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REAL DAYS di Francesco Picone

Ultimo Aggiornamento: 06/06/2010 11:04
31/05/2010 15:33
 
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Trovo ci sia un fallimento concettuale, in Real Days. Un fallimento che deriva dal predisporre un piano tematico e dal non saperlo poi degnamente concludere.

Per spiegarmi prendo spunto dai titoli che già sono stati citati per somiglianze varie: Cloverfield e Rec.

Cloverfield non parlava di tivvù. C'era, sì, la mania della ripresa, il tizio che voleva documentare ecc, ma il film non proponeva riferimenti al mondo del reality televisivo. Non di base, almeno.

Rec, al contrario, sì. Se la narrazione di Rec è possibile, lo si deve a un programma tivvù che segue le gesta di un gruppo di pompieri con lo scopo di riportarle per documentario direttamente ai telespettatori a casa.

A casa.
Ecco dov'è che Rec diventa prodotto notevole e invece Real Days (pur apprezzabile) fallisce: nel ricondurre tutto... a casa.

L'idea di proporre una storia che sfrutti il prodotto televisivo reality per arrivare all'horror, non dovrebbe poi dimenticare che dal reality s'era partiti. Se si decide di raccontare l'orrore che si cela dietro le nuove pseudo tivvù verità con metaforiche apparizioni zombesche, allora è mio parere che lo si debba fare fino in fondo e nel migliore dei modi.

Real Days non fa come Rec. Ed è lì che manca il bersaglio.
Perché Rec parte dalla messa in scena di un programma televisivo verità, e riporta poi tutto l'horror proprio laddove il programma televisivo, per definizione, sbocca: in casa.
Rec fa il botto in un palazzo, alveare di abitazioni ognuna coi propri salotti e le proprie tivvù.
Rec trasforma in orrore il focolare domestico, il pianerottolo, il vicino di casa.
Il discorso "orrore televisivo da real tv maniacale" si ritorce direttamente sullo spettatore, in casa propria, e il circolo concettuale è impeccabile, praticamente perfetto.

E' accaduto lo stesso con una miniserie horror intitolata Dead Set. Lì, si trasformava in horror lo stesso studio televisivo. Non la tragedia del pubblico, quindi, veniva a chiudere il cerchio concettuale; piuttosto, erano gli stessi artefici del programma a finire in polpette.

Tornando a noi: Real Days parte ovviamente con l'intento di metterci sulla strada dello strabusato discorso critico ai danni della real tivvù.
Infatti, inizia con un tg decisamente kitsch e un servizio decisamente kitsch dove le parole dell'ultimo intervistato chiariscono perfettamente il punto di vista alla base del cortometraggio.
E cioè: i reality non fanno bene alla società.

E tutto il film, dopo, presenta la vita piuttosto normale, spesso anche insulsa, di un protagonista che confessa apertamente d'aver pensato al metterla in mostra solo per rimediare a insuccessi amorosi. Mica lo ha fatto per vena artistica... Così come non agisce per vena artistica l'operatore, che riprende tutto, tutto, perché la logica del programma prevede azione continua, anche a costo di calpestare la decenza.
Quindi, di nuovo: il corto ci dice che i reality non fanno bene alla società.

Ma ecco che ci si perde per la strada (letteralmente). Ecco che Real Days non prova a chiudere il cerchio concettuale, magari proponendo un modo alla Rec o alla Dead Set di riportare tutto il discorso in una situazione identificabile come legata a tivvù o spettatori.
Real Days non si sforza di proporre un'ambientazione o una situazione significativa, valorizzatrice della riflessione che suggerisce lungo l'intero cortometraggio.

Real Days ci propone invece una sequenza banale e che personalmente vedo più adatta a premesse filmiche ben diverse: quella dell'incidente stradale.
E l'incidente ce lo vedo in un film alla Non aprite quella Porta, alla Wrong Turn, alla Cabin Fever.
Perché? Perché sono principalmente film sul viaggio nel luogo sbagliato, con civiltà che si scontrano su terreno comune dopo essersi credute lontane e al sicuro le une dalle altre.
Ed è normale, ovvio, che questo scontro tra ragazzotti di turno e mostri di turno, tra zotici che si fingono fighetti di città e zotici fieri di esserlo e dimostrarlo, tra mostri in egual misura ma cresciuti in contesti diversi, questo scontro, dicevo, è logico che veda nella strada un set ideale di rappresentazione.

Ma Real Days no. Real Days con la strada e l'incidente non c'entra un tubo.
E allora il principio teorico che guida la storia va a farsi benedire.
E si badi che non è solo un peccato dal punto di visto logico, che Real Days non chiuda il cerchio concettuale.
E' un peccato sotto l'aspetto stilistico, perché si ha l'impressione di sciatta conclusione ideata per stanchezza, magari perché ci si era rotti di girare con la camera in mano tra la gente.

Tuttavia, al di là di questo mancato appuntamento tra filosofia tematica e congruo finale, Real Days ha momenti molto interessanti.
La parte del telegiornale è molto ben realizzata, soprattutto va fatto un plauso alla voce femminile, credibilissima nel ruolo della giornalista da non-notizie. E poi si è avuto il coraggio di girare il prodotto tra la folla, in ambienti ostili per definizione alla raccolta condizionata di audio e video.
Simpatici i personaggi, piacevoli da guardare e conoscere.

Ma propone un contenuto, Real Days, a cui infine non si sforza di dare sostanza. Suggerisce sapientemente vedute e poi ingenuamente non organizza un degno finale per celebrarle. Col rischio, paradossalmente, di non aver detto nulla.

Un buon lavoro mancato.






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"Si staranno preoccupando per noi?"
"No, non ancora. Dovevamo incontrare i camion venti minuti fa; si faranno vedere soltanto fra un'ora e mezza. Alle due, cominceranno a chiedere a
qualcuno se c'hanno visto. Alle tre ci cercheranno nei bar, e verso le quattro si arrabbieranno. Alle cinque, forse qualcuno capirà che ci siamo persi. Alle sei, il capitano penserà di chiamare il comando, e lo farà solo alle sette e mezza. Dal comando risponderanno che è tardi e
che ci penseranno domani."
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