, fonte importantissima della storia domenicana. Giacomo compare più volte in documenti dal 1255 al 1271: il suo De Tempore, che raccoglie una serie di sermoni dall'Avvento alla fine dell'anno liturgico, e i Sermones de Sanctis, dedicati al ciclo santorale, sono due classici manuali diffusi in un gran numero di codici (v. TESTO N. 17). Anche il Tractatus de Antichristo et de iudicio, di cui esistono varie redazioni, è costruito con materiali derivati da un ciclo di predicazione; e il Viridarium consolationis, noto agli italianisti soprattutto per un volgarizzamento falsamente attribuito a Bono Giamboni, si presenta come un ricco florilegio di citazioni sacre e profane, utilissime al predicatore.

Anche Jacopo da Varazze, vescovo di Genova (1286), famoso soprattutto per la citata Legenda Aurea, scrisse a istanza dei suoi confratelli una serie di sermonari (Sermones dominicales, quadragesimales, mariales) che furono copiati e più tardi stampati per molte generazioni. Non meno famosa fu la Postilla Parmensis di Antonio Azaro di Parma, entrato nell'ordine domenicano nel 1259-1260. Postilla è il nome assunto nel Duecento dal commentario biblico, prima noto come Glossa: i sermonari dell'Azaro, che vengono addirittura ordinati secondo la liturgia romana onde assicurarne una maggiore diffusione fuori dagli àmbiti domenicani [1], prendono il titolo di postilla proprio per la ricchezza dei materiali esegetici nuovi messi a disposizione dei lettori. A differenza dell'Azaro, che mantiene un certo gusto per l'esposizione letterale del testo scritturale, il suo confratello Giovanni da San Gemignano nei suoi cicli omiletici (Sermones dominicales, pro adventu, Quadragesimale, Sermones de sanctis, de mortuis) darà il modello di una predicazione fatta di generiche e scontate moralitates. Nato tra il 1260 e il 1270, lettore ad Arezzo (1299) e a Santa Maria sopra Minerva (1305), priore del convento di Siena (dove istituì uno Studium), e fondatore del convento domenicano di San Gimignano (1329), Giovanni ebbe una grande esperienza del pulpito e della scuola: «un autentico mestierante del pulpito», lo definì forse troppo severamente il Davidsohn.

[1] I domenicani avevano una loro liturgia, fissata da Umberto di Romans nel 1256.

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11. San Tommaso e la sua scuola

Tommaso d'Aquino (1225-1274) ebbe un influsso determinante sullo sviluppo della predicazione medievale, non tanto perché egli sia stato un grande maestro di eloquenza [1], ma per il rinnovamento radicale che egli provocò nella cultura del suo tempo, e in particolare del suo Ordine. I suoi biografi, soprattutto Guglielmo di Tocco, danno notizie abbastanza generiche sulla sua predicazione; i cataloghi antichi delle Biblioteche registrano un ciclo di Sermones de Sanctis e di Sermones dominicales et festivi, che non sono stati rintracciati. Fatalmente, a partire dal XVI secolo fino a tempi recenti, si attribuirono all'Aquinate e si stamparono tra le sue opere centinaia di prediche che, nella migliore delle ipotesi, sono di mano dei suoi allievi. Autentici sono pochi sermoni conservati in raccolte antologiche molto antiche (XIII-XIV secolo), che conservano la predicazione universitaria dei grandi filosofi della Scolastica. In questi sermoni, per lo più destinati agli studenti degli Studia domenicani (e particolarmente agli studenti parigini di Saint Jacques) non vi è nulla di semplice né di popolare, nulla di banale. Il prothema, la parte più elegante e difficile della predica medievale, non manca mai.

Spesso san Tommaso utilizza il sermone come il mezzo più adatto a sintetizzare e a propagandare certe posizioni dottrinali: predicando sul versetto Ecce rex tuus tibi venit mansuetus (Matteo 21, 5) a Parigi nella prima domenica d'Avvento del 1270, egli espone con insuperata chiarezza la sua dottrina della Regalità di Cristo (v. TESTO N. 16): Il Sermo de Eucharistia, recitato il Giovedì Santo «in consistorio coram Papa Urbano [IV] et cardinalibus» è di un eccezionale interesse, se si pensa che quel papa, istituendo la festa del Corpus Domini (1264), diede all'Aquinate l'incarico di scrivere l'Ufficio liturgico (del quale fa parte il Pange, lingua). Non mancano altri resti della predicazione che san Tommaso tenne in Italia (1259-1268): così un sermone «editus in domo Praedicatorum Bononie, coram Universitate» e un altro « editus Mediolani coram clero et populo civitatis»: entrambi per la prima domenica dell'Avvento. Purtroppo non possediamo la redazione originaria del Quaresimale tenuto a Napoli nel 1273, ma, come è noto, il materiale di quella predicazione fu rifuso nell'esposizione del Credo, stampata tra gli Opuscula theologica.

Proprio quest'opera viene esplicitamente citata (e con essa il Commentario di san Tommaso sulle Sententiae) dal beato Ambrogio Sansedoni, di boccacciana memoria (cfr. Decameron VII, 3), che fu compagno di Studi dell'Aquinate alla scuola di Alberto Magno, a Colonia e a Parigi, e poi insegnante negli Studi della Provincia Romana. I Sermones dominicales di Ambrogio, inediti, pur essendo ridotti a schematici appunti ad uso degli scolari, sono meno anonimi di quelli raccolti in altri sermonari: vi sono tracce di movenze e atteggiamenti propri di una predicazione popolare, addirittura resti di locuzioni senesi; riferimenti geografici precisi. Vi si parla ad esempio del Bulicame, un laghetto solforoso presso Viterbo, al quale Dante (Inferno XII, 117 e XIV, 79) paragonerà il Flegetonte.

In Italia la dottrina tomista trovò un importante canale di diffusione proprio nell'omiletica: Aldobrandino Cavalcanti, Aldobrandino da Toscanella e Remigio de' Girolami sono tra i maggiori responsabili dell'opera di volgarizzamento del tomismo soprattutto nell'àmbito della cultura fiorentina di fine secolo. Il Cavalcanti (1217-1279), che fu più volte priore di Santa Maria Novella, è personaggio di rilievo nella storia politica e culturale di Firenze: fu lui a chiamare quale paciere tra Bianchi e Neri il domenicano cardinale Latino Malabranca; egli promosse la costruzione della nuova chiesa di Santa Maria Novella, capolavoro dell'architettura gotica. Gli studi recenti del Kaeppeli hanno indicato nel Cavalcanti il vero autore di gran parte dei sermoni stampati sotto il nome di san Tommaso. Non è chiaro come si sia determinato lo scambio, ma di per sé il fatto indica il livello intellettuale di questo predicatore. Non si sa ancora nulla dei Sermones quadragesimales, una raccolta che giace inesplorata in un codice del Museo Nazionale di Budapest. L'orazione funebre per le esequie di Aldobrandino fu pronunciata da fra Remigio de' Girolami (c. 1245-1319), ed è una delle più antiche che ci siano giunte di questo grande oratore di parata. Nato da una famiglia dell'antico patriziato cittadino, partecipe della vita politica del Comune [2], Remigio è uno degli uomini più autorevoli di Firenze nell'età di Dante.

Dopo avere ascoltato le lezioni di san Tommaso a Parigi (1269-1272), egli insegnò a lungo nel convento di Santa Maria Novella, esponendo le dottrine del maestro (dal 1273-1274 alla morte). Si è a lungo discusso sulla possibilità che Dante, il quale in alcuni passi del Convivio (IV xi 8 e xii 5 e 8) e in Inferno (VII, 56-57) sembra rifarsi a precisi luoghi del De peccato usure di Remigio, abbia seguito le sue lezioni; ma i pareri su questo problema restano discordi. Il Girolami è un oratore attento ai fatti politici che si svolgono in Firenze: a volte egli può sembrare superficiale e vanitoso, ma nelle sue parole vi è sempre una sincera preoccupazione per la grandezza e la libertà fiorentine, per il bene comune, cioè la pace, minacciati dalle fazioni politiche. Molte delle sue prediche furono tenute in occasioni storiche, quando re, papi e signori venivano accolti in Santa Maria Novella. Così nel 1281 egli salutò l'arrivo di Carlo I d'Angiò, nel 1294 accolse Carlo Martello, una delle più alte amicizie di Dante, ricordata in Paradiso VIII, 33 ss.; nel 1301 si rivolgeva a Carlo di Valois, che proprio nel convento domenicano riceveva la signoria e la difesa della città. Nel 1294-1295, in momenti burrascosi, egli si rivolse francamente ai priori esponendo idee politiche riprese più ampiamente nel De bono pacis e nel De bono communi. In confronto ai sermoni d'occasione, i cicli legati alla liturgia (Sermones de Sanctis, de Tempore, il Quadragesimale) sembrano più scialbi e banali; ma la fatica della lettura di questi testi ancora inediti è ripagata dalla scoperta di pagine personalissime, aperte su una realtà quotidiana colta con sicuro piglio realistico.

Aldobrandino da Toscanella († 1314), lettore nei conventi di Pisa, Pistoia, Siena e Viterbo tra il 1287 e il 1292, è autore di due famosi sermonari (De Sanctis e De Tempore), citati ancora nel XV secolo da Nicola di Cusa, il quale fregiò questo predicatore dell'epiteto di «vir intelligens», quasi a sottolineare la sua soda cultura filosofica. Aristotile è spesso citato con precisione nei sermoni di Aldobrandino, che scrive soprattutto per i suoi allievi dei conventi toscani; vi sono passi interi che derivano ad verbum da san Tommaso. Con Aldobrandino la tendenza a trasformare la predica in trattato (già notata a proposito dell'esposizione sul Credo di san Tommaso) diventa sempre più evidente [3]. Infatti gran parte della sua predicazione ci è giunta in forma di trattato: l' Expositio decem preceptorum deriva da un quaresimale; l' Expositio orationis dominice, cioè la spiegazione del Pater Noster, da un altro ciclo di prediche. Alcuni trattati per nostra fortuna sono conservati in duplice redazione, cioè la forma omiletica e quella rimaneggiata a trattato: è il caso delle Collationes de peccatis e della Scala fidei.

[1] A torto gli si attribuì un Tractatulus solennis de arte et vero modo predicandi, più volte stampato nel XV secolo.

[2] I Girolami sono tra i mallevadori di parte guelfa nella Pace del Cardinal Latino (1280).

[3] Anche il popolarissimo Libellus de ludo scaccorum , volgarizzato in tutte le lingue europee, compreso l'italiano, non è altro che un ciclo di prediche tenute «ad populum» da Jacopo da Cessole, vissuto verso la fine del Duecento nel convento domenicano di Genova. In esso il gioco degli scacchi è interpretato moralmente e si risolve in una serie di ammonimenti alle diverse classi sociali.


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26/01/2013 14:47

12. La predicazione francescana nel XIII secolo

Il più famoso predicatore francescano del Duecento è Antonio da Padova, personalità per certi aspetti isolata nella prima generazione dei Minori, ma anticipatrice della spiritualità e della cultura destinata a prevalere nell'Ordine. Questo infaticabile persecutore degli eretici (fu detto «malleus haereticorum», martello degli eretici), che conosce la Scrittura così perfettamente da meritarsi da Gregorio IX l'epiteto di «arca del Vecchio e forma del Nuovo Testamento», ricorda Domenico di Guzman più che Francesco d'Assisi. La somiglianza è dovuta a cause precise: proveniente come Domenico dalla penisola iberica, sant'Antonio ha avuto la stessa formazione agostiniana, basata sullo studio rigoroso della Scrittura. Fernando Martins (così si chiama quello che la pietà popolare conobbe come sant'Antonio da Padova) cresce nel monastero di San Vincenzo di Lisbona, e poi nel famoso convento di Santa Cruz di Coimbra, dove la tradizione agostiniana rivive filtrata attraverso un'esperienza viva e recente della spiritualità vittorina [1]. La conversione al francescanesimo di Fernando avviene sotto l'impressione enorme suscitata dall'arrivo a Coimbra delle reliquie dei martiri francescani del Marocco: cinque missionari trucidati dal sultano Miramolin il 16 gennaio 1220. Egli è affascinato dal programma missionario del francescanesimo: narra la Legenda Assidua di Tommaso da Pavia, la più antica delle biografie di sant'Antonio, che il suo ingresso nell'ordine, avvenuto a Coimbra, è subordinato alla promessa di venire inviato in Marocco. La missione africana fallisce e il campo d'azione di Antonio sarà l'Italia e la Provenza. La sua predicazione, che ha inizio in Romagna, è imperniata sull'invito alla penitenza, conforme il desiderio espresso da san Francesco nella Regula (v. TESTO N. 5), e tende alla conversione degli eretici e dei peccatori; essa non perde mai i caratteri di una dura e infaticabile missione interna. La confessione sacramentale del peccatore, la riforma concreta dei costumi sono scopi precisi dell'azione di sant'Antonio, che si mostra un acre e realistico pittore dei vizi contemporanei. «Mores destructi sunt – predica nel sermone per la IX domenica dopo Pentecoste. – Ideo moralitati, quae mores instruit, magis est inhaerendum, quam allegoriae quae fidem instruit» [I buoni costumi sono distrutti. Bisogna dunque attenersi soprattutto alla predicazione della morale, che insegna a ben vivere, piuttosto che all'allegoria, che fortifica la fede]. Con una fosca immagine che sembra preludere all'allegoria iniziale della Commedia, egli paragona la società contemporanea a una selva «fredda, oscura, piena di belve», infestata soprattutto dal «maledictus ternarius»: superbia, avarizia e lussuria (v. TESTO N. 14). Non c'è giunta neppure una reportatio dei corsi tenuti da sant'Antonio agli Studi di Bologna, di Tolosa e di Montpellier; ma è da credere che la sua lectio biblica fosse di tipo morale, il più adatto a preparare i futuri predicatori della penitenza. L'unica opera sicura sono i Sermones dominicales et de festivitatibus, raccolti negli ultimi anni in una povera casa presso Camposampiero (Padova), scritti, come dice il cronista Rolandino Patavino, «diu noctuque regirans Vetus Testamentum et Novum» [compulsando giorno e notte il Vecchio e il Nuovo Testamento]. Chi vi cerca l'eloquenza popolare che attrasse i contemporanei rimarrà deluso: si tratta di un vastissimo sermonario, normativo nella scuola francescana, costruito secondo le più raffinate regole della tecnica moderna, bravamente corredato di difficili prothemata.

È andata invece completamente perduta, se mai fu registrata dagli uditori, la primitiva predicazione francescana in Italia, che ebbe uno spiccato carattere popolare e carismatico; non abbiamo nessuna raccolta che possa paragonarsi ai sermoni in volgare di Bertoldo di Regensburg (1210-1272). Anche in questo caso la fonte più ricca di informazioni si rivela la Chronica di fra Salimbene, che presenta una vivace galleria dei più famosi predicatori del suo ordine. Il movimento del l' Alleluia, di cui si è già fatto cenno, suscitò uno stile inconfondibile di predicazione, ignaro di sottigliezze tecniche, strettamente legato al prestigio personale e alle doti mimetiche, a volte taumaturgiche, del predicatore. Registrando la morte di Barnaba de Regina, il cronista aggiunge che egli predicava al modo degli antichi missionari del tempo dell' Alleluia «quando intromittebant se de miraculis faciendis», quando cioè il sermone era efficace solo se siglato da un portento, vero o falso che fosse. Una figura tipica di predicatore popolare, sempre al limite della buffoneria, fu Ugo da Reggio, detto Ugo Paucapalea, maestro di grammatica prima di prendere l'abito francescano, famoso per una sua disputa con l'astrologo Guido Bonatti di Forlì. Egli si serviva degli elementi retorici più accetti al grosso pubblico: proverbi, favole, exempla, tutto stava bene sulla sua bocca «quia hec omnia reducebat ad mores, et habebat linguam disertam et gratiosam, et libenter audiebatur» (v. TESTO N. 6b). Figura centrale nella Chronica è quella del Generale Giovanni da Parma (1247-1257), noto per la sua adesione alle teorie gioachimite. Oltre che uomo di grande cultura, egli fu un instancabile predicatore: tra i generali francescani fu certamente il più vicino allo spirito del Fondatore, e il più amato dagli Spirituali. È probabile che Giovanni si rivolgesse soprattutto a un uditorio dotto: Salimbene riferisce che «predicava al clero e al popolo» commovendoli fino alle lagrime. Un suo socius, fra Bonaventura de Iseo, ha lasciato un'ampia collezione di Sermones de Tempore, purtroppo inedita: sarebbe interessante constatare fino a che punto l'influsso delle dottrine gioachimite fosse penetrato nella sua predicazione. Bonaventura da Bagnorea (1221-1274), successore di fra Giovanni da Parma, è la figura più eminente del secolo. A ragione fu detto secondo fondatore dell'Ordine francescano, poiché durante il suo generalato (1257-1272) il Francescanesimo ebbe l'organizzazione definitiva e si inserì stabilmente nella struttura della Chiesa ufficiale, trasformandosi, sul modello domenicano, in una comunità di studiosi e di predicatori. È sintomatico che nelle Costituzioni Narbonesi del 1260, decisive per tutta la storia dell'Ordine, si ponga come attività specifica dei francescani la speculatio, e si abbandoni il precetto del lavoro manuale,. raccomandato da san Francesco nella Regula Prima e nel Testamentum. San Bonaventura porta a compimento un processo già iniziato negli ultimi anni della vita di Francesco d'Assisi. La distinzione giuridica tra usus e possessio dei beni (introdotta dalla bolla Quo Elongati di Gregorio IX del 1229), riducendo la povertà a una finzione giuridica, viene accolta e approfondita dalla bonaventuriana Apologia Pauperum (1269). Ormai i francescani gareggiano coi domenicani nello splendore dell'architettura e nella costruzione della nuova filosofia, la Scolastica, alimentata dall'afflusso in Occidente dell'Aristotele arabo. Bonaventura è un uomo di scuola e una guida preziosa per chi tenta i più difficili itinerari dell'esperienza religiosa. La sua predicazione è destinata a un pubblico d' élite: gli studenti e i colleghi dello Studio parigino, i frati Mendicanti, alcuni gruppi di religiosi (Certosini, monaci di San Dionigi) e religiose (Beghine, Clarisse), il re di Francia e la sua famiglia, il papa e la Curia, i Sinodi e i Capitoli delle cattedrali. I sermoni rivolti al popolo sono ben pochi: ne conosciamo alcuni tenuti in Francia e in Italia, ad Assisi in particolar modo. Ovviamente la sua lingua era il latino, ma talvolta anche il volgare locale: in un celebre sermone per la festa di san Marco, tenuto ad Beghinas davanti agli studenti parigini, egli si scusa di non parlare perfettamente la lingua gallica. San Bonaventura curò personalmente la pubblicazione di un volumen sermonum distribuiti lungo le feste del ciclo temporale, e ciò per devozione alla Santa Croce, che lo aveva liberato da un assalto del demonio (v. TESTO N. 15). Tuttavia la maggior parte dei sermoni bonaventuriani (più di 400) ci sono giunti attraverso le reportationes di confratelli o di discepoli. La Cronaca dei XXIV Generali riferisce che un socius di Bonaventura, Marco da Montefeltro, aveva il compito di criticare duramente, ma anche di raccogliere, i sermoni del suo superiore. La predicazione bonaventuriana rifugge dalle più facili coloriture dell'eloquenza popolare e si mantiene sempre a un livello di grande compostezza. Il fulcro del sermone, sviluppato secondo le regole consuete del sermo universitario, è l'interpretazione del thema, quasi sempre in chiave anagogica o tropologica, la più adatta a un uditorio che attende dal grande mistico uno stimolo all'approfondimento dell'esperienza religiosa. Certi temi cari allo scrittore dell'Itinerarium mentis in Deo e del Lignum Vitae ricorrono in tutti i sermoni. Vi è in essi come Leit-motiv la sollecitazione prudente, ma ferma alla contemplazione, alla devozione della Croce; l'esaltazione della carità, superiore alla stessa povertà. Per un lettore moderno è difficile afferrare e gustare il meccanismo intellettuale del sermone bonaventuriano, reso più secco e arduo dalla brevità delle reportationes, ma l'opera nel suo complesso rappresenta per la densità dottrinale e per la tensione stilistica una delle vette dell'eloquenza francescana.

Per secoli furono attribuiti a Bonaventura (a partire dall'edizione delle Opere stampata a Roma nel 1596) alcuni cicli di sermoni (il De proprio Sanctorum, il De communi Sanctorum, il De Beata Maria Virgine) che in realtà sono di un altro francescano: Servasanto da Faenza. Nato a Oriolo presso Faenza, egli entra nell'ordine francescano a Bologna, dove riceve gli ordini dal vescovo Giacomo Boncambi (1244-1260), ricordato in un exemplum del Liber de virtutibus et vitiis; ma il periodo più importante della sua vita si svolge nel convento di Santa Croce a Firenze, dove vive accanto a Tommaso di Pavia, autore della Legenda Assidua e di un massiccio volume di Distinctiones, chiamato il Bove; dove forse conosce Pietro di Giovanni Olivi. Servasanto è noto per una serie di opere che derivano dalla sua pratica pastorale e rispecchiano la media dell'omiletica francescana del Duecento: la Summa de exemplis naturalibus, la Summa de penitentia, il Mariale, oltre il già citato Liber de virtutibus et vitiis. Egli è forse, come sostiene l'Oliger, «il più grande moralista del secolo XIII»: sarebbe interessante indagare quali sono i rapporti effettivi tra Servasanto e quell'altro grande moralista in volgare del Duecento che è Bono Giamboni, al quale alcuni codici (ad esempio il Riccardiano 1775) attribuiscono una certa conoscenza dei sermoni del faentino. La predicazione francescana del XIII secolo, che muovendo da un livello popolare tende a diventare sempre più dotta e raffinata, conosce accanto ai sermoni universitari anche una sorta di prediche scritte a tavolino. È il caso dei Sermones de sancto Francisco e de B. Maria Virgine di Matteo d'Aquasparta (1240-1302), Generale dell'ordine tra il 1287 e il 1289, uomo politico di primissimo piano nella storia di fine secolo. Essi ci sono giunti in gran parte autografi, ma vi è fondato sospetto che non siano mai stati pronunciati. Il sermone si avvia ad essere un genere letterario svincolato dal contatto effettivo con il pubblico. Il cardinale d'Acquasparta affronta in questi dottissimi sermoni, soprattutto in quelli mariani, temi di grande impegno teologico. Il primo dei sermoni de Assumptione, come nota il moderno editore, il padre Piana, ebbe un grande influsso sulle teorie di san Bernardino da Siena, il «doctor Assumptionis».

[1] I maestri di sant'Antonio avevano contatti diretti col convento di San Vittore di Parigi, che ospitava gli studenti portoghesi.

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13. La predicazione francescana nel XIV secolo

Il Trecento rappresenta un momento di grande crisi nella cultura occidentale, e soprattutto nella storia della Chiesa. Il secolo inizia con le lotte implacabili tra Spirituali e Conventuali francescani e termina con lo Scisma d'Occidente (1378). Nella vita intellettuale e politica si assiste a un processo di disgregazione degli istituti tradizionali; la vita religiosa conosce una privatizzazione che prelude alle forme intimiste, alle aberrazioni individualistiche della pietà borghese. Certo non mancano fenomeni impressionanti di religiosità popolare, ma ad essi è sotteso un senso di angoscia, un'incertezza paurosa ignota ai secoli precedenti: basti ricordare il pellegrinaggio dei flagellanti di Venturino da Bergamo (1335), il movimento dei Gesuati e dei Caterinati, suscitati da Giovanni Colombini e da Caterina da Siena, le processioni dei Bianchi, che concludono il secolo (1400). Sono vampate di religiosità che non riescono a invertire la linea generale di sviluppo di una società inquieta, in cerca di nuovi valori; che non giungono, proprio per il loro carattere eccezionale, a creare strutture solide, capaci di strappare l'individuo dal suo sempre più forte isolamento.

Tra gli ordini Mendicanti il più tormentato è quello francescano. La corrente degli Spirituali, riconosciuta da Celestino V, poi perseguitata da Bonifacio VIII, si attesta su posizioni di intransigenza e addirittura di ribellione antipapale, servendosi di una predicazione apocalittica che attinge alla tradizione gioachimita. Purtroppo abbiamo solo alcune delle prediche tenute da Pier di Giovanni Olivi († 1298) [1]; ci mancano quelle recitate in Toscana, nelle Marche e nello Spoletano durante i primi anni del Trecento da Ubertino da Casale († 1329). Egli stesso le ricorda nel prologo dell'Arbor Vitae (1305); e Angelo Clareno († 1337), lo storico del movimento degli Spirituali, le descrive con più precisione nella Historia septem tribulationum (v. TESTO N. 8). La questione della povertà di Cristo e degli apostoli, alla quale si rifaceva l'ideale pauperistico francescano, provocò nuove fratture nella Chiesa. La battaglia tra Giovanni XXII, appoggiato dai domenicani, e l'ordine dei Minori, guidato dal Generale Michele da Cesena, fu combattuta da principio con una serie di libelli; ma dopo la bolla Cum inter nonnullos (1323), che negava la povertà di Cristo, diede luogo a una fitta predicazione di protesta. I Michelisti, tra i quali furono personaggi della levatura di Guglielmo d'Ochkam, scesero anche ad azioni di aperta rivolta: aderirono al partito di Ludovico il Bavaro lanciando a Pisa (1328) contro Giovanni XXII accuse pesanti, accettando come legittimo l'antipapa Pietro di Corbara, una creatura dell'imperatore. Nello stesso anno Michele da Cesena viene deposto al Capitolo di Bologna e i suoi seguaci, mescolandosi ai resti dei movimenti spirituali, si rifugiano nel Regno di Napoli sotto la protezione di Roberto d'Angiò. Per più di un secolo Fraticelli de opinione (ex Michelisti) e Fraticelli de paupere vita (ex Spirituali), ormai combattuti come i peggiori eretici, continueranno la loro predicazione più o meno segretamente, sopportando a volte intrepidamente la morte, come farà Michele de' Calci, arso a Firenze nel 1389 (v. TESTO N. 9); finché saranno definitivamente dispersi dal movimento dell'Osservanza nel XV secolo.

Nel complesso la predicazione francescana del XIV secolo è molto inferiore a quella del secolo precedente: perduti i sermoni degli Spirituali, dei Michelisti, dei Fraticelli, ci restano i sermonari preparati dai Conventuali, dove sarebbe vano cercare lo scatto di un'eloquenza viva, la novità delle idee, il dialogo impegnato con un pubblico partecipe. Si ha l'impressione che i francescani, tormentati dalle loro lotte interne, ripieghino su una predicazione di tipo scolastico, incapace di far presa sulla sensibilità laica, sempre più ricca, esigente, sollecitata da una fiorente cultura in volgare. È significativo che sino ad ora non si sia rintracciato neppure un sermone francescano in volgare: segno che gli uditori non furono indotti a conservare un'eloquenza ormai degenerata nella routine. Il corpus più vasto di sermoni francescani a noi conservato è quello di Bertrando di Tours (1265-1332), celebre maestro parigino, vescovo di Salerno e poi cardinale di Tuscolo, Generale dei Minori dopo la deposizione di Michele da Cesena (1328). Fu uno dei più intransigenti conventuali: nel 1318-1319 fu tra i teologi che condannarono la Postilla in Apocalypsim dell'Olivi, e negli anni seguenti si adoperò senza sosta nella persecuzione dei Beghini provenzali, che riconoscevano nell'Olivi il loro maestro. Il nucleo della sua opera è costituito da due vastissimi cicli omiletici, il De Tempore e il De Sanctis, presenti in tutte le biblioteche francescane e diffusi a stampa nel corso del XVI secolo. Degne di attenzione sono anche altre opere, soprattutto i sermoni De mortuis, De Corpore Christi, che furono via via falsamente attribuiti a san Tommaso, a sant'Alberto e a san Bonaventura. Tra i francescani, in Italia, nessuno può essere paragonato a Bertrando: le recenti ricerce codicologiche hanno messo in luce alcune raccolte di sermoni domenicali di Luca da Bitonto, di Pietro da Padova, di Supramons de Varisio: autori poco noti e studiati, di cui talvolta è difficile fissare un'esatta cronologia. Di altri famosi predicatori ricordati dai bibliografi dell'ordine e noti per altre opere, non abbiamo nulla: è il caso di Bartolomeo da Pisa, autore del Liber de conformitatibus Beati Francisci (1390), definito «magnus praedicator» dallo storico Mariano da Firenze; o di Giovanni di Stroncone, superiore degli Osservanti, che lo stesso Mariano definisce «angelicus praedicator ac miraculis et spiritu prophetie clarus». Ci si rassegna malvolentieri all'idea che in tutto il Trecento manchi sia pure qualche vestigio di predicazione volgare francescana, soprattutto pensando alla magnifica fioritura dei predicatori popolari che il francescanesimo conoscerà nel Quattrocento (da san Bernardino a Roberto Caracciolo). Ma bisogna precisare che la ricerca codicologica, avanzata per i fondi latini, è ancora di là da venire per quanto concerne il volgare.

[1] Sono 24 sermoni contenuti nei codici Vaticano Borghesiano 54 e 69.

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26/01/2013 14:50

14. Il primo monumento della predicazione volgare: il «corpus» delle prediche di fra Giordano da Pisa

L'uso del volgare nella predicazione ai laici dovette essere fin dal XIII secolo frequente soprattutto in Toscana, ma solo all'inizio del Trecento, a Firenze, per iniziativa di alcuni uditori, viene conservata una vastissima raccolta di prediche (circa 700), tenute in varie chiese e piazze fiorentine, ma soprattutto in Santa Maria Novella, da fra Giordano da Pisa (1260-1311). Preso l'abito domenicano nel convento di Santa Caterina in Pisa, egli aveva percorso le tappe obbligate del dotto domenicano: dopo gli studi a Bologna e a Parigi, aveva a sua volta insegnato nelle scuole domenicane della Provincia Romana (Siena, Perugia, Viterbo). Nel 1302 approda al convento di Santa Maria Novella e viene affiancato come lector al maestro Remigio de' Girolami. Giordano non si dedica solo all'insegnamento, ma con un'energia eccezionale si dà alla predicazione, intensa soprattutto dal 1303 al 1305. Egli si rivolge al gran pubblico che si accalca per ascoltarlo sulle piazze della città, ma cura in special modo quei gruppi di laici che si raccolgono nelle numerose confraternite affiliate a Santa Maria Novella. Tra questi laici vanno cercati i raccoglitori (certo più d'uno) dei sermoni giordaniani; a loro è riservata una serie triennale di collazioni vespertine sui primi capitoli del Genesi, secondo un programma di grande ambizione, se si pensa che il commento del primo libro della Scrittura è appannaggio del magister, e che tutto sommato costituisce una rarità nell'esegesi contemporanea. Sfortunatamente possediamo solo il primo e il terzo ciclo sul Genesi, essendo smarrito quello tenuto nel 1305-1306.

La cultura di fra Giordano è vasta e tutt'altro che comune. Accanto agli autori più noti alla tradizione omiletica (Agostino, Gerolamo, Gregorio Magno, san Bernardo, Giovanni Grisostomo e Giovanni Damasceno, Boezio, lo pseudo Dionigi), egli cita con precisione ed esplicitamente Aristotile «il sommo filosofo e il re de' filosofi» (v. TESTO N. 18c), di cui conosce, probabilmente attraverso i commentari di Tommaso d'Aquino, la Fisica, la Metafisica, la Politica, soprattutto l'Etica Nicomachea, un libro che rinnova completamente le coordinate morali del Basso Medioevo. Frate Tommaso d'Aquino, «quel savio uomo», è ricordato solo una volta con ammirazione e affetto da Giordano, in una conversazione su san Paolo tenuta a pochi suoi fedelissimi; ma tutta la sua predicazione si ispira alle idee tomiste, insegnate ufficialmente nelle scuole domenicane già dalla fine del XIII secolo. Come il suo diretto superiore, Remigio de' Girolami, egli persegue l'opera di divulgazione delle dottrine di san Tommaso, già iniziata una generazione precedente da Aldobrandino Cavalcanti. Soprattutto nel ciclo di prediche sul Credo tenute nella quaresima del 1304-1305 [1], e nel citato ciclo sul Genesi, fra Giordano raggiunge una notevole capacità di espressione filosofica. Non a torto dantisti della classe di un Barbi, di un Maggini, di un Sapegno, hanno spesso commentato passi della Commedia e del Convivio con citazioni dalle prediche di fra Giordano. Vi è la stessa aria di famiglia: non che tra i due vi sia un vero e preciso contatto, ma le idee, a volte le espressioni e le immagini, sono le stesse, attinte a una identica cultura. Giordano non fu insensibile alla letteratura profana: conosce Vegezio, la cui strategia viene allegoricamente adattata alle battaglie dell'anima; cita Orosio, le Metamorfosi di Ovidio, definito «pessimo pagano» e «omo carnale e vizioso».
Le sirene, i centauri, Ercole, Atlante, Ulisse e Circe fanno una fugace apparizione nelle sue prediche, naturalmente interpretati in chiave allegorica. Non mancano riferimenti alla letteratura in volgare: Giordano cita il Serventese del Maestro di tutte le arti di Ruggieri Apugliese, un giullare senese; dimostra di avere una certa conoscenza dei romanzi [2], anche se ostenta verso di essi disprezzo affermando che «sono tutti favola e poca verità ci ha». Sembra che egli abbia avuto una notevole preparazione linguistica: nella sua opera si trovano citazioni francesi, riferimenti alla cultura e alla lingua ebraica e greca, e perfino citazioni dall'arabo [3]. In particolare egli non si stanca di esaltare, con un entusiasmo quasi preumanistico, la bellezza del greco, «la più bella lingua del mondo».

La prosa giordaniana ha giustamente interessato il lessicografo, fin dal Cinquecento, ma è degna di attenzione anche da un punto di vista strettamente letterario, soprattutto per l'uso abile e discreto dell' exemplum. Nella sua predicazione si contano non meno di sessanta esempi, tratti dalle raccolte più note (che abbiamo citato nel cap. 8) e perfino dalla Summa e dal De Malo di Tommaso d'Aquino. Il motto arguto, la punta epigrammatica, il dialogo sciolto e vivace di impronta popolaresca segnano i momenti migliori di questa prosa narrativa: per essi Giordano merita a pieno diritto il posto di iniziatore della novellistica sacra in volgare. Il corpus giordaniano è un prezioso e vasto affresco della vita fiorentina del primo decennio del Trecento. Se i riferimenti a fatti precisi politici e militari sono scarsi – si ricorda la giornata della Lastra, l'assedio di Pistoia, i tentativi di riconciliazione tra Bianchi e Neri – in ogni predica si possono spigolare notizie sulla situazione sociale ed economica di Firenze, sulle tensioni che dall'esterno e dall'interno minacciano la vita della Chiesa. Il problema della povertà tocca ormai anche la coscienza dei laici, raggiunti dalla vivissima predicazione degli Spirituali francescani, e certo nota a Giordano, che sembra conoscere le argomentazioni dell'Olivi. Per il predicatore domenicano non si tratta soltanto di giustificare agli occhi del proletariato cittadino lo spettacolo della ricchezza degli ecclesiastici (v. TESTO N. 18b), ma soprattutto di guidare la coscienza di uditori che in gran parte appartengono alla borghesia mercantile, detentrice del potere politico in Firenze. Giordano, come i suoi confratelli, ritiene necessaria e di volontà divina la distinzione tra ricchi e poveri, senza la quale non vi sarebbe il bene delle elemosine, via regale per i ricchi borghesi che intendano esercitare la «povertà in ispirito», una sorta di usus pauper laicale. Vi sono spesso nelle prediche giordaniane cenni patetici alle condizioni dei contadini, dei marinai, ridotti a mangiare « pane biscotto verminoso che si spezza colle scuri», delle filatrici sfruttate disumanamente dai maestri della lana: ma si avverte bene che il discorso del predicatore non è rivolto a queste classi, bensì vuole illuminare la mente e purificare i costumi di mercanti, banchieri, imprenditori, fattori delle Compagnie, membri delle potenti Arti fiorentine. Giordano ha una conoscenza capillare del mondo mercantile, in particolare dell'Arte della Lana (v. TESTO N. 18a). Dietro i rimproveri e l'indignazione del moralista si legge una sorta di irresistibile ammirazione per l'audace avarizia di questi uomini che si avventurano lungo tutte le rotte e le piste del commercio, da Parigi ad Alessandria d'Egitto, dall'Inghilterra alla Provenza, celebrando quella che è stata definita «l'epopea della mercatura».

[1] L'anno a Firenze iniziava il 25 marzo, giorno dell'Annunciazione: perciò la quaresima cadeva tra la fine dell'anno e l'inizio del nuovo.

[2] Cita ad esempio la leggenda napoletana dei figli di Amone, caduti nella difesa di Napoli e sepolti nella grotta di san Gennaro; paragona i Magi ai cavalieri erranti.

[3] In una predica del Quaresimale 1305-1306 (15 marzo: n. LIV della mia edizione) Giordano cita una traduzione araba del Vangelo, e i copisti dei codici più autorevoli si sforzano di riprodurre alla meglio i segni arabici.

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15. La predicazione domenicana nel Trecento

La predicazione volgare di fra Giordano non è un fenomeno isolato. L'Ordine domenicano nel Trecento sembra impegnato in un'opera tenace di volgarizzamento della cultura, che avviene innanzitutto attraverso la predicazione, ma anche con altre iniziative atte a promuovere l'educazione religiosa del laicato. Centro importantissimo di queste iniziative è il più volte citato convento di Santa Caterina di Pisa: qui Domenico Cavalca (1270-1342) e Bartolomeo da San Concordio († 1347) compongono alcuni trattati ispirati alla loro predicazione e diretti a fornire materiali e suggerimenti ad altri predicatori. La traduzione delle Vite dei Santi Padri, certo il capolavoro del Cavalca e della sua officina, è una galleria di exempla che ispirerà non solo l'iconografia (si pensi agli affreschi del Camposanto pisano), ma la predicazione e in generale la letteratura di pietà. L'Esposizione del Credo e del Pater Noster continuano la tradizione dei cicli di prediche sui testi fondamentali della preghiera e della liturgia, raccomandati fin dal secolo precedente dai Concili, e particolarmente familiari ai domenicani: si pensi alle prediche sul Credo di san Tommaso, di Aldobrandino da Toscanella, di Giordano da Pisa. La Medicina del cuore e il Trattato sulle trenta stoltizie per l'impianto, basato sulle distinctiones, per i materiali usati (exempla, catene di auctoritates) risentono evidentemente della tecnica predicatoria del Cavalca. Gli ammaestramenti degli antichi di Bartolomeo da San Concordio sono una raccolta di citazioni sacre e profane, elemento immancabile nella predica, come s'è visto; in particolare la Distinzione II (Di dottrina e modo di parlare) contiene suggerimenti retorici che sembrano riprendere alcuni tópoi delle artes praedicandi.

È noto che lo Specchio di vera penitenza di Jacopo Passavanti (1302-1357), uno dei capolavori della letteratura devota del Trecento, è derivato dalle prediche tenute in volgare in Santa Maria Novella «per molti anni e spezialmente nella passata Quaresima dell'anno presente 1354», come si esprime l'autore nel Prologo. Recentemente si sono rintracciati del Passavanti trenta Sermones de Tempore, che vanno dall'Avvento alla prima domenica dopo la festa della Trinità: sono ovviamente modelli ad uso dei predicatori, costruiti secondo le regole della divisio del versetto iniziale. Vi si leggono citazioni ed esempi già noti dallo Specchio, ma questo sermonario risale probabilmente alla giovinezza dell'autore, che qui ci si presenta nelle vesti del frate classicista, appassionato studioso di mitologia e di storia antica, infaticabile collezionista di citazioni tratte da autori profani e sacri. I sermoni dovettero avere circolazione limitata, e ciò soprattutto per la loro eccezionale lunghezza: il sermone della domenica IV dopo l'Ottava di Pasqua, che è il più esteso, è un vero trattato sulla Beatitudine. Lo stesso autore nel prologo esorta il lettore a non indietreggiare di fronte alla mole dell'opera, e ad estrarre solo ciò che gli può servire:

"Non ergo exterreat sermonum prolixitas, quia sunt taliter ordinati quod lector resecare poterit secundum suum arbitrium, ut placuerit et tempus et locus et auditorum condicio requisierit."

"[Non si spaventi il lettore per la lunghezza dei sermoni, perché sono ordinati in modo che possa ricavare ciò che gli piace, a secondo del tempo, del luogo e della condizione dell'uditorio]."

Vi fu chi risparmiò ai lettori questa fatica, cioè Nicoluccio d'Ascoli, un domenicano educato a Bologna, più tardi priore di Sant'Andrea a Faenza e di San Pietro Martire ad Ascoli Piceno. I suoi notissimi Sermones de mortuis secundum evangelia dominicalia sono una riduzione del sermonario passavantiano. Ancora più diffusi furono i Sermones de epistulis et evangeliis dominicalibus, scritti dopo il 1342; e i Sermones 46 de epistolis ferialibus et dominicalibus Quadragesimae, che circolarono perfino in àmbito agostiniano. Nicoluccio, che ha l'arte di variare il discorso con curiosi esempi (uno è tratto dal Milione di Marco Polo) e con rarità dottrinali, godette di straordinario successo: lo dimostra anche il fatto che sotto il suo nome circolarono alcune raccolte (Sermones de Sanctis, Collationes super Lucam), compilate dal domenicano Francesco Galvani, inquisitore a Genova dal 1348 al 1352.

Nello Studium di Santa Maria Novella, accanto al Passavanti e ad altri famosi domenicani (quali Riccoldo da Monte Croce, Filippo da Pistoia), visse Taddeo Dini (1284-1359), personaggio tanto popolare da essere assunto come protagonista di una novella del Sacchetti (v. Trecentonovelle LX). Il Necrologio del convento ne esalta la pronta inventiva e l'abbondanza della parola: egli avrebbe composto molte migliaia di sermoni diffusissimi nell'ordine domenicano, poiché l'autore li prestava generosamente ai confratelli. Fino a ora si conoscono di Taddeo un centinaio di sermoni latini e un Tractatus de latitudinibus f ormarum, opere del tutto inedite; è falsa invece l'attribuzione di tre prediche in volgare. L'autore di queste prediche è fra Giordano da Pisa; il Dini, che lo venerava, probabilmente si servì delle sue prediche e le conservò tra i suoi schemi latini.

Alla corte di Napoli, dove l'eloquenza sacra sotto il regno di Roberto d'Angiò divenne un mezzo di espressione perfino per i laici, fiorì nella prima metà del secolo fra Giovanni Regina. Passato il periodo degli studi a Parigi (1309-1317), egli insegnò e predicò nel convento di San Domenico Maggiore, godendo di stima e protezione a corte. Promotore della canonizzazione di san Tommaso, il Regina si reca più volte ad Avignone, ascoltato e consultato dai papi: nel 1317, di ritorno da Parigi, vi pronuncia il discorso di saluto al Generale dei Minori, non ancora caduto in disgrazia, Michele da Cesena; nel 1322 espone le sue dottrine sulla povertà e l'anno seguente tiene una serie di allocuzioni, purtroppo perdute, per la canonizzazione di Tommaso d'Aquino. Divenuto Cappellano pontificio (1347), accompagna e presenta alla Curia avignonese (1348) la regina Giovanna, che viene a prestare giuramento di fedeltà e a chiedere la dispensa per le nuove nozze con Luigi di Taranto. Il Regina è uno dei predicatori più vivaci del Trecento: ai pochi documenti della sua predicazione universitaria parigina (8 prediche del 1314), si contrappone una serie di sermoni sui santi, e soprattutto di allocuzioni funebri tenute in San Domenico Maggiore, tutte di notevole interesse storico. Alcune delle figure più importanti della tormentata storia napoletana del Trecento, da Carlo II al principe Filippo di Taranto ad altri meno noti dignitari di corte, vengono evocate con pacata e solenne commozione nei discorsi di questo Bossuet trecentesco.

Non tutto purtroppo ci è giunto del Trecento domenicano. Mancano alcuni famosi sermonari, ad esempio quelli vari e ricchi, adatti a diverse circostanze (De Tempore, De Sanctis, De Mortuis) attribuiti dal cronista domenicano Leandro Alberti al più antico cronista forlivese, fra Girolamo da Forlì (1348-1437), che tuttavia nel gusto dell'aneddoto, delle etimologie, nell'ibridismo linguistico del suo Chronicon rivela alcuni tratti silistici e linguistici che dovevano caratterizzare la sua eloquenza. La predicazione domenicana tiene il campo per tutto il Trecento per mole e per qualità dottrinale e letteraria: aperta a Firenze dalla prosa dotta e tersa di fra Giordano è conclusa dalla eloquenza severa e incalzante di Giovanni Dominici (1357-1419), che in quella stessa città suscita entusiasmi popolari e reagisce alla nuova cultura umanistica.

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26/01/2013 14:54

16. Gli agostiniani

Se nel corso del Trecento i Mendicanti conoscono momenti di crisi, e soprattutto dopo la peste del 1348 i francescani sembrano destinati a una rapida decadenza morale e culturale, gli agostiniani riescono a esprimere una grande e raffinata letteratura, capace di attirare scrittori come il Petrarca e il Boccaccio. Severi e spietati censori dei frati ignoranti e indegni delle loro origini, essi riconoscono in un agostiniano, Dionigi di Borgo San Sepolcro, un caro e grande maestro. All'inizio del secolo l'ordine agostiniano vanta scrittori politici di primo piano e predicatori d'altissimo livello. Egidio Romano (1247-1316), allievo dell'Aquinate e Generale del suo ordine, poi vescovo influente di Bourges, accanto alle sue opere più famose (tra cui il De regimine principum, composto per Filippo il Bello) scrisse alcuni sermoni, di cui sono giunti solo frammenti. Agostino Trionfo (1243-1328), condiscepolo di Egidio a Parigi alla scuola di san Tommaso e poi lettore delle Sententiae in quello Studio, predicò a Mantova, ad Ancona, e soprattutto a Napoli, dove fu chiamato da Carlo II, che lo ebbe tra i suoi consiglieri. I suoi sermoni (De Tempore, De Sanctis) ci sono conservati da un elevato numero di codici, segno della loro ampia diffusione e del prestigio dell'autore. Forse il più grande predicatore agostiniano del Trecento fu Alberto da Padova († 1328), celebre maestro dell'Università di Parigi, autore di vastissime sillogi omiletiche (Postilla super evangelia dominicalia; Postilla super evangelia quadragesimalia): la sua predicazione fu diretta quasi esclusivamente agli studenti e ai colleghi universitari.

In un contesto ben diverso si svolse la predicazione a fondo profetico e politico di Jacopo Bussolari. Jacopo era nato a Pavia da un tornitore di bossolo (da cui il soprannome), ed era entrato giovanissimo nell'ordine degli eremitani; dopo un periodo di tirocinio al convento di Alessandria, era tornato (1356) nella sua città. Pavia, ceduta dai Visconti al marchese del Monferrato, Giovanni Paleologo, era di fatto tiranneggiata dalla famiglia dei Beccaria: il Bussolari, approfittando dello scontento popolare determinato dal rincaro del grano e della farina, si mise a capo del popolo, cacciò i Beccaria, e restaurò le libertà comunali. L'arma più potente del Bussolari era la parola, che conquistò non solo il popolo, ma l'aristocrazia e uomini quali Francesco Petrarca, che la definì «celeste» («celitus data»). Purtroppo di questa predicazione, dove le idee politiche si confondevano con le minacce apocalittiche e con gli incitamenti morali in una torbida e affascinante mistura savonaroliana ante litteram, non ci è giunto, com'era da prevedere, neppure una riga. Caduta la città dopo tre anni d'assedio (1359), Jacopo, prigioniero a Vercelli nel carcere conventuale, sarà costretto al silenzio: di lì uscirà dopo quattordici anni per andare a morire a Ischia, presso il fratello vescovo (1380). Il livello popolare della predicazione agostiniana, mancando i sermoni del Bussolari, è rappresentato significativamente dall'opera di Simone Fidati da Cascia († 1348), ammiratore di Angelo Clareno e predicatore acclamato dalla folla a Roma, Perugia, Gubbio, Firenze, Siena. Egli è noto soprattutto per avere scritto, a istanza di Tommaso Corsini, un grande amico degli agostiniani, l'Ordine della vita cristiana, che si può definire un catechismo; e inoltre per le sue lettere che lo pongono tra i più grandi maestri di spiritualità del Trecento. Un discepolo di Simone, fra Giovanni da Salerno (1317-1388), ci ha lasciato una biografia vivace ed essenziale e ne ha volgarizzato, col titolo di Esposizioni sopra i Vangeli, l'opera più impegnativa: il De gestis Domini Salvatoris. Il volgarizzamento, pur essendo costruito a trattato, rispecchia abbastanza fedelmente la predicazione del Fidati: i Vangeli vengono via via esposti, cioè commentati versetto per versetto, secondo un metodo che rimase sempre in uso in Italia, anche dopo il trionfo del sermo modernus.

Le Esposizioni furono copiate molte volte: uno dei codici più interessanti, conservato a Siena, fu esemplato da Filippo degli Agazzari (1340-1422), che fu priore nel convento di Lecceto (Siena), dove poté conoscere e apprezzare fra Giovanni. L'Agazzari, pur assistendo al fiorire di una cultura nuova, quella umanistica, è un tipico rappresentante della mentalità tardo-medievale. Di lui rimane una silloge di esempi, compilata in vista della predicazione, dove le paure e le contraddizioni del Tardo Medioevo trovano un'allucinata espressione.

17. Conclusione: la predicazione dei laici

Nel XII secolo la predicazione dei laici, incluse le donne, era stato uno dei tratti caratteristici dell'eresia. La condanna di Valdo, confuso ingiustamente con catari e patarini nel canone De haereticis promulgato al Concilio di Verona (1184), è diretta conseguenza del suo rifiuto di interrompere la predicazione lionese. Due secoli dopo, alla corte angioina, il sermone diventa la forma letteraria normalmente usata dal sovrano e dagli alti funzionari per esprimere non solo contenuti religiosi, ma anche e soprattutto idee politiche. Roberto d'Angiò, che Dante definì sprezzantemente «re da sermone» (Purgatorio VIII, 147), si compiace di predicare nelle chiese napoletane durante la Messa; e di tenere pompose collationes, cioè sermoni di circostanza, nelle più varie occasioni. Il suo logoteta Bartolomeo da Capua, sommo giurista e artefice della politica angioina nella prima metà del secolo, si serve del sermone per annunciare sentenze giudiziarie, per accordare la laurea agli studenti dell'Università, per svolgere la sua varia e intensa attività diplomatica.
L'uso epidittico e politico del sermone non è una novità assoluta: se ne era servito nel XIII secolo Francesco d'Accursio; e nella prima metà del secolo il giudice Albertano da Brescia aveva pronunciato davanti ai causidici e ai francescani della sua città cinque sermoni che trattano dei principi fondamentali del diritto; perfino alla corte di Napoli si continuava in fondo una tradizione inaugurata da Pier delle Vigne, che si era servito abilmente della tecnica omiletica. Tuttavia il fenomeno diventa generale nel Trecento: nella mancanza di una tecnica sicura dell'oratoria politica, che vive ormai stentatamente nelle «dicerie» in volgare, alla vigilia dell'eloquenza civile umanistica, il sermone latino sembra lo strumento più dignitoso e solenne per l'allocuzione morale e politica. Alcuni dei personaggi più celebri e rappresentativi del secolo, il Petrarca e Cola di Rienzo, ricorrono al sermone «moderno» per esprimere le loro profezie politiche o per assolvere ai propri compiti di diplomatico. È un segno della grande perfezione tecnica raggiunta dal genere omiletico, e anche della sicurezza con la quale ormai la Chiesa domina le residue minacce ereticali; ma indica nello stesso tempo una decadenza dell'autentica eloquenza religiosa.
Franco Sacchetti, grigio borghese del secolo declinante, può scrivere a tavolino, per risolvere una crisi morale e per chiarire a se stesso la propria vocazione di narratore, un vero e proprio quaresimale che non venne, ovviamente, mai predicato: le 49 Sposizioni di Vangeli, dove si propone la vecchia teoria della mediocritas come via sicura alla pace e alla giustizia. Spetterà, nel secolo seguente, ancora una volta ai Mendicanti, soprattutto ai francescani, rinnovati dai movimenti rigoristi dell'Osservanza, dare nuova vita alla predicazione, scuotendo e entusiasmando quelle grandi masse escluse o disprezzate dalla splendida e raffinata cultura umanistica.


Bibliografia





[Modificato da Caterina63 26/01/2013 14:55]
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26/01/2013 14:59

Testi [1]
1. Come predicavano i Valdesi

Il domenicano Bernardo Gui (1261-1331) scrisse un manuale, la Practica inquisitionis heretice pravitatis, dove si caratterizzano le idee e i comportamenti degli eretici più pericolosi e diffusi nel XIII secolo. Ecco un passo sulla predicazione segreta dei Valdesi (da B. GUI, Manuel de l'Inquisiteur, ed. G. MOLLAT, Paris, Société «des Belles Lettres», 1964, vol. I, pp. 58-62).

De modo autem docendi seu predicandi ipsorum hereticorum Valdensium aliquid perstringendum est in hoc loco.

Duo siquidem sunt genera secte ipsorum: quidam enim eorum sunt perfecti, et isti vocantur proprie Valdense [2]. Qui, prius informati, recepti sunt ad ordinem ipsorum secundum ritum suum at alios sciant docere. Isti nichil proprium dicunt se habere nec domos nec possessiones nec certas mansiones. Si qui autem ipsorum antea uxores habuerunt, quando recipiuntur, eas relinquunt. Hii dicunt se esse apostolorum successores et sunt magistri aliorum et confessores et circumeunt per terras visitando et confirmando discipulos in errore. Hiis ministrant discipuli et credentes ipsorum necessaria. In quocumque autem loco venerint, insinuant sibi mutuo adventum illorum et conveniunt ad eos plures ad hospitium ubi recepti sunt audire et videre eos; et mittunt eis illuc quecumque bona habent ad comedendum et bibendum et audiunt predicationem ipsorum in conventiculis que maxime frequentant de nocte, quando alii dormiunt aut quiescunt…

Quandoque predicant de evangeliis et de epistolis vel de exemplis et auctoritatibus sanctorum, dicendo et allegando: «Istud dicitur in evangelio vel in epistola sancti Petri aut sancti Pauli aut sancti Jacobi», vel ita dicunt: «Talis sanctus aut talis doctor», ut magis dicta eorum ab auditoribus acceptentur.

Habent autem evangelia et epistolas in vulgari communiter et etiam in latino, quia aliqui inter eos intelligunt. Et aliqui sciunt legere et interdum illa que dicunt aut predicant legunt in libro, aliquando autem sine libro, maxime illi qui nesciunt legere, set ea corde tenus didiscerunt. Item, predicationem suam faciunt in domibus credentium suorum, sicut pretactum est supra, aliquando in itinere seu in via…

[Qui bisogna toccare in breve del metodo di insegnamento e di predicazione proprio degli eretici Valdesi. Vi sono tra loro due categorie: alcuni sono perfetti, e questi si chiamano propriamente Valdesi. Costoro, dopo un'adeguata preparazione, sono ricevuti nell'ordine secondo un rito apposito col compito di istruire altri. Essi dichiarano di non avere nulla di proprio, né case né proprietà né dimora; se qualcuno di loro aveva già preso moglie, la lascia quando viene accolto. Dicono di essere i successori degli apostoli, e sono i maestri e i confessori degli altri Valdesi: essi vanno per il paese facendo visita ai discepoli e confermandoli nell'eresia. I discepoli e coloro che si definiscono «credenti» provvedono alle loro necessità. Ovunque arrivino i perfetti, i credenti si comunicano a vicenda la notizia della loro presenza, e ci si riunisce nella casa dove sono ospitati per vederli e udirli. Mandano a loro ogni sorta di buone cose da mangiare e da bere, ascoltano poi la loro predicazione in assemblee che si tengono soprattutto di notte, quando gli altri dormono o si riposano…

Talvolta predicano sul Vangelo e le Epistole oppure degli esempi e delle sentenze dei santi; e allegando queste autorità esclamano: «Questo è detto nel Vangelo o nella lettera di san Pietro o di san Paolo o di san Giacomo». Oppure dicono: «Questo dice il tal santo o il tale dottore»; e ciò fanno perché le loro parole siano più credute da chi ascolta. Hanno Vangeli e Epistole di solito in volgare e anche in latino, perché qualcuno di loro lo capisce. Alcuni sanno leggere e talvolta leggono ciò che dicono o predicano; ma a volte predicano senza libro. Così fanno ovviamente quelli che non sanno leggere, ma che hanno imparato ogni cosa a memoria. Come si è già detto, essi predicano nelle case dei loro credenti, ma talvolta anche in viaggio o sulle strade…].

[1] L'antologia comprende: a) Testimonianze indirette sulla predicazione medievale (TESTI 1-9); b) Libri del predicatore (TESTI 10-13); c) Prediche (TESTI 14-19). I testi latini sono tradotti; si omette l'originale latino, quando esista un volgarizzamento antico.

[2] L'editore (MOLLAT) rileva con il corsivo i passi che B. GUI copia da fonti più antiche.

***

2. Fondazione dell'ordine dei Predicatori

Il domenicano Costantino d'Orvieto († 1256), vescovo di quella città, scrisse una leggenda di san Domenico che è tra le più antiche e autorevoli fonti domenicane (cfr. l'ed. di H. C. SCHEEBEN in Monumenta Ordinis Fratrum Praedicatorum Historica, vol. XVI, Roma, 1935). Di essa si conosce un volgarizzamento trecentesco (ed. P. FERRATO, Venezia, 1867): ne riproduco un capitolo seguendo il testo curato da G. DE LUCA per i Prosatori minori del Trecento (Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 783- 784).

San Domenico di ritorno dal Concilio Lateranense II (1215), durante il quale Innocenzo III gli aveva suggerito di attenersi a una Regola esistente, decide di seguire quella di sant'Agostino.

COME SAN DOMENICO DELIBEROE CO' FRATI SUOI DI QUALE REGOLA DOVESSENO ELEGGERE

Ritornando adunque dipo 'l Concilio il servo di Dio messer santo Domenico a li suoi frati, manifestoe a loro quel che 'l Sommo Pontefice li avea detto. Ed erano allora i frati in numero di sedici. I quali poco stante, chiamato l'aiuto de lo Spirito Santo, la Regola di messer santo Agostino, dottore e predicatore nobile, essi che per operazione e per nome doveano essere Predicatori, in uno animo elessero, pigliando sopra ciò certe consuetudini, le quali ordinaro che si dovessero osservare per forma di costituzioni. Ne le quali il proveduto e savio padre messer santo Domenico, intorno a' principii dell'Ordine suo non abbiendo a disdegno le vie de' Santi Padri i quali erano passati innanzi, in tal maniera volle tenere lo mezzo, a ciò che i figliuoli che nascesseno e che si levasseno di lui avessero un modo di debita perfezione nel quale stesseno saldi, e a ciò che non mancasse loro di poter montare più su per meglioramento continuo, sappiendo ch'elli è scritto: La via de' giusti va innanzi come luce isplendente, e cresce infino al perfetto giorno [1]. E questo fece molto consigliatamente, a ciò che, sed elli si fosse steso in alto sopra modo, i figliuoli che venissero dipo lui più tosto non fosseno costretti di tornare indietro che d'andare innanzi, e così sarebbe loro rimproverato [2] degnamente quella parola ch'è scritta nel santo Vangelio: questo Ordine comincioe a edificare, e non ha potuto compiere [3]. Per la qual cosa, a ciò che l'officio de la predicazione, a la quale sommariamente doveano intendere, non potesse essere impedimento [4] puosersi in cuore d'allotta innanzi tutte le possessioni e tutte le rendite al postutto rinunziare. La qual cosa poi, nel primaio Capitolo Generale che si fece a Bologna, affettuosamente e compiutamente per ferma e stante costituzione misero un effeto perpetuale.

[1] Proverbi 4, 18.

[2] Rammentata come rimprovero.

[3] Luca 14, 30.

[4] Impedito. Il latino ha impediretur. Probabilmente si deve leggere «impedimentito».

***

3. I «canonici di Bologna»

Jacopo di Vitry (c. 1160/1170-1240), canonico di sant' Agostino, fu forse il più famoso e popolare predicatore dei suoi tempi: predicò la Crociata contro gli Albigesi e la 5ª Crociata (1214); nominato vescovo di Acri fu con l'esercito cristiano all'assedio di Damietta in Egitto (1218-1221). Durante un viaggio in Italia nel 1222 ebbe modo di conoscere i domenicani, che si erano stabiliti a Bologna nel 1219. Nella Historia Occidentalis (seconda parte della Historia Hierosolimitana Abreviata) dedica un capitolo al nuovo Ordine chiamato dei «canonici bolognesi», in quanto i domenicani avevano accolto la Regola dei canonici di sant'Agostino. Il passo che segue è tratto dall'ed. più recente della Historia (The Historia Occidentalis of Jacques de Vitry, ed. J. F. HINNEBUSCH, Fribourg, The University Press, 1972, cap. XXVII, pp. 142-144).

Est alia regularium canonicorum deo grata et hominibus gratiosa congregatio extra ciuitatem Bononie non longe ab ea in castris eterni regis militantium et eidem sub unius maioris obedientia. in feruore spiritus et mentis excessu [1] tam deuote quam humiliter seruientium. Hii siquidem ita expediti post dominum currunt et nudi nudum secuntur, quod omnium exteriorum curam et temporalium possessionem a se penitus reiecerunt, omnia transitoria tamquam stercora reputantes, ut Christum lucrifaciant [2]. Sapienter enim pensantes et prudenter attendentes quod sufficit diei malitia sua [3], in tantum de crastino non cogitant, quod elemosinas aliquas a fidelibus non recipiunt, nisi quantum sobrie uite sue ad artam necessitatem possit sufficere. Tribus in ebdomada diebus carnes, si eis apponantur, non recusant, simul in refectorio manducantes et in dormitorio quiescentes et horas canonicas secundum beati Augustini regulam pariter in ecclesia in uoce exultationis et confessionis [4] domino concinentes, immolantes deo sacrificium laudis, et reddentes altissimo uota sua [5].

Ipsi autem, ex numero scolarium Bononie causa studii commorantium in unum, domino inspirante, congregati, diuinarum scripturarum lectiones, uno eorum docente, singulis diebus audiunt. Que autem diligenter audierint, summi pontificis auctoritate et sancte romane ecclesie institutione, Christi fidelibus diebus festis in predicatione refundunt, canonicam regulam et salutares regularium obseruantias predicationis et doctrine gratia decorantes et predicatorum ordinem canonicorum ordini coniungentes. Hec igitur dulcis mixtura bonorum multos ad imitandum allicit, prouocat et accendit, et diebus singulis sancta et honesta Christi scolarium congregatio et numero ampliatur et caritate dilatatur…

[Non molto fuori dalla città di Bologna, gradito a Dio e accetto agli uomini, vi è un altro ordine di canonici, che militano nell'accampamento del Re eterno e Lo servono obbedendo a un unico Superiore, in fervore di spirito e trepidazione, umilmente e devotamente. Così veramente costoro corrono leggeri dietro al Signore e nudi seguono Cristo nudo, poiché hanno del tutto allontanato da sé la preoccupazione delle cose materiali e temporali, giudicando immondizia tutto ciò che passa, allo scopo di guadagnare Cristo. Infatti con saggio calcolo, tenendo presente che a ciascun giorno basta la sua pena, non si preoccupano affatto del domani, al punto che dai fedeli non accettano se non le elemosine che possano assicurare lo stretto necessario alla sobrietà della loro vita. Tre volte alla settimana, se ne hanno, accettano di mangiare carne. Essi tutti assieme mangiano in refettorio, riposano nel dormitorio, recitano le ore canoniche secondo la Regola di sant'Agostino in chiesa, cantando al Signore con voce di giubilo e lode, sacrificano a Dio un sacrificio di lode e sciolgono all'Altissimo i loro voti.

Essi sono studenti dell'Università di Bologna, i quali, radunatisi per divina ispirazione, ascoltano ogni giorno lezioni sulla Scrittura, tenute da uno di loro. Quello che hanno diligentemente imparato, lo trasmettono poi ai fedeli, predicando nei giorni festivi col permesso del Sommo Pontefice e per istituzione della Santa Romana Chiesa. Essi adornano la regola dei canonici e le loro pratiche salutari di pietà con la grazia della dottrina e della predicazione, unendo un ordine di predicatori con un ordine di canonici. Questa dolce mescolanza di beni alletta, richiama, accende molti all'imitazione, sicché di giorno in giorno la santa e onesta congregazione degli scolari di Cristo cresce di numero e si dilata nella Carità…].

[1] Salmo 30, 23.

[2] Cfr. Lettera ai Filippesi 3, 8.

[3] Cfr. Matteo 6, 34.

[4] Salmo 41, 5.

[5] Salmo 49, 14.


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26/01/2013 15:14

4. La predicazione di san Francesco d'Assisi

Si propongono alcune tra le più antiche e significative testimonianze sulla predicazione del Poverello: a) un passo della Historia Occidentalis di Jacopo di Vitry (ed. HINNEBUSCH, cap. XXXII, pp. 161-162), il più antico testimone dell'incontro tra il santo e il sultano di Damietta, Malik-al-Kamil, avvenuto nel settembre 1219; b) una pagina della Historia Salonitarum di Tommaso di Spalato, dove è ricordata una predica tenuta a Bologna nel 1222 (da P. L. LEMMENS, Testimonia minora saec. XIII de Sancto Francisco, in «AFH», I, 1908, p. 69); c) il cap. LXXIII della Vita Secunda di Tommaso da Celano (Quaracchi, 1927, pp. 110-111) nella trad. moderna di L. MACALI (TOMMASO DA CELANO, Le due vite e il Trattato dei Miracoli di San Francesco d'Assisi, Roma, 1954, pp. 309-310).
a) San Francesco predica ai Saracini

Vidimus primum huius ordinis [1] fundatorem et magistrum, cui tamquam summo priori suo omnes alii obediunt, uirum simplicem et illitteratum, dilectum deo et hominibus [2], fratrem Francinum nominatum, ad tantum ebrietatis excessum et feruorem spiritus raptum fuisse, quod, cum ad exercitum christianorum ante Damiatam in terra Egypti deuenisset, ad soldani Egypti castra intrepidus et fidei clypeo communitus accessit. Quem cum in uia captum sarraceni tenuissent, «Ego», inquit, «christianus sum. Ducite me ad dominum uestrum». Quem cum ante ipsum pertraxissent, uidens eum bestia crudelis, in aspectu uiri dei in mansuetudine conuersa, per dies aliquot ipsum sibi et suis Christi fidem predicantem attendissime audiuit. Tandem uero, metuens ne aliqui de exercitu suo, uerborum eius efficacia ad dominum conuersi, ed christianorum exercitum pertransirent, cum omni reuerentia et securitate ad nostrorum castra reduci precepit, dicens ei in fine: «Ora pro me, ut deus legem illam et fidem que magis sibi placet mihi dignetur reuelare».

[Vidi per la prima volta il fondatore e maestro di questo Ordine, uomo semplice e senza cultura, piacevole a Dio e agli uomini, chiamato frate Francesco, rapito a un tal grado di ebrezza e di fervore spirituali, che, essendo giunto in Egitto all'accampamento dei cristiani davanti a Damietta, entrò nell'accampamento del soldano d'Egitto intrepidamente, munito dello scudo della fede. Per strada fu preso e imprigionato dai Saracini, ed egli disse: «Sono un cristiano, portatemi dal vostro signore». Fu condotto davanti a costui, e quella belva sanguinaria, vedendolo, ammansita dall'espressione di quest'uomo di Dio, lo udì per molti giorni con grande attenzione predicare la Fede di Cristo a lui e ai suoi uomini. Ma alla fine, temendo che alcuni del suo esercito, convertendosi a Dio per l'efficacia della sua parola, passassero all'esercito cristiano, ordinò che fosse ricondotto all'accampamento dei nostri con ogni riguardo e senza noie. Da ultimo gli disse: «Prega per me, perché Dio si compiaccia di rivelarmi quella legge e quella fede che più gli piace»].
b) Sermone per la Festa dell'Assunzione del 1222

Eodem anno, in die Assumptionis Dei Genitricis, cum essem Bononiae in Studio, vidi sanctum Franciscum praedicantem in platea ante palacium publicum, ubi tota pene civitas convenerat. Fuit autem exordium sermonis eius: «Angeli, homines, daemones». De his enim tribus spiritibus rationalibus ita bene et discrete proposuit, ut multis literatis qui aderant fieret admirationi non modicae sermo hominis idiotae, nec tamen ipse modum praedicantis tenuit, sed quasi concionantis. Tota vero verborum eius discurrebat materies ad extinguendas inimicitias et ad pacis foedera reformanda.

Sordidus erat habitus, persona contemptibilis et facies indecora; sed tantam Deus verbis illius contulit efficaciam, ut multae tribus nobilium, inter quas antiquarum inimicitiarum furor immanis multa sanguinis effusione fuerat debachatus, ad pacis consilium reducerentur. Erga ipsum vero tam magna erat reverentia hominum et devotio, ut viri et mulieres in eum catervatim ruerent, satagentes vel fimbriam eius tangere aut aliquid de panniculis eius auferre.

[Nello stesso anno, nel giorno dell'Assunzione della Madre di Dio, essendo io a Bologna come studente, vidi san Francesco predicare in piazza davanti al Palazzo del Comune, dove si era riunita quasi tutta la popolazione. L'esordio della sua predica fu «Gli angeli, gli uomini, i demoni». Infatti parlò di questi tre spiriti razionali così bene e con tale chiarezza, che molti dotti lì presenti si stupirono molto, chiedendosi come un uomo senza cultura potesse tenere un così bel sermone. Il suo stile però non era di predicatore, ma quasi di oratore politico. Tutto il suo discorso tendeva a spegnere le inimicizie e a rinnovare i patti di pace. Il suo abito era sordido, l'aspetto spregevole, la faccia brutta; ma Dio diede tanta efficacia alle sue parole che molte consorterie di nobili, tra le quali un barbaro furore, causato da antiche inimicizie, aveva infuriato versando molto sangue, furono indotte a far pace.

La venerazione e la devozione della gente per lui era tanta, che uomini e donne in massa gli si gettavano addosso, beati se potevano toccare il lembo del suo saio o strappare un pezzo di quei suoi miserabili panni].
c) Giudizio di un medico sulle prediche di san Francesco

Licet autem evangelista Franciscus per materialia et rudia rudibus praedicaret, utpote qui sciebat plus opus esse virtute quam verbis, tamen inter spirituales magisque capaces vivifica et profunda parturiebat eloquia. Brevibus innuebat quod erat ineffabile, et ignitos interserens gestus et nutus, totos rapiebat auditores ad caelica. Non distinctionum clavibus utebatur, quia quos ipse non inveniebat, non ordinabat sermones. Dabat voci suae vocem virtutis [3] vera virtus et sapientia Christus [4]. Dixit aliquando physicus quidam, vir eruditus et eloquens: «Cum caeterorum praedicationem de verbo ad verbum retineam, sola me effugiunt quae sanctus Franciscus eructat. Quorum si aliqua committo memoriae, non illa mihi videntur quae sua prius labia distillarunt».

[Quantunque l'evangelista Francesco convinto com'era che c'è più bisogno di virtù che di parole, predicasse con esempi ed espressioni comuni a uomini incolti, pure dinanzi a uditori più spiritualmente preparati e più capaci di intenderlo, pronunziava parole piene di vita e di profondità. Con brevissimi tratti esprimeva l'ineffabile e, aiutandosi con gesti e movimenti di fuoco, trasportava tutto l'essere degli uditori all'amore delle cose celesti. Non faceva uso di distinzioni e divisioni, poiché non lavorava molto a ordinare le prediche, che egli del resto non componeva da sé. Imprimeva alla sua voce il timbro inconfondibile della virtù, della vera virtù e sapienza, che è Cristo. Ed ecco quanto un medico colto ed eloquente una volta, ebbe a dire in merito: «Mentre son capace di ricordare parola per parola le prediche degli altri, solo quando parla san Francesco, non riesco a ritenerne una sillaba. E se qualche cosa mi rimane in mente, quando la ripeto, mi pare del tutto diversa dal come è uscita dalle sue labbra»].

[1] Jacopo di Vitry parla in prima persona. L'ordine è quello dei Minori.

[2] Ecclesiastico 45, 1.

[3] Salmo 67, 34.

[4] Prima lettera ai Corinzi 1, 30.

***

5. Il capitolo IX della «Regula Bullata»

La Regula Secunda o Bullata, così detta perché fu approvata con bolla papale nel 1223, fissa con molta precisione i temi penitenziali e morali che saranno caratteristici della predicazione francescana. Traduco dall'ed. degli Opuscula Sancti Patris Francisci dei Padri di Quaracchi (Ad Claras Aquas, 1949, p. 62).

Fratres non praedicent in episcopatu alicuius episcopi, cum ab eo illi fuerit contradictum. Et nullus fratrum populo penitus audeat praedicare nisi a ministro generali huius fraternitatis fuerit examinatus et approbatus, et ab eo officium sibi praedicationis concessum. Moneo quoque, et exhortor eosdem fratres ut in praedicatione, quam faciunt, sint examinata et casta eorum eloquia, ad utilitatem et aedificationem populi, annuntiando eis vitia et virtutes, poenam et gloriam cum brevitate sermonis: quia Verbum abbreviatum fecit Dominus super terram [1].

[I frati non devono predicare nella diocesi di un vescovo, se gli sarà stato proibito. Nessuno dei frati osi predicare al popolo se non sarà prima stato esaminato e abilitato a questo officio dal Ministro Generale dell'Ordine, e se non gli sarà stato affidato il compito della predicazione. Ammonisco pure ed esorto i frati che nella loro predicazione usino un linguaggio casto e sobrio per l'utilità e l'edificazione del popolo, parlando del vizi e delle virtù, delle pene dell'inferno e della gloria del paradiso. Il loro discorso sia breve, perché Dio esegue con prontezza la sua parola sulla terra].

[1] Lettera ai Romani 9, 28.

***

6. L'anno dell'Alleluja

Salimbene de Adam (1221-1287) fu testimone del movimento dell'Alleluja. Traduco due passi della sua Chronica (ed. G. SCALIA, Bari, Laterza, 1966, vol. I, pp. 100-101 e p. 239).
a) Di fra Benedetto, che cominciò la devozione dell'Alleluja

Nam primo venit Parmam frater Benedictus, qui dicebatur frater de Cornetta, homo simplex et illitteratus et bone innocentie et honeste vite, quem vidi et familiariter cognovi Parme et postmodum Pisis. Erat enim vel de valle Spoletana, vel de partibus Romanis. Non erat alicuius religionis, quantum ad congregationem, sibi ipsi vivebat et soli Deo placere studebat; amicus valde erat fratrum Minorum. Quasi alter Iohannes Baptista videbatur, qui precederet ante Dominum et pararet Domino plebem perfectam [1]. Hic habebat in capite capellam Armenicam et barbam longam et nigram et tubam eneam, sive de oricalco, parvulam, cum qua bucinabat, et terribiliter reboabat tuba sua nec non et dulciter; zona pellicea erut accinctus; habitus eius niger erat ut saccus cilicinus et longus usque ad pedes; toga erat ad modum guascapi [2] facta, et in anteriori parte et in posteriori crucem habebat magnam et latam et longam et rubeam, descendentem a collo usque ad pedes, sicut in planetis sacerdotalibus fieri solet. Taliter iste indutus ibat cum tuba sua et in ecclesiis et in plateis predicabat et Deum laudabat, quem sequebatur maxima puerorum multitudo, frequenter cum ramis arborum et candelis accensis. Sed et ego super murum palatii episcopi, quod tunc temporis edificabatur, vidi ipsum pluries predicantem et Deum laudantem. Et inchoabat laudes suas hoc modo et in vulgari dicebat: «Laudato et benedhetto et glorificato sia lo Patre!». Et pueri alta voce quod dixerat repetebant. Et postea eadem verba repetebat addendo: «sia lo Fijo!». Et pueri resumebant et eadem verba cantabant. Postea tercio eadem verba repetebat addendo: «sia lo Spiritu Sancto!». Et postea: «Alleluia, Alleluia, Alleluia». Deinde bucinabat et postea predicabat, dicendo aliqua bona verba ad laudem Dei. Et postmodum, in fine predicationis, beatam Virginem salutabat…

[Venne dapprima a Parma fra Benedetto, soprannominato fra Cornetta: uomo semplice, senza cultura, innocente e di santa vita, che io vidi e conobbi da vicino a Parma e più tardi a Pisa. Costui era della regione di Spoleto o delle parti di Roma. Per quanto riguarda la sua situazione ecclesiale, non apparteneva a nessun ordine, viveva solo e si sforzava di piacere soltanto a Dio; era molto amico dei frati Minori. Sembrava un secondo Battista, che andasse davanti al Signore e preparasse al Signore un popolo perfetto. Portava in capo un cappello all'armena, aveva una barba lunga e nera, e una trombetta di bronzo o di ottone, colla quale suonava. La sua tromba risuonava a volte terribile, a volte dolce. Cinto di una striscia di cuoio, il suo abito era nero come un cilicio e lungo fino ai piedi; il mantello era della foggia chiamata «guascapus», recante dietro e davanti una croce grande e larga e lunga e rossa, che scendeva dal collo ai piedi, come nelle pianete sacerdotali. Questi andava così abbigliato con la sua tromba, e predicava nelle chiese e nelle piazze lodando Dio. Lo seguivano una turba di fanciulli, spesso con rami di alberi e candele accese. Ma io stesso sul muro del palazzo vescovile, che allora era in costruzione, lo vidi più volte predicare e lodare Dio. Incominciava le sue lodi così, dicendo in volgare: «Laudato et benedetto et glorificato sia lo Patre!»; e i fanciulli ad alta voce ripetevano ciò che aveva detto. Poi riprendeva le stesse acclamazioni aggiungendo: «sia lo Fijo!» e i fanciulli ripetevano e cantavano le medesime parole. Poi ripeteva le stesse acclamazioni per la terza volta, aggiungendo: «sia lo Spiritu Sancto!». E poi «Alleluja, Alleluja, Alleluja!». Poi suonava e quindi predicava, dicendo cose edificanti a lode di Dio. Infine, al termine della predica, salutava la beata Vergine…].

b) Ritratto di Ugo Paucapalea

Si autem aliquis querat cui, quantum ad effigiem corporis, similis fuit iste frater Helyas [3], dicimus quod totaliter assimilari potest fratri Ugoni de Regio, qui dictus est Hugo Paucapalea, et fuit magister in gramatica in seculo et magnus truphator et magnus prolocutor et in Ordine fratrum Minorum sollemnis et optimus predicator, et qui mordaces Ordinis confutabat et confundebat predicationibus et exemplis. Nam quidam magister Guido Bonattus [4] de Furlivio, qui se philosophum et astrologum esse dicebat et predicationes fratrum Minorum et Predicatorum vituperabat, ita ab eo fuit confusus coram universitate et populo Liviensi, ut toto tempore quo frater Ugo fuit in partibus illis, non solum non loqui, verum etiam nec apparere auderet. Hic erat totus plenus proverbiis, fabulis et exemplis, et optime sonabant in ore suo, quia hec omnia reducebat ad mores, et habebat linguam disertam et gratiosam, et libenter audiebatur a populo…

[Se si chiedesse a chi fisicamente somigliasse frate Elia, rispondo che può paragonarsi in tutto a fra Ugo da Reggio, soprannominato Ugo Paucapalea, al secolo maestro di grammatica e grande burlone e grande parlatore, nell'ordine dei frati Minori solenne e ottimo predicatore. Egli sapeva rimbeccare i detrattori dell'ordine confondendoli colla sua predicazione e con le sue storielline. Infatti un certo maestro Guido Bonatti di Forlì, che si pretendeva filosofo e astrologo grande e scherniva le prediche dei frati Minori e dei domenicani, fu così confuso da lui davanti ai dotti e al popolo di Forlì, che Guido, per tutto il tempo in cui egli si trovò per quelle parti, non osò non pur parlare, ma farsi vedere. Ugo era tutto pieno di proverbi, di favole e di racconti esemplari, che stavano bene sulle sue labbra, poiché egli sapeva cavare da ogni cosa un insegnamento morale, e aveva una parlantina gradevole, sicché il popolo lo ascoltava volentieri…].

[1] Luca 1, 17.

[2] Guascapus è un mantello lungo, portato anche dai Fratres Gaudentes di Bologna.

[3] Il primo Generale francescano dopo san Francesco.

[4] Celebre astronomo, autore del Liber astronomicus.

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7. Martirio di san Pietro da Verona

Tommaso Agni da Lentini, patriarca di Gerusalemme († 1277) è uno dei più antichi agiografi di Pietro Martire. Si propone alla lettura la pagina più colorita e drammatica della sua Vita sancti Petri Martyris secondo il volgarizzamento trecentesco (cfr. S. ORLANDI, S. Pietro Martire da Verona, Leggenda, Firenze, Il Rosario, 1952, cap. X).

Nelli anni domini MCCLII in sabato, ch'è la fine de la settuagesima, e ch'è chiamato il sabato d'alba e Pasqua annovale [1], il cavaliere di Cristo, del convento suo ritornando a Melano a la battaglia de la fede, sì si sforzava di venire innanzi al termine. Sì che essendo a mezza via, un maladetto eretico e crudele masnadiere delli eretici, indotto a ciò per lor prieghi e pattovito con loro di prezzo di XL lire, questo scellerato fece assalto incontra al santo uomo compiente il viaggio del salutevole proponimento. Il lupo contra l'agnello, il fiero contra 'l benigno, l'empio contra 'l pietoso, il furibondo contra 'l mansueto, lo sfrenato contra 'l modesto, lo scomunicato contra 'l giusto ardisce di fare assalti, adopera isforzamento, presumme [2] la morte, e del sacerdote facciendo sacrificio, quel santo capo crudelmente percotendo co lo scellerato mannarese, [3] e sazio il coltello del sangue del giusto, radoppiando in lui e premendo crudeli piaghe, [il giusto] non cansandosi [4] dal nemico, ma donando se medesimo per sagrificio, e sostegnendo in pazienzia le crudeli percussioni, abbattuto nel luogo de la passione, sì 'l lasciò per mezzo morto. E rivolgendosi quello micidiale a frate Domenico suo compagno, riempiente l'aire di prieghi di misericordia chiamando aiuto, sì li diede quattro fedite mortali. E dando a costui crudelmente sì dure percussioni, il santo uomo dall'altra parte raccomandava lo spirito suo a messer Domenedio, dicendo: Ne le mani tue, Segnore, raccomando lo spirito mio [5] . Non cessando la loda de la fede eziandio in questo articolo, non si dimenticoe per l'angoscie de la morte di confessare la fede sicome banditore de la fede, la quale per le lusinghe del suo zio da fanciullo non avea voluto sconfessare. Secondamente che esso maladetto, ingannato dall'aiuto del fuggire, poi preso dai fedeli commossi alle grida di frate Domenico, e el detto frate Domenico, sopra vivendo alquanti dì, raccontarono poi. Ma con ciò fosse cosa che ancora il martire di Dio palpitasse per terra, il crudele micidiale tolse il coltello, e trafiggendol [6] per la latora di colui che in tale guisa confessava la fede, sì compiette il beato martirio. E così finita la settuagesima di questo pelegrinaggio, il beato viandante venne al paese celestiale. In tal guisa imbiancoe la stola sua il martire e 'l vergine nell'alba; in tal guisa di questo sabato temporale passoe a celebrare lo sabato eternale: e la Pasqua annovale non ebbe meno il suo agnello, quando in essa, Piero, sì come agnello innocente sacrificato in quel die del suo martirio, per alcuno modo meritoe d'essere a un'otta confessore, martire, profeta e dottore. Da poi che in quel die fatta la confessione al modo usato, offerse a Dio sacrificio di laude, e confessando la fé di Cristo in gran costanza infra tormenti, ammaestrò la verace fede, confessando il Credo in Deo con chiara voce mentre ch'elli sostenea passione. E da poi che 'l sangue suo sparse per difensione de la fede, a' confessori e a' dottori et a' martiri s'accompagnoe, et al collegio de li profeti meritoe d'esser congiunto, predicendo per spirito di profezia quello che intervenne poscia.

[1] Annuale.

[2] Cioè «osa colpire a morte».

[3] Mannaia.

[4] Scansandosi.

[5] Luca 23, 46. È il versetto responsorio della Compieta.

[6] Conficcandolo. «Trafiggere» qui sembra avere uso transitivo.

***

8. Predicazione di fra Ubertino da Casale

Angelo Clareno († 1337), capo degli Spirituali, descrisse nel Chronicon seu Historia septem tribulationum (ed. A. GHINATO, Roma, 1959) le peripezie dell'ala rigorista dei Minori. Protagonista della sesta tribolazione è Ubertino da Casale, della cui attività il Clareno offre una rapida e precisa notizia. Il passo che segue è tratto dal volgarizzamento trecentesco della Cronaca (seguo il Ms. Riccardiano 1487, c. 124r-v).

Questo frate Ubertino, abitando nel monte della Verna della Provincia di Toscana, tutto divoto a santo Francesco, fedele testimonio della prima e ultima perfezione regolare, sincero e fervente predicatore della evangelica verità, infiammò e destò per essemplo della vita e per virtù della sua parola molti nella religione [1] e spetialmente nella provincia della Marca e della Valle [2] e di Toscana, alla pura e fedele observanzia della promessa perfezione. E per la vera carità, lasciando lui stare la sua quiete, la quale aveva in Iesù Cristo, attendendo solamente a Dio e alle cose celestiali, e assentendo al consiglio delle sante persone per potere favoreggiare gli frati e le persone spirituali, li quali pativono dalli aversari molte tribulazioni nella provincia di Toscana e della Valle di Spoleto, sì si mise scientemente a molti pericoli, e dettesi a molte fatiche.

[1] Cioè nell'ordine francescano.

[2] S'intende la Valle di Spoleto.

***

9. Una predica segreta di fra Michele Minorita

Un anonimo fraticello ha descritto in una prosa precisa e disadorna il martirio di Michele da Calci (Pisa). Riproduco l'inizio della Storia di fra Michele Minorita come fu arso in Firenze nel 1389 secondo l'ed. di F. ZAMBRINI («Scelta di curiosità inedite o rare», Bologna, Romagnoli, 1864, pp. 1-5).

NEL NOME DI IESU' CRISTO, POVERO CRUCIFISSO, E DELLA SUA MADRE, E DEL BEATO FRANCESCO

Com'è per usanza, i poveri frati di santo Francesco (i quali oggi, e per più tempo passato, perseguitati per la povertà di Cristo), abitanti nella Marca, mandarono qua a Firenze frate Michele e C. per soddisfare i fedeli da Firenze; e giunsono qua a dì 26 di gennaio, 1388 [1]. E la domenica dell'Ulivo, di quaresima, il detto frate Michele, avendo soddisfatto ciascuno de' bisogni de l'anime nostre, e benedetto l'ulivo e dato e mandato a ciascuno, ebbe a dire, che pensava che i poveri nollo astettassero [2]; e che volentieri si partirebbe. Ma da l'altra parte considerando i dì santi che veniano della settimana santa, e il dì della santa Pasqua, a lui e a molti altri parve si dovesse muovere il dì dopo la Pasqua, cioè il lunedì mattina, il 19 aprile, MCCCLXXXVIIII. E la mattina della Pasqua, comunicate molte persone, sì disse (essendo a l'altare, nella parte della confessione, con molte ammonizioni infine), come si partìa l'altra mattina, e che non vedea esso, per la parte sua, più a fare nulla, e che l'avessono per scusato, e perdonassongli sed egli avesse errato, che non sapea più: con molta umiltà e' prese il commiato da ciascuno.

Et il lunedì mattina, in sul dì, essendo per moversi, e già mosso con certi, cominciò a dire frate Michele, che non gli dava il cuore di potere andare. E dopo molte parole, noi la rimettemmo in lui [3]; e deliberò la mattina di non muoversi, ma che arebbe ben caro d'abergare [4] la sera fuori della città, per potere la seguente mattina fare una buona levata: e così diliberato e ordinato, ancora non si poté. Et in questo intervallo, che parve che dovesse essere pur così, certe figliuole di Giuda, che s'erano più volte schifate per l'adrieto, instigate dal diavolo, con più molta sollicitudine cercavano di confessarsi e di volere la salute dell'anima loro ecc., sì diliberoe d'andarvi. Et essendo menato alle predette femine (cioè due pinzochere [5] e tre donne vedove), andando per la via, il compagno C. gli disse: – Datemi alcuno modo di parlare con queste donne. – E que' rispuose: – Io dirò ciò che mi verrà a bocca, dì tu quello che Dio t'ispira. – E giunto in casa loro, essendo incominciato a parlare, disse: – Io dico con l'Apostolo santo Paulo, che dice, che ogni cosa che altri à a fare, ciò è né per aguri, né per osservanza di dì ecc.; ma nel nome di Iesu Cristo io incomincio a parlare, e proporrò a voi la parola del Santo Evangelio, che dice: Guardatevi da' falsi profeti ecc. [6]. E parlò loro molte cose della verità; e dando loro a vedere le innumerabili persecuzioni che seguitano a chi dirittamente in questo tempo vuole seguitare e osservare i comandamenti di Dio e della Santa Chiesa, dicendo: – Non credete a noi, ma alle Sante Scritture, imperò che, se i santi non ci ingannano, questa è la verità –. E quando ebbe molto favellato loro a terrore de' pericoli di questi tempi, fue pregato, e dettogli: voi ci avete pronunciato le pene, diteci alcuna cosa del premio. E quegli non parea che potesse dire altro, se non cose da spaventarle, per vedere la loro fermezza; in tanto che, parendone molto spaventate, altro che due voleano venire alla confessione. Ma essendo pregato dicesse del conforto che ricevono coloro che seguitano la verità; detto quello che intorno a ciò bisogna, attese alle loro confessioni.

[1] Intendi 1389, perché a Firenze gli anni si computavano dal 25 marzo.

[2] Forma popolare per «aspettassero».

[3] Da queste parole si deduce che l'autore della Storia era uno dei compagni di fra Michele.

[4] Arebbe è forma popolare per «avrebbe»; abergare per «albergare».

[5] Qua non ha il senso spregiativo moderno, ma sembra indicare le aderenti alla setta dei Fraticelli.

[6] Matteo 7, 15.
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10. Le «Artes praedicandi»

Dal XII al XV secolo si moltiplicano i trattati sulla predicazione, che offrono al predicatore non solo le regole del sermo modernus, ma anche raccomandazioni morali e una messe di argomenti predicabili. Ecco alcune pagine del De eruditione praedicatorum di Umberto di Romans, uno dei maggiori organizzatori dell'ordine domenicano (cfr. Opera de vita regulari, ed. J. J. BERTHIER, Romae, 1889, vol. II, pp. 400-402).

DE SCIENTIA PRAEDICATORIS

Circa scientiam praedicatoris notandum est quod ad praedicatorem pertinet habere scientiam, cum habeat alios docere. Et ideo dicitur de quibusdam, I Tim. I, in eorum reprehensionem: Volentes esse legis doctores, non intelligentes quae loquuntur, nec de quibus affirmant [1].

Multiplex autem est scientia, quae eis est necessaria. Una est scientia sanctarum Scripturarum. Cum enim omnis praedicatio debeat fieri de sacris Scripturis, juxta illud Ps. 103: De medio petrarum, idest duorum testamentorum, dabunt voces [2]; et hoc non possint facere praedicatores nisi habeant eorum scientiam, necessaria est eis hujusmodi scientia. Et ideo Dominus licet vocaverit simplices ad officium praedicationis, tamen dedit eis scientiam Scripturarum sanctarum, ut patet ex eorum scriptis, in quibus auctoritates veteris testamenti frequenter allegant…

Alia est scientia creaturarum. Effundit enim Deus sapientiam suam super omnia opera sua: propter quod beatus Antonius [3] dixit creaturas esse librum. Et ex isto libro qui sciunt ibi bene legere, eliciunt multa, quae multum valent ad aedificationem. Hac autem scientia utens Dominus, Matth. 6, in praedicatione, dicebat: Considerate volatilia coeli; et iterum: Considerate lilia agri [4].

Alia est scientia historiarum. Sunt enim multae historiae, non solum apud fideles, sed etiam apud infideles, quae interdum multum valent in praedicatione ad aedificationem: unde et Dominus his utens Luc. 11, contra indevotos ad verbum Dei dicebat: Regina austri surget in judicio cum viris generationis hujus, et condemnabit eos, quia venit a finibus terrae audire sapientiam Salomonis; et ecce plusquam Salomon hic. Item, contra impoenitentes ibidem dicebat: Viri Ninivitae etc. [5].

Alia est scientia mandatorum Ecclesiae; quia circa horum multa instruendi sunt homines. Act. 15: Perambulabat Paulus Syriam et Ciliciam confrmans ecclesiam, praecipiens custodire praecepta Apostolorum [6].

Alia est scientia mysteriorum Ecclesiae, de qua dicit Apostolus: Et si noverim omnia mysteria [7]. Plena est enim Ecclesia figuris mysticis [8], quae expositae conferunt multum ad aedificationem, et ideo expedit praedicatori ista scire. Et ideo Eccl. 15: In medio Ecclesiae aperuit os ejus, idest praedicatoris, et implevit illum Dominus Spiritu sapientiae et intellectus [9]. Spiritus quidem intellectus dicitur quo intelliguntur quae sub figuris latent intus, quia intelligere est quasi intus legere.

Alia est scientia experimentalis. Qui enim multa sunt experti circa statum animarum, plura possunt loqui de pertinentibus ad eas. Eccl. 34: Vir expertus in multis cogitabit multa, et enarrabit intellectum [10].

Alia est scientia discretionis. Haec est enim quae docet quibus non est praedicandum verbum Dei, quia nec canibus, nec porcis; et quibus est praedicandum.

Item, quando est praedicandum, et quando non: quia tempus tacendi, tempus loquendi. Eccl. 3 [11].

Item, quid, cui, sicut docet Gregorius in Pastorali [12], ponens circa hoc triginta sex varietates.

Item, ponit modum circa prolixitatem, et circa clamorem, et circa gestus inhonestos, et circa inordinationem dicendorum, et alia hujusmodi, quae in praedicatione minus bene fiunt. Et ideo praedicatori competit discretio.

LA SCIENZA DEL PREDICATORE

[Quanto alla scienza del predicatore è da notare che egli è tenuto possedere sicure nozioni, dovendo poi insegnarle agli altri. Perciò è detto di alcuni nella Prima lettera a Timoteo, nel capitolo 1, a loro biasimo: Vogliono essere dottori della legge e non capiscono né quello che dicono né quello che vanno affermando e sostenendo.

Molteplice è la scienza necessaria ai predicatori. Una è la conoscenza delle Sante Scritture. Poiché ogni sermone deve farsi sulla base della Sacra Scrittura (secondo ciò che è detto nel Salmo 103: Tra le pietre, cioè i due Testamenti, cinguetteranno) e ciò non è possibile senza averne una buona conoscenza, evidentemente è necessario che si possieda questa scienza. Perciò il Signore, pur avendo chiamato dei semplici alla predicazione, diede loro la scienza delle Sante Scritture, come è ben evidente dai loro scritti, nei quali vengono spesso allegate citazioni dell'Antico Testamento…

È necessaria anche la scienza delle creature. Dio infatti sparge la sua sapienza su tutte le sue opere: perciò il beato Antonio disse che le creature sono un libro. Da esso, chi vi sappia ben leggere, può cavare molti insegnamenti utili all'edificazione dei fedeli. Il Signore, servendosi di questa scienza nella sua predicazione, diceva, secondo quel che si legge in Matteo, capitolo 6: Considerate gli uccelli dell'aria; e ancora: Considerate i gigli del campo.

Serve anche la conoscenza delle storie. Vi sono molti racconti storici, non solo presso i fedeli, ma anche presso i gentili; e questi sono utilissimi a chi vuole fare un sermone edificante. E il Signore, usando queste storie, stando a quel che racconta Luca nel capitolo 11, contro quelli che non credono la parola di Dio diceva: La regina del Mezzogiorno risorgerà nel giorno del Giudizio, perché ella venne dai confini della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco qui uno che è più di Salomone. Contro quelli che non facevano penitenza diceva nello stesso passo evangelico: Gli abitanti di Ninive risorgeranno etc. Occorre anche la scienza dei precetti della Chiesa, perché la gente ha gran bisogno di essere istruita a questo proposito. Si dice negli Atti degli Apostoli al capitolo 15: Paolo girava per la Siria e la Cilicia confermando nella fede le chiese, ordinando di custodire i precetti degli apostoli.

Un'altra scienza indispensabile è quella dei misteri della Chiesa, della quale parla l'Apostolo: E se conoscessi tutti i misteri. La Chiesa infatti è piena di figure mistiche che, ben chiarite, servono molto a edificare gli uditori: perciò è utile che il predicatore abbia questa scienza.

E dice l'Ecclesiastico al capitolo 15: In mezzo alla Chiesa aperse la sua bocca, cioè del predicatore, e il Signore lo riempì di spirito di sapienza e di intelligenza. E' detto spirito di intelligenza quello che aiuta a comprendere i sensi nascosti sotto le figure storiche, perché intelligere è quasi un “leggere dentro”.

Vi è poi una scienza che viene dall'esperienza. Chi ha una lunga esperienza dei problemi della vita spirituale, può dire più cose pertinenti a quelli. Afferma l'Ecclesiastico nel capitolo 34: L'uomo di grande esperienza sa molte cose, e darà saggi consigli.

Occorre anche la scienza della discrezione. Solo essa infatti insegnerà a chi non si deve predicare la parola di Dio – poiché non si deve predicare né a cani né a porci –; a chi invece è buono predicare. In base a questa scienza si saprà quando bisogna predicare e quando no, perché, come dice l'Ecclesiaste al capitolo 3: Vï è tempo di tacere e tempo per parlare. La stessa scienza dirà che cosa, e a chi predicare, come insegna Gregorio nel Pastorale, distinguendo trentasei casi. La discrezione poi frena la prolissità e evita i clamori, i gesti non convenienti, le parole non opportune e altri eccessi che non si addicono alla predicazione. Perciò la discrezione è scienza più che mai conveniente a chi predica].

[1] Prima lettera a Timoteo 1, 7.

[2] Salmo. 103, 12.

[3] Si tratta di sant'Antonio abate.

[4] Matteo 6, 26 e 28.

[5] Luca 11, 32.

[6] Atti 15, 41.

[7] Prima lettera ai Corinzi 13, 2.

[8] Qui si allude all'interpretazione spirituale (allegorica, morale, anagogica) della Scrittura.

[9] Ecclesiastico 15, 5.

[10] Ecclesiastico 34, 9.

[11] Ecclesiaste 3, 7.

[12] Intende il Regulae Pastoralis Liber, sulle responsabilità dei pastori. Cfr. Patrologia Latina, tomo 77.

***
11. Raccolte di «exempla»

Tra le moltissime sillogi di exempla propongo due campioni. Il primo aneddoto (a) è tratto dal Dialogus miraculorum del monaco cistercense Cesario di Heisterbach († 1240): ed. J. STRANGE pubblicata a Colonia, Bonn e Bruxelles nel 1851; ristampata a Ridgewood, New Jersey, nel 1966, vol. II, pp. 131-132. Questo è il modello probabile della novella di Messer Torello e del Saladino (Decameron X, 9). Segue (b) una pagina del Breviloquium de virtutibus del francescano Giovanni di Galles († 1302), secondo uno dei quattro volgarizzamenti toscani a noi noti (cfr. M. BARBI, La leggenda di Traiano nei volgarizzamenti del Breviloquium de virtutibus di fra Giovanni Gallese, Firenze, per nozze Flamini-Fanelli, 1895). Trascrivo dal codice II IV 121 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (cap. XXII, a cc. 21ra-22rb).
a) La storia di Gerardo

In villa quae dicitur Holenbach, miles quidam habitavit nomine Gerardus. Huius nepotes adhuc vivunt, et vix aliquis in eadem reperitur villa quem lateat miraculum quod de illo dicturus sum. Hic sanctum Thomam Apostolum [1], tam ardenter diligebat, tam specialiter prae ceteris sanctis honorabat, ut nulli pauperi in illius nomine petenti eleemosynam negaret. Multa praeterea privata servitia, ut sunt orationes, ieiunia et missarum celebrationes, illi impendere consuevit. Die quadam Deo permittente omnium bonorum inimicus diabolus ante ostium militis pulsans, sub forma et habitu peregrini, in nomine sancti Thomae hospitium petivit. Quo sub omni festinatione intromisso, cum esset frigus, et ille se algere simularet, Gerardus cappam suam furratam bonam satis, qua se tegeret iens cubitum, transmisit. Mane vero cum is, qui peregrinus videbatur, non appareret, et cappa quaesita non fuisset inventa, uxor marito irata ait: Saepe ab huiusmodi trutanis illusus estis, et adhuc a superstitionibus vestris non cessatis. Cui ille tranquillo animo respondit: Non turbari, bene restituet nobis hoc damnum sanctus Thomas. Haec egit diabolus ut militem per damnum cappae ad impatientiam provocaret, et Apostoli dilectionem in eius corde extingueret.

Sed militi cessit ad gloriam, quod diabolus praeparaverat ad ruinam, et inde ille amplius est accensus, unde iste confusus est ac punitus. Nam parvo emerso tempore Gerardus limina beati Thomae adire volens, cum esset in procinctu positus, circulum aureum in oculis uxoris in duas partes dividens, easque coram illa coniungens, unam illi dedit et alteram sibi reservavit, dicens: Huic signo credere debes. Rogo etiam ut quinque annis reditum meum exspectes, quibus expletis nubas cui volueris. Et promisit ei. Qui via vadens longissima, tandem cum magnis expensis maximisque laborioso pervenit ad civitatem sancti Thomae Apostoli. In qua a civibus officiosissime est salutatus, et cum tanta caritate susceptus, ac si unus illorum esset eisque notissimus.

Gratiam eandem ascribens beato Apostolo, oratorium eius intravit et oravit, se, uxorem, et omnia ad se pertinentia illi commendans. Post haec termini sui reminiscens, et in eodem die quinquennium completum considerans, ingemuit et ait: Heu modo uxor mea viro alteri nubet. Impedierat Deus iter eius propter hoc quod sequitur. Qui cum tristis circumspiceret, vidit praedictum daemonem in cappa sua deambulantem. Et ait daemon: Cognoscis me Gerarde? Non, inquit, te cognosco, sed cappam. Respondit ille: Ego sum qui in nomine Apostoli hospitium a te petivi, et cappam tibi tuli, pro qua et valde punitus sum. Et adiecit: Ego sum diabolus, et praeceptum est mihi, ut antequam homines cubitum vadant, in domum tuam te transferam, eo quod uxor tua alteri viro nupserit, et iam in nuptiis cum illo sedeat. Tollens eum, in parte diei ab India in Theutoniam, ab ortu solis in eius occasum transvexit, et circa crepusculum in curia propria illum sine laesione deposuit. Qui domum suam sicut barbarus intrans, cum uxorem propriam cum sponso suo vidisset comedentem, proprius accessit, eaque aspiciente partem circuli in scyphum mittens abcessit. Quod ubi illa vidit, mox extraxit, et partem sibi dimissam adiungens, cognovit eum suum esse maritum. Statim exiliens in amplexus eius ruit, virum suum Gerardum illum esse proclamans, sponso valedicens. Quem tamen Gerardus illa nocte pro honestate secum retinuit.

[In una città chiamata Holenbach abitava un cavaliere di nome Gerardo: i suoi nipoti vivono ancora e nessuno ignora in quella città il miracolo che mi accingo a narrarvi. Gerardo dunque aveva un amore così ardente per san Tommaso apostolo, e lo venerava così specialmente sopra tutti gli altri santi, che non rifiutava l'elemosina a nessun povero, purché la chiedesse in suo nome. Usava anche prestare a quel santo in privato molte attenzioni, come preghiere, digiuni e messe.

Un giorno, col permesso di Dio, il diavolo, che odia ogni bene, bussò alla porta del cavaliere travestito da pellegrino, e chiese ospitalità in nome di san Tommaso. Senza indugio fu introdotto, e poiché faceva un gran freddo e il diavolo fingeva di rabbrividire, Gerardo gli diede la sua bella cappa foderata di pelliccia, perché si ricoprisse durante il sonno. Ma al mattino, non comparendo il falso pellegrino e non ritrovandosi la cappa, nonostante le ricerche più attente, la moglie disse al marito piena d'ira; «Sei già stato ingannato parecchie volte da questi viandanti, e non hai ancora smesso con le tue superstizioni!». Al che Gerardo tranquillo replicò: «Non turbarti, san Tommaso ci ripagherà bene di questo danno». Il diavolo aveva trovato questa via per indurre il cavaliere all'impazienza per la perdita della cappa, e per spegnere nel suo cuore l'amore per l'apostolo Tommaso. Ma ciò che il diavolo aveva preparato per la rovina del cavaliere, ridondò poi a sua gloria: egli diventò più accesamente devoto, e il diavolo fu confuso e punito.

Poco tempo dopo infatti, volendo Gerardo fare un pellegrinaggio al santuario di san Tommaso, sul punto di partire, spezzò un anello d'oro in due parti sotto gli occhi della moglie, e davanti a lei mostrò come esse combaciavano perfettamente; poi gliene diede una e tenne l'altra, dicendo: «Presta fede a questo segno di riconoscimento. Ti chiedo di aspettare cinque anni il mio ritorno, dopo sposa pure chi vuoi». La donna promise. Egli con un lunghissimo viaggio, con grandi spese e indicibili stenti giunse alla fine alla città di san Tommaso apostolo. Lì fu accolto con grandissimo onore dagli abitanti e sostentato con tanta carità come se fosse un loro concittadino, noto da gran tempo. Egli, attribuendo al beato apostolo questo miracolo, entrò nel suo santuario e pregò, mettendo sotto la sua protezione se stesso, la moglie e tutti i suoi beni. Ma ricordandosi all'improvviso del termine fissato al suo ritorno, e riflettendo che in quello stesso giorno spirava il quinquennio, disse con un gemito: «Ohimè, tra poco mia moglie si risposerà!». Dio aveva reso più lungo il suo viaggio per realizzare il miracolo che sentirete. Guardandosi attorno tristemente, egli vide passeggiare con la sua cappa il demonio di cui si diceva all'inizio della storia. Questi chiese: «Mi conosci, Gerardo?». «Non riconosco te – rispose il cavaliere – ma la mia cappa!». E quell'altro: «Io sono quello che in nome dell'Apostolo ti chiesi albergo e ti rubai la cappa, e perciò sono stato punito gravemente». E proseguì: «Io sono il diavolo, e mi è stato ordinato di trasportarti a casa prima che la gente vada a dormire. Tua moglie infatti si è già sposata a un altro uomo, e già siede con lui al banchetto di nozze». Lo prese e in quel che restava di tempo prima della notte lo trasportò dall'India in Germania, dall'Oriente in Occidente, e verso il crepuscolo lo depose sano e salvo nel suo palazzo.

Gerardo, entrando in casa sua come uno straniero, avendo scorta la moglie a banchetto col suo sposo, si avvicinò, e sotto i suoi occhi gettò in una coppa una metà dell'anello; poi si scostò. Non appena vide questo gesto, ella estrasse la parte dell'anello, e accostatolo alla metà che le era stata lasciata, riconobbe che quello straniero era suo marito. Sùbito, balzata in piedi, si gettò tra le sue braccia, gridando che quello era suo marito, Gerardo, e congedò il novello sposo. Ma Gerardo per quella sera lo pregò di trattenersi a banchetto perché non fosse disonorato].
b) Continenza di Diogene

Valerio [2] narra della grande continenzia di Diogene filosafo, che vegnendo Allexandro a lui, trovandolo sedere al sole, sì li disse: «Io ti priego che se tu hai bisogno di nulla, che tu lo mi dica, e io te 'l darò». Allora Diogene non si levò da sedere, e rispose: «A uomo robusto, cioè savio, non fa bisogno prestanza, ma io vorrei che tu non stesse tra me e 'l sole». Allexandro s'era isforzato di sapere se potesse levare Diogene dalla sua continenzia, però che mai non volle possedere alcuna cosa, e più tosto arebbe vinto, e vinse, Dario che Diogene. E di ciò disse Seneca che più ricco e più potente fue Diogene che Allexandro, lo quale possedea tutto lo mondo, però che più era quello che Diogene non arebbe tolto o voluto, che tutto quello che Allexandro avesse potuto dare; e in quello die fue vinto Allexandro, però che trovò uomo al quale non poté dare né torre alcuna cosa.

E di lui parla quello altro filosafo dicendo: Diogene famosissimo filosafo fu via più potente d'Allexandro, però che vinse la natura umana; però che, essendo lui discepolo d'Antistine, lo quale neuno discepolo tenea da certo tempo innanzi, vogliendo cacciare da sé Diogene, non poteo, e alla fine lo minacciò di darli con uno bastone. Allora Diogene chinò le spalle e disse: «Non fie [3] sì duro bastone che mi possa fare partire dal tuo servigio». E di lui parla Orazio [4], e dice che per la sua continenzia non si vestiva quando era caldo se non d'uno pannolino sottile, e quando era freddo l'adoppiava [5]. Lo suo celleri [6] era uno vaso di legno e la sua casa era una cesta, la quale volgea come si volgea lo sole: quando era di verno volgea la bocca verso lo sole, e la state facea lo contrario. Lo suo aiuto era uno bastone, lo quale tenea per andarsi apoggiando quando era vecchissimo. Lo cibo chiedeva, e più non tollea che li bastasse per volta. E un dì vide uno fanciullo bere l'acqua con mano: incontenente [7] gittò lo nappo suo e disse: «Io non sapea che la natura avessi dato nappo all'uomo…»

[1] San Tommaso, apostolo ed evangelizzatore dell'India. Cfr. Legenda Aurea, cap. 5.

[2] S'intende Valerio Massimo, autore dei Factorum et dictorum memorabilium libri novem, fonte importantissima della narrativa medievale (cfr. ed. C. KEMPF, Stuttgart, Teubner, 1888, libro IV, cap. III, Ext. § 4, p. 186).

[3] Sarà.

[4] Epistola XVII, vv. 25 segg.

[5] Ne usava uno più pesante.

[6] Cantina.

[7] Sùbito.

***
12. Vite dei santi

L'agiografia fornisce ai predicatori, soprattutto se devono tenere un sermone in onore di un santo, un vastissimo materiale narrativo. Si scelgono tre passi tratti dalle raccolte agiografiche più note nel Medioevo: a) un capitolo della via di sant'Antonio abate, inserita nelle Vite dei santi padri secondo il volgarizzamento attribuito a Domenico Cavalca (ed. per cura di B. SORIO e A. RACHELI, Trieste, 1858, p. 18); b) un miracolo di san Benedetto raccontato nel libro II del Dialogo di san Gregorio, pure volgarizzato dal Cavalca (cfr. Volgarizzamenti del Due e Trecento, a cura di C. SEGRE, Torino, Utet, 1966, p. 273); c) un miracolo di san Nicola secondo il volgarizzamento trecentesco della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (ed. a cura di A. LEVASTI, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1924, vol. I, pp. 56-57).
a) Le tentazioni di sant'Antonio

E vedendo e intendendo lo nimico dell'umana generazione in Antonio tante virtudi e tanta fama e gloria, brigava molto, tentandolo, di ritrarnelo da quello santo proponimento. E prima movendogli guerra gl'incominciò a mettere pensieri importuni delle ricchezze che avea lasciate, e della sorella ch'era rimasa, e della nobiltà di sua schiatta, e della gloria e pompa del secolo, la quale avere solea e potea, se volea. E poi per ispaventarlo gli mettea forti imaginazioni della grande fatica che è a venire a virtù, della fragilità del suo corpo, de' molti pericoli e lacciuoli che sono nella via della penitenza. Anche come era giovane e però potea assai tempo godere lo mondo e poi tornare a Dio. Delle quali tutte cose e imaginazioni Antonio, armatosi del segno della croce e continuando l'orazione e la memoria della passione di Cristo, facendosene beffe, vedendosi lo nimico vincere e vergognandosi d'essere da lui sconfitto, mossegli l'usata battaglia che suole dare a' giovani, cioè della carne, e molestavalo in mettendogli di dì e di notte laidissimi pensieri e imaginazioni e fantasie. Ed era sì forte questa battaglia, mettendo lo nimico importunamente questi pensieri e imaginazioni e fantasie, e Antonio isforzandosi di cacciarli orando e piangendo e gridando a Dio, che senza dubbio parea a chi 'l sentia in questa agonia, ch'egli visibilmente pugnasse col diavolo. Lo nimico gli scaldava la carne e incitavalo a disonesti reggimenti; ed egli la macerava vegghiando, orando e digiunando e in molti modi sé affliggendo. Lo nimico gli facea apparire di notte forme di bellissime femmine e impudiche; ed egli, ripensando lo fuoco dello 'nferno e i vèrmini apparecchiati ai disonesti, resistea e contradicea valentemente, e facendosi di lui beffe, rimanea vincitore, e intra tante e tali tentazioni servava senza macula la purità dell'anima.
b) Un miracolo di san Benedetto

COME FECE GITTARE LO VAGELLO [1] DEL VETRO PER LE FINESTRE E NON SI RUPPE (CAP. XXXII)

In quel tempo che tutta Campagna era in grandissima carestia e fame, lo pietoso Benedetto per compassione ch'aveva a' povari affamati distribuitte e diede loro ciò che nel monistero poté trovare da dare, intanto che non vi rimase se no un poco d'olio in uno vasello di vetro. Allora un sodiacano [2] ch'aveva nome Agabito venne a san Benedetto, e pregollo per Dio [3] che li facesse dare un poco d'olio. Allora l'omo di Dio Benedetto, che s'aveva posto in cuore di dare in terra ogne cosa pe[r] ritrovare in cielo, comandò al camarlengo [4] che li desse quel poco dell'olio che v'era rimaso. Le quali parole e 'l qual comandamento lo camarlengo uditte, ma non l'ubiditte. E stando uno poco domandollo san Benedetto se aveva dato l'olio sicondo che elli li aveva comandato. E quelli rispose che no, perché s'elli lo desse non ve ne rimarrebbe per li frati. Allora irato Benedetto comandò a un altro monaco che quel vasello del vetro coll'olio gittasse giù per la finestra, acciò che in casa non rimanesse cosa per inobedienza. E così fu fatto. Ed essendo gittato lo vagello, e venendo sopra' sassi che erano sotto la finestra, così stette e rimase saldo e sano come se non fusse gittato; e non solamente non si ruppe lo vasello, ma eziandio l'olio non si versoe. Lo qual vasello san Benedetto fece ricogliare e dare a quel povaro suddiacano. E poi, adunati li frati tutti, riprese e corresse lo monaco disubidiente denanzi a tutti.
c) San Nicola mallevadore

Uno uomo accattò in prestanza da uno giudeo una quantità di moneta giurando di rendere per santo Niccolaio, però che non potea trovare altro mallevadore che tanto piacesse al giudeo. Sì che, tenendo costui lungo tempo la pecunia, il giudeo gliele raddomandava; e quelli affermava come gliel'avea renduta.

Il giudeo il fece menare a la Corte, e il giudice fa giurare il debitore. Quando il debitore sentì che dovea andare a la Corte, pensoe malizia, e tolse in mano un bastone cavato e votollo dentro (ovvero una canna) e missevi dentro oro trito di più valuta che non dovea rendere, e portavalo quasi come s'andasse appoggiando con esso. Sì che, quando andò a fare il saramento [5] dinanzi al giudice, diede quel bastone intanto a serbare al giudeo, e giurò che gli avea renduto più che 'l giudeo non gli avea prestato. E quando ebbe giurato, si fece rendere il bastone; e 'l giudeo, non conoscendo la malizia, sì glielo rendeo.

Tornando a casa questi ch'avea commessa la frode, addormentossi in uno crocicchio di via, e un carro, tratto con grande empeto, lo scalpitò, ed ebbelo morto [6]; e l'oro ch'era nel bastone si sparse. La qual cosa udendo il giudeo, corse tosto làe, e fue veduta la malizia di costui. Allora dicendo al giudeo molti ch'erano tratti là a vedere che si togliesse tutto quello oro, disse che non lo torrebbe, se, per li meriti di santo Niccolaio, quel morto non fosse prima recato a vita; affermando, se questo fia, egli riceverà il battesimo e farassi cristiano. Incontanente il morto si levò suso sano e salvo; e 'l giudeo fu battezzato nel nome di Cristo.

[1] Recipiente.

[2] Suddiacono.

[3] In nome di Dio.

[4] Economo, dispensiere.

[5] Giuramento.

[6] Lo travolse e lo uccise sul colpo.


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26/01/2013 15:22

13. I «Libri de virtutibus et vitiis»

Vere enciclopedie morali i Libri delle virtù e dei vizi sono uno strumento di lavoro indispensabile per il predicatore. Presento come campione una pagina sull'amore tra padri e figli del Liber de virtutibus et vitiis di Servasanto da Faenza. Seguo la lezione del codice 1696 della Biblioteca Universitaria di Bologna (cc. 72r-73v).

Viso de amore modoque amandi quo diligitur proximus, nunc videre restat de speciebus ipsius, et primo de amore parentum. Nam ad eorum amorem et movet natura et movent beneficia et movent exempla. Dico quod movet ad amorem parentum ipsa natura, quia corpus filiorum procedit ex carne parentum... Nota tamen quod amor iste non debet mensura carere, sed primo divino amore debet esse cohibitus. Unde Dominus in Matthaeo [1] sic ait: Qui diligit patrem vel matrem plus quam me non est me dignus. Cuius ratio est quia anima longe est melior corpore propter quam corpus est factum; et quia spiritualia sunt corporalibus meliora. Ergo Deus qui per se animam dedit et sine quo homo corpus non generavit, est magis quam homo amandus, quia quod dedit est longe maius et melius. Maiora enim dona maioris amoris sunt provocativa. Amor ergo parentum est bonus, sed si non sit amori divino contrarius. Gregorius: In hoc modo ametur quilibet adversarius, sed in via Dei contrarius non ametur etiam propinquus [2]. Honora patrem tuum, sed si te a vero Patre non separet. Tamdiu scito carnis copulam quamdiu ille noverit creatorem. Similiter et amor filiorum debet esse in Dominum. Exemplum in Heli et filiis eius de quibus sic legitur 1° Regum: Quare, Dominus inquit, honorasti filios tuos magis quam me? [3] Et sequitur inquiens quomodo periit ipse cum filiis una die [4]. Sed non talis Abraham, qui filium amatissimum voluit immolare [5]. Non talis et mulier illa sancta que septem filios pereuntes sub unius diei tempore conspiciens mori beato animo ferebatur, 2° Macabeorum [6]. Fuerunt et alie plures femine sancte, amorem Dei preferentes filiorum amori; sed heu quia nonnulli sunt qui amorem filiorum Domini proponunt amori. Exemplum de illo qui in pueritia non correptus a patre latro magnus est factus. Quem cum pater revocare a latrociniis niteretur, ostendit illi filius arborem tortuosam, in sua obliquitatem diutius delicatam, dicens patri ut rectificaret illam; hoc illi ostendere volens exemplo: quod sicut virgulas teneras facile ad rectitudinem possunt agricole revocare, sed non antiquatas et desiccatas in obliquitate; sic infantuli facile corriguntur, si a parentibus corrigantur, sed male diutius assueti non possunt divina potentia revocari…

[Avendo trattato dell'amore e del modo di amare il prossimo, resta da vedere delle sue varie specie, e innanzitutto dell'amore dei genitori. Muovono ad amarli la natura stessa, i benefici ricevuti, gli esempi. Dico che spinge ad amare i genitori la natura, perché il corpo dei figli deriva dalla carne dei genitori… Tuttavia è da notare che questo amore naturale non deve essere senza limiti, ma limitato innanzitutto dall'amore di Dio. Perciò il Signore dice nel Vangelo di Matteo: Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me. La ragione di questa affermazione è che l'anima è molto migliore del corpo, che è fatto per essa, e perché le cose spirituali sono migliori delle corporali. Dunque Dio, che per sua bontà diede l'anima, e senza il quale l'uomo non generò il corpo, va amato più dell'uomo: infatti doni maggiori esigono un più grande amore.

Dunque l'amore dei genitori è buono solo se non è contrario all'amor di Dio. Dice san Gregorio: A questo patto si ami qualunque nemico, ma se si oppone alla via di Dio, non si ami neppure un parente. Onora tuo padre, ma se non ti separa dal vero Padre. Riconosci l'unione della carne solo finché essa riconoscerà il Creatore. Così anche l'amore per i figli deve essere nel Signore. Vedi l'esempio di Eli e dei suoi figli, di cui così si legge nel primo Libro dei Re: Perché, dice il Signore, hai onorato i tuoi figli più di me? E segue dicendo come perì egli coi figli in un giorno. Non così si comportò Abramo, che fu pronto a immolare il suo amatissimo figlio. Non così quella santa donna che serenamente sopportava di vedere morire nello stesso giorno i suoi sette figliuoli, come si legge nel Libro secondo dei Maccabei. Vi furono anche molte altre donne sante, che preferirono l'amore di Dio a quello dei figli; ma ahimè, non pochi mettono l'affetto per i figli davanti all'amor di Dio. Vedi l'esempio di quello che, non essendo stato castigato dal padre mentre era fanciullo, diventò un grande bandito. Al padre, che tentava di distoglierlo dalla rapina, questi mostrò un albero storto, che era stato lasciato crescere troppo a lungo in senso obliquo; e gli disse di raddrizzarlo. Con questo esempio volle mostrargli che come i contadini possono facilmente raddrizzare i teneri alberelli, ma non le piante cresciute e rassodate nella loro stortura; così i fanciulli si ravvedono facilmente, se corretti dai genitori, ma una volta incalliti nel male non possono essere mutati neppure dalla Potenza divina…].

[1] Matteo 10, 37.

[2] Moralium in Iob, Homilia XXXVII, 3 (Patrologia latina 76, 1277).

[3] I Libro dei Re 2, 29. I figli di Eli, sacerdoti del Tempio, mangiavano le offerte prima che fossero sacrificate e giacevano con le donne di servizio. Il padre li rimprovera, ma blandamente.

[4] Cfr. il cap. 4.

[5] Genesi 22, 9.

[6] Libro 2° dei Maccabei, cap. 7.

***

14. Sant'Antonio da Padova: sermone per la IV Domenica dopo l'Epifania

Mi limito a riprodurre il prothema, dove sant'Antonio chiarisce quali siano i compiti del buon predicatore. Si noti che il prothema sviluppa una autorità (Ascende in silvam) che richiama verbalmente il versetto del thema (Ascendente Jesu etc.). Il testo è quello dell'ed. Locatelli (Sermones dominicales et in Solemnitatibus, a cura di A. M. LOCATELLI, Patavii, presso la Basilica, 1885, vol. II, p. 685).

In illo tempore: Ascendente Iesu in naviculam, secuti sunt eum discipuli eius [1]. Dicitur in libro Iosue: Ascende in silvam, et succide tibi spatia in terra Pherezaei et Raphaim [2]. Silva est sterilis congregatio peccatorum, frigida, obscura, bestiis plena. Frigida propter defectum caritatis, abundavit enim iniquitas, et refriguit caritas [3], obscura propter defectum luminis; dilexerunt, inquit, homines magis tenebras, quam lucem [4]; plena bestiis gulae et luxuriae, usurae et rapinae: Exterminavit, inquit, eam aper, idest diabolus, de silva etc. [5]. In hac silva est venator Nembroth, idest diabolus. In hanc ergo silvam ascende, o Praedicator, et illa securi, cuius manubrium humanitas, cuius est ferrum divinitas, succide tibi spatia. Securis, inquit Evangelista, ad radicem arborum posita est [6]. Arbor mundanae altitudinis, silva sterilis et peccatricis congregationis succiditur securi Dominicae Incarnationis. Cum enim attente attendit Caput divinitatis reclinatum in gremio pauperculae Virginis, a sui status dignitate cadit, et sic fit locus spatiosus, in quo aedificatur civitas Domini virtutum, quam fluminis impetus laetificat [7]. Haec est mutatio dexterae Excelsi [8], ut ubi abundavit delictum, superabundet et gratia [9]. In terra, inquit, Pherezaei, qui interpretatur separatus, et Raphaim, qui interpretatur gigantes vel dissolutae matres. In hac triplici interpretatione maledictus ternarius designatur, scilicet superbia, avaritia et luxuria. Superbi animi fastu a ceteris separantur; avari sunt quasi gigantes terrae filii terrenis dediti; luxuriosi sunt tamquam matres dissolutae duobus uberibus, scilicet gula et luxuria carnis affectus nutrientes. Ad succidendum ergo hanc silvam, in tali terra radicatam, Praedicator ascendit sequens vestigia ascendentis in naviculam, de quo dicitur in hodierno Evangelio…

[In quel tempo: Essendo Gesù salito sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono. Si dice nel Libro di Giosuè: Vai nella selva, e abbattila per farvi un posto nella terra del Ferezeo e dei Raphaim. Selva è l'assieme dei peccati che tolgono ogni frutto: selva fredda, oscura, piena di belve. Fredda per mancanza di carità: infatti abbondò l'iniquità e la carità si raffreddò. Oscura perché vi manca la vera luce: Gli uomini – dice Giovanni – preferirono le tenebre alla luce. Piena di belve, cioè gola, lussuria, usura e rapina. Dice la Scrittura: Il cinghiale della foresta, cioè il demonio, la devasta. In questa selva vive il cacciatore Nembroth, cioè il diavolo. Dunque tu, o predicatore, vai in questa selva e fatti uno spazio brandendo quella scure che ha per manico l'umanità, per ferro la divinità di Cristo. La scure – dice l'evangelista – è posta alla radice degli alberi: l'albero della superbia umana, la selva della compagnia sterile dei peccatori è recisa dalla scure dell'Incarnazione del Signore. Quando il peccatore guarda fissamente il Capo della divinità reclinato nel grembo della piccola Vergine, cade dall'altezza della sua superbia; così si forma un luogo spazioso, dove si edifica la città divina delle virtù, allietata dal fiume e dai suoi ruscelli. Questo mutamento viene dalla mano di Dio, perché dove abbondò il peccato, sovrabbondò anche la grazia.

Dice: nella terra del Ferezeo, che si interpreta «separato», e dei Raphaim, che significa «giganti» o «madri dissolute». In questa triplice interpretazione si indica la maledetta triade, cioè la superbia, l'avarizia e la lussuria. I superbi per l'alterigia del loro animo sono separati dagli altri uomini; gli avari sono quasi giganti, figli della terra, dediti alle cose terrene; i lussuriosi sono come madri dissolute che nutrono gli istinti della carne a due poppe, cioè la gola e la lussuria. Dunque il predicatore sale per tagliare questa selva, seguendo i passi di colui che sale nella barca, di cui parla il Vangelo di oggi…].

[1] Matteo 8, 23.

[2] Libro di Giosuè 17, 15.

[3] Cfr. Matteo 24, 12.

[4] Giovanni 3, 19.

[5] Salmo 79, 14.

[6] Matteo 3, 10.

[7] Salmo 45, 5.

[8] Salmo 76, 11.

[9] Lettera ai Romani 5, 20.

***

15. San Bonaventura: sermone per la XIII Domenica dopo Pentecoste

La predica non ha prothema, ma è introdotta da una similitudine morale. La struttura è quella tipica del sermo modernus: il thema è diviso in tre parti, che a loro volta sono svolte con successive suddivisioni. Un exemplum, tratto dall'esperienza personale del predicatore, ravviva il tono del discorso, che pure si regge soprattutto su citazioni scritturali abilmente concordate. Il passo è tratto dall'ed. dei Sermones dei Padri di Quaracchi (Opera omnia, t. IX, Ad Claras Aquas, 1901, pp. 403-404).

Steterunt a longe et levaverunt vocem, dicentes: Iesu, praeceptor, miserere nostri, Lucae decimo septimo [1].

Quia solent reges et iudioes petitiones indiscrete formatas refellere nec effectui mancipare; hinc est, quod isti leprosi, gerentes typum petentium, ne reprehensibiles invenirentur coram Maiestate magni regis et iusti iudicis Iesu Christi, ostenduntur in verbo proposito discrete et prudenter suas petitiones porrexisse… Primo namque habuerunt religiosum gestum circumspectionis per distantiam positionis, quia perfusi erant timore humiliationis. Non enim accesserunt tanquam superbi praesumtuose, sed tanquam humiles reverenter steterunt a longe. Secundo habuerunt devotum praeconium laudationis, quia invocabant Principium humanae salvationis cum vehementia clamoris; unde levaverunt vocem, eximio cum desiderio proferendo: Iesu, quod interpretatur salus. Tertio habuerunt discretum intentum petitionis, quia versabantur circa defectum propriae infectionis sine verecundia propalationis; et ob hoc subiunxerunt: miserere nostri, scilicet quia sumus infecti morbo leprae. Non enim verecundati sunt suum defectum coram omnibus propalare.

Dicit ergo: Steterunt a longe; ubi commendantur quantum ad religiosum gestum circumspectionis. Unde illa anima habet religiosum gestum circumspectionis, quae primo stat humiliter ad deplorandum commissa peccata; secundo stat viriliter ad superandum diabolica tentamenta; tertio stat perseveranter ad obtinenda aeterna praemia.

Primo illa anima poenitens habet religiosum gestum circumspectionis, quae stat humiliter ad deplorandum sua peccata; unde Lucae decimo octavo [2]: Publicanus, a longe stans, nolebat nec oculos ad caelum levare, sed percutiebat pectus suum, dicens: Deus, propitius esto mihi peccatori. Unde Glossa [3]: «A longe stat, sicut humilis non audet appropinquare, ut ad eum Deus appropinquet; non aspicit, ut aspiciatur; premit conscientiam, sed spem sublevat, percutit pectus, poenas de se exigit, ut Deus parcat; confitetur, ut Deus ignoscat; ignoscit Deus quod ille agnoscit». Intellexerat enim ille publicanus illud quod dicitur Ecclesiastici secundo [4]: Fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia et timore. Hoc modo stabat etiam Maria Magdalena, secundum quod dicitur Lucae septimo [5].

Secundo illa anima habet religiosum gestum, quae stat viriliter ad superanda diabolica tentamenta; unde ad Ephesios sexto [6]: Induite vos armaturam Dei, ut possitis stare adversus insidias diaboli; et sequitur: State ergo succincti lumbos vestros in veritate et induti loricam iustitiae. – Ista armatura, qua debemus indui ad hoc, ut possimus superare diabolica tentamenta, est memoria passionis Christi; quae si ad memoriam affectuose reducatur, statim omnes daemones cum tremore effugantur, secundum quod experientia me docuit pluries. Nam semel, cum diabolus, fortiter me stringens in gutture, vellet strangulare, iam non valens prae nimia strictione gutturis clamare, ut a Fratribus adiutorium impetrarem, incipiebam cum ingenti dolore spiritum exhalare; sed habita dominicae passionis memoria, incepi in me compassione dominicae passionis singultus geminare et ignita suspiria loco vocis ad intimis cordis medullis emittere; quo facto, virtute dominicae passionis ego servus crucis, Bonaventura, qui volumen praesens sermonum ad laudem nominis Christi et sanctae crucis honorem compegi, tam crudeli nece profiteor me esse liberatum.

[Si fermarono di lontano e alzarono la voce dicendo: Gesù, maestro, abbi pietà di noi. Luca 17.

I re e i giudici sogliono respingere e invalidare le petizioni avanzate senza discrezione; perciò questi lebbrosi, che rappresentano l'uomo che supplica, avanzarono le loro richieste, come appare dal versetto proposto, con discrezione e prudenza, perché fossero irreprensibili davanti alla Maestà del grande re e giudice, Gesù Cristo… Infatti ebbero innanzitutto un gesto pio di circospezione, espresso dal loro sostare lontani, poiché erano pieni di timore e di umiliazione. Non si avvicinarono presuntuosamente, come fanno i superbi, ma come gli umili si fermarono lontano con reverenza. In secondo luogo ebbero un'espressione devota di lode, poiché con grande clamore invocavano il Principio della salvezza umana: cioè alzarono la voce, gridando con sommo desiderio: Gesù, che si interpreta «salute». In terzo luogo ebbero un saggio intento nel chiedere, poiché parlavano della propria infezione senza vergogna di dichiararla. E perciò soggiunsero abbi pietà di noi, s'intende perché siamo infetti dalla lebbra. Non si vergognarono infatti di manifestare davanti a tutti il loro difetto.

Dice dunque: Si fermarono lontano, dove sono lodati per il pio gesto di circospezione. Questo atto fa l'anima che si ferma prima di tutto a deplorare umilmente i peccati commessi; poi si ferma virilmente a superare le tentazioni diaboliche; in terzo luogo si ferma perseverantemente per ottenere i premi eterni. Prima di tutto l'anima penitente fa un gesto di pia circospezione, stando umilmente a piangere i suoi peccati; onde Luca scrive nel capitolo 18: Il pubblicano, stando lontano, non osava neppure levare gli occhi al cielo, ma si percuoteva il petto dicendo «O Dio, sii propizio verso di me che sono peccatore». E la Glossa aggiunge: «Sta lontano, come l'umile non osa avvicinarsi, perché Dio si avvicini a lui; non guarda, perché sia riguardato; la sua coscienza è abbattuta, ma la speranza è alta; batte il petto, si dichiara colpevole perché Dio perdoni; confessa perché Dio sia clemente: Dio infatti perdona il peccato che egli riconosce». Quel pubblicano aveva inteso il detto che si legge nel capitolo secondo dell'Ecclesiastico: Figlio, se tu intraprendi a servire il Signore, sta nella giustizia e nel timore. Così stava anche Maria Maddalena, secondo quanto si dice nel settimo capitolo del Vangelo di Luca…

In secondo luogo fa un gesto pio l'anima che sta virilmente ferma per superare le tentazioni del demonio, come è detto nel sesto capitolo della Lettera agli Efesini: Rivestitevi dell'armatura di Dio, perché possiate resistere alle insidie del diavolo; e poi: Dunque state coi fianchi cinti di verità, rivestiti della corazza della giustizia. Questa armatura, di cui dobbiamo coprirci per vincere le tentazioni diaboliche, è la memoria della Passione di Cristo. Se la richiameremo alla memoria con affetto, sùbito tutti i demonii atterriti saranno messi in fuga, come più volte mi ha insegnato l'esperienza. Una volta infatti, mentre il diavolo, stringendomi forte la gola voleva soffocarmi, non avendo io, così terribilmente attanagliato, neppure la forza di gridare per avere soccorso dai confratelli , già stavo per esalare l'anima con terribile dolore. Ed ecco revocando alla memoria la Passione del Signore, cominciai a moltiplicare dentro di me i gemiti, per la compassione colla quale partecipavo alla sua Passione; quindi invece di parole cominciai a emettere sospiri ardenti dalle più intime fibre del mio cuore. Dopo di ciò, per virtù della Passione del Signore, io Bonaventura, servo della Croce, autore di questo volume di sermoni a lode del nome di Cristo e della Santa Croce, dichiaro di essere stato liberato da una morte crudelissima].

[1] Luca 17, 13.

[2] Luca 18, 13.

[3] Glossa Ordinaria: cfr. Patrologia Latina 114, col. 323.

[4] Ecclesiastico 2, 1.

[5] Cfr. Luca 7, 38.

[6] Lettera agli Efesini 6, 11.
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26/01/2013 15:36

16. San Tommaso d'Aquino: sermone per la I Domenica d'Avvento

Di questa predica, tenuta probabilmente a Parigi nel 1270, si riproduce solo l'introduzione, dove san Tommaso distingue, secondo uno schema tradizionale, quattro tipi di avvento. Tralascio anche il prothema. Il testo è quello stampato da J. LECLERCQ, L'Idée de la royauté du Christ au Moyen Age, Paris, Ed. du Cerf, 1959, pp. 84-87.

Ecce rex tuus etc… [1] Verba ista sumuntur ex evangelio quod hodie apud nos legitur et sunt sumpta de Zacharia, licet aliquantulum sub aliis verbis ibi recitentur. In verbis autem istis manifeste praenuntiatur nobis Christi adventus. Ne super ambiguo procedamus, scire debetis quod quadruplex legitur Christi adventus. Primus est quo venit in carnem. Secundus ejus adventus est quo venit in mentem. Tertius Christi adventus est quo venit in morte justorum. Sed quartus Christi adventus est quo venit ad judicandum. Primo dico adventus Christi est in carnem. Et non est intelligendum quod venerit in carnem mutando locum, quia dicit in Jeremia: Caelum et terram ego impleo [2]. Quomodo ergo venit in carnem? Dico quod venit in carnem descendens de caelo, non dereliquendo caelum, sed assumendo nostram naturam. Unde in Johanne: In propria venit [3]. Et quomodo dico quod erat in mundo? Quando Verbum caro factum est [4].

Et videte quod iste adventus inducit alium Christi adventum, qui est in mentem. Nihil prodesset nobis quod Christus venisset in carnem nisi cum hoc venisset in mentem scilicet nos sanctificando. Unde in Johanne: Si quis diligit me, sermonem meum servabit, et Pater meus diliget eum et ad eum veniemus et mansionem apud eum faciemus [5]. In primo adventu venit solum Filius. In secundo adventu venit Filius cum Patre ad inhabitandum animam. Per istum adventum qui est per gratiam justificantem, anima liberatur a culpa, non ab omni poena, quia confertur gratia, sed nondum confertur gloria, et propter hoc necessarius est tertius Christi adventus in quo venit in morte sanctorum, scilicet quando ipsos recipit ad seipsum. Unde in Johanne: Si abiero, in passione, et paravero vobis locum, tollendo obstaculum, iterum veniam ad vos, scilicet in morte, et tollam vos ad meipsum, scilicet in gloria, ut ubi sum ego illic et vos sitis [6]. Item in Johanne dicit: Ego veni ut vitam habeant, scilicet praesentiam in animabus, et abundantius habeant [7], scilicet per gloriae participationem.

Quartus Christi adventus erit ad judicandum, scilicet quando Dominus veniet ad judicium, et tunc gloria sanctorum redundabit usque ad corpus et resurgent mortui. Unde in Johanne: Venit hora et nunc est quando omnes qui sunt in monumentis audient vocem Filii Dei, et procedent qui bona egerunt in resurrectionem vitae [8]. Et propter istos quatuor Christi adventus celebrat forte ecclesia quatuor dominicas de Christi adventu…

[Ecco il tuo Re viene a te mansueto. Questo testo è tratto dal Vangelo d'oggi: sono parole di Zaccaria, con una piccola modifica. In questo versetto ci è chiaramente annunciato l'avvento di Cristo. Per evitare ambiguità, sappiate che la Scrittura parla di quattro avventi di Cristo. Il primo è l'Incarnazione, mediante la quale viene nella carne; il secondo avvento è la sua venuta nella mente del cristiano; il terzo è la sua venuta alla morte dei giusti; infine, il quarto è quando viene a giudicare.

Il primo avvento è nella carne umana: non vi si deve intendere un mutamento di luogo, poiché dice in Geremia: Io riempio cielo e terra. Dunque come s'incarnò? Dico che venne nella carne scendendo dal cielo, non lasciando il cielo, ma assumendo la nostra natura. È quello che intende Giovanni: Venne nella sua dimora. E in che termini si può parlare della sua presenza nel mondo? Dicendo: Il Verbo si è fatto carne. Badate che questa venuta prelude a un altro avvento di Cristo, che è nella nostra mente. L'Incarnazione di Cristo non ci servirebbe a nulla, se egli non venisse nella nostra mente santificandoci. Si legge in san Giovanni: Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui.

Nel primo avvento viene solo il Figlio; nel secondo Egli viene col Padre per abitare nell'anima. Per questa venuta, mediante la grazia santificante, l'anima è liberata dalla colpa, non però dalla pena, in quanto si riceve la grazia, ma non ancora la gloria. Perciò è necessario il terzo avvento di Cristo: quello che si verifica alla morte dei santi, e che consiste nel riceverli presso di lui. Dice a questo proposito Giovanni: Se parto, con la mia Passione, e preparo a voi un luogo, togliendo ogni ostacolo, io ritornerò a voi, al momento della morte, e vi porterò con me, cioè nella gloria, perché dove io sono, lo siate anche voi. E sempre nel Vangelo di san Giovanni dice: Io sono venuto perché abbiano la vita, cioè la mia presenza nelle loro anime, e l'abbiano con più abbondanza, cioè partecipando alla gloria.

Un quarto avvento di Cristo sarà al Giudizio, quando il Signore verrà a giudicare: allora la gloria dei santi si estenderà al loro corpo e i morti risusciteranno. Perciò dice san Giovanni: Ecco viene l'ora in cui tutti quelli che sono nel sepolcro udiranno la voce del Figlio di Dio, e in cui gli operatori di bene risusciteranno alla vita. Probabilmente a causa di queste quattro venute di Cristo la Chiesa celebra quattro domeniche d'Avvento…].

[1] Matteo 21, 5. Cfr. Zaccaria 9, 9.

[2] Geremia 23, 24.

[3] Giovanni 1, 11.

[4] Giovanni 1, 14.

[5] Giovnnni 14, 23.

[6] Giovnnni 14, 3.

[7] Giovanni 10, 10.

[8] Giovanni 5, 28-29.

***

17. Giacomo da Benevento: sermone per il Sabato Santo

Si presenta la seconda delle prediche per il Sabato Santo raccolte nel sermonario De Tempore. I sermoni de Passione avevano una struttura drammatica: il predicatore immaginava patetici dialoghi, fatti di citazioni scritturali (soprattutto dal Cantico dei Cantici) tra personaggi allegorici e Cristo stesso. Qui, sulla falsariga del Cantico, la Chiesa è detta Sposa di Cristo: essa partecipa allo strazio dello Sposo, che nella morte le ha dato la più grande prova d'amore. Vi è un richiamo voluto al topos cavalleresco di Amore e Morte, sublimato in chiave teologica. Seguo la lezione del Ms. Conventi Soppressi A 4 857 della Biblioteca Nazionale di Firenze (proveniente da Santa Maria Novella). Il testo è a cc. 236v-b.

Fasciculus mirre dilectus meus mihi. Inter ubera mea commorabitur. Cant. 1 [1].

Sponsa heri lamentabiliter prosecuta est patibulum Sponsi; hodie adhuc lamentabiliter prosecuta est tumulum Sponsi: et ideo consolabiliter letificata est super gaudio refectionis Sponsi. Heri Sponsus sparserat quosdam gratissimos ramusculos: sanguinem veut rosas; corpus velut lilium inter spinas - propter que dicebatur candidus et rubicundus [2] –; animam humilem sicut violam. Sponsa hodie venit ad montem mirre [3] ut colligeret sparsa. Unde tria considerare oportet in verbis propositis.

Primo causam fasciculi, quia Dilectus meus mihi; secundo materiam, quia fasciculus mirre; et tertio archam que ipsum contineat, quia inter ubera mea commorabitur. Circa primum nota quod dilectus olim nuntios amoris ad Sponsam miserat; Sponsa dubitabat, propter quod clamabat: Osculetur me ipse osculo oris [4]. Et ideo vulneratus caritate heri ostendit Sponse precordia caritatis in corde. Bernardus: Quidni pateant viscera pietatis per vulnera lateris? [5]. Item verba ostendit benignitatis in ore; que audiens Sponsa dixit - Cant. III – Vox tua dulcis [6]. Et idem ostendit insigna caritatis in opere. Johannes XIII: Maiorem caritatem nemo habet [7]. Et ideo Sponsa etiam vulnerata caritate dicit: Dilectum Cristum quero. Cum fervore querit. Cant. III: Queram quem diligit [8]. Cum languore plangit. Cant. V: Nuntiate dilecto quia amore langueo [9]. Et cum labore obsequitur, unde paravit unguenta. Cant. IIII: Ibo mihi ad montem mirre et collem thuris etc [10]. Et ideo dicit ipsa Cantica V: Dilectus meus mihi etc.

[Un mazzetto di mirra è per me il mio amato. Egli poserà sul mio seno. Cantico dei Cantici, cap. 1.

Ieri la Sposa ha seguito con lamenti lo Sposo condotto al patibolo; oggi con nuovi lamenti ha seguito le esequie dello Sposo. In questa tristezza ha trovato letizia e consolazione nel ricomporre la sua salma. Ieri lo Sposo aveva sparso alcuni graditissimi ramoscelli: il suo sangue come rose, il corpo come giglio tra le spine – e perciò era detto candido e vermiglio –; l'anima umile come una viola. Oggi la Sposa è venuta al monte della mirra a raccogliere i fiori sparsi.

Occorre perciò considerare tre cose nel testo proposto: prima la causa del mazzo; dice: Il mio amato è per me etc. In secondo luogo la materia; dice: un mazzetto di mirra. Poi il sepolcro che lo contenga; e dice: riposerà tra le mie mammelle. Vediamo il primo punto. Si noti che l'amato aveva mandato già alla Sposa dei messaggeri; ma ella dubitosa del suo amore gridava: Mi baci coi baci migliori della sua bocca. Ferito d'amore ieri egli mostrò alla Sposa nel suo cuore le viscere del suo amore. Dice san Bernardo: Or non appaiono forse per le ferite del suo fianco le viscere della sua pietà? Mostrò ancora sulla sua bocca le parole della misericordia. La Sposa udendole disse – secondo il Cantico, cap. III –: La tua voce è dolce. Mostrò anche i segni dell'amore di fatto. Dice san Giovanni nel capitolo XV: Nessuno ha maggiore amore di colui che sacrifica la vita per i suoi amici. Dunque anche la Sposa, ferita d'amore dice: «Amerò il mio diletto Cristo». E lo ama con fervore. Dice infatti il Cantico al capitolo III: Cercherò colui che la mia anima ama. Con languore fa lutto. Dice il Cantico, capitolo V: Dite al mio amato che muoio d'amore. Lo segue con fatica; ecco che ha preparato gli unguenti. Dice il Cantico, al capitolo IV: Me ne andrò al monte della mirra e dell'incenso etc. Perciò dice sempre il Cantico al capitolo V: Il mio amato è per me un mazzetto di mirra etc.].

[1] Cantico dei Cantici 1, 12.

[2] Cant. 5, 10. Si ricordi il famoso verso jacoponico «Figlio bianco e vermiglio» (Donna de Paradiso, v. 116).

[3] Cfr. Cant. 4, 6.

[4] Cant. 1, 1.

[5] Citazione non rintracciata.

[6] Cant. 2, 14.

[7] Giovanni 15, 13.

[8] Cant. 3, 2.

[9] Cant. 5, 8.

[10] Cant. 4, 6.

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26/01/2013 15:37

18. Tre prediche di fra Giordano da Pisa

Della vastissima predicazione di fra Giordano si propongono tre esempi, che illustrano alcuni degli aspetti più interessanti del suo pensiero e della sua arte. La prima, inedita (dal Ms. Canoniciano italiano 132 della Bodleian Library di Oxford, cc. 74rb- 76va), è un vivace documento della floridezza economica fiorentina all'inizio del secolo XIV, e riflette i problemi morali e sociali connessi col primo sviluppo della società capitalistica. Le altre due prediche dànno un'idea del livello culturale e dei temi più tipici della predicazione giordaniana. Mi servo dell'edizione del Quaresimale fiorentino del 1305-1306 (Firenze, Sansoni, 1974), da me curata per la collana di «Autori classici e documenti di lingua pubblicati dall'Accademia della Crusca», dove le due prediche hanno rispettivamente i numeri XXVIII e LXXV.
a) MCCCIIII, Venerdì dopo nona [1], il dì di calendi gennaio, in Santa Maria Novella predicò frate Giordano

Consummati sunt dies octo [2]. Due sono quelle cose, secondo che i savi dicono, che tolgono la perfezione di tutte le cose: cioè difetto e soperchio. Questi, dicono i savi, tolgono la perfezione. In questa parola proposta si mostra perfezione d'opera compiuta, che fu consumata e perfetta; e questo ne dimostra in ciò che dice dies octo, imperò che otto si è numero circulare e ritondo, che non va più inanci che debbia, che si ritorna in quel medesimo punto. Così va il cerchio. E però facciamo noi l'ottave, imperò che l'ottava sì compie il numero circolare de la festa. Onde se ozzi [3] è domenica, sì diciamo noi che l'altra domenica sia l'ottava, e così ritorna in uno medesimo dì. E però qui avemo exemplo di perfezione in non mancare nell'opere nostre e di non superchiarle, però che così è difetto e vicio il soperchio come 'l poco. Cristo ne diede exemplo nelle sue opere perfette di mozzare il soperchio in ciò che si circoncise, ché tanto è a dire circumcidere come tagliare il soperchio.

Di queste due cose, cioè del mancamento e del soperchio, sarebbe buono a dire d'amendue: diciamo ora pur de l'uno e basterà. Dico dunque che 'l difetto toglie via la perfezione, e quanto è più il difetto, tanto se' più di lungi da perfezione. Quattro sono le ragioni e i modi onde tutte l'opere nostre sono difettive e non sono compiute né consumate, ma mancano: cioè propter difectum ordinis, propter decentiam pulcritudinis – e il suo contrario è defectum pulcritudinis –, propter fortitudinem – e 'l suo contrario si è defectum fortitudinis –, e propter saporem – e 'l suo contrario si è defectum saporis –. Queste sono quattro cose e quattro vie onde tutte l'opere nostre sono difettive e tutte mancano a perfectione, e ogni difetto si possono reducere a questi quattro.

Prima dico che l'opere nostre sono difettive e manche e non sono perfette né confermate per questa ragione: cioè per difetto d'ordine. Quale è l'ordine di tutte le cose? E' è di farle a quel fine al quale sono fatte. Questa è l'ordine, che se tu non fai al fine che 'l dei, tutta è manca la detta opera: così dicono i savi. Or ne veggiamo alcuna. Ecco l'opera de la mercantìa che tuttodì fate: questa si è fatta al suo fine, e quale è il suo fine? A due cose, cioè ad subventionem e ad dilectionem vel congregationem. Prima dico ad subventionem, cioè per sovenimento a' difetti, ché io ho molti difetti e non posso per me bastarmi, né tu a te, ma sono trovate l'arti e le mercantìe acciò che io faccia una mercantìa e tu un'altra, sì che de la mia mercantìa soverrò il difetto tuo, e tu de la tua soverrai al mio. E però sono l'arti diverse per li molti difetti ch'avemo. Io ti do il panno, che n'hai mistieri, e tu dai a me i denari che n'ho mistieri: e così di tutte l'arti. E così fanno le cittadi, ché non ha dato Idio a una gente ciò che bisogna, no, ma intra diverse genti l'ha date: e così l'una cittade soviene l'altra di quello ch'ella a ha, e così l'uno paese l'altro, sì che la mercatantìa si è trovata per subventionem, per cacciare e torre via le molte neccessitadi e difetti che avemo.

Simigliantemente è fatta per congiunzione e per amore. E però volse Idio che noi fossimo difettuosi e abisognassimo l'uno de l'altro per congiunzione e per amore, che se non avessi difetto e avessi da me ciò ch'io volesse, e non abisognasse nulla d'altrui, io non gli favellerei, io non starei con lui. Or perché, se io non abisognasse? E così staremmo come bestie soli, che le bestie hanno pochi difetti e non abisogna l'uno de l'altro: stannosi per gli boschi e per li diserti, soli soli si vanno; così staremmo noi. E però provide Idio a ciò, che volse che l'uno abisognasse a l'altro. E non dé ogni arte a ogni omo e ogni sufficienzia a ogni paese, acciò che l'uno si raguni con l'altro e che l'uno visiti l'altro e stia l'uno con l'altro, e l'una gente vada a l'altra e l'uno paese e l'altro, acciò che le genti si visitassero insieme [4] l'una l'altra per congiunzione d'amore e d'amistà. Questo è dunque l'ordine e il fine de la mercatantìa, cioè subventione e amore. Se a questo ordine e a questo fine si facessero l'arti e le mercatantìe, tutti saremmo santi, tutte sarebber sante. Ma se questo ordine ci è ozzi o se a questo fine si fanno, non mi fa uopo dire: voi il vedete e sapete. Perché si fanno ozzi le mercatantìe e l'arti, a che fine, a che ordine? A ingannare l'uno l'altro, a rubare l'uno l'altro, a spogliare l'uno l'altro. Veracemente è come disse il Signore [5], che Cristo spogliò il tempio du' volte de' peccatori: l'una volta disse che l'avevan fatto casa di mercantìa, l'altra volta dice che la fecero spelunca de ladroni. Vedi parola, dicono i santi [6] prima la chiama mercatantìa, poi spelunca de' ladroni! Veracemente l'arti furo fatte e le mercatantìe al fine so- pradetto, ma ell'è ozzi fatta spelunca de' ladroni. Quale è l'arte de' ladroni? D'uccidere, di spogliare, di rubare. Così le mercatantìe si fanno a uccidere, a rubare e a spogliare: tutti sono scherani [7] a ingannare e a rubare l'uno l'altro. Tutte le mercatantìe e tutte l'arti sono ozzi corrotte di mille corruzioni, non ci ha arte che corrotta e lìvera [8] non sia, e direttamente sono dette spelunche, come dice il salmo: ut insidiatur in abscondito quasi leo in spelunca sua [9]. Egli stanno in aguato come il leone ne la spelunca, se neuno cattivello passa, di spogliarlo. Così è veramente: egli stanno in spelunche buie, e mostrano una cosa per un'altra, e i panni stracciati e rimendati cuoprono; e spogliano altrui ne le caverne.

E così de l'altre arti altresì, tutte sono corrotte sanza fiore [10] di carità. Non si curerà di metterti adosso la mala mercatantìa, anzi non desidera altro, e di vendertela ancora più cara che la buona non se ne temono, anzi il desiderano, e se possono unque [11], non se ne infingono. Vedi adunque l'arti corrotte, e specialmente ho detta di questa arte de la lana e de la mercatantìa che si fa più in questa città [12]. Così de l'altre si potrebbe anche dire, ma più di questa quasi che di tutte per le molte rie cose che ci si fanno. Questa corrucione è venuta per troppa avaricia, per troppa cupiditade ch' è in questa città sopra tutte l' altre cittadi quasi del mondo, però che comunamente siamo più ricchi. E però l'uno vole essere ricco a paratico [13] de l'altro, e però si mettono a fare ogni disordinazione per guadagnare. Nell'altre cittadi non sono gli omini troppo ricchi, hannosi cotali loro ricchezze piccole, stannosi col loro poco, hannosi loro ricchezza convenevole, e però stannosi così: non hanno questa sete de la avaricia ch'avemo noi, che volemo essere troppo ricchi, anzi straricchi. E così ti dicerei di tutte l'arti…

La seconda cosa che dà perfezione si è decentia pulcritudinis, e toglie la perfezione il suo contrario, cioè defectum pulcritudinis, difetto di bellezza. Quando è la cosa bella? Quando le dai la forma e il colore suo: non sia soprastagnato, che di sopra sia colore d'oro e di sotto sia stagno, non, ma dando a ciascheduna cosa suo colore. Onde ciascheduna cosa ha suo colore: l'oro ha suo colore, l'argento n'ha un altro, la pietra un altro, il marmo un altro e il legno un altro; e così di tutte le cose, ciascuna vuole il suo colore. Quale è dunque il difetto de la perfezione? Quando non hanno il loro colore né la loro bellezza, hanno altri colori e altre viste. E questo difetto potremmo porre a tutte le sopradette cose, che se noi ci facciamo prima a la mercatantìa, dico che non ha il suo colore, ha altro colore. Io dico di tutte l'arti, tutte sono dipinte e tutti gli artìfici sono fatti dipintori, tutti dipingono le loro mercatantìe. S'egli è il mercatante o il lanaiolo, dipingono sì i loro panni che parrà molte volte una lisciata [14] cosa, e quando si metterà indosso, tutta la bontà francesca [15], ne cascherà a terra e rimarrà la ragna e il panno grosso e sozzo com'egli è di natura. Questo è il dipignere, e è mal colore questo, imperò che non è il suo colore, è soprastagnato. E però sono sozzate l'arti e falsate, che danno alle merce colore e modo che non è suo per venderla più, e ricuoprono le magagne e aciecano altrui acciò che ingannino e vendano care le marcatantìe loro: questo è grave peccato. Così altresì il vinatiere quante cose rie e sozze fa egli ne l'arte sua non si potrebbe dire, e così ogni arte quasi. Onde eciandio i barbieri, ch'è la più pura arte che sia, sì l'hanno tolta la bellezza sua, che non guardano né domeniche né pasche [16], né dì di feste; e così sono corrotte l'arti.

Anco hanno fatto gli artefici tanti capitoli e tanti statuti [17] che si debia osservare ch'è un peccato, ché saranno molte volte l'una metade rei e contra Dio. E così sotto questo liscio del sacramento (che dice: – Nol farei ché io l'ho giurato) fanno molti mali che pare che sia opera diritta a dire – Io l'ho giurato e sarà giuro di peccato, e dice – Io l'ho giurato –. Or come l'hai giurato, ch'è certamente male; or puo'ti tu legare a sacramento di Dio di fare nulla opera di vicio o di peccato? Non piaccia a Dio, somma pazzia e insania questa è! Hanno fatti i molti ordinamenti, che averà talora una piccola articella cinquanta e sessanta capitoli, che ve n'averà più che la metade tutti rei, che si vorreber cassare via a terra, e osserverannogli per sacramento. Or che peccato è questo a legarti per sacramento a ogni cosa, non piaccia a Dio che questo si debia fare! Dovarebbono ai capitoli porre pena cotanto, chi contrafacesse, secondo l'accesso: o soldi due o cinque o diece o soldi vinti o livre diece, come si convenisse: porre pena di cose temporali. Anzi per ogni cosa pongon l'anima! Dice colà colui che fa giurare: – Imprometti d'osservare questi capitoli, tali e tali, e giura a le sante Idio vangeli d'osservarli –; e a tutti si legherà per sacramento. O sciagurato, or che fai, or è questo bello a fare, a mettere per ogni cosa l'anima tua! E spergiuransi tuttodì ché non gli osservano mezzi, né buoni né rei. Che mi disse uno: – Io ho tanti capitoli adosso ne l'arte mia, e tutti ho giurato d'osservarli con sacramento, e non se ne osserva quasi nullo, e non posso fare altro, e spergiuromi tanto ogni dì ch'è un mare –. Or che è questo, che peccato è questo in tanti spergiuri e sacramenti a quanti vi sottomettete, or non è questa una crudeltade? Or qual saracini o tartari farebber questo, or mettete a zara [18] così l'anime vostre? Non si potrebbe troppo dire! E con questi sacramenti si colorano le loro male opere quando viene loro in aconcio; e dicono: – Nol farei ché l'ho giurato –, e sarà opera di peccato.

Così altresì le genti, i mercatanti, i mercieri e tutte arti hanno trovati loro modi e loro sutilitadi di parlare a inganno, e di fare loro giuri coperti a loro intendimento; e pare loro avere schifato il sacramento. Or che è questo a dire? Credonsi non essere spergiurati perché abbiano giurato o detto bugia sotto loro parole coperte: grande peccato è, l'uno dello spergiuro ché menti, e l'altra de lo 'nganno, ché sotto quella bugia lo 'nganni; e credonsi non essere spergiuri. Come si legge nella istoria di santo Nicolao [19] di quel mal cristiano che volse ingannare il giudeo e torgli il suo sotto specie di falsità mettendoli in mano la canna ove era l'avere suo, e diceva e giurò ch'egli aveva renduto ogni cosa. Credeva ciuffulare [20] Idio, me 'e ne fu poi bene pagato come gli si conveniva.

Così si credono le persone essere fuori de' sacramenti per loro parole coperte: ingannati sono. Vedi quanti mali colori ci si danno? Io dico che i mercatanti e gli artefici hanno santificata l'usura, che dicono i savi che meglio è il nemico palese, ché 'l poi schencire [21] che quegli che ti pare amico e guarda di farti male; da costui non ti puoi difendere, no. Così il peccato dell'usura è peccato manifesto a tutta gente: almeno non t'inganna egli, ch'egli ti dice dinanzi tutto lo 'nganno, che vedi le mazzate dinanci, che le puoi schencire se tu vogli, e non te ne sforza di riceverle, che le ti pigli di tuo arbitrio. Ma gli artefici e i mercatanti non fanno così, ché non ti mostrano la magagna, anzi la cuoprono e dipingonla e non te ne avedi e ingannati: che averà un panno macchiato e faralloti parere iguali al buio; averà mal colore e faralloti parere buono con sua vista e con sue parole. Altresì, com'io ti dissi l'altrieri, tirano i panni e tragono loro le budella di corpo, e stracciansi, e poi gli ricuosciono e rimendano e raffaccionano e vendonlo per buono, e lodanlo; e è feccia ristagnata! E così è nimico mortalissimo, che t'affidi in lui a credigli e quegli t'inganna e t'uccide. Dunque peggio siete che gli usurai. Onde io ti dico per la mia sentenzia che l'altre arti sono peggio che usura al modo che le si fanno, almeno in tutto quello che le si trattano male. Onde siete peggio che usurai, peggio, e più la giudico per la mia sentenzia, secondo il mio vedere. Io non veggio vantaggio nullo da l'altre arti a l'usure, che non ci si fa una cosa lealmente, tutta ad inganno e a mal fine. Onde ben vi dice così, che l'altrieri venne uno a me e domandomi che arte io il conscigliasse di fare. Io pensai in lealtà, io nol seppi conscigliare di nulla arte; che eciandio, com'io dissi, l'arte del barbiere, ch'è la più pura, si è corrotta e sozzata, e è questo grande male imperò che è tanto il male e è sì corrotta cosa, che ne interviene questo: che se alcuno la vole fare lealmente, non puote, imperò che, dice, il vicino mio fa così e vende così; s'io non facesse così, io non guadagnerei, anzi ne perderei, io non posso fare altro. O Idio che corruccione è questa e che peccato, che è tanta la forza del male che non basta compierlo a quelli che 'l desiderano, ma i buoni che giustamente vorrebono fare non possono e sono constretti di fare quello che non deono. Vedete quanto male fae la corrucione de le male opere, che se altri volesse fare lealmente, non ci potrebbor guadagnare. Se l'arti facessero lealmente, così vi guadagnaresti come voi vi fate; se meglio, meglio, ma peggio non: or vedete che così vi guadagnaresti a farla lealmente come voi vi fate, vedete danno e pericolo che questo è? Non si potrebbono dire tanti pericoli e tanti peccati quanti vi si fanno, voi gli sapete assai meglio di noi, che noi non gli sappiamo se non per le scritture che parlano così in generalitade, ma noi avemo la sapienzia, che gli cognosciamo quegli che noi troviamo. Ma quelli che fa l'arte, sa meglio i difetti che null'altra persona, ma non ha il cognoscimento: s'egli avesse lo 'ntendimento, egli vedrebbe tante sozzure che fuggirebbe. Or così de l'altre cose: di ciaschedune si potrebbe così rovistare, imperò ch'hanno difetto d'ornamento e di bellezza; e però le nostre opere non possono mai venire a perfezione, no…
b) Predicò frate Giordano MCCCV in calendi marzo, martedì mattina «ad locum intus» [22].

Quecumque dicunt vobis servate et facite, secundum opera vero eorum nolite facere [23]. In questo Vangelo il Nostro Signore Iesù Cristo ne riprende massimamente di cinque vizii. Riprendene prima il vizio del mal discepolo, apresso il vizio del malo maestro, poi apresso il vizio de la vanagloria e quello della superbia, e infine il vizio de la presunzione overo audazia. Il vizio del mal discepolo si è quando prende il malo exemplo del malo maestro, e la buona dottrina lascia stare. Ecco che 'l Segnore dice: Fate secondo la dottrina loro, ma le loro opere non vogliate fare. Riprendene altressì il vizio del malo maestro. E’ sono due maestri: uno di falsità e uno di verità. Quello de la falsità si sono gli eretici e gli 'nfedeli, i quali in nullo modo deono essere uditi: questi non chiamo io maestri, ma i mali maestri, sono quegli i quali dicono e non fanno. Ecco che 'l Segnore dice di loro: Impongono i gravi comandamenti e pesi agli omeri de' piccioli, ma col loro dito minore no gli vogliono levare, cioè a dire non vogliono fare pur de' minori eglino [24]. Riprende ancora il vizio de la vanagloria quando dice di quelli scribi e farisei le vanitadi loro, che portavano le grandi filaterie e le grandi fimbrie [25]. Le filaterie si erano una carta ove erano scritti i comandamenti de la legge, e portavalla intorno al braccio apertamente, acciò che mostrassero alle genti: vedete come siamo zelatori de la legge, che sempre la porto dinanzi a li occhi? Portavano altressì le grandi fimbrie, cioè gli orli alle toniche loro, a modo di sossiture [26]. Usavano questo i giuderi a' vesti menti loro, che sì come erano divisati da tutta l'altra gente del mondo nella carne per lo segno de la ci rconcisione, così altressì gli segnò nelle vestimenta; onde le portavano orlate, e la tonica di Cristo fu così orlata altressì. Ma questi scribi e farisei le portavano maggiori degli altri omini, acciò che mostrassero che tutti gli altri omini passavano ne la legge; e portavano stecchi, overo cardi, in questa fimbrie, e faceansi pugnere i piedi, acciò ch'altri vedesse, ché diceano che ciò faceano perché sempre ricordasse loro de la legge. Grande vanitade era questa, tutte queste cose faceano per vanagloria. Apresso gli riprende del vizio de la superbia, in ciò che voleano essere ne' primi luoghi, ne' primi riposi nelle cene, voleano sedere pur nelle cattedre. Apresso riprende del vizio de l'audazia, cioè de la presunzione, ch'è a dire, secondo volgare [27], ardimento folle. Quale è questo malo ardimento? Quando tu ti fai sponitore e ammaestratore altrui, tu, che non ti si conviene.

Grande pericolo ad avere l'uomo ad ammaestrare altrui! Ma sommo si è ad ammaestrare ne la Scrittura Santa, nelle Pìstole, ne' vangeli, perciò che in ciò s'apartiene la salute e la perdizione. Sono molti matti, calzolaiuoli, pillicciaiuoli [28], e vorrassi fare disponitore de la Scrittura Santa. Grande ardimento è, troppo è grave offendimento il loro. E se questo è negli uomini, si è nelle femine maggiormente, però che le femine sono troppo più di lungi che l'uomo da le Scritture e da la lettera; e trovansi di quelle che si ne fanno sponitori de la Pìstola e del Vangelio. Grande è la follia loro, troppo è la loro scipidezza; fanno contra 'l comandamento di san Paolo, che dice: Stea la femina ne la chiesa, non sia ardita di favellare o d'interpretare parola di Santa Scrittura [29]. Sì che alle femine è tolto in tutto e per tutto, salvo che l'udire, onde vuole che odano, ma tacciano.

Or a carminare [30] tutto 'l Vangelo sarebbe lunga cosa. Diciamo pur del primo vizio del mal discepolo, che s'attien pur al malo exemplo, e lasciano la buona dottrina del maestro. Questi maestri sono i prelati, i pastori, che sono detti padri. Due grandi mali fanno questi mali discepoli, e questi sono i loro due mali vizii, de' quali dice l'uno Cristo qui. L'uno si è che s'eglino veggiono alcuno exemplo non buono, a quello s 'attengono, e la dottrina lasciano. L'altra che giudicano male di loro ove non si conviene. Vedran a questi vescovi i grossi ronzioni [31], i molti donzelli vestiti, e i poveri non procurati, e che dirà: a che mi aterrò? Pur a quel che fa egli. L'altra si è del mal giudicio, che gli giudicheranno, ove molte volte non fia peccato mortale né talora veniale, anzi sarà talora virtude. I prelati de la Chiesa possono avere licitamente ricchezze, e usarle, e se l'usa bene, sì gli è virtude. Onde i santi padri ne fuoro di meglio [32] per le ricchezze ch'ebbero. Non t'è licito giudicare se non cosa sì aperta che si possa quasi palpare. Come se io veggio fare il micidio, l'adulterio o cotali cose, allora ben gli posso giudicare, cioè che peccaro, ché quella opera non è buona; ma d'ogn'altra cosa, la quale si può fare sanza peccato, e l'uomo la giudica, sì pecca gravemente. Anzi giudicano eziandio coloro i quali queste cose del mondo non hanno: i religiosi. Se vedranno alcuna cosellina di fuori non tutta così onesta o composta come si converrebbe, sì 'l reputa che sia grande fallo e degno di male, colà ove molte volte non avrà se non peccato veniale. Or come possono essere peccatori, che si confessano ognendì? [33] Or si trovassero degli altri omini, che de' cento l'uno fossero sanza peccato mortale! E perché alcuno n'avesse ne la religione, dee pensare che quando e' v' ha correzione e disciplina, che de le due cose fia l'una: o egli s'amenderà, essendone gastigato e disciplinato, e s'egli non si amenderà, saranne cacciato. Dee pensare che la religione è come 'l mare, che non può tenere grande tempo la puzza, che non la getti via fuori immantenente.

Or mi di': se l'usuriere, overo l'avaro, avesse oro, perché quello oro tenesse alcuna ruggine e non fosse così chiaro, or gitterebbelo però? Mal farebbe, non si dee però gittare. Perché l'uomo avesse una pietra preziosa, uno diamante, e egli non fosse così trachiaro [34], e avesseci alcuna macola, or gitterestilo) però? Molto saresti matto. Così son di quelli i quali giudicano, dispregiano e hanno in contento [35] i buoni perché alcun'otta gli veggian fallare. Non può essere che l'uomo non falli per alcun tempo. E chi è quegli che mai non pecchi? Non può essere, e dunque gitterail però via? Or a che ti apiccherai poi? E però è grande la loro mattìa. Ben è vero che quando il vescovo o 'l prelato o 'l cappellano dà malo exemplo di sé di mala vita, che fa molto danno e guasta tutta la dottrina sua. Onde il predicatore, la cui vita non si acorda colle parole, la sua dottrina è avuta per neente. Onde dice l'uomo: se fosse vero quello che dicono, egli 'l farebbono: dunque attegnanci pur a quello che fanno. Il Filosofo dice che guastano la sapienza loro [36]. Ma per tutte queste cose, e se vedessimo tutti i mali exempli del mondo in quegli in cui dovessero essere migliori, non vuole Cristo che ci mutiamo da la buona via e da l'ammaestramento santo, ma fare sì come l'api che si pongono ai fiori gentili e fanno il mèle, ma non come quelli bacherozzoli [37] fastidiosi, che si pongono pur alla sozzura. E però dice Cristo: Fate ciò che dicono, ma non fate secondo l'opere loro.
c) Predicò frate Giordano MCCCVI sabato, dì XXVI di marzo, «ad locum intus in mane».

Hec est vita eterna, ut cognoscant te solum Dominum verum et quem misisti Iesum Cristum [38].

I filosofi del mondo, volendo parlare e cercare de la beatitudine e de la felicitade, sì ne fuoro tra loro molte oppinioni. Di questa felicitade parlaro tutti, e catuno si sforzò di trovarla e di conoscerla, ché vedendo che felicità pur era e potea essere, andaro sempre cercando in che fosse; e in questa sapienzia fu revelato de la verità assai più a uno ch'a un altro, e parlarne in diversi modi. E' fuoronne di cinque generazioni. I minori e i più vili, e quelli che al tutto mentiro e non conobbero neente di verità in ciò, si fuoro gli epicuri: credettero che fosse in mangiare, e in bere, e in diletti di carne, e chi assai n'avesse potesse essere beato. Questi furono i più stolti filosofi che mai fossero, i quali non sono degni d'essere detti filosofi, ma matti; contra i quali tutti gli altri filosofi dissero, e dannarli tutti e puoserli per sommi matti. Altri fuoro che dissero meglio assai di costoro, tutto ch'ancora non dicessero vero: questi dissero che beatitudine era ne le ricchezze. Ben si possono avere più beni per li danari che per li diletti di carne, ma questo è ancora falso, ma non è sì grande errore; e ancora i filosofi dannaro costoro.

Leggesi d'uno grande filosofo che, invitato da uno re a la corte sua, andòvi: il re avea apparecchiate grandi cose e vasellamenti d'oro e d'argento, e letta [39], e ornamenti mirabili; tutta la casa avea così ornata per mostrare a questo filosofo la gloria sua. Quando questi entrò in casa non rizzò neente [40] gli occhi a nulla di queste cose: puosesi a mangiare, e queste cose non guatava. Il re disdegnò [41] e maravigliossi, e dissegli: – Che è ciò, che non riguardi questa gloria? Vedesti mai tanta gloria? Rispuose il filosofo: – Sì, e maggiore –. Que' disse: – Ove la vedesti? Disse: – Ne' galli, ne' fagiani, ne' pappagalli; quella è maggiore gloria che la tua, però che quella è loro bellezza, e pòssonsene gloriare, sì come loro propria; ma questa bellezza non è tua, anzi dell'oro, e de l'argento, e di questi paramenti. Dunque perché vuoli che io raguardi? Queste non sono da te –. E così lo schernì [42].

Tutti i filosofi che fuoro grandi filosofi, dico quelli che fuoro diritti filosofi e maggiori, non pòttero amare le cose del mondo, e dannaro la legge de' saracini anzi ch'ella fosse, ch'aspettano i diletti mondani. E se dicessi: — Or non ha tra loro filosofi? Dico che sì: Avicenna fu saracino, e fu filosofo e si fece beffe de la legge sua, e schernìla. Se v'ha nullo filosofo o grande savio, e' medesimi scherniscono la legge loro e fànnosine beffe. Questa è vera, che nullo filosofo crede in queste cose del mondo, onde si legge di Socrate che, trovando una fonda [43] di danari nel bosco, nolla ricolse; levòllasi in collo, ch'era forse caduta a' mercatanti, pesavagli, ma più gli gravavano l'anima che 'l corpo. Disse: – Or ho io presa la penitenza mia e la mala ventura! – e gittolla via [44]. E' fu vergine, onde dispregiaro i filosofi tutte le cose del mondo, e amaro tutti povertà, fuoro castissimi e vergini. Vedi come disfecero la legge de' saracini , e hanno dannati tutti quelli che seguitano i diletti del mondo e le ricchezze. E disfanno la legge de' giuderi, che si credono essere beati pur in questo mondo! Aspettansi d'essere e di ritornare tutti in Ierusalèm, ne la Terra Santa di promessione, e credono avere questi beni del mondo. Gente matta! Or e' non vi caprebbono [45] tra quelli che sono passati, e che sono, e che saranno. Sono altrettanti o più, quanti sieno tutti gli uomini che sono oggi al mondo. Or ove caprebbono? Quella Terra Santa è picciola. Or vedete come sono matti! I filosofi, non che i santi, li dannaro, ché non può essere in queste cose beatitudine. Queste parole avemo dette, ché se queste cose dissero i filosofi, che fuoro pagani, e non ebbero la fede, quanto sarai ripreso tu, cristiano, se ti porterai male, che hai le Scritture, i predicatori e la verità aperta! Tutti i filosofi che fuoro grandi filosofi, tutti fuoro disprezzatori di ricchezze e di diletti di carne, videro ch'erano nulla.

Altri filosofi, e fuoro pur di questi medesimi, ma erano divisi in due, sì dissero ch'era ne le dignitadi e ne le segnorie, però che l'omo n'era onorato e riverito. Questi ancora non dissero vero, e fuoro riprovati e dannati da maggiori filosofi, però che non danno onore le dignitadi né queste ricchezze all'omo, altronde è mistieri che proceda; anzi se 'l matto sarà exaltato e posto in officio di dignità, tanto sarà più vituperato [46]. Onde dice Salamone una bellissima parola: «Cotale è chi dà l'onore e la dignità a lo stolto, chente colui che mette la petruzza nel monte di Mercurio» [47]. (Mercurio fu lo idio de' mercatanti). Questo Mercurio fa molti monticelli come la talpa, che pur raguna, fa monticelli di petruzze. I mercatanti quando vogliono mettere ragione [48], sì hanno i quarteruoli [49], overo petruzze, overo fave, e me' oggi i foresi [50] hanno apparato di reggersi a petruzze e a fave, quando vogliono mettere ragione. Ecco che tu hai molte petruzze overo fave, e è gran fatto che in sé tutte sono iguali, e non è l'uno migliore che l'altra, e tu metterai e farai dire l'uno che rilevi mille livre, l'altro cento, l'altra diece, l'altra uno danaio. Or che è ciò, che tu fai tanto maggiore l'una che l'altra, con ciò sia cosa che l'una non sia migliore dell'altra? Questo si è vanità, che perché tu la conti per mille livre, ella non è però meglio ch'una fava. Dàilti tu quel nome, or che le fa quel nome? Tu la potresti fare dire così centomilia come mille: or che n'è però? Cotale è la gloria e l'onore de lo stolto ch'è posto ne la dignità, ché si rimane ne la stultìa sua, e non è però di meglio che gli altri òmini: però hae il nome un poco, ma così s'è come s'era prima, non vale però più, così s'è vile. Questo dice Salamone, e è bellissima paraula. Altri filosofi fuoro, e questi dissero meglio di tutti, e questi s'apressaro a la verità e dissero bene, avegna che non perfettamente, ma sì fu gran cosa, tanto ne dissero inanzi e apressarcisi, sì che già la toccaro.

E questi si divisero anche in due parti: l'una parte fuoro che si chiamano Academici, e capo di costoro fu Socrate. Questi videro che in nulla cosa di questo mondo era o potea essere beatitudine; vider costoro, e Socrate fu il principale, che felicità e gloria non potea essere se non in una cosa, cioè ne le virtudi…

L'altra parte di questi filosofi, che sono detti Peripatetici, questi dissero più perfettamente, ma non dannaro però il detto di costoro, anzi l'approvaro e fermaro, ma dissero più compiutamente; de' quali filosofi, il loro prencipe fu Arristotile. Questi puosero beatitudine ne la virtù de l'anima intellettuale, e divisero la beatitudine in cinque parti, e puosero loro nome: sapienzia, scienzia, intelletto, prudenzia e arte…

La somma parte de la beatitudine, e ove sta tutta, si è ne la sapienzia, la quale sta ne la virtù principale de l'anima, ch'è detta virtù speculativa. E così è la verità, così dice il sommo filosofo e il re de' filosofi: Aristotile [51]. Egli afferma quello che disse Socrate, ma egli la ricompie. Dice che ne le virtudi non è perfetta felicitade, ma dice che le virtudi sono necessarie a la felicitade, ché danno aiuto e sostenimento a la felicità, a la sapienzia, la quale avere non si puote sanza virtudi, ma principalmente non è ne le virtudi [52]. Questa sapienzia non è di cose corporali né di natura di questo mondo, ma sapienzia e cognoscimento de le cose divine, e dice egli di Dio e degli angeli, avegna che sapienzia comprende il savere de le cose divine e umane, spirituali e corporali, ma non istà principalmente nel cognoscimento de le cose umane, ma sta tutta nel cognoscimento de le cose divine. Questa è la sapienzia, questa è la felicità, qui sta tutta la beatitudine! Vedete che disse quel filosofo né più né meno quello che disse Cristo, Figliuol di Dio, oggi nel Vangelo: Questa è vita eterna: cognoscere Te Idio vero [53]. Non è altro vita eterna, non è altro beatitudine, che conoscere Idio. Acordossi Cristo con Aristotile: quel disse che la fede nostra, reveloglile Idio. E se dicessi come fu ciò, è quello che disse Cristo nel Vangelo: che fa nascere il sole suo sopra i buoni e sopra i rei, giusti e ingiusti [54]. Non s'intende pur del sole, ma de la sapienzia e de l'altre cose. Così fu ai filosofi: volle Idio fare ciò per testimonianza de la fede, ché eziandio non solamente i santi, ma i pagani, diedero testimonia [55] a la fede cristiana. Ecco che dice il sommo filosofo che beatitudine sta in conoscere le cose divine, e avegna che quasi neente si ne possa conoscere e sapere, tuttavia dice Aristotile che meglio è sapere un pocolino di questa sapienzia, che sapere tutte l'altre cose di sotto [56]: meglio è conoscere pur un poco di Dio, che la scienzia di tutte le criature e di tutte le nature. Ecco che s'acorda con Cristo, ma Cristo, il Figliuol di Dio, l'aperse e disse perfettamente.

I filosofi che trattaro di questa beatitudine, e il sommo filosofo, sì mancaro bene, ma Cristo ci trasse d'ogne errore, e poi i santi l' hanno più amplificato ché non credettero che Idio si potesse vedere nudamente nella essenzia; di questo al tutto fuoro incredevili [57], né eziandio gli angeli, e non fu maraviglia se in ciò erraro, ché non ebero nullo aiuto dalle Scritture divine. Ma la fede dice e Cristo, il Figliuol di Dio, ci n' ha tratto d'errore, e tutti i santi il dicono a una voce, che Idio si vedrà a faccia a faccia, nudamente ne la sua essenzia, com'egli è, ma non in questo mondo, ma vedrassi da' santi in vita eterna, onde Cristo dice che si manifesterà a tutti la gloria sua e se medesimo. E santo Ioanni dice: Videbimus eum sicut est [58]. E altrove santo Paolo: Nunc per speculum in animate, tunc facie a facie videbimus [59], e in molti luoghi e ne' Vangelii. Ma in questa vita vero è che vedere né bene conoscere non si può, e però in questa vita non può essere beatitudine, ma nell'altra sarà; ma qui è mistieri che s'incominci, altrimenti non si può venire a quella.

Or, disse il lettore, era mio intendimento di questa materia di dirvi cose altissime, d'altra maniera che quello ch'è detto; e di dire, di questa beatitudine, altre cose più nobilemente.

Erano cose altissime e profonde, piene di luce e di splendore, ma però che questo prologo e questo entrare de la predica è stato lungo, e è abondato molto di parole, e sommici troppo disteso, sì faremo la fine qui, e sia questa essuta [60] la predicazione. Non sono cose vili, anzi sono utili e di grande bene a l' anima a sapere: hoe speranza che faranno prode a l'anime vostre, e di quelle cose che pensate avea di dirvi, serberelle ad altro tempo in altre predicazioni. Deo gratias.

[1] Dopo l'ora nona, cioè dopo mezzogiorno.

[2] Luca 2, 21.

[3] Oggi. L'assibilazione pare indicare copista settentrionale.

[4] Reciprocamente.

[5] Nel Vangelo: vedi Giovanni 2, 16; Matteo 21, 13; Marco 11, 17; Luca 19, 46.

[6] I santi sono gli esegeti della Scrittura.

[7] Cioè banditi, grassatori.

[8] Rovinata. Dal verbo liverare, cioè «rovinare».

[9] Salmo 10, 9.

[10] Un po'.

[11] Mai, qualche volta.

[12] L'Arte della Lana era una delle corporazioni più potenti in Firenze.

[13] Alla pari.

[14] Abbellita col «liscio», cioè il belletto; qua con qualsiasi sostanza atta a mascherare la vera qualità del panno.

[15] I panni di origine francese, detti «panni franceschi», erano i più delicati e costosi.

[16] Pasqua in italiano antico significa genericamente una festa solenne.

[17] Ogni Arte aveva uno statuto, diviso in capitoli, che regolava l'attività degli artigiani immatricolati nella corporazione.

[18] Cioè «giocate ai dadi».

[19] Si veda il TESTO N. 12c.

[20] Ingannare.

[21] Schivare.

[22] Cioè in Santa Maria Novella.

[23] Matteo 23, 3.

[24] Matteo 23, 4.

[25] Fimbria è l'orlo della veste: le filaterie sono bende sulle quali erano scritti versetti della Legge mosaica (la Thorà).

[26] Pieghe della tunica a guisa d'orlo.

[27] In volgare.

[28] Qua Giordano segue un luogo comune della predicazione antiereticale. Già sant'Antonio diceva con disprezzo (cfr. ed. Locatelli, Patavii, vol. I, 1885, p. 47) «gli eretici, che non sanno niente, tutta gente che fa il contadino, il calzolaio, il cuoiaio» (qui nihil aliud noverunt, utpote rustici, sutores, pelliparii…).

[29] Prima lettera ai Corinzi 14, 34.

[30] Esaminare capo per capo.

[31] Francesismo: grande cavallo assai costoso.

[32] Se ne servirono in bene, ne trassero vantaggio.

[33] Ogni giorno.

[34] Perfettamente chiaro (con prefisso francese tres).

[35] In dispregio.

[36] Non identificato.

[37] Insetti, probabilmente qui mosconi.

[38] Giovanni 17, 3.

[39] Plurale neutro: letti.

[40] Affatto.

[41] Si sdegnò.

[42] L'aneddoto è narrato anche da WALTER BURLEY, Liber de vita et moribus philosophorum, ed. H. KNUST, Tubingen, 1886, p. 14.

[43] Una borsa.

[44] L'aneddoto si legge nelle Parabolae di Odone di Cheriton, celebre predicatore inglese del Duecento (cfr. L. HERVIEUX, Les Fabulistes latins, vol. IV, Paris, 1896, p. 271).

[45] Entrerebbero, starebbero.

[46] Vituperato.

[47] Proverbi 26, 8.

[48] Fare i conti.

[49] Quarteruolo è una moneta d'ottone simile al fiorino.

[50] Oggi perfino i contadini. «Me'» viene dal latino melius.

[51] Nell'Etica Nicomachea, libro X, cap. 7.

[52] Ibidem, libro I, cap. 3.

[53] Giovanni 17, 3.

[54] Matteo 5, 45.

[55] Testimonianza.

[56] Vedi De partibus animalium, libro I, cap. 5.

[57] Forma pisana per «increduli».

[58] Prima lettera di Giovanni 3, 2.

[59] Prima lettera ai Corinzi 13, 12.

[60] Stata.

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26/01/2013 15:38

19. Un sermone di Franco Sacchetti

Verso il 1381 il Sacchetti compose un quaresimale: le 49 Sposizioni di Vangeli. Scegliamo la XXVI, per la IV Domenica di Quaresima (cfr. F. SACCHETTI, La Battaglia delle belle donne. Le lettere. Le Sposizioni di Vangeli, a cura di A. CHIARI, Bari, Laterza, 1938, pp. 194-197). Si noti che il lungo exemplum incluso nella sposizione sarà ripreso in una novella del Trecentonovelle (nov. CXXIII).

DIE XXVI, DOMINICE. DE DISTRIBUTIONE.

Distribuit discumbentibus etc. [1]

Questi pani hanno diverse significazioni, e così il fieno dove si puosono a sedere. È oppinione d'alcuni Dottori, d'Ugo da San Vittore e d'altri, che questi pani, che saziarono cinquemila persone, cresceano, come si spezzavano, in forma come gonfiassono in pasta. Non si tiene per santo Agostino né per li maestri teologhi. Anco si tiene che colui, che fa uno granello di panico germogliare e fare una panocchia, che ne fa migliaia, così facesse con la sua potenza in questi pani.

[Nell'autografo del Sacchetti vi è uno spazio vuoto di circa righi otto.]

Perché chiamò il Nostro Signore più san Filippo che alcuno de gli altri Apostoli? Però che san Filippo avea predicato più da lungi ne' confini de la terra di là da la Tana a una gente pagana e crudele chiamati Asciti, e aveagli recati a la fede.

[Spazio vuoto di circa righi nove.]

Questi, che portava la sporta de' cinque pani, ebbe nome Marziale. E' Limoggini [2] ne fanno grande festa, e tengono che fosse uno de' discepoli di Cristo.

[Spazio vuoto di circa righi venti.]

Questio. – Se niuna cosa è che non possa commettere diffetto altro che Dio.

Non è alcuna. E tu mi potresti dire: – Gli Angeli o' Santi possono commettere difetto? – Quanto per loro natura, potrebono commettere difetto; ma per la confermazione, che Dio ha loro data, non lo possono comettere, però che hanno sempre inanzi lo specchio del volto di Dio; e avendo quello inanzi, in cui è ogni verità e ogni bene e ogni virtù, non possono comettere alcun difetto.

Nota che di tre peccati discendono tutti gli altri che si fanno, cioè di superbia, di lussuria, e d'avarizia. Come si purga la superbia? Con la orazione, però che è di natura divota e umile. Come si purga la lussuria? Col digiuno, però che 'l digiuno e l'astinenza tempera la carne; e questa è una de le cagioni perché fu trovata la Quaresima, però che, venendo su la primavera le potenze umane, e non essendo temperate de la bocca, in questa stagione, che è quella ov'ogni animale più trascorre in lussuria, questo peccato fuori de' termini serebbe troppo passato. Come si purga l'avarizia? Con la elemosina, la quale non che renda quello che è d'altrui, ma del suo dà. E dico che la elemosina sola può fare, ché l'altre due si fanno facendo quella. Verbigrazia: se io òro e non fo astinenza né elimosina, ho solamente orato; se io digiuno e non fo orazione né elimosina, ho solamente digiunato; se io fo elimosina, colui che la riceve òra per me, colui che la riceve digiuna per me. Adunque, in elemosina si contiene orazione e digiuno; dunque, elemosina è virtù contro a tutti peccati.

Questio. – Chi merita più a Dio, o chi fa uno boto e quello osserva, o chi sanza boto fa quello medesimo bene? Più merito riceve da Dio chi fa il boto, e osservalo.

Asolutio. – Pruova: chi fa il boto, s'obliga, se non lo fa, d'essere condenato da Dio; e com'egli s'è obligato dal boto, è sottoposto a l'ubidienza. Sì che fa il bene e ha servito a l'obedienza; ma l'altro serve al bene, ma non s'è sottoposto a l'obedienza. Verbigrazia: uno dice a un altro: – Io mi ti voglio obligare e sottomettere di servirti, o di darti denari di qui a uno mese; e se questo non fo, che tu me ne facci portare quella pena che io merito. – E come ha promesso, così ha fatto. Un altro sanza obligarsi o sottomettersi serve o dona denari per lo medesimo modo che ha fatto l'altro a quel medesimo ricevente che di sopra è detto. Qual di questi due dee essere più acetto a colui che ha ricevuto il dono? Più acetto dèe essere colui che gli s'è sottoposto, però che l'ha servito sottometendosi a ubidienza; l'altro il servì senza somessione. Può dire alcuno contra: – Chi s'è sottomesso dèe pagare; e s'egli dèe pagare e paga, niente merita; ma chi non è sottomesso e paga, oserva liberamente, dunque merita più. – Questo è falso, però che non era tenuto quello d'obligarsi se non come l'altro; adunque, se per acrescere virtù s'è sottoposto, dèe ricevere più merito. E se colui che ha botato non osserva il boto, grave pena gli ne séguita, però che ha promesso; a l'altro, che non ha promesso, non segue pena alcuna. Adunque, è ragione di stare al guadagno come a la perdita da poi che, non osservando il boto, io pecco gravemente e ricevo pena; osservando, debbo meritare più. E questo s'intende ancora per li religiosi, che ne la professione promettono d'osservare gli ordini de la Religione, che meritano assai più osservando quello che hanno promesso a la Religione, che gli altri fuori de l'Ordine mondani facendo quelle medesime cose a che sono tenuti.

Fu, non è gran tempo, uno contadino ricco, che avea una sua moglie e uno figliuolo maschio e due fanciulle femine. Il fanciullo maschio apparò leggere e scrivere, poi gramatica; e avendo buona aprensiva, venne volontà al padre di fare studiare questo suo figliuolo, e mandollo a Bologna; e là mandato, ognora sentia che divenia valentrissimo. Avenne che la madre di questo giovene morì, e 'l padre dopo certo tempo tolse un'altra moglie; e stando questa con lui, come spesso adiviene, il padre di questo giovene gli mandava, come è d'usanza per libri e per altri bisogni a gli studianti, spesse volte quando trenta fiorini, quando cinquanta, e quando cento. Di che la moglie cominciò a mormorare: – Che è questo? Ove mandi tu questi danari? Tu non ti lasci niente. – Questi rispondea che gli mandava al figliuolo, il quale era per venire valentrissimo uomo. La donna rispondea: – E che si vede di quello che tu di'? Tu gli mandi a uno corpo morto.– E tanto avea preso il volgare [3] che sempre il nominava corpo morto.

Avendo romore e mala vita il marito con lei, queste cose, come interviene, furono significate al giovene a Bologna; e dopo alcuno tempo tornò, valentrissimo di scienza oltre modo, al padre e a casa sua. La matrigna, vegendo molti che 'l veniano a vicitare per la sua scienzia, gli parea essere scornata per le parole che di lui avea dette. Avenne uno giorno che 'l padre di questa famiglia invitò il prete del popolo [4], che era suo amico, a desinare con lui, e disse a la moglie che facesse da desinare ciò che gli piacesse, sì che bastasse. La donna fece cuocere uno cappone. Venendo l'ora del desinare, posto a tavola prima il prete, poi il padre, poi la matrigna, poi due fanciulle sorocchie de lo studiante, e lo scienziato giovene, disse la matrigna di costui al marito: – Ché non sapiamo noi da costui che scienza è questa, ch'egli ha apparata? – Disse il marito: – O come il possiamo sapere? – Disse la donna: – Diciamo che tagli questo cappone per gramatica. – Il marito, consentendo a la moglie, disse al giovane che, poi che egli avea apparata tanta scienza, che tagliasse quello cappone per gramatica. Il giovene che s'era accorto di tutto, disse che ben gli piacea. E recandosi il cappone inanzi, e' disse: – Etimologia è una parte de gramatica, con la quale voglio tagliare questo cappone; e vegendo il prete essere nostro padre spirituale e che porta la cherica, la parte sua sia la cresta. – E tagliata glila diede. – Il padre mio è capo de la casa, e poi ch'egli è il capo, la parte sua sia il capo. – E sì gliel diè. – La donna de la casa è mia matrigna, e ella e l'altre sono ne le case per sostentare le famiglie e andare su e giù provegendo a la masserizia de la casa e questo non si può fare sanza piedi. – E tagliati i piedi, glili diede. – Le due sue sorelle, che non aveano marito, disse che aveano a volare fuori de la casa, e andare dove avranno marito, e 'l volare non si può fare sanza alie; a ciascuna diede uno de' sommoli de l'alie. A la sua parte, disse che era chiamato corpo morto; quel corpo che era rimaso del cappone però che era corpo morto, era suo. E così si fece la parte grassa, tagliando per gramatica.

[1] Giovanni 6, 11.

[2] Abitanti di Limoges.

[3] Modo di dire.

[4] Del quartiere.

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