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CRISTIANESIMO E CHIESA CATTOLICA

Ultimo Aggiornamento: 15/02/2016 17:26
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25/07/2008 19:32


Da Chi l'ha visto? del 18/07/05



Per comprendere su quali basi si fonda l'ipotesi che l'attentato a Papa Giovanni Paolo II e il successivo caso Orlandi siano maturati in un ambito affaristico-malavitoso con forti legami all'interno dello stesso Vaticano, bisogna risalire a qualche anno prima, almeno alla salita al soglio pontificio di Giovanni Battista Montini, Paolo VI. Il cardinal Montini, figlio di un banchiere milanese, quando diventa capo dello stato Vaticano, si preoccupa subito della situazione finanziaria, non particolarmente seguita dal suo predecessore Giovanni XXIII. Il piccolo stato può contare soprattutto su due capisaldi finanziari: l'Obolo di San Pietro, che raccoglie le elemosine, le donazioni e l'Istituto per le Opere Religiose, lo IOR, una vera e propria banca che gode di condizioni di particolare favore, ad esempio fiscali, nei riguardi dello stato italiano; ciò deriva dai Patti Lateranensi, dal Concordato: è a tutti gli effetti la banca di uno stato estero. Paolo VI, da cardinale aveva retto la diocesi di Milano e qui aveva conosciuto un rampante finanziere siciliano, Michele Sindona. Questi era stato molto generoso con la diocesi milanese, in cambio ne ebbe nell'immediato interessanti contatti con lo IOR già nel 1960. Tre anni dopo, eletto papa, Montini chiama Sindona a Roma, lo riceve, pare che gli si rivolga così: "Mi dicono che lei è un uomo inviato da Dio" e gli affida la consulenza sullo IOR, gli chiede di modernizzare la banca. Sindona è in grande ascesa, ha rapporti con l'amministrazione americana, fa affari con Nixon, ha rapporti con il capo della CIA, rapporti importanti con esponenti di alto livello della Democrazia Cristiana; solo in seguito si saprà che ha rapporti soprattutto con la mafia, quella americana e quella siciliana. Nel 1968 Paolo VI chiama allo IOR Monsignor Marcinkus, americano originario di Chicago già da molti anni a Roma e che al momento lavora presso la Segreteria di Stato. E' un uomo imponente, determinato, gli si riconoscono capacità organizzative: nel 1970 organizza infatti un viaggio del papa in India, dove lo salva da un attentato. Un uomo si era avventato sul papa brandendo un pugnale, Marcinkus lo aveva bloccato e immobilizzato; è il primo di almeno tre attentati ad un papa nel quale è coinvolto, come vedremo in seguito. Marcinkus diventa l'interfaccia ufficiale del consulente Sindona all'interno dello IOR, i due si lanciano in una lunga serie di intrighi societari, speculazioni finanziarie ai limiti della legalità, per alcuni oltre i limiti della legalità. Un terzo personaggio entra in gioco, Roberto Calvi. All'inizio il contatto è con Sindona: entrambi massoni, fanno parte della P2, la Loggia Propaganda 2 di Licio Gelli. Del sodalizio fa parte anche Umberto Ortolani, che si poteva fregiare del titolo di Cavaliere dell'Ordine di Malta e gentiluomo di camera di papa Paolo VI. Roberto Calvi nel 1970 diventa direttore generale del Banco Ambrosiano, anche questa una banca dichiaratamente cattolica che gestisce i conti di varie diocesi. Non possiamo qui ricordare tutte le imprese del trio Sindona-Marcinkus-Calvi. Fiumi di inchiostro hanno riempito volumi di istruttorie, processi, indagini, inchieste, per descrivere la costellazione di banche estere in paradisi fiscali, le acquisizioni e le dismissioni di società, labirintici percorsi per fiumi di soldi finiti chissà dove. Aveva provato a capire e forse aveva capito troppo l'avvocato Giorgio Ambrosoli, nominato liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona quando ne fu decretato il fallimento e fu emesso un mandato di cattura a carico di Sindona per bancarotta fraudolenta. Ambrosoli venne ucciso a colpi di pistola da un killer della mafia e Sindona anni dopo fu condannato all'ergastolo come mandante. Ma torniamo in Vaticano: nel 1978 muore Paolo VI e viene eletto papa Albino Luciani, che prenderà il nome di Giovanni Paolo I. Patriarca di Venezia, aveva avuto in passato da ridire sulla spregiudicatezza di Marcinkus in una operazione che avrebbe riguardato la Banca Cattolica del Veneto, banca di riferimento della diocesi veneziana. Inoltre durante il Conclave un quotidiano romano aveva pubblicato una lista di cardinali, alti prelati, monsignori, iscritti alla massoneria, con tanto di numero di matricola. Fra questi figuravano Marcinkus, il Segretario di Stato Jean Villot, il vicario del papa cardinale Ugo Poletti. Il 28 agosto papa Luciani informa il cardinale Villot che intende sostituire il gruppo dirigente dello IOR: Marcinkus deve andare via. L'indomani viene annunciata la morte del papa, avvenuta in circostanze a tutt'oggi misteriose. A quel punto in molti si domandano come si sarebbe comportato il nuovo papa nei riguardi degli scandali nei quali erano coinvolte le finanze vaticane, delle indiscrezioni sempre più insistenti sulle infiltrazioni massoniche nelle alte gerarchie vaticane. Ed ecco il colpo di scena: viene fatto papa un cardinale non italiano, uno lontano dagli intrighi di curia, una vera sorpresa anche per molti vaticanisti. Wojtyla viene da lontano, da un paese dove già la Chiesa è impegnata nel sostegno alle forze d'opposizione al regime comunista, e da subito Giovanni Paolo II mostra quale sarà lo sforzo principale del suo pontificato: in favore della sua amata Polonia e di tutti i governi che combattono qualunque forma di comunismo, anche quelli dittatoriali del Centro e Sud America. Ma per fare questo servono soldi e serve lo IOR e il Banco Ambrosiano ad esso collegato. Ma qualcuno aveva sbagliato i suoi calcoli: Karol Wojtyla è un uomo testardo, determinato a compiere la sua missione, capace di resistere a qualunque condizionamento, come sarà chiaro in seguito, anche alle malattie più invalidanti. Intanto Sindona era rovinato: il suo impero finanziario si era sfaldato come un castello di carte e stava trascinando giù anche il suo antico sodale Calvi. Una quantità inimmaginabile di soldi era andata perduta, non poteva più ritornare a chi gliel'aveva affidata. Il sistema di banche e finanziarie con il quale manovrava il trio Sindona-Calvi-Marcinkus era stato soprattutto una grande lavanderia per il riciclaggio di denaro sporco proveniente da traffico di droga, d'armi, da tutte le attività gestite dalle organizzazioni che per semplicità vengono chiamate "mafia". E la mafia non risulta che rinunci facilmente ai propri soldi. Vengono messe in atto pressioni e manovre in ogni direzione per tentare un salvataggio in extremis. Non siamo a conoscenza di quanto avvenisse in Vaticano ma non riusciamo ad immaginare Giovanni Paolo II che si sottomette a rivendicazioni mafiose, né è facile eliminarlo e poi con chissà quali ricadute. Per altri, durante il dispiegarsi dell'enorme crack finanziario, sarà più semplice ad esempio l'agguato al vicepresidente del Banco Ambrosiano Rosone, gambizzato a Milano da Danilo Abbruciati, uno dei capi della banda della Magliana, a sua volta ucciso da una guardia giurata intervenuta negli istanti successivi. Al processo Gabriella Botte, moglie di un pregiudicato, testimoniò che il mandante era stato Pippo Calò, il cosiddetto "cassiere della mafia" da molti anni a Roma. Sempre Pippo Calò compare oggi nella richiesta di rinvio a giudizio firmata dai pubblici ministeri Tescaroli e Monteleone come mandante dell'omicidio di Roberto Calvi. Anche Sindona anni dopo morirà avvelenato da una tazzina di caffè al cianuro, in carcere. Secondo la pista che seguiamo stasera, menti raffinatissime organizzano un piano che sembrerebbe perfetto: in carcere in Turchia c'è un fanatico killer esponente di un'organizzazione di estrema destra: Alì Agca, è giovane, lo aspetta una condanna a morte. Il capo della mafia turca, Abuzer Ugurlu, lo fa evadere dal carcere di massima sicurezza con estrema facilità e lo fa arrivare a Sofia all'hotel Vitosha. Qui ha la sua base, dormiva in una suite, Bekir Celenk, un boss mafioso di grande caratura: gestisce la fornitura e il trasporto di morfina base dai luoghi di produzione alle raffinerie che la trasformeranno in eroina, si occupa anche di traffico d'armi, ha navi e TIR che superano i controlli doganali attraverso una fitta rete di uomini delle varie istituzioni, sul libro paga, soprattutto in Bulgaria dove i suoi contatti migliori sono tra gli uomini dei servizi segreti. Peraltro ci sono addirittura società di import-export dei servizi segreti bulgari come la Kintex, che operano nel mercato internazionale della droga: in una raffineria siciliana i sacchi di iuta che contenevano droga erano di provenienza bulgara. E' Bekir Celenk che gestisce Alì Agca dall'evasione all'attentato, è Bekir Celenk che ha un socio, Hassan, che ha aperto una filiale della ditta a Milano nello stesso stabile dove abita il dottor Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano, proprietario dello stabile, e gli uomini dei servizi bulgari sul libro paga di Bekir Celenk verranno usati anche nella gestione di Agca; una volta catturato, il giovane turco in un primo momento ne farà i nomi prima di capire, prima di cambiare atteggiamento. Celenk morirà in circostanze dubbie poco prima di essere ascoltato da magistrati italiani. Agca ha parlato anche recentemente di alti prelati in Vaticano complici nell'attentato. Chi erano? E sono gli stessi che poi hanno gestito il caso Orlandi, l'estremo tentativo di piegare la ferrea volontà di Karol Wojtyla? Chi chiedeva con insistenza una linea diretta col cardinal Casaroli, Segretario di Stato e uomo del papa? Chi ha continuato a tenere sotto pressione il papa con l'apparente scopo di ottenere la libertà di Agca solo fino al momento che il Vaticano decide di aderire volontariamente ad una transazione per 240 miliardi di lire di allora in favore dei creditori dello IOR? E' stato così descritto da un analista dei nostri servizi segreti: straniero, verosimilmente di cultura anglosassone, livello intellettuale e culturale elevatissimo, conoscitore della lingua latina e successivamente di quella italiana, appartenente o inserito nel mondo ecclesiale, formalista, ironico, preciso e ordinato nelle sue modalità comportamentali, freddo, calcolatore, pieno di sé, sicuro del proprio ruolo e della propria forza, sessualmente amorfo, ha domiciliato a lungo a Roma, conosce bene soprattutto le zone della città che rappresentano qualche cosa per la sua attività, bene informato sulle regole giuridiche italiane e sulla struttura logistica del Vaticano. Ed era qualcuno dentro al Vaticano in grado di sapere subito cosa accadeva vicino al papa: è un ritratto che fa pensare a qualcuno che somiglia molto a Monsignor Marcinkus che il giorno dell'attentato al papa non c'era. Avrebbe forse potuto intervenire come aveva fatto nel 1970 per Paolo VI o come avrebbe fatto nel 1982 a Fatima? Era a giocare a tennis al Gianicolo e, come risulta da un'intercettazione telefonica alla sua segretaria, conferma che appena saputo dell'attentato aveva esclamato: "Non sarà stato quel turco?". Si riferiva ad Agca, aveva ricordato in un attimo le minacce pubblicate su un giornale turco quasi due anni prima. Del trio Sindona-Marcinkus-Calvi, Marcinkus è l'unico sopravvissuto ed ha evitato tutte le vicende giudiziarie perché lo stato italiano non ha giurisdizione sulle cose interne vaticane. Anche se è singolare che ad un certo punto della vicenda il cardinale Casaroli avrebbe chiesto al generale Santovito, capo del Sismi, il servizio segreto militare italiano, di indagare su di lui. Nel 1989 Giovanni Paolo II lo destituisce e lo manda negli Stati Uniti dove vive da allora. E' una pista questa che attinge ad anni di inchieste giudiziarie e meriterebbe più spazio di quanto possiamo dedicarle oggi; soprattutto per parlare di tanti altri personaggi che vi compaiono e di oscure connivenze tra gruppi apparentemente diversi: la P2, la banda della Magliana, la nuova camorra organizzata, esponenti dell'estrema destra e soprattutto la mafia, quella siciliana e quella americana, e poi i servizi segreti. Di sicuro a tutto questo si riferiva un nostro ascoltatore quando ci ha lasciato questo messaggio in segretaria: "Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant'Apollinare e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all'epoca. E chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei, con l'altra Emanuela. I genitori di Emanuela sanno tutto". Si riferisce ad un episodio quantomeno curioso e che è stato già riportato nelle cronache: con il placet del cardinale Poletti, allora vicario del papa, nella cripta della chiesa di Sant'Apollinare fu sepolto Enrico De Pedis detto Renatino. La cosa suscitò scalpore quando si seppe, perché in quel luogo è permesso seppellire solo papi, cardinali, alti prelati o personaggi illustri che in vita siano stati luminosi esempi per la collettività cattolica. Enrico De Pedis in vita era stato un killer macchiatosi di numerosi omicidi, rapine, violenze, vittima egli stesso di un agguato nel quale fu ucciso a colpi di pistola. Singolare è anche il luogo della sepoltura perché è nello stesso complesso edilizio della scuola di musica dalla quale uscì Emanuela Orlandi prima di scomparire. Quanto al favore fatto da De Pedis ad un principe della Chiesa, seppure indicato come massone, forse il nostro gentile spettatore potrebbe dirci qualcosa di più di quanto già immaginiamo.
25/07/2008 19:34


In estrema sintesi:


Muore Papa Giovanni XXIII
gli succede Montini = Paolo VI che fa subito il 1° errore:
chiama a riorganizzare lo IOR (la banca del Vaticano) il finanziere siciliano Michele Sindona.
Seguono inciuci con gli USA, Nixon, Mafia Usa&sicula...
Come se non bastasse nel 1968 Paolo IV aggiunge un altro cavaliere dell'apocalisse a gestire lo IOR: Monsignor Marcinkus [SM=x44497]
Marcinkus diventa l'interfaccia ufficiale del consulente Sindona all'interno dello IOR:
i due si lanciano in una lunga serie di intrighi societari, speculazioni finanziarie ai limiti della legalità, per alcuni oltre i limiti della legalità.
Un terzo personaggio entra in gioco, Roberto Calvi. All'inizio il contatto è con Sindona: entrambi massoni, fanno parte della P2, la Loggia Propaganda 2 di Licio Gelli.
Roberto Calvi nel 1970 diventa direttore generale del Banco Ambrosiano, anche questa una banca dichiaratamente cattolica che gestisce i conti di varie diocesi.
Segue la bancarotta fraudolenta della Banca privata di Sindona, assassinio dell'Avv.Giorgio Ambrosoli che aveva scoperto i segreti di Sindona...
1978:
Muorto Papa Paolo VI si elegge Papa Albino Luciani = Giovanni Paolo I che campa solo 33 gg.:
Il 28 agosto papa Luciani informa il cardinale Villot (un massone) che intende sostituire il gruppo dirigente dello IOR: Marcinkus deve andare via.
L'indomani viene annunciata la morte del papa (avvelenato, anche se Bestionn sostiene il contrario).
Viene eletto Papa Vojtyla = GP2
Intanto Sindona era rovinato: il suo impero finanziario si era sfaldato e trascinava giù anche Calvi.
Una quantità inimmaginabile di soldi era andata perduta, non poteva più ritornare a chi gliel'aveva affidati. Il sistema di banche e finanziarie con il quale manovrava il trio Sindona-Calvi-Marcinkus era stato soprattutto una grande lavanderia per le "mafie".
Compare la Banda della Magliana ed il cassiere della Mafia Pippo Calò (commissiona l'omicidio del v.pres. del Banco Ambrosiano, Rosone e di Roberto Calvi: BlackFriars Bridge a Londra).
Anche Sindona muore avvelenato dalla famosa tazzina di caffè, in carcere.
Segue l'attentato di Alì Agca contro GP2.....
sequestro di Emanuela Orlandi (cittadina del Vaticano)
Alti prelati, Banco Ambrosiano, etc. sembrano coinvolti sia nell'attentato al papa, sia nel sequesto E.Orlandi....
L'intento era di tenere sotto pressione il papa con l'apparente scopo di ottenere la libertà di Agca solo fino al momento che il Vaticano decide di aderire volontariamente ad una transazione per 240 miliardi di lire di allora in favore dei creditori dello IOR (mafia e...)
Intanto nella cripta della chiesa di Sant'Apollinare (vicino a P.zza Navona, dove era stata rapita E.Orlandi) fu sepolto Enrico De Pedis detto Renatino: un killer ferocissimo, capo dei "testaccini" un ramo della Banda della Magliana (su cui la prox settimana uscirà un film di Michele Placido: da vedere!)


Al momento solo Marcinkus (mandato a fare il semplice parroco in USA) e Licio Gelli potrebbero svelarci qualche segreto... oppure...tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia....

(POSTATO DA ETRUSCO)
25/07/2008 19:36


Discepoli di Verità "Bugie di sangue in Vaticano. Il triplice delitto della Guardia svizzera" - Kaos Edizioni 1999



Poco dopo le ore 21 di lunedì 4 maggio 1998, nell'alloggio di servizio abitato dal nuovo comandante dell'esercito pontificio Alois Estermann, vengono trovati tre cadaveri in un lago di sangue: accanto al corpo di Estermann ci sono quelli di sua moglie Gladys Meza Romero e del vicecaporale Cédric Tornay. Tutti e tre uccisi da colpi di arma da fuoco. Alle 21,30 già molte persone erano arrivate sul luogo del delitto, tra le quali Joaquìn Navarro-Valls, portavoce del papa, e molti alti prelati tra cui i monsignori Re e Lòpez Quintana; qualcuno si preoccupa subito di eliminare quattro bicchieri appoggiati su un tavolino ed altri iniziano ad armeggiare intorno ai cadaveri. La polizia italiana non viene informata della strage, nessun aiuto viene richiesto e, anzi, i corpi delle vittime vengono in tutta fretta portati nell'obitorio vicino alla chiesa di Sant'Anna, senza peraltro nessuna cautela, né guanti per la rimozione né sacche per il trasporto; la guida delle indagini viene subito affidata al Giudice Unico del Vaticano, l'avvocato Gianluigi Marrone. Poche ore dopo il ritrovamento dei cadaveri, e prima che venissero effettuate le autopsie, viene diffusa, tramite il portavoce del pontefice, la verità "ufficiale": si è trattato di un raptus di follia del giovane Cédric, adirato con Estermann per una mancata promozione e per ripetuti rimproveri subiti da parte del suo superiore. Il giovane, dopo aver ucciso Estermann e la moglie, si sarebbe suicidato. Ma Navarro-Valls dice anche che circa un'ora e mezza prima del delitto, Tornay avrebbe lasciato un biglietto d'addio ad un suo commilitone, incaricandolo di consegnarlo alla sua famiglia, "se dovesse succedermi qualcosa", il che sembra contraddire la tesi del raptus improvviso. Sull'autenticità di questa lettera sorgono da subito molti dubbi ed anche la madre di Tornay nega che possa essere stata scritta da suo figlio in quanto presenta numerose imprecisioni perfino sui nomi dei familiari del giovane; la signora arriva a scrivere una lettera a Giovanni Paolo II ma senza avere risposta: da tempo il papa, infatti, non governa più la Chiesa e in tutto questo non ha avuto alcuna voce in capitolo. Per neutralizzare le accuse e i dubbi della madre di Tornay, la Santa Sede diffonde una sorta di dossier nel quale Cédric viene descritto come un ragazzo con un forte squilibrio mentale dovuto ad un tumore al cervello che gli aveva eroso parte della scatola cranica, che faceva uso di sostanze stupefacenti in grande quantità, che era affetto da broncopolmonite in atto, che era dedito all'alcol ed era entrato in un giro di prostituzione, introdotto da Estermann. Secondo alcune voci i due frequentavano la casa di un ottantenne ex presidente del Consiglio, gay, di cui non si fa il nome, e di Enrico Sini Luzi, il nobile romano gay addetto al cerimoniale del papa, ucciso a 66 anni il 5 gennaio 1998 da un suo giovane amante, a colpi di candelabro, durante un gioco sadomaso. Con queste rivelazioni, che danneggiano anche la reputazione di Estermann, l'inchiesta viene ufficialmente archiviata e Cédric dichiarato colpevole del delitto. Ma naturalmente ben pochi credono a questa versione dei fatti: per scoprire mandanti, esecutori e movente della strage sarebbe stato necessario indagare nel passato: l'Opus Dei (letteralmente "Opera di Dio") è stata creata da Josemarìa Escrivà de Balaguer in Spagna negli anni '20; è una sorta di organizzazione integralista con una struttura di tipo paramilitare che conta adepti sia religiosi che laici. L'Opus Dei (detta anche "Santa mafia") ha come scopo quello di impadronirsi del controllo di tutti i meccanismi di comando della Chiesa di Roma. Questa scalata di potere è iniziata con Giovanni Paolo II, eletto grazie all'appoggio dei cardinali filo-opusiani, che ha poi elevato l'Opera a Prelatura personale e ha nominato un suo membro, Navarro-Valls, come proprio portavoce. All'integralismo oscurantista e alle mire egemoniche dell'Opus Dei si oppone la "Loggia vaticana", della quale farebbero parte, tra gli altri, i cardinali Castillo Lara, Silvestrini, Laghi e Ruini. All'epoca dello scandalo Ior-Ambrosiano, l'Opera si mosse in soccorso della Santa Sede: gli opusiani si offrirono di salvare il Banco Ambrosiano in cambio del controllo dello IOR, che era nelle mani della cordata massonica. L'Opus Dei non riuscì a vincere la contesa e lasciò al suo destino il Banco Ambrosiano. Così lo IOR restò sotto il controllo della "Loggia vaticana" e monsignor Marcinkus, nonostante l'enorme scandalo, restò al suo posto perché, su mandato di Wojtyla, aveva iniziato a finanziare clandestinamente, tramite lo IOR, la lotta anticomunista di Solidarnosc al regime di Jaruzelski in Polonia. Inoltre, con un accordo diretto col papa, ingenti capitali dell'Opus Dei servirono al Vaticano per uscire dal crac IOR-Ambrosiano. In questa lotta di potere fra la cordata massonica e quella opusiana e negli intrighi finanziari erano coinvolti i coniugi Estermann. Estermann, nato nel 1954 in Svizzera, nel 1977 prestò servizio nell'esercito pontificio come guardia ausiliaria per tre mesi, per poi tornare a studiare lingue e a viaggiare in vari paesi europei. Nel 1980 tornò in Vaticano con il grado di capitano della Guardia svizzera, scavalcando i graduati in servizio da lungo tempo, grazie a pressanti raccomandazioni: si dice che fosse protetto, tra gli altri, da monsignor Dziwisz, segretario personale del papa. Dopo l'attentato del 13 maggio 1981, Estermann diventa un eroe in quanto avrebbe difeso il papa proteggendolo col proprio corpo e viene fatta circolare una foto che lo ritrae vicino a Wojtyla ferito. In realtà al momento degli spari Estermann si trovava a circa trenta metri dalla papamobile e solo quando il pontefice era già accasciato gli s'è avvicinato. Grazie a questa messinscena Estermann viene promosso maggiore, grado a cui però potevano accedere solo uomini sposati: essendo ancora scapolo, in fretta e furia venne organizzato un matrimonio con la venezuelana Gladys Meza Romero, di quasi sei anni più anziana di lui. Ex poliziotta, affascinante e determinata, negli anni '70 era entrata nelle grazie del capo della polizia venezuelana e del ministro della Giustizia, entrambi vicini ad ambienti massonici. Divenne la pupilla di monsignor Castillo Lara (cardinale, uno dei capi della cordata massonica) che la introdusse in Vaticano ufficialmente come impiegata all'Ambasciata venezuelana presso la Santa Sede e la unì in matrimonio con Estermann; sembra però che Gladys fosse in rapporti anche con monsignor De Bonis (il braccio destro di monsignor Marcinkus allo IOR all'epoca dello scandalo) e con monsignor Colagiovanni, coinvolto anch'egli in un grave scandalo finanziario. Il cardinale Castillo Lara era talmente legato a Gladys da riuscire a farne trasportare e seppellire la salma in Venezuela, mentre il marito è stato sepolto in Svizzera. Sembra che la signora Estermann gestisse personalmente i fondi di varie istituzioni filo-opusiane con filiali in varie parti del mondo per un giro enorme di denaro, tra l'altro aveva erogato fondi per circa 4 miliardi di lire, pagati dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, in favore dell'Accademia Internazionale di Filosofia del principato del Liechstenstein (gli Estermann erano in rapporti con la famiglia reale), ente controllato dall'Opus Dei, il cui presidente è Francesco Cossiga e vicerettore è Rocco Buttiglione, entrambi vicini all'Opus Dei. In seguito al matrimonio con Gladys, la carriera di Estermann accelerò ulteriormente: i due, insieme o individualmente, costruirono una fittissima rete di contatti sia con personalità ecclesiastiche che con ambienti politico-finanziari, diplomatici e militari, non solo legati all'Opus Dei ma anche alla massoneria vaticana e internazionale; Estermann aveva anche allacciato stretti rapporti con i vertici del FPO, il partito austriaco di estrema destra di Jorg Haider e godeva inoltre di grandi privilegi grazie alla protezione dell'Opera fino a diventare il candidato opusiano al comando dell'esercito pontificio. Gli opusiani volevano che la Guardia svizzera venisse potenziata e trasformata in un Corpo "speciale", togliendo potere al Corpo della Vigilanza che era sotto il controllo del clan massonico. Dopo mesi di lotte tra le due fazioni, l'Opus Dei riesce a spuntarla e il 4 maggio 1998, alle ore 12, viene annunciata ufficialmente la nomina di Estermann a comandante della Guardia svizzera. Alle ore 21 di quello stesso giorno, Estermann viene trovato ucciso nel suo appartamento insieme alla moglie. Il povero vicecaporale Cédric Tornay sembra sia stato usato come "copertura", in quanto era necessario trovare un "assassino ufficiale" a cui addossare le colpe e per sviare i sospetti. Forse Tornay è stato ucciso in un locale sotterraneo alla fine del servizio, la sua pistola d'ordinanza sarebbe stata usata per uccidere gli Estermann e successivamente all'omicidio della coppia, il corpo del giovane è stato trasportato nell'abitazione degli Estermann per inscenare il presunto "omicidio-suicidio".
25/07/2008 19:37


Discepoli di Verità "All'ombra del Papa infermo. Giovanni Paolo II nelle spire della nomenklatura vaticana" - Kaos Edizioni 2001



Il cardinale polacco Karol Jozef Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, venne eletto papa il 16 ottobre 1978. Nei giorni precedenti il Conclave, si mormorava che fosse il candidato voluto dall'Opus Dei e sostenuto dai settori più integralisti della potente "ala tedesca" capeggiata dall'arcivescovo di Monaco cardinale Joseph Ratzinger. Wojtyla era entrato in contatto con l'Opera all'inizio degli anni Settanta, fino a diventare un pupillo dei vertici dell'organizzazione, al punto da essere invitato in molte occasioni nei vari Centri in qualsiasi parte del mondo. Si dice che l'elezione di Wojtyla facesse parte di un piano dell'Opus Dei per destabilizzare il regime di Varsavia attraverso la figura e la predicazione di un carismatico papa polacco al fine di incrinare e rompere il blocco sovietico: la caduta del regime comunista in Polonia avrebbe provocato a catena il crollo dei regimi marxisti nell'Est europeo e avrebbe aperto alla Chiesa la possibilità di instaurare una qualche forma di teocrazia. L'Opus Dei, alla fine degli anni Sessanta, era divenuta la più potente organizzazione integralista della Chiesa, un'organizzazione di tipo paramilitare strutturata in modo rigidamente gerarchico, ramificata nelle banche, nelle università, nei governi, caratterizzata dalla volontà di azzerare le riforme del Concilio Vaticano II, dall'anti-marxismo più radicale, dall'integralismo teologico e dalla devozione mariana. La fazione opusiana era però avversata dalla fazione opposta, quella massonica, legata alla Loggia massonica P2 del Venerabile maestro Licio Gelli, che si era a sua volta ramificata e consolidata in Italia nella seconda metà degli anni Settanta come un vero e proprio "Stato nello Stato", proprio mentre l'Opus Dei andava strutturandosi come una "Chiesa nella Chiesa". Da molti anni i banchieri catto-massoni Michele Sindona e Roberto Calvi, entrambi affiliati alla P2, erano in affari con le finanze vaticane gestite dalla "massoneria curiale"; con la regia occulta della P2, nel 1977 lo IOR vaticano, il cui capo era il potentissimo vescovo americano Paul Marcinkus, tramite il Banco Ambrosiano di Calvi, era perfino arrivato ad acquisire il controllo azionario del gruppo editoriale Rizzoli-Corriere della Sera. Giovanni Paolo II, dopo la sua elezione, confermò tutto l'assetto della nomenklatura curiale lasciata da Paolo VI e allo stesso tempo iniziò un progressivo rafforzamento dell'Opera: si delineava a poco a poco l'ambigua duplicità che sarà la caratteristica del suo pontificato: da un lato la ribalta mediatica, gli spettacoli, le grandi adunate, la figura del "papa showman", dall'altro lato la volontà di restaurazione e di rinnegamento del Concilio Vaticano II. La deriva autoritaria iniziò nel 1979, ad opera della Congregazione per la Dottrina della Fede, allora con a capo Franjo Seper, che colpì i teologi "dissidenti" Jacques Pohier, Edward Schillebeeckx, per arrivare al grande teologo svizzero Hans Kung il quale, accusato di "deviazionismo", aveva avuto in passato pesanti contrasti con l'arcivescovo di Monaco Ratzinger: quest'ultimo è stato il regista occulto del processo a Kung, operazione che poco tempo dopo lo porterà a ricoprire la nevralgica carica di Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, con la benedizione dell'Opera. Nel corso del suo primo pellegrinaggio in Polonia, Wojtyla manifestò chiaramente le intenzioni della Chiesa nei confronti della situazione polacca e in pratica preparò il terreno per la nascita di Solidarnosc, il sindacato dei lavoratori cattolici polacchi: per questo motivo il pontefice aumentò i poteri al vescovo Marcinkus, nominandolo governatore dello Stato del Vaticano e promuovendolo al rango di arcivescovo in attesa di ricevere la porpora: in pratica, Marcinkus era divenuto il capo assoluto di tutte le finanze vaticane. Questi nuovi poteri del presidente dello IOR erano strettamente collegati alla situazione polacca: su ordine di Giovanni Paolo II e della fazione opusiana, Marcinkus erogava, tramite il Banco Ambrosiano, cospicui finanziamenti a Lech Walesa. La Polonia era in stato d'assedio, scossa da rivolte e scioperi che culminarono nella messa fuori legge del sindacato di Solidarnosc, situazione che il papa e la fazione opusiana giudicavano intollerabile. Il Segretario di Stato, cardinale Agostino Casaroli, uomo di grande intelligenza e fine diplomatico, era però un sostenitore della Ostpolitik, cioè del dialogo e dell'apertura verso gli Stati comunisti, in aperto dissenso con la linea dura del papa e della fazione opusiana, che prevedeva uno scontro frontale Chiesa-regimi dell'Est. La fazione massonica e quella opusiana iniziarono ben presto una vera e propria guerra per il potere temporale al vertice della Chiesa: quella massonica lo deteneva già, quella opusiana intendeva conquistarlo con l'aiuto di Wojtyla. Sembra che l'attentato del 13 maggio 1981 sia strettamente connesso al fatto che il pontefice avesse intenzione di accordare all'Opus Dei lo Status di Prelatura personale. Il terrorista turco Alì Agca alloggiava a Roma già da diversi giorni prima dell'attentato e aveva persino avuto dei biglietti per assistere alla visita pastorale del papa del 10 maggio alla parrocchia romana di S. Tommaso d'Aquino, recapitatigli da Ercole Orlandi, usciere della Casa Pontificia. Agca era un personaggio noto al SISMI, il servizio segreto militare italiano infiltrato dalla P2, e sembra inoltre che fosse collegato con delle sette integraliste ispirate al culto di Fatima. Negli interrogatori un imputato al processo, complice di Agca, dirà che il compito del terrorista turco non era di uccidere Giovanni Paolo II, ma di ferirlo, una sorta di "avvertimento", e lo stesso Agca affermò che era stato raggiunto un accordo segreto tra la Casa Bianca e il Vaticano per il lancio politico-propagandistico della "verità ufficiale" sull'attentato, la cosiddetta "pista bulgara", accordo a cui hanno partecipato anche il vescovo Marcinkus ed Henry Kissinger. Ma Agca, sempre durante gli interrogatori, dimostrerà di essere a conoscenza del testo del terzo segreto di Fatima, non ancora rivelato, e di quella che sarebbe poi stata l'interpretazione del papa sul "vescovo vestito di bianco che cade a terra come morto", una conferma che il terrorista turco aveva avuto contatti con le più segrete stanze del Vaticano. Il pontefice era consapevole che i registi dell'attentato potevano essere in Vaticano e per questo rafforzò il potere dell'Opera: accordò, non senza resistenze della parte avversa, lo status di Prelatura personale all'Opus Dei e chiamò al vertice della Curia romana, con la nomina di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger, pupillo dell'Opus Dei, che si rivelerà subito un falco restauratore; con questa nomina la potente "ala tedesca" incassava il sostegno fornito all'elezione di Wojtyla. Dopo l'attentato, però, Giovanni Paolo II non era più lo stesso: anche se agli occhi del mondo continuava ad essere il papa viaggiatore, indomito e dalla forte personalità, in realtà la situazione era ben diversa: era preda di forti crisi depressive, demoralizzato, di umore cupo, al punto che aveva delegato alla Curia tutte le incombenze del pontificato, a parte i viaggi pastorali e le apparizioni pubbliche. Solo una questione sembrava scuoterlo ancora dalla sua apatia: la situazione polacca. Nel giugno del 1982 vi fu un incontro segreto in Vaticano fra il pontefice e il presidente USA Ronald Reagan. I due concordarono di intensificare gli aiuti a Solidarnosc: non solo finanziamenti, ma anche materiale, come ricetrasmittenti e computer, e servizi di intelligence; la base di coordinamento del piano venne stabilita a Bruxelles, dove periodicamente si sarebbero incontrati sacerdoti polacchi di Solidarnosc, emissari vaticani e agenti della CIA; Marcinkus si occupò di convogliare al sindacato di Walesa anche i finanziamenti americani. Ma il progetto dell'Opus Dei, di creare una teocrazia in Polonia, da estendere poi negli altri paesi dell'Est, scopo per il quale Wojtyla era stato eletto, era destinato a naufragare. Il pontefice continuava ad usare tutto il suo potere e la sua influenza, con numerosi viaggi in patria costellati di discorsi appassionati a sostegno di Lech Walesa, il quale a sua volta spesso si recava in Vaticano per discutere con il papa della situazione polacca. Ma Walesa si rivelò ben presto un politico inaffidabile, rozzo e maldestro, decisamente inadeguato al suo difficile compito: riuscì a farsi eleggere presidente della Polonia ma non fu in grado di governare a causa della risicata maggioranza, per cui fu costretto ad indire nuove elezioni dalle quali uscì sonoramente sconfitto, mettendo così fine al sogno dell'Opera e dello stesso pontefice. Ma il Vaticano, nel 1992, intervenne anche nell'esplosiva situazione della Jugoslavia, riconoscendo ufficialmente l'indipendenza della cattolica e "anticomunista" Croazia, un passo che contribuì al divampare della guerra in un crescendo di massacri etnici. Il presidente francese Francois Mitterand addossò esplicitamente al Vaticano la responsabilità della guerra e tempo dopo il quotidiano inglese The Guardian scriverà di finanziamenti vaticani al governo croato per l'acquisto di armi durante la guerra di Bosnia, notizia fermamente smentita dalla Santa Sede. Il pontificato wojtyliano è stato caratterizzato dalla costante preoccupazione per i diritti umani calpestati dai regimi comunisti ma da un atteggiamento pressoché indifferente quando gli stessi diritti umani venivano calpestati dai regimi di destra, perché un regime di destra, per quanto feroce, era "giustificato" dal suo essere "anticomunista". Questo spiega anche la complice indulgenza verso il sanguinario generale cileno Pinochet, vicenda che ha avuto come zelante cerimoniere il nunzio apostolico a Santiago monsignor Angelo Sodano, poi promosso cardinale e perfino Segretario di Stato al posto del cardinale Casaroli. A causa della sua salute sempre più precaria, però, Giovanni Paolo II di fatto non ha più governato la Chiesa negli ultimi anni, diventando solo un pontefice "simbolico", in balìa delle due fazioni avverse e senza più alcun potere decisionale.
25/07/2008 19:39


Discepoli di Verità "Senza misericordia. Come il cardinale Joseph Ratzinger è diventato papa Benedetto XVI" - Kaos Edizioni 2005



Joseph Alois Ratzinger è nato il 16 aprile 1927 a Marktl am Inn in Baviera (Germania). Nel 1943 fu arruolato nei servizi di contraerea a Monaco e nel settembre 1944 indossò la divisa della Wehrmacht. Di tutti questi anni però si sa poco perché Ratzinger è sempre stato molto evasivo nel raccontare le sue esperienze durante il periodo nazista. Sappiamo però che è stato allievo del professor Michael Schmaus, sostenitore dell'intesa Chiesa-nazismo durante il Terzo Reich e che è stato un acceso ammiratore dell'arcivescovo di Monaco cardinale Michael von Faulhaber (da cui ricevette l'ordinazione sacerdotale nel 1951), il quale era un grande estimatore di Hitler, al punto da essere ricevuto nella sua casa di montagna sull'Obersalzberg. Nel 1953 conseguì una brillante laurea in teologia, nel 1957 ottenne l'abilitazione all'insegnamento universitario in Dogmatica e Storia dei Dogmi e nel 1958 la cattedra a Frisinga; dopo circa un anno Ratzinger inizia ad insegnare a Bonn, dove conosce l'arcivescovo di Colonia cardinale Joseph Frings, con cui comincia una collaborazione in occasione dei lavori preparatori dell'imminente Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII. Nel 1962 il giovane teologo bavarese si reca a Roma al seguito del cardinale Frings, in qualità di consulente teologico; Ratzinger era un acceso esponente del partito progressista e auspicava un "salutare" rinnovamento della Chiesa, troppo arroccata, secondo lui, su una "sterile ortodossia". Dopo qualche anno, a causa del clima teso che si era venuto a creare all'Università di Bonn, si trasferisce a Munster; dopo pochi anni ancora un altro trasferimento, questa volta a Tubinga per ricoprire la cattedra di Dogmatica, dove però ben presto inizia ad avere forti dissapori con il suo collega Hans Kung, al punto da spingere Ratzinger a lasciare la cattedra e trasferirsi a Ratisbona. In seguito alla rivoluzione studentesca, alle contestazioni, di fronte al rischio di una "politicizzazione" della teologia e al pericolo che la figura di Cristo venisse ridotta a simbolo di lotta di classe, il professor Ratzinger mutò repentinamente le sue posizioni, fino a diventare il punto di riferimento della destra clericale tedesca e l'astro nascente del potente "partito tedesco" della Chiesa: tutto questo avveniva proprio mentre nella Curia vaticana la lotta tra le due fazioni (progressista e integralista) volgeva a favore della destra capeggiata dall'Opus Dei, e il tempestivo avvicinamento del teologo bavarese a quest'ultima gli aprì ben presto le porte del Vaticano. Il 28 maggio 1977 fu nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e il 27 giugno dello stesso anno Paolo VI gli attribuì la porpora cardinalizia. Ma il cardinale Ratzinger era un ambizioso intellettuale più che un umile pastore e guardava più alla nomenklatura vaticana che al gregge della sua arcidiocesi. Prima del secondo conclave del 1978 si saldò un'intesa fra l'Opus Dei e il "partito tedesco" per l'elezione papale dell'arcivescovo di Cracovia cardinale Karol Wojtyla. Una volta eletto, Giovanni Paolo II si premurò di onorare i debiti, attivandosi per attribuire all'Opera lo status di Prelatura personale e per iniziare la causa di beatificazione di Escrivà de Balaguer, suo fondatore. Inoltre, sembra per volere dell'arcivescovo di Monaco, Wojtyla ordinò alla Congregazione per la Dottrina della Fede (allora con a capo il cardinale croato Franjio Seper) di colpire i teologi progressisti Jacques Pohier, Edward Schillebeeckx e soprattutto Hans Kung (Ratzinger non aveva dimenticato i passati contrasti avuti con lui), al quale fu revocato il mandato di professore di teologia cattolica con l'accusa di "deviazionismo dalla verità integrale della Chiesa". Nel 1981 il pontefice conferì al cardinale Ratzinger la carica di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, la poltrona più prestigiosa della Curia vaticana, seconda solo al trono papale. I primi provvedimenti del nuovo prefetto furono presi nei confronti degli esponenti della teologia della liberazione, accusati di essere filo-marxisti e troppo progressisti in materia di etica sessuale: furono colpiti il sacerdote Gustavo Gutiérrez, primo ideologo della teologia della liberazione; il frate francescano Leonardo Boff, ex allievo di Ratzinger, che fu costretto a tornare alla vita laicale, avendo rifiutato le imposizioni dell'ex Sant'Uffizio; il teologo Edward Schillebeeckx, che aveva preso le difese di Kung e Boff; il teologo Charles E. Curran, dichiarato "non idoneo all'insegnamento della teologia cattolica"; monsignor Pedro Casaldàliga, noto per la sua attività a sostegno degli indios e colpevole di aver definito "martire" monsignor Oscar Romero, vescovo di San Salvador ucciso nel 1980 mentre celebrava messa, personaggio inviso alla fazione opusiana; monsignor Raymond Hunthausen, pacifista e vicino alla comunità gay di Seattle. Il prefetto fu però molto indulgente di fronte alla "ribellione" di monsignor Marcel Lefebvre, vescovo tradizionalista e integralista, fondatore della Fraternità San Pio X a Econe (Svizzera), che continuava ad esercitare il suo ministero violando la sospensione a divinis inflittagli da Paolo VI, e nonostante le sue dichiarazioni apertamente anticonciliari. Anche dopo lo scandaloso scisma del 1988, quando Lefebvre consacrò quattro vescovi, Ratzinger fu pronto a riaccogliere quanti abbandonarono la Fraternità lefebvriana, ritirando tutte le censure e permettendo perfino che essi non sconfessassero l'operato del vescovo scismatico. La Congregazione per la Dottrina della Fede colpì anche il vescovo Jacques Gaillot, sostenitore dell'uso dei preservativi in funzione anti-Aids; la teologa Ivone Gebara, esponente della teologia femminista dell'America Latina; il direttore di Famiglia Cristiana don Leonardo Zega, estromesso dal giornale per essersi dimostrato troppo "comprensivo" in tema di omosessualità e divorzio; il teologo Tissa Balasuriya, colpevole di non riconoscere l'infallibilità del Pontefice; il pastore gesuita Anthony De Mello, che considerava Gesù un maestro accanto agli altri; il teologo gesuita Jacques Dupuis, troppo "simpatizzante" per le religioni orientali; padre Robert Nugent e suor Jeannine Gramick, colpevoli di prestare assistenza spirituale a gay e lesbiche; il teologo Eugen Drewermann, critico verso le gerarchie ecclesiastiche; i monsignori Karl Lehmann, Walter Kasper e Oskar Saier, che auspicavano un'apertura verso i divorziati risposati. Il prefetto detestava particolarmente monsignor Emmanuel Milingo, arcivescovo di Lusaka (Zambia), considerandolo una sorta di "stregone" per via delle sue pittoresche messe "miracolistiche"; inoltre, il grandissimo numero di fedeli che seguiva Milingo e il suo grande successo mediatico (con enormi flussi di denaro, un vero e proprio impero economico) era causa di forti invidie nella Curia vaticana. Monsignor Milingo fu convocato nel 1983 in Vaticano e sottoposto a una perizia psichiatrica dall'esito negativo e successivamente gli fu impedito di continuare ad esercitare il suo ministero. Per protesta Milingo, con una spettacolare provocazione, aderì alla setta del reverendo Moon e si unì in matrimonio all'adepta Maria Sung, con una grande cerimonia trasmessa in mondovisione. Nonostante l'enorme scandalo, il cardinale Ratzinger fu indulgente: l'arcivescovo africano fu ricevuto a Castelgandolfo da Giovanni Paolo II e tutto si risolse con un dare e un avere: monsignor Milingo cedette alla Curia vaticana tutto il suo impero e in cambio ottenne il perdono. Altre illustri "vittime" della Congregazione per la Dottrina della Fede furono il teologo liturgista Reinhard Messner, per un libro su Martin Lutero; padre Josef Imbach, il quale definì "da servizi segreti" i metodi ratzingeriani; il teologo moralista Marciano Vidal, troppo aperto sui temi dell'omosessualità e della contraccezione; il teologo laico Juan José Tamayo, per un libro "non conforme" alla dottrina; don Franco Barbero, favorevole alle unioni gay, che rispose ironico: "Siamo tutti etero e omo in mille modi diversi, Dio non fa un pezzo sbagliato, Lui non è la Fiat". A fronte di tutte queste "condanne", una gravissima denuncia per abusi sessuali su minori contro il fondatore dei Legionari di Cristo, padre Marcial Maciel Degollado, era invece stata insabbiata dall'ex Sant'Uffizio: forse perché i Legionari erano una vera e propria potenza di denaro e vocazioni, avevano fatto molto per la Chiesa e padre Maciel era amico personale del papa e del segretario di Stato cardinale Angelo Sodano. Inoltre nel 2001 il prefetto Ratzinger mandò a tutti i vescovi e ai capi di congregazioni religiose una lettera con la disposizione che in caso di abusi sessuali di sacerdoti a danno di minori, si doveva inoltrare un rapporto alla Congregazione per la dottrina della Fede e lui stesso avrebbe stabilito se informarne il tribunale locale o lasciare il caso al Vaticano: un espediente per "filtrare" e "frenare" le denunce. Al pari di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger era una star dei media: apparizioni televisive, interviste, libri, convegni, articoli, conferenze stampa: ogni occasione era buona per ostentare il proprio potere, al punto da arrivare a polemizzare con Giovanni Paolo I, il quale aveva sostenuto che Dio fosse tanto Padre quanto Madre: "...Non siamo autorizzati a trasformare il Padre nostro in una Madre nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile, è fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che è venuto a rivelarci"; e con Paolo VI, sostenendo di essere rimasto "sbigottito" quando papa Montini aveva deciso di abolire l'uso del messale in latino di Pio V, decisione che "ha comportato una rottura nella storia della liturgia le cui conseguenze potevano essere solo tragiche"; o da insolentire la religione buddista definendola "un autoerotismo spirituale"; o ancora, da pubblicare un articolo in memoria del cardinale Alojzije Stepinac, santificando la torbida figura dell'ex arcivescovo di Zagabria e definendolo "un uomo con la coscienza illuminata dalla parola di Cristo". Ideologo dottrinario del pontificato wojtyliano, il cardinale Ratzinger deteneva un enorme potere, tanto che era considerato ormai da anni un pontefice ufficioso, in attesa di diventarlo ufficialmente il 19 aprile 2005, con il nome di Benedetto XVI.
25/07/2008 19:56


Renato Pierri "La sposa di Gesù crocifisso. Il calvario di Gemma Galgani, condannata alla santità in nome di un falso Dio" - Kaos Edizioni 2001



Gemma Galgani nacque il 12 marzo 1878 a Borgonuovo di Camigliano (Lucca) dalla religiosissima signora Aurelia a da Enrico Galgani, farmacista, il quale ben presto decise di trasferirsi con la numerosa famiglia (Gemma era la quinta di otto figli) a Lucca, città che gli avrebbe garantito guadagni maggiori e un migliore tenore di vita. Dai due ai sette anni Gemma frequentò il semiconvitto delle sorelle Vallini che inculcarono alla piccola una religiosità quasi parossistica: erano i peccati come i suoi a provocare le gocce di sangue sul volto di Gesù, erano le persone cattive come lei a lacerare a Cristo le mani, i piedi e il costato e, di conseguenza, ogni volta che Gemma toccava il proprio corpo Gesù soffriva di nuovo le atroci pene che aveva patito sulla croce. Questi "insegnamenti" portarono la piccola a rifiutare persino i baci del padre e qualsiasi manifestazione fisica di affetto. Dopo la morte della madre in seguito ad una lunga malattia, la bambina entrò nel convitto delle Oblate dello Spirito Santo, un ambiente opprimente e ossessionato dal peccato che aggravò la situazione psicologica già precaria di Gemma. Dopo la prima comunione all'età di nove anni, un evento importantissimo per lei in quanto rappresentava la liberazione da tutti i peccati con i quali fino ad allora aveva offeso Gesù, la garanzia di non cedere più alle "un po' sudice tentazioni" e la certezza di evitare l'inferno, Gemma, che considerava un dogma la peccaminosità del proprio corpo, maturò una isterica repulsione per le "tentazioni della carne" e una vera ossessione per il Cristo sanguinante e agonizzante sulla croce, fino a convincersi di essere la sua "sposa" e a decidere di rifiutare qualsiasi contatto con il genere maschile facendo voto di castità. Dopo qualche anno morì il fratello che lei amava più di tutti, Gino, e le condizioni psicologiche di Gemma peggiorarono: aveva delle visioni e supplicava il suo sposo Gesù di procurarle qualche malanno fisico. Quando un giorno le si rovesciò addosso una pesante panca colpendole un piede, Gemma si convinse che il Signore avesse esaudito le sue preghiere: l'arto colpito si infettò e fu necessario un dolorosissimo intervento chirurgico che la ragazza affrontò senza anestesia perché voleva soffrire il più possibile per soddisfare il suo bisogno di punirsi e perché non voleva che il suo corpo immacolato, che apparteneva solo a Gesù, venisse denudato e sottratto alla propria sorveglianza. In seguito alla morte del padre e alla chiusura della farmacia, Gemma si trasferì a Camaiore dagli zii, aiutandoli nel loro negozietto. Essendo una ragazza molto bella, ben presto arrivarono delle proposte di matrimonio che la gettarono nello sconforto più nero: non poteva accettare di avere accanto a sé un uomo, il suo corpo apparteneva solo a Gesù. I suoi tormenti la portarono ad ammalarsi e dovette tornare a Lucca. Soffriva di tremendi dolori ai reni e alla spina dorsale, di emicranie, di un'otite purulenta, di una copiosa caduta di capelli e di sintomi di paralisi, sintomi che lei cercava di tenere nascosti per non dover mostrare il proprio corpo al medico... lei stessa evitava di toccare o anche solo di guardare le parti che le dolevano perché era convinta della "impurità peccaminosa" del corpo in quanto tale e voleva che il suo corpo continuasse ad essere l'incontaminato "tempio dello Spirito Santo". I medici ad un certo punto decisero di intervenire chirurgicamente: "... l'operazione dell'ascesso ai reni, e l'applicazione di dodici bottoni di fuoco alla colonna spinale. Anche questa volta, però, Gemma non volle farsi addormentare, perché contenta di soffrire, e per poter vegliare da sé alla custodia del suo corpo". Gemma guarì e la notizia del "miracolo" si sparse per tutta la città. La ragazza continuava ad avere visioni, a fare continue penitenze fino al giorno della vigilia della festa del Sacro Cuore del 1899, quando ricevette dal Signore il marchio della santità: le stimmate, fenomeno che continuò a ripetersi ogni settimana fra giovedì e venerdì; due anni dopo provò anche il tormento della flagellazione e della corona di spine: "Sono momenti dolorosi ma momenti felici... Ieri Gesù mi fece soffrire tanto, sudai tutto il giorno sangue... Gesù mi raccomanda continuamente che non mi faccia accorgere di niente da quelli di casa mia, se no mi castiga". La voce che la giovane avesse le stimmate si sparse per la bigotta Lucca in breve tempo e le mani di Gemma divennero oggetto di morbose curiosità collettive. Ma sulla autenticità di questi fenomeni vi è più di qualche dubbio: è certo che Gemma torturava il proprio corpo con diversi strumenti... Padre Germano, il suo padre spirituale, riferì che la giovane "andava scalza, cioè senza calze, durante l'inverno. Portava il cilizio, finché non le fu proibito. Il padre Gaetano le tolse una corda tutta irta di bullette, che essa stessa si era composta. Io le tolsi un'altra corda con nodi e una disciplina di ferro"; la sua padrona di casa, signora Giannini, testimonierà: "Una volta l'ho trovata a terra svenuta con del sangue, ed accanto a lei vi era una disciplina di ferro... Due volte l'ho trovata cinta con una fune mentre ella era fuori dei sensi. Ho saputo da persone che l'hanno veduta, prima che stesse con me, legata con una fune con molti piccoli chiodi, che le erano entrati nella carne". Affetta da schizofrenìa, ossessionata dall'immagine di Cristo nudo e sanguinante, Gemma sublimava verso quell'immagine tutte le sue naturali pulsioni erotiche: "Mi posò le spine sul mio capo, cagione di tante pene al mio caro Gesù, e me la lasciò per più ore. Mi fece un po' soffrire, ma che dico soffrire, godere. E' un godere quel soffrire" e ancora: "Io brucio delle stesse fiamme, son legata dalle stesse catene. Stai pur lontano, Gesù: basta che non mi manchi mai il tuo amore... Il mondo sia pur fosco, non me ne importa nulla. Accendimi: il tuo amore mi basta. Vorrei che tutti mi dicessero che il tuo amore mi ha consumato. Amore, amore!"... Gemma era stata destinata fin dalla nascita a diventare santa e spese tutta la sua vita nel tentativo di veder riconosciuta la sua santità: se qualcuno metteva in dubbio l'autenticità delle sue visioni e delle sue esperienze mistiche, per lei era un dramma che la portava ad una sempre maggiore prostrazione fisica e psicologica e la spingeva sempre più a torturarsi nella convinzione che fosse necessario, appunto, per "diventare santa". Nel 1902 la ragazza si ammalò di tubercolosi, malattia che la portò alla morte, fra atroci sofferenze, l'11 aprile del 1903. Ma a coloro che volevano Gemma santa a tutti i costi non erano bastati i tormenti che la poveretta aveva subìto da viva: occorreva cercare qualche prova in più per dimostrare la santità della vergine lucchese: "Essa era già stata sepolta nella sua bara e calata nel sepolcro, quando un telegramma del padre Germano ricordò alla famiglia Giannini il disegno concepito di fare l'autopsia del cadavere per vedere se nel cuore di lei, come in quello di altre sante, si trovassero segni speciali e straordinari". Così si procedette alla riesumazione del cadavere di Gemma da cui venne estratto il cuore che fu tagliato in due parti, ma in esso non vi era niente di "speciale e straordinario". In seguito però alla pubblicazione dell'agiografia della santa ad opera di padre Germano intitolata Biografia della Serva di Dio Gemma Galgani, vergine lucchese e alla certificazione di alcuni miracoli operati post mortem, Gemma Galgani fu annoverata da Pio X, il 14 maggio del 1933, fra i beati della Chiesa e innalzata da Pio XII alla gloria degli altari il 2 maggio 1940.
25/07/2008 19:57


Marcel Simon, André Benoit "Giudaismo e cristianesimo. Una storia antica" - Economica Laterza 2005



ELEMENTI GIUDAICI ED ELEMENTI GRECI NEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO


1. Il problema

Nato dal giudaismo, il cristianesimo si è impiantato e sviluppato in ambiente greco-romano. Fenomeno originale, esso ha ugualmente sentito l'influenza dell'ambiente nel quale si è sviluppato. Uno dei problemi maggiori della storia delle origini cristiane è appunto quello di precisare il peso degli elementi giudaici e degli elementi ellenistici nella sua genesi ed evoluzione. La ricerca ha conosciuto e conosce ancora, in questo settore, esitazioni e incertezze. Gli studi sono stati a lungo dominati dagli a priori confessionali e da una certa concezione dell'ortodossia che faceva dell'originalità assoluta il criterio di verità. Non c'era posto, nella storia cristiana, per influenze e apporti esterni. Nella lotta tra verità ed errore il cristianesimo si presentava come completamente diverso da tutto ciò che lo circondava e non paragonabile nemmeno con ciò che poteva somigliargli. Stabilire un paragone che potesse chiarire certe affinità dovute all'influenza dell'ambiente, significava misconoscere l'essenza della rivelazione; lo storico cristiano si sentiva quindi spesso tenuto a "sottrarre il Vangelo ad accostamenti compromettenti" (M.J. Lagrange). Senza contestare l'esistenza e la legittimità dello sforzo di sintesi tentato da alcuni Padri della Chiesa, tra la rivelazione biblica e il pensiero greco, diversi studiosi cattolici hanno cercato almeno di negare qualsiasi influenza della religiosità pagana sugli scritti neo-testamentari. Alcuni protestanti liberali invece, credendo di trovare in un cristianesimo senza dogmi la purezza e la semplicità del messaggio evangelico primitivo, consideravano come una deviazione tutto il sistema dottrinale della Chiesa antica e tutto ciò che, anche nel Nuovo Testamento, sembrava portare il segno della speculazione filosofica greca. Si contrapponeva allora al "Discorso della montagna", con il suo contenuto etico, il credo di Nicea, così carico di metafisica: "Il primo appartiene al mondo dei contadini siriaci, il secondo al mondo dei filosofi greci". I primi tentativi di illuminare il cristianesimo nascente attraverso il suo contesto pagano sono nati sia da questa tendenza, sia dall'iniziativa di studiosi non confessionali, inclini talvolta a vedere nel cristianesimo un semplice sottoprodotto della religiosità ellenistica. Essi, a torto o a ragione, sono sembrati nel primo caso dei nemici del cattolicesimo, nel secondo, dei nemici del cristianesimo in generale. Per arrivare a una visione più serena e nello stesso tempo più realistica, è necessario che la storia si liberi sia dalla tutela della teologia e dell'apologetica sia da quella delle diverse ideologie antireligiose. Si pensi, a questo proposito, al tentativo degli storici marxisti per spiegare il cristianesimo. Per questi studiosi ogni religione è rigorosamente determinata dalle condizioni sociali ed economiche del gruppo nel quale essa si sviluppa. In particolare il cristianesimo sarebbe, all'inizio, l'espressione del proletariato. Il fermento rivoluzionario implicito nel cristianesimo sarebbe stato soffocato dal fatto che esso predicava la rassegnazione e non la lotta violenta, e prometteva ai diseredati la ricompensa della loro miseria presente in un Regno futuro. Il cristianesimo avrebbe dunque avuto anche un aspetto reazionario. Quest'ultima caratteristica si sarebbe andata sempre più accentuando con l'assimilazione di elementi intellettuali modellati sulla cultura delle classi dirigenti e soprattutto con l'alleanza con l'autorità imperiale al tempo di Costantino.


2. Cristianesimo ed ellenismo

Gli storici del cristianesimo sono oggi generalmente d'accordo, siano essi credenti o no, nell'affermare da una parte la specificità del fatto religioso che, malgrado interferenze spesso importanti, non si lascia ridurre all'infrastruttura economica, sociale o politica di un ambiente determinato, dall'altra la necessaria autonomia della loro disciplina da ogni costruzione teologica o filosofica. Anche quegli studiosi che sono più legati a posizioni confessionali riconoscono che il cristianesimo, in quanto fenomeno storico, non si è sviluppato in una campana di vetro. La possibilità di influenze provenienti dall'ambiente non possono essere dunque scartate a priori. È necessario anzi cercare di valutarle nella loro giusta misura e di precisare i punti di contatto. Posto di fronte alla cultura greco-romana, il cristianesimo si è sforzato di assimilarne certi valori, adattandoli e ripensandoli. Già gli Apologisti del II secolo e, con maggiore ampiezza e in modo più sistematico, i grandi alessandrini, Clemente e Origene, e poi i Padri della fine del IV secolo, Agostino in Occidente e i Cappadoci in Oriente, Basilio, Gregorio di Nissa, Gregorio il Nazianzo, hanno tentato di realizzare una sintesi tra il cristianesimo e la cultura classica. Le controversie dottrinali del III e del IV secolo e le conseguenti formulazioni dell'ortodossia ecclesiastica fanno largo uso del vocabolario e dei concetti della filosofia greca. È questo un fatto universalmente riconosciuto. Il problema è quello di determinare quando ebbe inizio questo processo.


3. Il paolinismo

Le ricerche al riguardo sono concentrate soprattutto sul pensiero di san Paolo. La scuola comparatista, detta religionsgeschichtliche Schule, che si è sviluppata in Germania all'inizio del secolo (Reitzenstein, Bousset, ecc.), le cui posizioni erano rappresentate in Francia da Loisy e Guignebert, si è applicata a mettere in luce le analogie esistenti tra il paolinismo e alcuni aspetti della religiosità pagana dell'epoca. Secondo questi studiosi tali analogie erano troppo precise per essere fortuite: dovevano quindi essere spiegate con l'influenza dell'ambiente ellenistico sul cristianesimo nascente. I punti di paragone e le possibili fonti di influenza non dovevano essere ricercate nella filosofia greca classica, in quell'epoca ormai in declino, e con la quale i cristiani della prima generazione non avevano avuto, a quanto pare, alcun contatto, se non sotto una forma volgarizzata in cui la morale occupava un posto maggiore della metafisica (diatriba cinico-stoica), quanto nel pensiero specificamente religioso: culti misterici, ermetismo, gnosi pagane.


a) La cronologia

Alla scuola comparatista si rivolge innanzi tutto una obiezione preliminare. La grande diffusione dei culti misterici nell'Impero (II-III secolo) e la redazione degli scritti ermetici così come ci sono giunti, sono posteriori all'entrata in scena del cristianesimo, e la stessa esistenza di sistemi gnostici anteriori alla gnosi cristiana o cristianizzante del II secolo, resta ipotetica. Influenze sul cristianesimo nascente sarebbero dunque così escluse dalla cronologia. Alcuni hanno quindi pensato di individuarle in senso inverso. In realtà l'impronta del cristianesimo sugli scritti ermetici appare certa, ma ciò non esclude che le dottrine ermetiche abbiano delle radici precristiane. I culti misterici inoltre hanno origini ben più antiche del cristianesimo. Essi avevano già cominciato a diffondersi nel bacino del Mediterraneo, in particolare nella parte orientale, quando la missione cristiana era ancora agli inizi. Anche per ciò che riguarda l'Occidente, la prima diffusione del culto di Mitra, per esempio, è immediatamente successiva alle campagne romane contro Mitridate e contro i pirati di Cilicia (verso il 67 a.C.). Si discute ancora se la setta dei Mandei, ancor oggi rappresentata in Mesopotamia, della quale possediamo gli scritti, e alla quale alcuni studiosi hanno attribuito un ruolo importante nelle origini cristiane, sia anteriore al cristianesimo o no. Ma l'esistenza di varie forme di pre- o proto-gnosticismo, contemporanee almeno agli inizi del cristianesimo, è sempre più generalmente ammessa. Quando inoltre si ritrova in san Paolo una concezione di cui né la predicazione di Gesù né gli insegnamenti della Sinagoga presentano l'equivalente o forniscono la possibile fonte, è metodologicamente legittimo cercarne le radici nell'ambiente ellenistico pagano.


b) L'ambiente di Tarso

La città natale dell'Apostolo, Tarso in Cilicia, in cui egli trascorse almeno una parte della sua giovinezza, era un importante centro religioso e intellettuale. Vi si celebrava in particolare il culto dell'imperatore, venerato come Signore (Kyrios) e Salvatore (Soter), e quello di una divinità agreste, Sandan, assimilata dai greci a Eracle, che aveva alcune caratteristiche tipiche delle divinità misteriche. Certamente Paolo non praticò né l'uno né l'altro di questi culti. Non è però assurdo supporre che egli assistette alle cerimonie pubbliche di questi culti apprendendone la terminologia e i concetti fondamentali. Si deve anche immaginare che per attrarre i pagani al Vangelo - e ciò vale anche per gli altri missionari - egli utilizzasse termini che fossero loro familiari. Si spiegano così certe analogie precise di vocabolario tra il paganesimo dell'epoca e le epistole di Paolo, in cui termini come gnosis, mysterion, sophia, Kyrios, Soter, svolgono un ruolo importante. Ma questa comunanza terminologica tradisce dei punti di contatto più profondi.


c) Paolo e la gnosi

Paolo polemizza talvolta con le eresie di tipo gnostico che hanno contaminato alcuni membri delle sue comunità (I Corinzi 15, sulla negazione della resurrezione e l'affermazione di una sopravvivenza puramente spirituale; Colossesi 2, sul culto giudaizzante degli angeli e degli "elementi" del Cosmo, cioè degli astri). Ma il suo stesso pensiero presenta tratti chiaramente derivati dallo gnosticismo. L'universo, asservito alle potenze demoniache (I Corinzi 2,8), che sono precisamente gli "elementi" (Galati 4,3 e 9), appare come un recinto in cui si affrontano i padroni del momento e Dio, che deve ricondurlo all'ordine iniziale, interrotto da una caduta che coinvolge l'intero creato. Questa prospettiva è dualistica, e si esprime nell'opposizione, estranea al giudaismo tradizionale, di spirito e carne (I Corinzi 2,14 sgg.; 15,44). Il fine del cristiano è quello di sottrarsi al dominio del male, di spogliarsi dell'uomo carnale per essere puramente spirituale (pneumatikos). È necessario a questo scopo che egli acquisisca la conoscenza o gnosi di salvezza, rivelata dal Cristo (II Corinzi 4,6). Ma mentre gli gnostici distinguono in generale il Dio supremo e redentore dal Creatore o Demiurgo, ridotto al rango di Dio subalterno, di potenza malefica, Paolo non pensa nemmeno lontanamente a mettere in dubbio l'identità del Dio supremo, unico, e del Creatore. Il suo Dio è quello della Bibbia. L'influenza del male sul mondo è la conseguenza della caduta dell'uomo, non è implicita nell'atto della creazione né è nata dalla caduta nella materia dell'elemento divino. Il dualismo di Paolo è così soltanto contingente: le sue conseguenze, già virtualmente cancellate dalla morte e resurrezione del Cristo, saranno totalmente eliminate alla fine dei tempi. Non si tratta dunque, in questa prospettiva, di strappare l'uomo a un mondo che per sua stessa natura è cattivo, ma di condurre il mondo stesso, opera di un Creatore buono, alla totale sottomissione a Dio e contemporaneamente alla sua originaria perfezione, per mezzo di una sorta di seconda creazione, che è anche redenzione (I Corinzi 5,17). Il rigore del monoteismo giudaico e l'ottimismo fondamentale della Bibbia assegnano limiti precisi al dualismo di Paolo.


d) La gnosi e il quarto Vangelo

Ciò che abbiamo detto di Paolo è valido anche per il quarto Vangelo, in cui il Cristo è presentato con dei tratti che per molti aspetti richiamano lo gnosticismo: basti pensare a quella così caratteristica opposizione tra vita e morte, tra luce e tenebre. Sebbene "il mondo" non abbia riconosciuto "la luce", che è il Cristo Logos, è dalla luce che il mondo è stato creato (Giovanni 1,10). Non si tratta dunque di eliminare un mondo che è per il momento avvolto nelle tenebre e assoggettato alla morte, ma di ricuperarlo totalmente: è per questo che "il Verbo si è fatto carne" (Giovanni 1,14). Mentre nei sistemi gnostici l'incarnazione di un essere celeste e spirituale, attratto dal mondo materiale, segna in generale l'origine della degradazione universale e costituisce propriamente la caduta, nel quarto Vangelo essa è l'origine del riscatto. Così l'opposizione gnostica tra spirito e carne viene superata, perché la carne stessa, ricettacolo e simbolo del male, è come spiritualizzata dall'incarnazione del Verbo.


e) Misteri pagani e mistero cristiano

Strumento della liberazione sarà per i cristiani, secondo Paolo, l'unione mistica con il Cristo più che una conoscenza salvifica. Per questo aspetto il pensiero di Paolo è più vicino alle religioni misteriche che a una qualsiasi forma di gnosi. Il fedele, morto e risuscitato con il Cristo nel battesimo, partecipa per mezzo di questa unione sacramentale al destino del Salvatore. Gli effetti del battesimo sono rafforzati dalla partecipazione all'eucaristia. Il fedele, integrato al corpo del Cristo, che è la Chiesa, è virtualmente sottratto alle potenze del male e conquista, se saprà evitare una ricaduta, la certezza della resurrezione e di un'immortalità felice. Così pure divenendo misticamente partecipe, per mezzo di alcuni riti di cui purtroppo ignoriamo i particolari, del destino del suo dio, il fedele di Osiris o di Attis si assicura la salvezza per l'eternità. È difficile, nel trattare la concezione paolina della salvezza mediante l'assimilazione del fedele al Cristo, non tener conto delle influenze dei culti misterici, più o meno consapevolmente subite da Paolo. Ma anche in questo caso le differenze sono molto chiare. I misteri pagani, con la sola eccezione del mithraismo - che non possiede l'idea di un dio che muore e risuscita, come Attis o Osiris, anche se possiede quella di un dio salvatore - non attribuiscono all'opera di salvezza del loro dio una dimensione cosmica, né un valore propriamente di redenzione: non è per riscattare l'umanità e il mondo che le divinità di queste religioni subiscono la morte. Esse muoiono vittime della fatalità o delle potenze malefiche, e non nel quadro di un piano divino che fa della loro morte la condizione e lo strumento del riscatto universale. La loro morte e la loro resurrezione non fanno altro che ripetere il ciclo immutabile della vegetazione, che muore in autunno per rinascere in primavera. È a titolo individuale che il fedele è associato al loro destino: l'idea paolina della Chiesa corpo del Cristo non sembra avere equivalenti nel mondo pagano. Infine la figura centrale del mistero cristiano non è, come nei misteri pagani, una figura mitica, la cui esistenza terrena, come l'immaginano i fedeli, si collochi alle lontane origini dell'umanità. È un personaggio storico, di una storia recentissima, che "ha sofferto sotto Ponzio Pilato".


f) Importanza e limiti delle influenze ellenistiche in Paolo

Se l'originalità del cristianesimo di Paolo in rapporto a quello di Gerusalemme e allo stesso messaggio di Gesù, si spiega in larga misura con l'influenza dell'ambiente ellenistico, questa influenza è tuttavia limitata dall'esistenza storica di Gesù, dalla tradizione biblica a cui Paolo è strettamente legato, e anche dal fatto che l'Apostolo, sia prima che dopo la conversione, vedeva nel paganesimo un'opera del demonio e rifiutava ogni compromesso con esso. Si ha talvolta la sensazione che Paolo, segnato dal suo atavismo giudaico, si sforzi più o meno consapevolmente di conciliare ciò che è difficilmente conciliabile. Le esitazioni del suo pensiero riguardo, per esempio, alla vita futura potrebbero spiegarsi bene così. Come ex-fariseo egli professava la resurrezione dei corpi, che un greco difficilmente avrebbe ammesso, alla fine dei tempi. La resurrezione del Cristo, elemento essenziale della sua predicazione, rinforzò in lui questa concezione tradizionale: la resurrezione di Cristo garantisce quella dei fedeli (I Corinzi 15,12 sgg.). Ma egli tende anche talvolta verso l'idea di una immortalità, immediatamente successiva alla morte del corpo, come la concepiva la filosofia spiritualistica greca (II Corinzi 5,8; Filippesi 1,23). È tuttavia difficile per lui immaginare una sopravvivenza del tutto spirituale: da ciò deriva la sua concezione del "corpo spirituale" (I Corinzi 15,44 sgg.) e la sua tacita assimilazione di resurrezione corporea e immortalità, perché negare l'una avrebbe significato per lui negare anche l'altra.


4. Cristianesimo e giudaismo

Nel campo delle origini cristiane non bisogna mai porre in maniera troppo netta il dilemma: giudaico o greco? Non è infatti possibile contrapporre i due termini. Lo stesso giudaismo, malgrado il suo rifiuto di ogni sincretismo, non poté restare completamente chiuso alle influenze esterne. È proprio in gran parte attraverso il giudaismo ellenizzato della Diaspora che queste influenze raggiunsero san Paolo e, più in generale, il cristianesimo nascente.


a) Il giudaismo ellenistico

Paolo conosceva probabilmente l'ebraico e l'aramaico. Ma fu il greco, anche se ci appare così pieno di semitismi, la sua lingua materna; ed è nella traduzione dei Settanta che egli legge e cita - talvolta a memoria - la Bibbia. Certamente egli non conobbe Filone. Esistono tuttavia tra i due affinità di pensiero dovute al fatto che essi vivevano in ambienti intellettuali simili e attingevano alle stesse fonti. È difficile credere che Filone presentasse sistematicamente il giudaismo in termini di mistero ellenistico. Si trovano per altro nelle sue opere elementi attinti, secondo ogni apparenza, alle religioni misteriche. Per Paolo come per Filone, la letteratura giudaica sapienziale, canonica o non (Sapienza di Salomone, Proverbi, Ecclesiaste, Siracide), rappresenta uno dei più importanti anelli di congiunzione con il pensiero greco. Il cristianesimo per altro, nel momento in cui cominciò a rivolgersi ai Gentili, si collocò in qualche modo nel solco del giudaismo alessandrino. Attinse a questo il metodo dell'esegesi allegorica, anch'esso di origine pagana, che viene applicato all'Antico Testamento, e che la Lettera di Aristea e, con maggiore ampiezza, Filone avevano già praticato.


b) L'esegesi allegorica

L'allegoria serviva ai giudei alessandrini per rinforzare l'autorità della Legge. Al contrario, per i cristiani essa serviva a dimostrare che la Legge, dopo la venuta del Cristo, non poteva avere altro che un valore simbolico. Se essi, come l'Epistola di Barnaba e i giudei ellenizzati, vedono volentieri nei riti o negli episodi biblici l'espressione di verità metafisiche o morali, vi cercano anche e soprattutto l'annuncio delle realtà cristiane: il sacrificio di Isacco, per esempio, prefigura quello di Cristo. Alla dimensione verticale dell'allegoria giudaica si aggiunge e spesso si sostituisce una dimensione orizzontale e storica; all'allegoria si unisce una tipologia: la Legge rituale è sia "l'immagine e l'ombra delle cose celesti" sia "l'ombra dei beni futuri" (Ebrei 8,5 e 10,1).


c) Filone e il Nuovo Testamento

Il pensiero di Filone presenta affinità troppo precise, con certi scritti del Nuovo Testamento, per essere fortuite: basti pensare al prologo del quarto Vangelo e alla sua dottrina del Logos, o in maniera ancora più evidente, all'Epistola agli Ebrei, che potrebbe essere certo opera di un "filoniano convertito al cristianesimo". Anche il Logos di Giovanni presenta tratti e caratteristiche simili a quello di Filone, con la differenza fondamentale che per Giovanni il Logos si è fatto carne; l'incarnazione del Verbo è infatti impensabile nella teologia di Filone. L'originalità essenziale del cristianesimo di fronte a tutte le sfumature del giudaismo consiste proprio nell'identificazione, nella persona di Gesù, del Logos e del Messia. Resta sempre comunque il fatto che il cristianesimo non avrebbe mai potuto spiegare Gesù come Logos se questa parola e questo concetto non fossero stati divulgati da Filone nel giudaismo alessandrino. Il pensiero di Filone poté influenzare però soltanto un cristianesimo che stava già ellenizzandosi. Le influenze giudeo-alessandrine rappresentano quindi un fenomeno non immediato. Pur avendo contribuito in modo notevole a modellare la teologia della Chiesa nascente, esse non si ritrovano nella genesi del cristianesimo né nelle forme più arcaiche della cristologia. Prima di riconoscere in lui il Logos fatto uomo, i primi cristiani hanno interpretato la figura di Gesù in termini prettamente biblici: Profeta, Messia, Servo Sofferente, Figlio dell'Uomo. È dalla Palestina che sono venuti i primi apporti e le prime influenze.


d) Il giudaismo palestinese

L'opposizione tra il giudaismo della Diaspora e quello palestinese è stata spesso esagerata. Non esiste un solco profondo tra queste due metà del mondo giudaico. Il problema deve essere molto più sfumato di quanto talvolta si è creduto. La tradizione di pensiero alessandrina non è rappresentativa della Diaspora nel suo complesso, nella quale la Terra Santa mantiene un grande prestigio ed esercita una notevole influenza. Studi recenti hanno messo in luce precise affinità tra san Paolo e il giudaismo rabbinico, quello delle scuole palestinesi. Così pure, se quest'ultimo è certamente molto meno ellenizzato di quello d'Alessandria, non è tuttavia completamente chiuso alle suggestioni della cultura greco-romana. Il greco era utilizzato in Palestina anche dai rabbini: l'uso di questa lingua portava spesso, come conseguenza, influenze più profonde. Esse non furono però così importanti come ad Alessandria: è il giudaismo palestinese in definitiva, considerato nei suoi tratti specifici, che ci fornisce il maggior numero di elementi utili a illuminare le origini del cristianesimo. È necessario dunque inquadrarlo in tutta la sua complessità.


e) Sadducei e Farisei

Sebbene gli Atti (6,7) ricordino la conversione di numerosi sacerdoti, non sembra che la Chiesa nascente debba molto ai Sadducei, avversari principali di Gesù, e il cui spirito e le cui tendenze appaiono diametralmente opposte a quelle dei primi discepoli. Il problema dei Farisei è più delicato. Sempre secondo gli Atti (15,5), la Chiesa primitiva trovò tra i Farisei dei seguaci intransigenti, che pretendevano dai pagani convertiti un'osservanza integrale della Legge, al contrario di quanto predicava san Paolo. Il loro ruolo fu forse considerevole nello sviluppo del giudeo-cristianesimo classico, rappresentato alla prima generazione da Giacomo, fratello del Signore. Fu tuttavia con un giudaismo identificato, dopo il 70, con il fariseismo, che la Chiesa nascente ruppe i ponti, e fu intorno al fariseismo che si organizzò la resistenza giudaica al cristianesimo. L'intervento di san Paolo e l'interpretazione particolare che egli propose del messaggio cristiano, ebbero un'importanza decisiva nell'irrigidimento giudaico. Ma il conflitto era già in germe all'inizio stesso dello sviluppo della Chiesa, e nella predicazione di Gesù. Se tra quest'ultima e l'insegnamento rabbinico si possono notare affinità precise su diversi punti, è anche vero che i Vangeli rivelano dei contrasti di fondo: troviamo in essi molto più che una semplice trasposizione, anticipata nella vita del Maestro, delle polemiche della seconda generazione cristiana con la Sinagoga. Gesù rivendicava un'autorità eccezionale che lo portò a negare l'insegnamento tradizionale degli "antichi" e addirittura a correggere la stessa Legge di Mosè. In effetti, se si considerano le credenze fondamentali e le aspirazioni della Chiesa nascente, è dalla parte degli ambienti apocalittici, che ispirano tra l'altro alcuni Apocrifi e Pseudoepigrafi dell'Antico Testamento, che notiamo le affinità più nette.


f) Gesù e gli Zeloti

Alcuni studiosi hanno creduto di poter individuare un legame tra il cristianesimo nascente e il nazionalismo zelota. Gesù e i suoi discepoli avrebbero predicato un messianismo politico ostile a Roma e tendente a instaurare, in una Palestina liberata dagli idolatri, la regalità del Cristo. Proprio per aver partecipato attivamente alla rivolta giudaica la Chiesa di Gerusalemme avrebbe perduto, dopo il 70, ogni influenza sulla giovane cristianità. Questi studiosi sono costretti a respingere la testimonianza di Egesippo, secondo il quale i primi discepoli avrebbero lasciato Gerusalemme per trasferirsi nella città transgiordana di Pella, già all'inizio delle ostilità, separando così la propria responsabilità da quella degli insorti. Essi danno invece stranamente credito ad alcuni passi, estremamente sospetti, di una versione slava di Flavio Giuseppe, che fanno di Gesù un agitatore politico. L'eclissi della Chiesa madre dopo il 70 trova una spiegazione sufficiente nel suo isolamento geografico e nel fatto che essa restò legata al ritualismo giudaico, ripudiato in seguito da Paolo a causa dei fedeli di origine pagana. Se Gesù fu effettivamente giustiziato, come uno zelota, per messianismo politico, ciò avvenne a causa di un'interpretazione errata, voluta o non, del significato del suo messaggio, le cui implicazioni rivoluzionarie nei confronti dell'ordine romano erano di tutt'altra natura dell'appello degli Zeloti alla violenza. Gesù visse per altro in un ambiente profondamente permeato dalle idee degli Zeloti e dovette prendere posizione di fronte a esse, sconfessandole.


5. Qumran e il cristianesimo

In definitiva è soprattutto in rapporto a tendenze e raggruppamenti marginali che si pone il problema delle influenze subite dal cristianesimo nascente. Questo problema è stato completamente rinnovato dalla scoperta dei manoscritti del Mar Morto. Le appassionate polemiche suscitate da questi testi si sono gradualmente placate e, in un'atmosfera divenuta sempre più serena, le iniziali divergenze si sono progressivamente ridotte. Un accordo quasi unanime esiste oggi sui punti essenziali.


a) Stato della questione

I documenti del Mar Morto - sia che si tratti della redazione stessa degli scritti o dei manoscritti che ce li hanno tramandati - non possono essere posteriori alla guerra giudaica, nel corso della quale il monastero di Qumran fu distrutto e definitivamente abbandonato: è questo un tipico esempio di quanto l'archeologia possa aiutare lo storico. La comunità da cui essi provengono è quella degli Esseni. Nessuna delle altre identificazioni proposte è pienamente soddisfacente. Tutte sollevano infatti obiezioni non facilmente eliminabili. In particolare non resiste all'esame la tesi zelota che ha conosciuto una certa eco grazie a studiosi di notevole valore. Essa però, insistendo sul bellicoso spirito di rivincita antiromana che anima alcuni scritti, ha contribuito a sottolineare le contraddizioni esistenti con quel quadro idillico di un essenismo pacifista disegnato da Filone e Giuseppe. Si possono prospettare varie ipotesi: che questi autori abbiano sbagliato oppure che ci abbiano ingannato, o che l'essenismo fosse diviso su questo punto fondamentale, o ancora - il che è certamente più probabile - che esso si sia evoluto, allineandosi, nella sua totalità o in parte, all'inizio della insurrezione del 66, a quel messianismo aggressivo di cui gli Zeloti, animatori della rivolta, erano i rappresentanti tipici. La difficoltà non è dunque irriducibile. Su tutti gli altri punti infatti le convergenze tra i manoscritti del Mar Morto e le altre notizie di autori antichi sugli Esseni, sono talmente precise che non lasciano adito a dubbi. Tutt'al più si potrà vedere nella comunità di Qumran, come fanno alcuni studiosi, una delle varie ramificazioni dell'essenismo o - cosa di gran lunga meno probabile - un ambiente molto vicino all'essenismo. Essendo la cronologia dei documenti e della storia della setta fissata con sufficiente precisione, almeno per quanto riguarda il terminus ante quem (66-70), si pone necessariamente il problema dei rapporti con la Chiesa primitiva. Qumran esiste ancora al momento in cui il cristianesimo entra in scena. L'essenismo è forse in questo momento al suo apogeo. È dunque legittimo porsi il problema di possibili interferenze. Già Renan, sospettando alcune precise affinità sulla base dei documenti di cui allora si disponeva, poteva affermare: "Il cristianesimo è un essenismo che ha avuto grande successo". Dopo la scoperta dei manoscritti c'è stato almeno uno studioso che nella comunità di Qumran ha visto una comunità cristiana. Una tesi del genere non è sostenibile. Ma essa rappresenta l'interpretazione errata di somiglianze notevoli, su diversi punti, tra quel tipo di giudaismo che ci hanno rivelato i manoscritti del Mar Morto e il cristianesimo primitivo.


b) Il Maestro di Giustizia e il Cristo

Somiglianze esistono, prima di tutto, tra il misterioso Maestro di Giustizia e il Cristo, tanto che i sostenitori della tesi cristiana pensano che si trattasse di un'unica persona. Esse sono evidenti nella coscienza che i due personaggi hanno della loro vocazione, fondata sugli stessi testi della Scrittura, e in particolare sui passi di Isaia relativi al Servo Sofferente; nel parallelismo dei loro drammatici destini, segnati dall'ostilità del sacerdozio ufficiale e suggellati dal martirio (come sembra probabile anche per il Maestro di Giustizia); nella venerazione da cui sono circondati, anche dopo la morte, da parte dei rispettivi discepoli. In alcuni inni (hodayoth) che furono probabilmente scritti da lui stesso, il Maestro ci appare come un capo di Chiesa, esattamente come Gesù. Ma a queste somiglianze si accompagnano differenze altrettanto nette, più volte sottolineate: il Maestro di Qumran proviene dal sacerdozio di Gerusalemme, è un asceta esigente, che impartisce al piccolo gruppo dei suoi eletti, gelosamente ripiegato su se stesso, un insegnamento esoterico; Gesù è il profeta popolare di Galilea, che predica alle folle, ricerca la compagnia dei peccatori e dei reietti per poterli attrarre a sé, interpreta e ammorbidisce i precetti mosaici. Non è possibile identificare le due figure, né presentare Gesù come un semplice calco, senza realtà storica, del Maestro di Giustizia. Su vari punti inoltre la predicazione di Gesù si distacca volutamente e con chiarezza dalla dottrina essenica. Si deve tuttavia notare che molte delle critiche rivolte da Gesù alla setta di Qumran colpiscono nello stesso tempo il giudaismo ufficiale. In senso inverso alcuni dei tratti comuni all'essenismo e alla Chiesa primitiva si ritrovano in altri settori del giudaismo dell'epoca: basti pensare alle credenze escatologiche e all'attesa della fine dei tempi. È necessario a questo proposito formulare un principio metodologico: non si potrà individuare una diretta influenza dell'essenismo sul cristianesimo nascente se essa non riguarderà elementi originali e specifici, caratteristici unicamente dei due gruppi. Elementi di questo tipo sono per altro così numerosi e precisi da non lasciare adito a dubbi. Sembra che la Chiesa abbia attinto all'essenismo un certo numero di termini e di concetti, di strutture comunitarie e di schemi teologici. Le affinità sono più o meno nette in rapporto ai vari ambienti che compongono la Chiesa e ai vari scritti del cristianesimo primitivo.


c) La setta di Qumran e il cristianesimo nascente

Ci si deve domandare in quali condizioni, per quali canali queste influenze hanno potuto esercitarsi. Nulla autorizza a pensare che tutte le personalità di rilievo del cristianesimo primitivo abbiano soggiornato a Qumran o siano state in contatto diretto con il monastero degli Esseni. Ciò è possibile soltanto per alcuni dei protagonisti della più antica storia cristiana. Ma questa stessa ipotesi non spiega nulla perché proprio tutti i settori della Chiesa nascente presentano, in grado diverso, affinità con l'essenismo. Si può pensare al ruolo decisivo di Giovanni Battista, la cui importanza alla base della predicazione di Gesù è così solidamente attestata. Il messaggio di Giovanni, predicato sul Giordano a pochi chilometri a nord di Qumran, non è privo di analogie con quello degli Esseni: la vicinanza geografica potrebbe in questo caso aver favorito precisi contatti. Non è nemmeno escluso che Giovanni Battista, proveniente da ambienti sacerdotali, proprio come la dissidenza essenica, abbia frequentato la comunità di Qumran prima di fondare una setta autonoma. Egli sarebbe in questo modo uno degli anelli che legano essenismo e cristianesimo. Se ammettiamo che durante la vita di Gesù e nell'epoca apostolica si verificarono contatti individuali tra i rappresentanti dei due gruppi, si può ugualmente pensare che transfughi dall'essenismo, soprattutto dopo il 70, siano venuti a rafforzare i ranghi della Chiesa nascente portandovi l'apporto ideologico e spirituale del loro ambiente d'origine. Ma si deve anche tenere largamente conto di quella letteratura paracanonica, intertestamentaria che, accanto a scritti specificamente qumraniti come il Manuale di Disciplina o le hodayoth, era in onore nella setta essenica, e la cui influenza è altrettanto profonda nel cristianesimo primitivo. Le somiglianze tra i due movimenti deriverebbero allora da una fonte comune. Ma dal momento che è estremamente probabile che una parte almeno di questa letteratura degli apocrifi e pseudoepigrafi sia stata elaborata nell'essenismo stesso, è senz'altro giusto vedere in essa un altro dei canali, e uno dei più importanti, attraverso i quali la setta influenzò il cristianesimo nascente. Né va dimenticato, infine, che l'essenismo non si riduce alla sola comunità di Qumran. C'erano filiali in Palestina, e forse anche nelle regioni della periferia; anche queste hanno potuto giocare un ruolo nello stabilire contatti col cristianesimo nascente.


d) Le affinità: riti e istituzioni

Nei testi di Qumran si parla spesso di una particolare Alleanza tra Dio e il gruppo; questa Alleanza, anche se non sostituisce quella del Sinai, è pur sempre una novità, legata alla persona e all'opera del Maestro di Giustizia. A buon diritto quest'ultimo può parlare di "mia alleanza" (Inni 5,23); e nel Documento di Damasco la setta viene definita "Nuova Alleanza al paese di Damasco". Nello stesso modo Paolo proclama l'avvento di una nuova alleanza, suggellata dal sangue di Cristo (I Corinzi 11, 25); il termine Nuova Alleanza rende più fedelmente il greco kainè diathéke che il nostro "Nuovo Testamento". Il regime di comunità dei beni in vigore nella più antica cristianità di Gerusalemme (Atti 4,32-37) assomiglia molto a quello di Qumran. E forse non è nemmeno una coincidenza il fatto che gli Esseni e, sulla scorta di Gesù stesso, i primi cristiani, praticassero la guarigione dei malati e l'esorcismo per mezzo dell'imposizione delle mani: un'usanza per la quale non abbiamo paralleli in altri ambienti giudaici dell'epoca. Alcuni studiosi pensano che Gesù abbia celebrato l'ultima Cena in conformità col calendario essenico, differente dal calendario ufficiale di Gerusalemme. Questa ipotesi affascinante - che non è riuscita a imporsi - spiegherebbe la contraddizione tra i sinottici, che vedono in essa un pasto pasquale, e il quarto Vangelo che nega ad essa questo carattere. Così pure è difficile trovare nell'ambito dell'essenismo un antecedente del battesimo cristiano. Quest'ultimo è conferito una sola volta. Le abluzioni rituali degli Esseni si ripetono invece quotidianamente. Esse facevano senza dubbio parte di un rituale di ammissione alla setta, ma non avevano necessariamente per questo un carattere specifico: la prima abluzione si inserirebbe nel rituale essenico come la prima comunione in quello cristiano. Tuttavia, unico da una parte, reiterato dall'altra, il rito battesimale è in tutti e due i casi un rito di pentimento, legato a una "conversione". Tra la Cena cristiana e i pasti sacri degli Esseni le affinità sono a prima vista più nette. Gli elementi, pane e vino, sono identici. Essi sono per altro gli stessi sui quali è pronunciata la benedizione nel culto domestico giudaico. Non è dunque il rito stesso che sottolinea la parentela tra essenismo e cristianesimo, quanto piuttosto il significato particolare che esso assume nell'una e nell'altra parte. A Qumran non si tratta di un semplice pasto comunitario, di una trasposizione del pasto familiare giudaico. Il carattere strettamente cultuale, sacramentale, del rito, è sottolineato dal fatto che il refettorio appare come un recinto sacro, dalla presenza indispensabile di un sacerdote, il celebrante, e dal fatto che vi sono ammessi soltanto gli iniziati, membri della setta. Se si paragona il Manuale di Disciplina (6, 3-5) che codifica il pasto essenico, con un passo della Regola annessa (2,11-22), che descrive il banchetto messianico, che unisce gli eletti intorno al grande sacerdote escatologico - designato in alcuni testi come il Messia di Aaron - e al Messia d'Israele, capo politico, risulta evidente che il primo dei due riti è quasi un'anticipazione del secondo, così come l'organizzazione essenica prefigura quella del Regno avvenire. Si pensa allora al significato che, già nei testi del Nuovo Testamento, riveste l'eucaristia: i Vangeli mettono in rapporto l'ultima Cena con quella che Gesù celebrerà con i suoi discepoli dopo l'instaurazione del Regno (Matteo 26,29; Marco 14,25; Luca 22,16-18); Paolo inoltre vede nell'eucaristia sia il ricordo della morte di Gesù che l'annuncio del suo ritorno (I Corinzi 11,26).


e) Le affinità: credenze

E' ora il momento di parlare delle credenze dell'essenismo e della Chiesa nascente. I due gruppi vivono nell'attesa dei tempi ultimi. È possibile che gli Esseni abbiano atteso, come i cristiani, il ritorno glorioso del loro Maestro, identificato con il grande sacerdote messianico; è possibile ugualmente che il Maestro di Giustizia sia morto di morte violenta, ma le condizioni dei manoscritti e il loro modo di esprimersi, spesso velato, non permettono di raggiungere, su questi punti, una certezza assoluta. Per altro, se non è escluso che gli Esseni abbiano in qualche modo conferito valore sacrificale alla loro cena, nulla però autorizza a credere che essi mettessero il pane e il vino in rapporto con la carne e il sangue del loro maestro. Accanto a somiglianze notevoli, vediamo così l'elemento specifico introdotto dal cristianesimo. Su molti punti l'insegnamento della Chiesa nascente si incontra con quello degli Esseni. Queste convergenze sono più o meno evidenti in rapporto ai testi che si prendono in esame o ai settori cui si guarda. Le epistole di Paolo presentano diversi paralleli, verbali o di pensiero, con i documenti di Qumran. I "vasi di argilla" della II Corinzi 4,7 corrispondono esattamente alle "creature d'argilla" spesso menzionate nelle hodayoth (1,21; 3,24; ecc.). L'Epistola agli Efesini presenta affinità particolarmente precise, nella fraseologia e nell'ideologia, con la letteratura essenica. E non senza sorpresa si è visto, su un frammento di Qumran, Melchisedec, investito degli attributi del Figlio dell'Uomo escatologico, essere l'oggetto di speculazioni che evocano e chiariscono quelle dell'Epistola agli Ebrei, la cui cristologia sacerdotale si inserisce nel solco del messianismo essenico. Ma sono soprattutto gli scritti giovannei, e in particolare il quarto Vangelo, che offrono le più sorprendenti somiglianze con i testi essenici. Essi presentano lo stesso dualismo cosmico, che oppone le potenze del bene e quelle del male, la verità e l'errore, la luce e le tenebre; in Giovanni come nei testi essenici il dono dello Spirito Santo, o Spirito di Verità, è un fatto escatologico.


6. Giudaico e greco

Di queste somiglianze potrebbero addursi molti esempi. Sembra che nessun settore della Chiesa nascente sia stato completamente immune dalle influenze dell'essenismo; non è tuttavia giusto considerare il cristianesimo come il sottoprodotto dell'essenismo: ciò significherebbe misconoscere l'apporto positivo, originale, determinante, sia da parte di Paolo che, all'inizio, di Gesù stesso. Ma se l'essenismo non risolve tutti i problemi posti dalla storia delle origini cristiane, li illumina però di una luce nuova ed estremamente preziosa. Esso dispensa inoltre dal ricercare nell'ellenismo, per molti punti, elementi di spiegazione che si ritrovano in definitiva nel giudaismo stesso. Si deve tuttavia notare, a questo proposito, che quelle influenze esseniche che hanno così profondamente segnato il cristianesimo nascente, presuppongono esse stesse, in partenza, degli apporti esterni accolti nel giudaismo: basti pensare al dualismo, comune agli scritti di Qumran e al quarto Vangelo, che, estraneo nel suo principio alla tradizione di pensiero giudaica, testimonia chiaramente una influenza del mazdeismo. D'altra parte, anche prendendo in esame soltanto il cristianesimo, sarebbe senz'altro arbitrario porre troppo rigorosamente il problema: giudaico o greco? In effetti gli apporti di queste due culture si fondono. Le scoperte recenti hanno rivelato tutta l'importanza della prima, ridimensionando nello stesso tempo gli apporti della seconda a proporzioni più modeste di quanto aveva creduto la scuola comparatista; questi apporti non vanno però giudicati nulli. Né Giovanni né Paolo, debitori di due culture per altro strettamente legate, si lasciano ridurre completamente all'una o all'altra. La mistica cristocentrica di Paolo, per esempio, non ha alcun parallelo nel giudaismo. Se non si vuol vedere in essa una creazione del tutto originale dell'Apostolo, bisognerà cercare precedenti o analogie nella religione ellenistica. E se l'apporto giudaico, e più precisamente essenico, si manifesta vigorosamente nelle origini palestinesi della Chiesa e nello stadio iniziale - decisivo - dello sviluppo del cristianesimo, esso è però ovviamente molto meno percettibile fuori della Palestina e nella successiva evoluzione della Chiesa antica, per lo meno nel mondo greco-romano (nell'Oriente semitico le condizioni sono infatti notevolmente diverse). Il problema è dunque quello di valutare nella loro giusta misura e reciprocamente, le varie influenze convergenti, sia nel giudaismo prima di Cristo - in Filone, per esempio, o a Qumran -, sia nella Chiesa nascente, che hanno contribuito a dare un volto al cristianesimo antico. Soltanto in questo modo si può sperare, in particolare, di gettare un po' di luce sulla questione, così controversa, del ruolo esatto svolto da Paolo nella genesi e nello sviluppo del cristianesimo, e dei rapporti tra il suo pensiero e il messaggio di Gesù.
25/07/2008 19:59


John Riches "La Bibbia. Una breve introduzione" - Universale Laterza 2002



La Bibbia nel mondo dei credenti

Una volta inseriti nel canone, i testi cambiano. Diventano testi sacri. I credenti delle comunità che ne riconoscono il nuovo status li considerano come messi a parte, testi speciali che non possono essere trattati alla stregua di qualsiasi altro testo. Le aspettative nei loro confronti sono pertanto piuttosto diverse da quelle che i lettori hanno rispetto ad altri testi. Proprio perché sacri, è impensabile che i testi canonici possano essere in conflitto con il più profondo senso del sacro posseduto dai credenti. Ogni seria dissonanza fra l'esperienza della comunità e il mondo riflesso nel testo sacro esige di essere risolta. O il mondo del testo dev'essere elaborato in maniera tale da risultare conforme all'esperienza della comunità, o è la comunità che deve cambiare per conformarsi a quanto dichiarato nel testo. Si accende, dunque, una potente dialettica. I credenti leggono i testi alla luce della loro esperienza; e, allo stesso tempo, guardano ai testi per dare senso alla loro esperienza e costruirla. E' facile quindi aspettarsi che le diverse comunità di credenti leggano lo stesso testo in maniere molto diverse. Nella loro lettura troveremo un riflesso sia delle loro diverse credenze sia delle loro storie diverse. In questo non c'è grande differenza da quello che accade con i testi classici, non sacri; è l'intensità delle reazioni che è diversa. Se - poniamo - Shakespeare e Goethe arrivano a essere qualificati come classici da una rispettabile società borghese, ci saranno di quelli che vorranno eliminare dai loro scritti certi aspetti considerati scioccanti, o anche solo disdicevoli, da quella società. Le antologie di Goethe ometteranno parti della sua più sboccata poesia d'amore; e ci sarà un qualche Bowdler che appronterà le sue versioni purgate di Shakespeare. Il confronto è istruttivo: i conflitti fra alcune opere letterarie ed estetiche e il gusto e le sensibilità correnti provocano per lo più uno scandalo soltanto temporaneo; raramente creano fratture durature dentro una comunità, anzi a volte portano a mutamenti nella sensibilità della gente. E' largamente ammesso che gli scrittori e gli artisti possono aiutare la gente comune a familiarizzarsi con le altezze e le profondità dell'esperienza che la società benpensante semplicemente ignora o rimuove. Analoghi mutamenti di sensibilità si verificano anche, come vedremo, nelle comunità religiose. A volte tali mutamenti incontrano una resistenza molto maggiore per affermarsi, in quanto le comunità combattono per difendere modi di vedere il mondo che sono consacrati dalle letture tradizionali della scrittura. Prendiamo in esame un testo particolare, che ha avuto profonde risonanze sia nella tradizione giudaica sia in quella cristiana, e vediamo qualcuno dei modi in cui esso ha formato le diversissime esperienze di queste due famiglie di comunità e ne è stato a sua volta formato.


L'Akedah

L'Akedah - cioè l'episodio di Isacco che viene legato ('aqad = legare) da Abramo in vista del sacrificio, raccontato da Genesi 22 - tocca un nervo delicato delle sensibilità giudaica e cristiana. È una storia di strana violenza e tenerezza, di un padre che riceve dal suo Dio l'ordine di sacrificare "il suo unico figlio". Solo all'ultimo momento Abramo e Isacco vengono salvati dall'imminente orrore con l'intervento di un angelo. La vicenda è raccontata con tutto il vigore, la sobrietà e il realismo della narrativa biblica nei suoi momenti migliori. Lasciati i servi ai piedi del monte, Abramo e Isacco iniziano il cammino: "Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt'e due insieme" (Genesi 22,6). L'ultima proposizione ("proseguirono tutt'e due insieme"), ripetuta due versetti dopo, e il breve dialogo successivo sottolineano il forte legame fra i due; ma l'obbedienza di Abramo a Dio li spinge a salire sul monte del sacrificio. Qui Abramo allunga la mano armata di coltello per uccidere il figlio. Solo in quel momento interviene l'angelo. Ma dalla tragedia sfiorata viene fuori la benedizione divina e la promessa di una nuova nazione che sorgerà dal padre e dal figlio. Il fascio di emozioni ed esperienze racchiuso in questo breve racconto, così incisivo nella sua formulazione, è molto denso, come dimostra la ricchezza delle sue successive letture. Una delle prime interpretazioni dell'episodio è quella che si trova nel libro dei Giubilei, che è costituito in gran parte da una riproposizione della storia d'Israele che viene narrata a Mosè dall'"angelo della presenza". Grazie a questo artificio, l'autore ha la possibilità di integrare la storia con dettagli relativi ai retroscena celesti, che mancano nel racconto biblico. Così, ci viene detto ora perché mai Dio mise alla prova Abramo (Genesi 22,1). Circolavano in cielo dicerie che mettevano in dubbio la fedeltà e l'amore per Dio da parte di Abramo. Questo aveva spinto Satana, qui chiamato col nome di Principe Mastema, a lanciare una sfida a proposito della genuinità dell'amore per Dio da parte di Abramo, sostenendo che questi amava di più il suo figlio Isacco. L'angelo afferma che Dio sapeva bene che l'amore di Abramo era genuino, avendolo messo alla prova già molte volte, ma ciononostante accetta di apprestare una prova finale. Questo tema dell'ultima prova attraverserà tutte le discussioni giudaiche sulla vicenda. Il motivo della prova di Abramo è presente già in Genesi, ma in Giubilei riscontriamo un sottile ma significativo slittamento di accento. In Giubilei la prova non è per Dio un mezzo per scoprire se Abramo lo ama e gli obbedisce; questo, Dio (e il lettore) lo sa fin dall'inizio, e nel momento cruciale Dio interviene proprio sulla base di questa conoscenza. In Genesi, invece, è solo dopo che Abramo ha impugnato il coltello che Dio, per il tramite dell'angelo, dice: "Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio" (Genesi 22,12). In Giubilei lo scopo dell'azione di Dio è di dimostrare a Mastema la fedeltà e l'amore per Dio da parte di Abramo, come si capisce bene dalle parole finali che Dio rivolge ad Abramo: "E io ho reso noto a tutti che tu sei fedele a me in ogni cosa che io ti dico". Questo diventa un messaggio per i giudei, i quali pure hanno dovuto subire di recente un'analoga prova satanica. Lo scopo della prova di Abramo e, per estensione, delle prove che gli stessi giudei si trovavano ad affrontare era di rendere nota la fedeltà di Israele a Dio, così che "tutte le nazioni possano essere benedette per mezzo di lui" (Giubilei 18,16). L'introduzione di Satana sulla scena aggiunge un'ulteriore dimensione alla vicenda, oltre al fatto di essere una prova dell'obbedienza di Abramo messa in atto da Dio. Con la presenza di Satana si vedono all'opera nel mondo potenze oscure che cercano di fuorviare la gente e pretendono che anche i più giusti fra gli uomini siano loro vittime. In una qualche maniera oscura, parte almeno della responsabilità della sofferenza umana ricade su Satana, mentre Dio e i suoi angeli sono lì pronti a sostenere e a proteggere il fedele. Nella vicenda specifica, essi sono presenti a far sì che Isacco non riceva alcun danno (almeno alcun danno fisico). Ma come si accorda questo con le esperienze dei giudei nel corso delle epoche di persecuzione e martirio, che avevano portato molti di loro alla morte? La consapevolezza di questi problemi è evidente nello scrittore giudaico del primo secolo d.C., Filone Alessandrino. La comunità giudaica di Alessandria all'epoca di Filone si stava dando da fare per ottenere che si ponesse fine alla discriminazione e alla persecuzione nei suoi confronti. Nel suo trattato De Abrahamo, Filone risponde prima di tutto a quelli che dicevano che la prova sostenuta da Abramo non era poi di gran peso se messa a paragone con quella di tanti pagani che avevano di propria volontà immolato i propri figli per la conservazione della loro città o dei loro popoli. Ma - afferma Filone - per Abramo, per il quale il sacrificio umano era un abominio, l'immolazione del suo figlio fu una prova ben più terribile, dal momento che per i principi pagani questa era invece quasi secondo natura (De Abrahamo, 177-199). Filone, però, non si ferma qui, ma approfitta della vicenda di Isacco per fare pure una riflessione sulla sofferenza e l'afflizione umana, e lo fa mettendo in evidenza il significato allegorico della storia. Il nome di Isacco significa risata. Abramo sacrifica la risata, o piuttosto "la buona emozione del comprendere, ossia la gioia", in nome del suo senso del dovere nei confronti di Dio. Il che è giusto, perché una vita di pura gioia e felicità è esclusiva di Dio. Ciononostante, Dio vuole permettere ai suoi fedeli di partecipare in qualche misura di una simile gioia, anche se essa sarà mescolata con il dispiacere (De Abrahamo, 200-207). Viene alla mente quella battuta giudaica che dice: Perché i giudei non possono ubriacarsi? Perché quando uno beve dimentica le preoccupazioni. Ma che dire delle grandi sofferenze sopportate in tante occasioni dagli stessi giudei? La terribile persecuzione inflitta loro al tempo di Antioco Epifane (175 a.C.) produsse propri episodi e relativi racconti sulla fedeltà dei giudei a Dio in condizioni di crudelissima tortura. Uno di questi (in 2 Maccabei 7) parla di una madre che assiste di persona al raccapricciante martirio dei suoi sette figli - e li incoraggia - prima di essere lei pure uccisa. In una successiva versione rabbinica dell'episodio, la vicenda viene trasposta dal suo contesto originale al tempo di Antioco Epifane nella situazione del II secolo d.C., quando i giudei furono perseguitati sotto l'imperatore romano Adriano. Il racconto è pieno della pena per tanta sofferenza ma anche di orgoglio per i martiri della fede. "La madre piangeva e diceva [ai suoi figli]: Figli miei, non siate angustiati, poiché per questo foste creati - per santificare nel mondo il Nome del Santissimo, che benedetto egli sia. Andate a dite al Padre Abramo: Non si gonfi il tuo cuore di orgoglio! Tu costruisti un altare, ma io ho costruito sette altari e su quelli ho immolato i miei sette figli. Cosa conta di più? La tua fu una prova; la mia è stata un fatto compiuto" (Yalkut, Deuteronomio 26,938). Una risposta ancora più angosciata alla vicenda di Isacco si trova nei riferimenti medievali, che rispecchiano la situazione delle persecuzioni dei giudei al tempo delle crociate. Le cronache giudaiche del tempo registrano il fatto che in molti casi, quando i crociati attaccavano, i giudei, piuttosto che rischiare di doversi piegare a una conversione forzata sotto tortura, si immolavano l'un l'altro in sacrificio, facendo attenzione a che il coltello non avesse difetti - come richiesto dal rituale del sacrificio, pena l'invalidità del sacrificio stesso - e recitando le appropriate formule sacrificali. La poesia sinagogale del tempo paragona simili sacrifici all'Akedah di Isacco:

O Signore, Onnipotente, che abiti nei cieli!
Un tempo, per una Akedah gli Ariel gridarono davanti a Te,
Ma ora quanti sono massacrati e bruciati!
Perché non hanno elevato un grido per il sangue di bambini?

Prima che il patriarca nella sua fretta potesse sacrificare il suo unico figlio,
Si udì dal cielo: Non stendere la tua mano per distruggere!
Ma quanti figli e figlie di Giuda sono assassinati -
E ancora Egli non si affretta a salvare coloro che sono massacrati o dati alle fiamme.
(R. Eliezer bar Joel ha-Levi, Fragment from a Threnody, in Spiegel, pp. 20-21)

O ancora:

Un tempo potevamo contare sul merito dell'Akedah,
Protetti per la salvezza di età in età -
Ora un'Akedah segue l'altra, non si contano più.
(R. David Meshullam, Selihot, 49, 66b, in Spiegel, p. 21)

Ma la più interessante interpretazione della vicenda dell'Akedah in questo periodo viene dalla penna di Rabbi Ephraim ben Jacob di Bonn, nel cui poema leggiamo che Abramo non soltanto portò in effetti a compimento l'uccisione rituale del figlio, ma anche che, quando Dio immediatamente dopo riportò in vita Isacco, egli tentò di ripetere il sacrificio.

Egli [Abramo] si affrettò, lo [Isacco] puntò sulle ginocchia,
Fece forza sulle due braccia,
Con mano ferma lo immolò secondo il rito,
Compì il sacrificio nella maniera giusta.

Cadde sopra di lui la rugiada di resurrezione, ed egli tornò in vita
[Il padre] lo prese [allora] per ucciderlo di nuovo.
Ne è testimone la scrittura! Il fatto è ben fondato:
E il Signore chiamò Abramo, anche una seconda volta dal cielo.
(Spiegel, pp. 148-149)

E' da notare come il poeta affermi che il suo riferimento al tentativo di Abramo di sacrificare il figlio una seconda volta trova sostegno nella scrittura. Nel racconto del libro della Genesi, è vero, l'angelo chiama Abramo due volte, la prima per fermare il sacrificio, la seconda per comunicare ad Abramo la promessa che egli sarà padre di una grande nazione. Rabbi Ephraim fornisce invece una versione molto diversa delle due chiamate. Abramo evidentemente non ascolta, o ignora, la prima. Nel suo commento profondamente simpatetico a questo poema, Spiegel spiega efficacemente la frase "il fatto è ben fondato": "Se non lo è nella Scrittura, lo è nell'esperienza dei giudei del Medioevo" (p. 138). Le terribili esperienze di persecuzione dei giudei nel Medioevo devono trovare una eco nei loro testi sacri. L'interpretazione cristiana dell'Akedah è filtrata, al contrario, attraverso il fatto centrale della crocifissione di Gesù. Ma è interessante osservare come, nonostante le evidenti somiglianze fra le due vicende, nei racconti evangelici ci sono pochi veri e propri riferimenti letterari alla Akedah. In Gesù che prega Dio nel giardino del Getsemani prima della crocifissione, possiamo avvertire lontani echi delle domande di Isacco al padre e delle successive tradizioni circa la sua volontaria accettazione dei disegni del padre. Naturalmente il contesto è diverso: nel caso di Gesù non c'è un padre umano come mediatore dei disegni di Dio; non c'è intenerimento da parte del Padre celeste; non si tratta di una semplice prova per il padre della vittima. Anzi, è la vittima stessa che deve lottare per accettare liberamente la ferma volontà del Padre celeste (un motivo che in effetti è presente in alcune versioni dell'Akedah). È troppo vedere qualcuno di questi punti riflesso nel modo in cui i vangeli raccontano la preghiera di Gesù nel Getsemani? Matteo e Luca in qualche modo inciampano nel secco "tutto è possibile a te" di Marco, che era un tradizionale riconoscimento di onnipotenza. Matteo, messo di fronte all'enormità del fatto che Dio uccida il proprio figlio, sembra chiedersi se non ci sia una qualche superiore necessità che controlla l'azione. Luca sembra più interessato alla questione dell'unità o costanza della volontà divina: come può il Figlio di Dio pregare Dio perché cambi i suoi disegni? Giovanni omette completamente l'episodio della preghiera di Gesù nel Getsemani e lo sostituisce con un'analoga scena di angoscia immediatamente prima dell'Ultima Cena (12,27). Ne fa una scena più pubblica, alla quale assistono non soltanto giudei ma anche greci. L'accettazione della sua missione da parte di Gesù glorificherà il nome di Dio, esattamente come aveva fatto in precedenza l'obbedienza di Abramo. Questa accettazione è riecheggiata in quello che Gesù dice a Pietro al momento del suo arresto (18,11); qui non rimane altro che la netta affermazione di Gesù della sua completa accettazione della volontà del Padre: non aveva detto in precedenza "mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato" (Giovanni 4,34)? In tutto ciò, non c'è alcun ondeggiamento nella volontà del Padre. Solo in un punto l'enfasi sulla inflessibilità della volontà del Padre viene precisata, ed è nel vivace ritratto che gli evangelisti fanno degli attori umani che cospirano per portare ad effetto la morte di Gesù. Il racconto di Marco dell'arresto di Gesù è introdotto dalle parole dello stesso Gesù: "Basta, è venuta l'ora: ecco, il Figlio dell'uomo viene consegnato (paradìdotai) nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce (paradisùs) è vicino" (Marco 14,41-42). In effetti c'è qui una certa ambiguità nell'uso del verbo greco paradìdomi, che vuol dire sia semplicemente "consegnare"sia anche "tradire". Si riferisce solo al tradimento di Giuda alla banda spedita dai capi dei sacerdoti, o non suggerisce forse anche il disegno divino dietro gli eventi che ora travolgono Gesù, con la consegna di lui nelle mani dei suoi distruttori? (La stessa parola greca si ritrova in Isaia 53,6: "Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti"; letteralmente: il Signore lo consegnò ai peccati di noi tutti). Probabilmente l'ambiguità è intenzionale; ma nel quadro successivo è l'azione violenta della plebaglia che compie l'arresto ad essere sottolineata con quattro occorrenze del verbo "prendere" e due riferimenti a "spade e bastoni" della gente accorsa a prenderlo. Gesù viene catturato per essere ucciso secondo i piani dei capi dei sacerdoti e degli scribi, i quali, dopo un affrettato processo, "lo legano" e lo "consegnano" a Pilato. È allettante vedere qui un'inversione dei temi del racconto di Genesi. In Genesi, Abramo prende Isacco, lo lega e lo immola in obbedienza al comando di Dio. Qui invece sono i peccatori che prendono Gesù, lo legano e lo consegnano al tiranno straniero per l'esecuzione. In entrambi i casi, tuttavia, come la scena del Getsemani rende chiaro, è Dio che vuole questi eventi. Nel caso dell'Akedah, la prova del sacrificio di Isacco rappresenta l'atto finale di un dramma fra Dio e il patriarca in cui la volontà di Abramo viene saggiata ed egli viene preparato a essere il padre di una moltitudine di nazioni, secondo la promessa di Dio (Genesi 17,4); Abramo dev'essere il tipo del monoteismo etico, della radicale obbedienza alla volontà di Dio. Abramo diventa il tipo del giudeo fedele, e anzi, al di là di qualsiasi confine etnico, il tipo di ogni persona giusta. Nell'altro caso, Gesù, che è stato proclamato "figlio prediletto" (Marco 1,11) di Dio, è prescelto come strumento della volontà di Dio nel conflitto con la malvagità umana. Il sacrificio di Gesù non è tanto una dimostrazione di obbedienza (benché sia anche questo) quanto il punto di scontro fra l'agente divino e le forze della distruzione e della morte nel mondo. È il punto di svolta dal mondo di morte alla nuova età della vita, che è anticipata nella resurrezione di Gesù. Le successive ripetute narrazioni cristiane della Passione di Gesù ricalcano questo modello di allusione indiretta e di variazioni. Nel racconto giovanneo della Passione, Gesù "portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio" (19,17). Questo contrasta con il racconto dei vangeli sinottici, secondo il quale i soldati costringono Simone di Cirene a portare la croce fino al Golgota. Nel vangelo di Giovanni, dunque, Gesù, al pari di Isacco, porta con sé sul cammino lo strumento della sua morte. È intrigante notare come questo elemento venga rispecchiato a sua volta nelle riscritture rabbiniche della vicenda di Isacco, in cui si dice che Isacco porta la legna come uno che porta la sua croce. La successiva esegesi cristiana mise in risalto questo motivo e lo collegò all'esperienza cristiana della sofferenza. La disponibilità cristiana a sopportare la sofferenza è vista come in continuità con la fede di Abramo: "Giustamente anche noi, che possediamo la stessa fede di Abramo e prendiamo su di noi la croce così come Isacco portò la legna, Lo seguiamo" (Ireneo, Contro le eresie, IV 5,4). La devozione successiva ha elaborato questo motivo nelle "stazioni" della Via Crucis che si allineano lungo i muri delle chiese cattoliche e raffigurano Gesù che cade tre volte sotto il peso della croce. Nell'interpretazione cristiana, tuttavia, la storia di Isacco non sempre viene messa direttamente in relazione con la morte di Cristo. Nella sua acquaforte intitolata "Il sacrificio di Isacco", Rembrandt raffigura l'angelo che non solo chiama Abramo ma interviene attivamente a trattenerlo, mettendogli intorno il suo braccio. La storia si trasforma così, nel dipinto, in una rappresentazione della protezione divina, simboleggiata dalla tenera cura dell'angelo custode; siamo ben lontani dai rabbi medievali che leggono la stessa vicenda attraverso le loro esperienze di persecuzione e genocidio. Il filosofo danese Kierkegaard, al contrario, torna a celebrare in Abramo l'uomo di fede. Egli definisce la disponibilità di Abramo a sacrificare il suo figlio come "la sospensione teologica dell'etico". Nella fede religiosa le leggi e le norme etiche normali sono sospese, in quanto uomini e donne abbracciano scopi e obiettivi di livello superiore. Il vero "cavaliere della fede" è uno che si muove al di là del mondo dell'etica ed entra in un mondo che è governato da comandi e promesse di provenienza divina. La grandezza di Abramo sta nel perseverare della sua fiducia e fede in Dio contro tutte le apparenze: non era solo una fede nella vita ultraterrena, in una risoluzione finale delle cose, ma una fede nel qui e ora, la sicurezza che le promesse di Dio si sarebbero realizzate anche di fronte alla manifesta impossibilità che Sara potesse concepire un figlio alla sua età, e poi, dopo la nascita di Isacco, di fronte al comando di Dio di sacrificarlo. Gli scritti di Kierkegaard esprimono una protesta profonda, e personalmente costosa, contro la banalizzazione borghese del cristianesimo. La sospensione da lui affermata degli standard etici "normali" rimane pericolosa e inquietante e mette in evidenza qualcosa della stranezza e della natura provocatoria del racconto originale, con la sua testimonianza a una fede prodigiosa. Se Abramo non avesse avuto fede, dice Kierkegaard, avrebbe potuto sacrificare eroicamente se stesso invece di Isacco. "Sarebbe stato ammirato nel mondo e il suo nome non sarebbe stato dimenticato; ma una cosa è essere ammirati e un'altra essere una stella che guida, che salva chi è angosciato" (Kierkegaard, pp. 42-43).


La perenne vitalità dei testi biblici

La storia della ricezione dei testi biblici fornisce un fondo quasi inesauribile di dimostrazioni della vitalità di questi antichi scritti. Essi sono stati letti dalle più diverse comunità di fede in circostanze largamente differenti e hanno generato letture di notevole divergenza come pure di notevole convergenza. Non è facile fornire spiegazioni di questo tipo di fecondità. La ragione va ricercata in parte nella diversità dei contesti in cui simili testi vengono letti; non sorprende che la vicenda di Isacco che viene preparato per essere sacrificato susciti echi diversi in gente che si trova esposta agli attacchi di soldati dediti a scorrerie e in gente che, poniamo, deve affrontare i rigori della vita in un villaggio di montagna della cattolica Austria. C'è anche un'importante differenza nel contesto letterario della storia di Isacco, quale è letta dai giudei e dai cristiani. Per i cristiani, con la forte concentrazione sulla croce di Gesù negli scritti del Nuovo Testamento, è inevitabile che i temi dell'Akedah vengano ricondotti nel quadro della loro lettura della Passione. Isacco diviene il "tipo di colui che doveva venire" (Epistola di Barnaba 7,3) e i vari motivi della storia vengono assunti e usati, a volte per contrasto, nella narrazione e nelle riflessioni sulla Passione. I giudei, invece, hanno più ragione di riflettere sul significato della vicenda raccontata dal libro della Genesi alla luce della storia dei discendenti di Abramo. Ma la diversità del contesto non spiega tutto: c'è nei testi stessi una ricchezza e un'ambiguità che invita a una varietà di interpretazioni. Immagini come quella di Abramo che allunga sul figlio la mano armata, o che depone il figlio sopra la legna, toccano corde profonde dei successivi scrittori o interpreti. La ricchezza di figure, immagini e metafore degli scritti della Bibbia - nella sua narrativa, nella sua poesia e nei suoi testi più discorsivi - è tale da consentire senz'altro letture che corrispondono liberamente all'esperienza dei lettori. In essa sono contenuti storie e testi che comunità largamente diverse fra loro hanno potuto fare propri, proprio grazie alla loro natura evocativa. Né si tratta di testi chiusi, strettamente bloccati. Essi lasciano spazi aperti che chiedono di essere riempiti e contengono ambiguità che chiedono di essere risolte. Alcuni dei testi più fecondi, come vedremo, sono quelli più ambigui. Il carattere canonico dei testi deve dar conto non soltanto della diversità e ricchezza delle letture, ma anche del modo in cui le narrazioni e i discorsi stessi sono stati rielaborati e rimodellati. Nell'esempio così impressionante che abbiamo esposto, abbiamo visto come alcune versioni medievali della Akedah affermino di fatto che il racconto della scrittura parla della morte di Isacco. Più spesso, è una questione di enfasi, di lettura selettiva: gli elementi degli scritti biblici che suscitano echi più forti in una particolare comunità e in un particolare periodo di tempo saranno sottolineati, mentre altri elementi saranno esclusi o trascurati. I risultati di tale lettura selettiva possono essere altrettanto fortemente differenziati quanto la diretta alterazione della storia di Isacco. Ma, nell'un caso e nell'altro, ciò che spinge il processo di interpretazione è la medesima convinzione: che questi testi sono normativi per l'esperienza della comunità e che perciò l'esperienza della comunità deve in qualche modo essere riflessa e rappresentata in essi.
25/07/2008 20:02


David Donnini "Cristo. Una vicenda storica da riscoprire" - Erre emme edizioni 1994



IL "GIALLO" DI BETANIA


1. Ancora sulla cena del mistero


a) Maria Maddalena = Maria di Betania?

Di un fatto, fra tanti dubbi, siamo ormai sicuri: le identità dei personaggi principali, così come sono presentate dal racconto evangelico così come tutti lo conosciamo, sono quasi sempre pesantemente contraffatte. Probabilmente l'asse su cui si impernia il lavoro di sofisticazione delle identità è proprio la famiglia di Cristo, anche se a questo proposito dobbiamo fare un'opportuna precisazione. Infatti quando parliamo di famiglia del Cristo possiamo intendere due cose: la famiglia di origine, costituita dai genitori, dai fratelli e dalle sorelle, e la famiglia acquistata per matrimonio, costituita dalla moglie, dai cognati, dai suoceri e magari anche dai figli. Noi chiameremo appunto "famiglia di origine"e "famiglia acquisita" questi due nuclei. I luoghi caratteristici sono probabilmente il villaggio di Gamala, sulla riva orientale del lago Kinneret (il lago di Tiberiade), nel Golan, per la famiglia di origine, e il villaggio di Betania, a brevissima distanza da Gerusalemme, in direzione sudest, per la famiglia acquisita. Poiché il primo non è comunemente noto al pubblico (anche perché la Chiesa si è sempre sforzata, fin dai suoi primissimi giorni, di cancellare dal mondo la memoria del villaggio di Gamala, ho ritenuto opportuno indicare questa parte del lavoro col titolo "giallo di Betania". Questo piccolo centro abitato, veramente un gruppo di poche case, si trovava a circa tre chilometri dalla Porta Dorata del Tempio di Gerusalemme, una distanza che poteva essere tranquillamente coperta in poco più di mezz'ora di cammino a piedi, lungo la strada che fiancheggiava il Monte degli ulivi e passava accanto al giardino del Gethsemani (il frantoio). Il racconto evangelico lascia trasparire chiaramente il fatto che il Cristo avesse una ben precisa relazione con Betania, tant'è che nei momenti che precedettero la passione Gesù si trovava spesso nel villaggio: vi passava le notti, per esempio, e noi potremmo dedurre da questo fatto che lì si trovava la sua residenza abituale, quando sostava presso Gerusalemme. C'era forse qualcuno di cui egli aveva particolare fiducia e che lo ospitava in casa sua? Ed è forse possibile che il villaggio di Betania compaia come luogo importante degli spostamenti di Cristo solo nell'imminenza della passione? La risposta a quest'ultima domanda è negativa: varie testimonianze lasciano intendere che Betania non fu né un luogo occasionale, né una tappa unica nei movimenti di Cristo. Anzi, cercheremo di mostrare che si trattava di un luogo molto importante per lui: la probabile residenza della sua famiglia acquisita. Chi ha un minimo di dimestichezza con i testi evangelici ricorda certamente che Betania era il villaggio di Lazzaro, e delle sue sorelle, Maria e Marta. Prestiamo un attimo di attenzione a questi nomi: Lazzaro è l'italiano per Eleazar, Maria per Myriam e Marta per Thamar (Tamara, dal momento che Mar-ta è derivato da uno scambio sillabico di Ta-mar). Si tratta di tre persone alle quali Gesù voleva molto bene:

"Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro" (Gv 11,5).

In alcuni testi greci più antichi si legge che "Gesù amava Maria, e la sorella di lei, Marta, e Lazzaro". Per loro nutriva un affetto particolare, sufficiente, comunque, a sollevare le polemiche degli altri apostoli: di Pietro per esempio, com'è testimoniato da alcuni scritti apocrifi. Molti testi dello gnosticismo cristiano più antico sembrano dare una grande importanza al personaggio femminile di Maria Maddalena, considerandolo praticamente depositario di particolari insegnamenti iniziatici quali neanche Pietro e gli altri apostoli avrebbero ricevuto. Si scopre addirittura che molte chiese dedicate al culto di Maria, come la cattedrale francese di Notre Dame, non porterebbero affatto questo nome per la madre di Gesù, ma per Maria Maddalena - interpretazione che successivamente sarebbe stata modificata per assecondare determinate esigenze dottrinarie. Ci si chiederà, a questo punto, per quale motivo io stia citando Maria di Magdala quando la sorella di Lazzaro è Maria di Betania. In realtà non ho assolutamente cambiato né argomento né personaggio, giacché le due Marie sono una Maria solamente, come ben sapeva la tradizione più antica. Si tratta forse del caso più evidente di sdoppiamento di persona, tra i tanti che abbiamo segnalato nel corpo della redazione evangelica neocristiana. Ma come evidenziare questa ennesima operazione di sdoppiamento? A tale scopo occorre portare la nostra attenzione ancora una volta sull'episodio della cosiddetta "unzione di Betania", che i singoli Vangeli collocano in momenti e luoghi diversi, cambiando, oltre al quadro scenografico, anche l'identità dei personaggi. Innanzitutto va detto che tale episodio è collocato temporalmente dai quattro Vangeli in momenti diversi: Luca e Giovanni lo collocano prima dell'ingresso messianico in Gerusalemme, in particolare Luca lo colloca molto prima; Marco e Matteo lo collocano dopo l'ingresso messianico in Gerusalemme, praticamente a ridosso dell'ultima cena. La più diversa fra le quattro versioni è certamente quella di Giovanni, perché fa nomi di persone e di circostanze non presenti nei Vangeli sinottici. I tre sinottici affermano che il padrone di casa si chiamava Simone, mentre Giovanni non lo nomina; i sinottici sono d'accordo nel lasciare anonimi i personaggi di Lazzaro e delle sue sorelle, nonostante che il ruolo di Marta fosse quello di servire a tavola, ma soprattutto di lasciare anonima colei che fu protagonista dell'unzione: si sarebbe trattato semplicemente di "una donna". Tutti e tre i sinottici parlano del vaso di alabastro col profumo, mentre Giovanni ne definisce solo la quantità: una libbra. In realtà l'interpretazione tradizionale vuole che il brano di Luca non sia l'unzione di Betania, ma un'altra unzione completamente indipendente, avvenuta mentre Gesù si trova a casa di un certo Simone, nella circostanza di un banchetto, durante il quale giunge una donna, con un vaso di alabastro, che comincia a ungere Gesù, che viene rimproverata aspramente dai presenti e che viene difesa dal Maestro: le stesse identiche azioni, coincidenti perfino in alcuni dettagli particolari, come il fatto che Luca e Giovanni, a differenza di Marco e Matteo, parlano di unzione dei piedi, non solo della testa, e di asciugamento dei medesimi coi capelli della donna. Perché dunque dovremmo pensare che il brano di Luca si riferisca a un episodio completamente diverso? Le differenze consistono nel fatto che il brano di Luca è collocato in una posizione centrale del racconto evangelico, lontano dagli eventi della passione; ma questo può spiegarsi benissimo immaginando che l'autore, o i revisori, abbiano semplicemente anteposto il brano. Il luogo, inoltre, resta imprecisato, esattamente come nell'episodio lucano dell'incontro fra Gesù e le sorelle Marta e Maria in cui Betania non è nominata; ma questo è dovuto semplicemente al fatto che Luca non vuole identificare le persone di cui sta parlando; coerentemente con gli altri due Vangeli sinottici ha un atteggiamento censorio nei confronti della famiglia di Betania. Infine, le parole che Gesù pronuncia in difesa della donna, contro le accuse mossele dai presenti, sono diverse, anche se in definitiva configurano una circostanza identica. C'è poi un'altra differenza, della quale si può dimostrare facilmente come sia stata creata ad arte. Si tratta del vaso di alabastro che le traduzioni moderne del Vangelo lucano rendono semplicemente col termine "un vasetto", mentre il testo latino è inequivocabile: "attulit alabastrum unguenti (Lc 7,37). Perché questa omissione? Le troppe somiglianze del brano di Luca con quelli degli altri evangelisti danno fastidio? Il fastidio nasce sicuramente dal fatto che la tradizione è abituata a identificare la donna protagonista dell'episodio lucano nella persona di Maria di Magdala, anche se oggi qualcuno vuole precisare che la donna non è né Maria di Magdala, né Maria di Betania, contraddicendo così le affermazioni degli stessi Padri della chiesa. Infatti, come avrebbe potuto uno stesso episodio avere per protagonista due Marie diverse? La chiave di tutta la questione risiede nel fatto che, da un certo punto in poi nello sviluppo della tradizione cristiana, si è presentata l'esigenza di censurare completamente alcuni importanti personaggi che erano soliti accompagnare il Cristo in molti dei suoi movimenti. Erano personaggi famosi o per lo meno ampiamente conosciuti, legati ai più intransigenti gruppi del messianismo ebraico: esponenti e simpatizzanti delle sette essendo-zelotiche che tanto si erano distinte nella lotta per il rovesciamento del potere della famiglia erodiana e per la liberazione dal dominio dei conquistatori romani. Di costoro, nella narrazione evangelica che faceva da supporto alla predicazione di quel cristianesimo che ormai si era definitivamente staccato dalla sua matrice ebraica, non si doveva più sapere assolutamente nulla; se possibile dovevano essere cancellati dalla memoria dell'uomo. (E in pratica così è stato per quasi duemila anni: gli anni decisivi per la formazione del corpo dottrinale e teologico neocristiano. Solo in anni relativamente recenti il "caso" si è cominciato a riaprire). Coerentemente con questo proposito il Vangelo di Marco, il più antico dei sinottici, e quello di Matteo, hanno letteralmente fatto piazza pulita della famiglia di Betania, ovverosia di Lazzaro e delle sue sorelle Marta e Maria. È un fatto su cui non possiamo fare a meno di riflettere. Il miracolo della resurrezione di Lazzaro non esiste nei Vangeli sinottici: si tratta di una dimenticanza o di un'omissione intenzionale? E poi, a rafforzare il dubbio e le perplessità si aggiunge l'anonimato della donna che compie l'unzione a Betania, nonché l'assenza, nel quadro dei personaggi di questo banchetto, di Lazzaro (che "era uno dei commensali") e di Marta (che "serviva" a tavola): cosa aveva di tanto scomodo questa gente da essere dimenticata o lasciata anonima? Il Vangelo di Luca non tradisce l'atteggiamento censorio degli altri due sinottici, se non per il fatto che le due sorelle, Marta e Maria, vengono nominate una volta, ma in modo tale da non lasciare neanche lontanamente capire chi esse siano nella realtà:

"Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: "Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma Gesù le rispose: "Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta" (Lc 10,38-42).

Come si può notare il brano è ambientato, temporalmente e spazialmente, in modo tale da far sembrare che Gesù sia capitato per caso in quel villaggio e in quella famiglia, né le suddette persone sono più nominate nel corso della narrazione, svolgendo così il ruolo di occasionali comparse. Non è altamente significativo il fatto che la tradizione sinottica abbia ridotto gli importanti personaggi della famiglia di Betania, quell'unica volta che essi compaiono, alla figura di semplici e anonime comparse? Ma l'operazione censoria più importante e palese, a proposito di questi personaggi, sta nel fatto che il Vangelo di Luca riporta il brano della unzione di Betania con una collocazione temporale diversa rispetto agli altri evangelisti - lasciando ancora una volta anonima la donna, il luogo, i personaggi - ma sta soprattutto nel fatto che la tradizione interpretativa si sia attestata sull'idea che la protagonista di tale unzione lucana, definita nel testo come "una peccatrice di quella città", fosse

"Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni" (Lc 8,2).

Da questo momento in poi l'unzione lucana è condannata a rimanere ben distinta da quella degli altri evangelisti; altrimenti come avrebbe potuto spiegarsi la duplice identità della protagonista? Oggi, per saltare a piè pari il problema, qualcuno, come abbiamo già accennato, distingue la peccatrice sia dalla Maria di Magdala che da quella di Betania. E il vaso di alabastro della unzione lucana, che assomiglia troppo a quello delle unzioni di Betania, si trasforma in un semplice "vasetto di olio profumato". La verità che emerge in modo abbastanza chiaro da tutto ciò è una sola: la tradizione sinottica, pur avendo cercato di cancellare, tutte le volte che era possibile, i personaggi della famiglia di Betania, si è trovata qualche volta nell'impossibilità di tagliare dalla narrazione evangelica alcuni episodi di importanza fondamentale, i cui protagonisti erano proprio quegli scomodi personaggi, e allora li ha presentati o in veste anonima o sotto identità contraffatte. Maria di Magdala è il prodotto della contraffazione sinottica del personaggio di Maria di Betania, sorella di una certa Tamara (Marta) e di Lazzaro, individuo conosciuto a Gerusalemme e introdotto negli ambienti del Tempio. Tutte le volte che i Vangeli sinottici hanno dovuto dare un nome a questa donna, non volendone lasciar intendere l'identità, l'hanno chiamata Maria di Magdala, utilizzando probabilmente il tipico meccanismo di contraffazione che abbiamo individuato in altre occasioni: sfruttare la somiglianza di alcuni termini ebraici con denominazioni geografiche (vedi Nazoreo che diventa di Nazaret, o Qanana che diventa Cananeo, o Galileo che non significa più zelota, ma cittadino della Galilea). Questa volta potrebbe essere il termine megaddela [pettinatrice] che si sarebbe trasformato in "di Magdala", dando così una provenienza e un'identità del tutto innocua alla peccatrice redenta. A sostegno di tale ipotesi va il confronto fra i seguenti due brani, uno dal Vangelo di Giovanni e l'altro, rispettivamente, da uno scritto apocrifo:

"Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi coi suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato..." (Gv 11,2).

"Questa è l'ampolla comprata da Maria peccatrice [quella che Luca definisce "una peccatrice di quella città"] e versata sul capo e sui piedi del Signore nostro Gesù Cristo asciugati poi coi capelli del suo capo..." (Vangelo arabo-siriaco dell'infanzia del Salvatore, 5,1).

Del resto l'antica liturgia latina considerava la Maddalena come la sorella di Lazzaro, ma questa identificazione, successivamente, è stata abbandonata.


b) Chi era Maria di Magdala/Betania?

A questo punto, le domande che sorgono spontanee sono: perché la tradizione sinottica aveva tanto bisogno di cancellare dalla narrazione evangelica ogni traccia della famiglia di Betania, dimenticandola, quando possibile, e ricorrendo all'alterazione delle identità, quando necessario? Chi era questa enigmatica Maria di Magdala/Betania? Secondo certi scritti apocrifi e certe tradizioni, non molto amate dalla dottrina cattolica, la risposta alla seconda domanda è breve e concisa: era la moglie di Cristo. Sul fatto in questione è stato scritto e detto molto; noi riassumeremo qui alcune argomentazioni fondamentali a favore. Innanzitutto il fatto che i Rabbì erano sempre sposati, e noi vediamo che il Cristo è chiamato "Rabbì" numerose volte sia nel Vangelo di Matteo che in quello di Giovanni, nei quali si conserva il termine ebraico anche nelle traduzioni moderne, mentre nei Vangeli di Marco e di Luca il termine compare solo nella versione tradotta: Maestro. Come poteva il Rabbì assumere questo titolo senza essere sposato? Quando mai, inoltre, gli scritti evangelici affermano in modo esplicito che il Cristo era una persona priva di moglie e figli? Ha forse egli predicato in favore del celibato? Se lo avesse fatto, la cosa sarebbe stata così singolare, nel contesto delle concezioni ebraiche, da sollevare lo stesso tipo di scalpore che sollevavano i discorsi sul riposo del Sabato, e i Vangeli vi avrebbero dedicato la stessa attenzione. Al contrario troviamo Gesù che pronuncia frasi di questo tipo:

"Ed egli rispose: "Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina, e disse: "Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola?"" (Mt 19,4).

Ci sono poi testi gnostici, che la Chiesa ha rigettato, nei quali si fanno affermazioni di questo genere:

"Erano tre, che andavano sempre con il Signore: sua madre Maria, sua sorella, e la Maddalena, che è detta sua consorte. Infatti era Maria sua sorella, sua madre, e la sua consorte".

"...la consorte di Cristo è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla bocca..." (Vangelo di Filippo, versi 32 e 55).

Un altro argomento a sostegno della ipotesi che Maria di Magdala/Betania fosse la moglie del Messia lo troviamo nell'esistenza di tradizioni, energicamente represse dalla Chiesa, in base alle quali questa consorte di Cristo, dopo la crocifissione del marito, sarebbe fuggita dalla Palestina e si sarebbe rifugiata in una consistente comunità ebraica, nel sud della Francia, portando con sé un figlio. La discendenza di Cristo, il "figlio di Davide", come assai spesso è definito nelle narrazioni evangeliche, sarebbe dunque stata la stirpe del sangue reale della casa di Davide: la dinastia legittima alla quale, e soltanto alla quale, spettava per diritto di regnare su Israele. Il sangue reale della casa di Davide, attraverso Maria Maddalena, sarebbe così giunto nella Francia meridionale dove, alcuni secoli dopo, sarebbe stato definito Sang Raal, con un termine proprio delle lingue provenzali: un termine che a noi è più noto nella forma Santo Graal. In realtà, la ricerca affannosa del Santo Graal, che la versione popolare della tradizione rappresenta come la coppa in cui Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo colante dalla croce, sarebbe la ricerca dell'autentica dinastia Davidica: di quel discendente di Cristo che avrebbe dovuto regnare sul Sacro romano impero, spodestando i falsi imperatori eletti dalla falsa Chiesa di Cristo. Se la storia che noi studiamo sui banchi di scuola non fosse stata riscritta e opportunamente ritoccata dagli scribi della Chiesa, molto di più sapremmo sul fatto che i re franchi affermavano - più o meno fondatamente - d'essere imparentati col sangue di Davide, e che i Merovingi rivendicavano, per l'appunto, il diritto dinastico sulla casa di Israele. Senonché la dinastia merovingia, con un'operazione politica voluta dalla Chiesa di Roma, fu spodestata e sostituita dalla dinastia dei rozzi e analfabeti Carolingi. Da allora tutta la questione del diritto dinastico fu messa a tacere, con violenza quando occorreva; il culto di Maria Maddalena fu visto con ostilità, se non ferocemente represso, come nella tragica occasione della sanguinosa crociata contro gli Albigesi (una setta neognostica della Francia meridionale); le chiese dedicate alla Maria che tanto fastidio poteva creare - Notre Dame - furono dedicate invece alla più rassicurante Maria vergine. Il celebre brano delle nozze di Cana, riportato dal Vangelo di Giovanni, ha aspetti a dir poco inconsueti, che lasciano pensare al fatto che le nozze siano, in realtà, le stesse nozze di Cristo:

"Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno più vino". E Gesù rispose: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora". La madre dice ai servi: "Fate quello che vi dirà". Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le giare"; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: "Ora attingete e portatene al maestro di tavola". Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l'acqua), chiamò lo sposo e gli disse: "Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino a ora il vino buono"" (Gv 2,1-10).

Perché lo sposo resta anonimo? In altre occasioni (banchetti, miracoli ecc.) si fa il nome del padrone di casa o del miracolato. Per quale ragione Maria può dare ordini ai servi, comportandosi come una padrona di casa? E ancora, per quale motivo i Vangeli sinottici hanno trovato opportuno far piazza pulita di questo episodio, così come di tutto ciò che, nel quarto Vangelo, ha riferimenti espliciti con la famiglia di Betania? Ecco dunque farsi avanti un'ipotesi assai plausibile, da prendere con tutti i benefici del dubbio, ma per certi versi anche affascinante: la famiglia di Betania era la famiglia acquisita di Cristo, in seguito al suo matrimonio con Maria; Lazzaro e Marta erano i suoi cognati. Nel villaggio di Betania il Cristo avrebbe trovato non solo degli amici che lo ospitavano, ma coloro che lo accoglievano in casa come un parente stretto: un importante parente. Con tutta probabilità, infatti, non stiamo parlando di Jeshu bar Abbà, quello chiamato "Figlio di Dio", l'uomo che aspirava, forse, al titolo di sommo sacerdote (Messia di Aronne) nel ricostruito regno di Davide, e che in occasione del processo dinanzi a Pilato fu rilasciato; stiamo parlando di quell'altro, quello chiamato Mashiah, il Cristo, l'uomo che aspirava al titolo di re (Messia di Israele) e che Pilato fece condannare e crocifiggere proprio per la sua ambizione regale. Maria era la moglie dell'aspirante re di Israele, e sarebbe stato proprio per questo motivo che ella s'era permessa, in occasione del banchetto offerto nella casa del fariseo Simone, di tirar fuori quel ricchissimo vaso d'alabastro, pieno di prezioso unguento di nardo purissimo, e di eseguire una cerimonia pubblica di unzione messianica, alla vigilia del tentativo di restaurazione del regno di Davide.


2. Colui che ami è ammalato


a) Il miracolo di Betania o che cos'altro?

L'undicesimo capitolo del Vangelo di Giovanni è senza ombra di dubbio una delle pagine più importanti e problematiche del Nuovo Testamento. Amato dai cattolici per l'episodio della resurrezione di Lazzaro; guardato con attenzione dagli esegeti moderni e da alcuni Padri della chiesa, per i legami pericolosi con lo gnosticismo; fatto oggetto di grande interesse dagli appassionati delle discipline esoteriche; generalmente incompreso dai più che non sanno, o non vogliono, cogliervi quei significati che il capitolo nasconde. Nel lungo racconto di Gv 11,1-57, Gesù sarebbe stato richiamato a Betania perché Lazzaro era malato. È da notare il fatto che l'ambasciata delle sorelle di Lazzaro non porta neanche il nome dell'infermo: colui che ami è ammalato, tutto qui. Evidentemente queste parole erano sufficienti per identificare inequivocabilmente la persona di cui si parlava. A questo proposito sarà bene notare che la maggioranza delle traduzioni moderne del Vangelo di Giovanni, come la versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana (Cei), non portano l'espressione

"Signore, ecco, colui che ami è malato",

ma le parole

"Signore, ecco, il tuo amico è malato" (Gv 11,3).

Questa traduzione non è corretta. Sia nel testo greco che in quello latino ("Domine, ecce quem amas infirmatur") è presente il verbo "amare", non il sostantivo "amico". Per quale motivo la traduzione dovrebbe subire questo leggero ritocco? Ancora una volta, come nel caso del "vasetto" di Luca, che era invece un prezioso vaso di alabastro, siamo di fronte a un tentativo di sviare certe interpretazioni che la dottrina cattolica trova molto indesiderate. Si ricorderà infatti che tutto il quarto Vangelo è pervaso dalla presenza di un personaggio lasciato sistematicamente anonimo. Il fatto appare molto strano e apparentemente privo di una spiegazione logica; ne abbiamo già parlato nella parte dedicata al processo:

"Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote e perciò entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote; Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare anche Pietro" (Gv 18,15-16).

Costui non è mai chiamato per nome e la tradizione vuole che si tratti dello stesso autore del Vangelo, che avrebbe scritto a novanta anni compiuti, identificato nella persona dell'apostolo Giovanni:

"Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera" (Gv 21,24).

Ma la cosa è assolutamente impossibile, non foss'altro perché l'apostolo Giovanni, un ame-ha-aretz, figlio di un povero pescatore della Galilea, non poteva essere un frequentatore abituale del Tempio di Gerusalemme, noto al sommo sacerdote al punto da potersi permettere di convincere la portinaia a lasciar entrare uno sconosciuto come Simone nel cortile della casa di Caifa; non conosceva la lingua greca, nella quale sarebbe stato redatto il quarto Vangelo; non era iniziato alla filosofia gnostico-ellenistica del logos e, come sostengono alcuni studiosi e alcune antiche testimonianze, sarebbe morto di morte violenta assai prima di raggiungere la vecchiaia. Si rifletta sul fatto che l'ultima citazione che abbiamo letto si trova nel ventunesimo capitolo del quarto Vangelo, un capitolo aggiunto posteriormente, come gli stessi esegeti cattolici ammettono, e che si trova dopo quella che era la conclusione naturale del Vangelo stesso nella sua stesura originaria. Molte volte il personaggio in questione è definito "il discepolo che Gesù amava" (Gv 13,21-23; Gv 19,25-27; Gv 20,1-8; Gv 21,6-7; Gv 21,20-23).

La definizione "che Gesù amava" ricorre, come abbiamo visto, ben cinque volte e sembra sufficiente, nelle intenzioni del redattore, a caratterizzare il personaggio. Ora, chi è che Gesù amava, secondo quanto possiamo dedurre dalla lettura del Vangelo, se non colui per riconoscere il quale basta dire "ecco, colui che ami è ammalato", senza neanche ricorrere al nome proprio, cioè Lazzaro di Betania? Ci sono altre occasioni in cui vengono date precise indicazioni sulla predilezione di Gesù per Lazzaro:

"Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro" (Gv 11,5); "Così parlò e poi soggiunse loro: "Lazzaro, il mio diletto, s'è addormentato..." (11,11); "Dissero allora i Giudei: "Vedi come lo amava!"" (11,36).

Perché, dunque, le traduzioni moderne preferiscono l'espressione "il tuo amico", al più corretto "colui che ami"? Per un motivo che ormai ci è chiaro: per impedire la corretta identificazione del personaggio anonimo, quel Lazzaro che, insieme ai suoi familiari, nasconde indesiderabili aspetti dell'identità e dell'attività di suo cognato, il Cristo. Lazzaro, pertanto, era il discepolo prediletto, il discepolo che il Maestro amava in modo particolare insieme alle sue sorelle Maria e Tamara/Marta. Cos'è successo allora, in realtà, nella misteriosa occasione nota come il miracolo della resurrezione di Lazzaro? Per la dottrina cattolica la domanda non si pone nemmeno: Gesù ha semplicemente fatto ricorso alla sua facoltà di compiere miracoli. Mosso a compassione dal dolore dei familiari di Lazzaro, che era appena deceduto in circostanze non chiarite, ha esibito in pubblico il suo infinito potere richiamando in vita il morto. Così infatti appaiono gli eventi da una lettura superficiale del brano. Non tutti, però, sono disposti a interpretare in tal senso quelle righe cariche di mistero, specialmente quei pochi che non ignorano l'esistenza di certe pratiche, comuni presso le confraternite religiose e i circoli iniziatici dell'antico Egitto, della Grecia, della Palestina dei tempi di Gesù, della Siria, della Mesopotamia, della Persia e, addirittura, dell'India moderna, dove l'antica sapienza mistica trova ancora qualche seppur raro rappresentante. Costoro, infatti, conoscono i riti iniziatici che la Chiesa romana, nemica a oltranza di ogni forma di gnosticismo e di misticismo non-ortodosso, ha sempre combattuto. Ai tempi in cui è ambientato il racconto evangelico, e anche molto prima, erano diffusi in tutta l'area mediterranea, e nel vicino Oriente, movimenti e circoli religiosi in cui veniva praticata la forma più alta di iniziazione mistica: la discesa temporanea nella morte. Parlare di ciò, oggi, in piena era tecnologica e scientifica, può facilmente far credere che si stia sconfinando nella magia, col rischio d'esser presi per visionari o d'essere inclusi nella folta schiera degli amanti dell'occultismo. In realtà stiamo solo affrontando un argomento che potremmo considerare oggetto d'interesse per l'antropologia religiosa o la storia dei riti e delle credenze mistiche: questioni che studiosi come Mircea Eliade o James G. Frazer hanno affrontato spesso nei loro lavori, contribuendo a fornirci gli strumenti per una migliore conoscenza di queste forme di spiritualità, comuni nel mondo antico, che la Chiesa cattolica ha invece rimosso nella sua sistematica repressione di ogni cultura religiosa eterodossa. Un tipico rito egiziano consisteva nel porre l'adepto in una sorta di sarcofago sotterraneo, quel genere di luogo in cui venivano solitamente tumulati i defunti, per poi farlo cadere, tramite un procedimento simile all'ipnosi, in uno stato di trance profonda. L'adepto restava così sepolto per la durata di tre giorni, periodo nel quale si credeva che la sua anima compisse un viaggio agli inferi, il regno dei morti, da cui avrebbe fatto ritorno totalmente rinnovata. Infatti allo scadere del tempo stabilito, il corpo dell'aspirante veniva estratto, riscaldato ai raggi del sole e rianimato: non era più un comune mortale come gli altri, adesso era un iniziato. Nell'area greca qualcosa di molto simile era comune ai praticanti dei riti eleusini, nonché delle iniziazioni orfiche e dionisiache. In tutt'altra area, invece, cioè nell'India brahmanica, gli adepti dello Yoga indù e di quello buddista hanno sempre praticato un rito davvero sorprendente che non finisce di stupire, ancora oggi, medici e scienziati: il Kechari Mudra. Il mistico è in grado di ridurre le funzioni metaboliche al minimo indispensabile per garantire la pura sopravvivenza cellulare; così, sprofondato in un vero e proprio stato di catalessi volontaria, si lascia seppellire per periodi che possono variare dai pochi giorni alle numerose settimane, per poi ritornare alla coscienza e alla vita normale, quasi come un autentico "risuscitato". Una eco di concezioni religiose di tal genere la troviamo nella letteratura omerica, laddove Ulisse, che ha superato le prove iniziatiche e non si è rivelato un "suino", come i suoi compagni, viene istruito dalla maga Circe sul modo di scendere agli inferi e di poter, in seguito, fare ritorno nel mondo dei vivi. Ma la troviamo anche in quel tipo di letteratura cristiana che, come la Divina Commedia di Dante, è pregna di un complesso simbolismo mistico per la cui comprensione non abbiamo in genere la preparazione necessaria: il poeta dei poeti, infatti, come gli iniziati del mondo antico, varca da vivo la soglia dell'inferno, nonostante le vibrate proteste del guardiano, per poi tornare, alla fine del suo viaggio, fra i viventi. È quindi solo l'ignoranza di questa tradizione di spiritualità e misticismo, presente invece in tutta la storia passata della nostra cultura, che ci impedisce di aprire gli occhi sul brano evangelico della resurrezione di Lazzaro, per leggervi ciò che in esso è descritto: un rito iniziatico comune presso alcune confraternite dell'area mediorientale - in questo caso di ebrei dissidenti rispetto alla casta dei sacerdoti del Tempio di Gerusalemme - che, come gli esseni del deserto di Giuda o i terapeuti d'Egitto, ricorrevano a pratiche mistiche e conoscevano il potere spirituale della "discesa nella morte". Lazzaro, il discepolo prediletto, potrebbe essere stato il beneficiario di questa alta forma di iniziazione. Le modalità del "miracolo" e altri indizi ci spingono a ricercare in tale direzione. Di più non ci è possibile aggiungere.


b) I miracoli di resurrezione nei Vangeli

Leggendo i racconti dei miracoli di resurrezione, operati da Gesù, presenti nei tre Vangeli sinottici (Mc 5,21-4, 35-43; Mt 9,18-19,23-6; Lc 8,41-2, 49-56; Lc 7,11-17), la cosa più importante da notare è, come già sappiamo, l'assenza della resurrezione di Lazzaro. Il fatto può essere spiegato in vari modi: si potrebbe supporre, per esempio, che gli evangelisti hanno testimoniato solo alcuni fra i miracoli operati da Gesù e che, per questo motivo, gli stessi episodi non compaiono in tutti i Vangeli. Risulta però strana l'unanimità con cui tutti e tre i sinottici avrebbero deciso di dimenticare la resurrezione di Lazzaro, per prediligere, sempre tutti e tre, la resurrezione della figlia di Giairo, che invece Giovanni ha dimenticato. Sarebbe una spiegazione troppo semplice. Sappiamo, infatti, che i tre sinottici non hanno semplicemente dimenticato la resurrezione di Lazzaro, ma hanno letteralmente tagliato dal racconto evangelico tutta la famiglia di Betania, gli eventi che la riguardano e, probabilmente, ne hanno contraffatto i componenti quando non era possibile eliminarli. In questo modo arriviamo all'inevitabile conclusione che la resurrezione della figlia di Giairo occupa, nella tradizione sinottica, un ruolo corrispondente a quello che la resurrezione di Lazzaro svolge nello scritto giovanneo. I Vangeli di Marco e Matteo non conoscono altra resurrezione operata da Gesù; solo quello di Luca, sempre abbondante, parla di un'altra resurrezione, quella del figlio della vedova di Nain. Perché l'autore del Vangelo di Marco, il primo fra i sinottici, scelse la figlia di Giairo e dimenticò Lazzaro? La spiegazione, forse, riposa in un'interpretazione diversa: probabilmente l'autore non ha affatto dimenticato l'episodio di Betania, così come non ha dimenticato la celebre unzione; in entrambi i casi, resurrezione e unzione, ha riportato gli episodi ma ha alterato le identità dei personaggi. Non avevamo forse già detto che Marco aveva qualche ben precisa ragione per presentare Maria, la sorella di Lazzaro, semplicemente come una donna senza nome? Adesso, nell'episodio della resurrezione, è interessante notare che anche questa fanciulla non ha nome, è semplicemente "la figlia di Giairo", nient'altro. Naturalmente Lazzaro non era una fanciulla, ma se non fosse per questo dovremmo riconoscere che i due episodi presentano notevoli somiglianze strutturali. Quello di Marco potrebbe essere stato ottenuto alterando quello di Giovanni, un'operazione che non si sarebbe potuto realizzare a partire dalla resurrezione del figlio della vedova di Nain. In questo caso, infatti, abbiamo una struttura completamente diversa che non consente, operando dei semplici ritocchi, di ottenere l'uno dall'altro. L'ipotesi cui voglio dare corpo è dunque la seguente: coerentemente con l'intento di censurare sempre la famiglia di Betania, l'autore del più primitivo fra i Vangeli sinottici - quello secondo Marco - così come aveva riportato l'episodio della unzione di Betania con personaggi dalle identità censurate, avrebbe riportato anche l'altro clamoroso episodio di Betania, e cioè la resurrezione di Lazzaro, con personaggi e circostanze contraffatte: il ruolo di Lazzaro sarebbe stato coperto dalla giovinetta chiamata "figlia di Giairo". Sia ben chiaro un fatto, la contraffazione, prima ancora che i personaggi, riguarda il senso generale dell'episodio stesso, in quanto i Vangeli tutti, per come li possiamo leggere oggi, si guardano bene dal parlare di un rito di iniziazione, ma presentano il fatto come un prodigio operato da Gesù, in virtù dei suoi poteri sovrannaturali.


c) Eleazar ben Jair

Esistono altrove collegamenti che possono confortare la nostra ipotesi? La letteratura del primo secolo testimonia l'esistenza di un certo Eleazar, il quale si rese famoso per essere stato alla guida di quegli intrepidi esseno-zeloti che, asserragliatisi nella fortezza di Masada, tennero testa alle legioni imperiali per quasi due anni dopo la distruzione di Gerusalemme e la fine della guerra con i romani. Ce ne parla Giuseppe Flavio, nella sua Guerra giudaica, soffermandosi in ampi dettagli sia sugli avvenimenti, sia sul personaggio di Eleazar. Così il personaggio è presentato dallo storico ebreo:

"...Masada è il nome di questa fortezza. A capo dei sicari che l'avevano occupata c'era Eleazar, un uomo potente, discendente di quel Giuda che, come sopra abbiamo detto, aveva persuaso non pochi giudei a sottrarsi al censimento fatto a suo tempo da Quirinio nella Giudea" (VII, 8,235).

Per comprendere meglio i fatti in questione, sarà bene ricordare che nell'agosto dell'anno 70 d.C. Tito, figlio dell'imperatore Vespasiano, mosse guerra a Gerusalemme e, dopo lungo ed estenuante assedio, mise la città a ferro e fuoco, profanando le aree sacre del Tempio e dandolo alle fiamme: portava così a termine la guerra sanguinosa che i più accaniti sostenitori dell'indipendenza di Israele avevano voluto intraprendere contro i romani. Ancora oggi può essere osservato a Roma, in tutta la sua imponenza, l'arco di Tito, i cui bassorilievi ricordano il saccheggio del Tempio e la sfilata trionfale delle truppe reduci dalla Palestina. Qualche tempo prima era accaduto che Menahem, l'ultimo figlio di Giuda il Galileo - che, secondo le nostre ipotesi, sarebbe stato il fratello più giovane dell'aspirante liberatore di Israele che Pilato aveva fatto crocifiggere - era entrato nella fortezza di Masada, aveva saccheggiato l'arsenale di Erode, aveva armato numerosi uomini ed era riuscito a entrare in Gerusalemme, dove aveva preso il potere, dichiarandosi Messia dei Giudei. Fu l'unico che riuscì a coronare, seppure per breve tempo, il sogno comune a tutti i componenti della famiglia di Giuda: sostituirsi all'odiata famiglia erodiana sul trono di Israele, in virtù del proprio vantato diritto, in quanto presunti discendenti di Davide. Si trattò, come prevedibile, di una breve gloria; altre fazioni che non condividevano le idee dei seguaci di Menahem si sollevarono contro di lui,

"ritenendo che, levatolo di mezzo, sarebbe interamente cessata la rivolta; gli uomini di Menahem fecero per un po' resistenza, ma quando videro che tutta la folla era contro di loro, fuggirono dove ognuno poté, e allora seguì una strage di quelli che venivano presi e una caccia a quelli che si nascondevano. Pochi trovarono scampo rifugiandosi nascostamente a Masada, e fra questi Eleazar figlio di Giairo, legato a Menahem da vincoli di parentela, che in seguito fu capo della resistenza a Masada. Quanto a Menahem, che era scappato nel quartiere detto Ofel e vi si era vigliaccamente nascosto, fu preso, tirato fuori e dopo molti supplizi ucciso" (II, 17,445-8).

Stando alle ampie descrizioni di Giuseppe Flavio, Eleazar sarebbe stato anche depositario di insegnamenti iniziatici di tipo esoterico-orientale, non comuni all'ortodossia ebraica, ma tipici piuttosto delle comunità mistiche del tipo degli esseni. Tutto ciò può essere confermato da alcuni brani della Guerra giudaica (VII, 8,320-88) che non riportiamo, per ragioni di spazio, ma che sarà utile riassumere. Quando Eleazar si rese conto, dopo lunghi mesi di assedio della fortezza di Masada da parte dei romani, che un'ulteriore resistenza sarebbe stata inutile, pronunciò davanti ai suoi seguaci, rinchiusi come lui nella roccaforte, un drammatico discorso. Li volle convincere che non c'era altra soluzione che il suicidio di massa. I romani, sosteneva Eleazar, avrebbero compiuto orribili massacri, sottoponendo alla tortura gli uomini e alle più penose umiliazioni le donne; avrebbero deportato i pochi sopravissuti, i quali avrebbero proseguito la loro esistenza in schiavitù, senza mai più rivedere né la patria né i propri cari. Una rapida morte, senza ombra di dubbio, sarebbe stato il meno peggiore dei destini. Per aiutare i presenti ad accettare la tragica realtà parlò della morte, della trasmigrazione dell'anima, portò come esempio la fede serena con cui gli indiani accettano la liberazione dello spirito dal suo vincolo materiale; insomma, impartì una vera e propria lezione di esoterismo, rivelando, non solo il possesso di concezioni che non erano certo usuali nella religione di Israele, ma anche una dettagliata conoscenza degli usi e dei costumi religiosi degli indiani, mostrando così l'esistenza di legami alquanto concreti fra i circoli mistici degli ebrei e gli ambienti indo-buddisti. Ecco dunque la serie delle coincidenze interessanti che ci sembra di aver individuato. Il Lazzaro (o Eleazar) in questione sarebbe stato:

1. un componente di rilievo della setta esseno-zelota fondata a suo tempo da Giuda il Galileo,
2. legato a Menahem da vincoli di parentela,
3. figlio di un certo Giairo,
4. depositario di singolari insegnamenti iniziatici.

Il Lazzaro dei Vangeli, come tutta la sua famiglia, è una figura pesantemente censurata proprio perché personaggio importante,

1. sicuramente coinvolto nella lotta zelota,
2. cognato dell'aspirante Messia di Israele e quindi cognato anche di Menahem,
3. presentato dalla tradizione sinottica sotto spoglie contraffatte, come "figlia di Giairo",
4. destinatario di un'alta forma di iniziazione impartitagli dal Cristo.

Vi sono elementi a sufficienza, quindi, se non per dimostrare, almeno per suggerire l'ipotesi che Lazzaro di Betania fosse lo stesso Eleazar ben Jair di cui parla Giuseppe Flavio.
25/07/2008 20:05


"La Bibbia. Genesi e gli altri libri del Pentateuco" vol. I - Oscar Mondadori 2000



Il testo base dell'ebraismo


"L'illuminazione che i miei amici giapponesi trovano nella luce di Buddha, l'unione della quale i miei amici cristiani sono alla ricerca sulla croce di Cristo, noi la incontriamo sin dalla nascita nella Torah di Mosheh, quasi senza aver bisogno di cercarla, per connaturalità in qualche modo genetica. La tradizione insegna che ogni figlio d'Israele, prima di nascere, conosce tutta la Torah, da Ber'eshit, "In testa", all'ultima parola della Rivelazione profetica. Sa anche, e a memoria, i misteri connessi alle parole e alle lettere della Bibbia. Alla sua nascita un angelo, con una pressione sulla fossetta del mento, fa dimenticare tutto al neonato, per dargli la gioia e il merito, durante la sua vita, di riscoprirne la sinfonia. Come ogni figlio d'Israele, avevo scoperto nella Bibbia la storia del mio popolo e quella dell'umanità, nel cammino verso la liberazione, l'unità, la salvezza". Queste parole, che André Chouraqui, uomo in dialogo sulle frontiere delle grandi religioni storiche, colloca in principio al suo Mosè (Marietti, 1996), fanno intravedere la relazione vitale che la tradizione ebraica ha voluto da sempre instaurare con i primi cinque libri delle Scritture, denominati con una parola collocata tra le prime del libro: In principio, Nomi, E chiamò, Nel deserto, Parole (rispettivamente per Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio). Con il termine Torah, la lettura ebraica non vuole anzitutto indicare la "Legge" o i "libri della Legge", quanto piuttosto l'insegnamento di Jhwh e del suo profeta Mosè al popolo: più che l'ambito giuridico vi è quello pedagogico, più che un giudice ritroviamo un maestro legislatore con il suo "insegnamento". La Torah è la Parola di Jhwh che illumina la via e indica il cammino. La traduzione con il termine "legge", che deriva dal greco e dal latino, si espone, nella nostra mentalità giuridica, al rischio di non rendere sufficiente ragione della natura intrinseca di questi scritti, natura che esclude ogni legalismo fine a se stesso: la parola infatti diventa indicazione e comando solo in quanto prima è uscita dalla bocca del maestro. Sebbene la Torah sia composta da cinque libri, va letta, ascoltata e interpretata come unità di messaggio. Non è un caso che i cinque libri della Torah siano sempre tutti contenuti in un unico rotolo di pergamena nella lettura sinagogale.


Dalla Torah al Pentateuco, un passaggio di tradizioni

Con i primi secoli della nostra era viene coniata una nuova terminologia, Pentateuco, vale a dire "il libro in cinque volumi". Si tratta di una modalità espressiva che si impone progressivamente grazie alla tradizione cristiana. Per i primi cinque libri sacri si hanno quindi due nomi differenti, Torah e Pentateuco, che, se apparentemente identici in quanto riferentisi alla stessa realtà, restano il prodotto di due comprensioni distinte: i due differenti modi di denominare la medesima realtà lasciano intendere due differenti prospettive. L'approccio ebraico sottolinea l'unitarietà del testo, come emerge dalla stessa lettura sinagogale quando ogni sabato, nel servizio liturgico, si svolge l'intero rotolo, da In principio a Parole. La prospettiva cristiana, invece, privilegia la pluralità e la molteplicità di utilizzo dei testi, selezionando sezioni particolari e tralasciandone altre. Questa pratica, documentata anzitutto nella liturgia e nei commentari biblici antichi, si fonda essenzialmente sull'intenzionalità di porre le Scritture dell'Antica Alleanza al servizio della comprensione di Gesù di Nazaret, come emerge ampiamente dal Nuovo Testamento che rispecchia la posizione critica assunta da Gesù, e in seguito dalla comunità apostolica, nei confronti della tradizionale lettura ebraica della Torah ("Vi fu detto.. ma io vi dico..."). Nascono così una lettura ebraica e una lettura cristiana della Bibbia, distinte dall'uso, dall'importanza e dall'interpretazione attribuita agli stessi testi. Tra le esemplificazioni che si possono ricordare, pensiamo al decisivo ruolo ricoperto in seno alla tradizione cristiana dalle "dieci parole", cioè i "dieci comandamenti", accanto allabbandono delle numerosissime indicazioni delle ampie sezioni legali della Torah.


La problematica dell'autore e delle fonti letterarie

La storia delle origini che è narrata nei primi undici capitoli e complessivamente l'intero libro della Genesi hanno contribuito in modo significativo a determinare lo scenario fondamentale delle discussioni e delle ipotesi sulla formazione della Torah/Pentateuco. Introdurre un libro è un'operazione sempre molto complessa: la Bibbia sembra aprirsi con due racconti tra loro distinti che, pur essendo entrambi interessati al tema della creazione, appaiono per molti aspetti inconciliabili (Genesi 1-3); il racconto del diluvio, inoltre, documenta un'intersezione tra due narrazioni precedenti della stessa vicenda (Genesi 6-9); infine, la storia di Giuseppe (Genesi 37-50) potrebbe essere estrapolata dal contesto narrativo del libro della Genesi come unità letteraria a sé stante, per le evidenti differenze stilistiche. La critica letteraria applicata alla Bibbia, prendendo le mosse da queste e altre osservazioni, ha posto le basi per la contestazione dell'immagine tradizionale dell'autore e del testo sacro. Infatti, dalla fede della tradizione ebraica nella paternità divina di questi testi (Dio sarebbe l'autore della Torah) e dalla credenza della tradizione cristiana nella paternità mosaica (sarebbe quindi Mosè l'autore del Pentateuco) si passa, con l'epoca moderna, alla demolizione di tali postulati, per secoli ritenuti fondativi della tradizione credente. In sintesi, dalla spinosa questione dell'autore emerge contemporaneamente la problematica dell'unitarietà dell'opera stessa: se non vi è più un solo autore, allora neppure l'opera è da considerarsi unitaria, bensì un prodotto di "cucitura" di materiale letterario precedentemente elaborato in diversi contesti liturgici e culturali lungo la storia di Israele. Con l'ingresso della critica letteraria e storica, i testi della Torah/Pentateuco vengono emancipati dal loro contesto esclusivamente confessionale, ebraico o cristiano che fosse. Nel XVII secolo Baruq Spinoza (1632-1677) e Richard Simon (1638-1712) contribuiscono in modo decisivo all'elaborazione di un approccio storico-critico alla Bibbia. Su questa linea gli studi delle forme letterarie, delle stratificazioni testuali e del contesto storico producono una radicale contestazione dei postulati elaborati dalla teologia e posti a fondamento della propria tradizione religiosa, vale a dire l'unitarietà del testo della Torah e la figura storica del suo autore, che vengono giudicati pregiudizi ingiustificati e frutto di irrazionalità. A partire da allora la questione della Torah/Pentateuco si sviluppa in una sempre più radicale incomunicabilità tra la lettura biblica della tradizione credente (che vive delle due dimensioni essenziali della canonicità e dell'ispirazione del testo biblico) e la lettura razionalistica. Anche la Bibbia dà il suo non piccolo contributo al divario tra fede e ragione già inaugurato in altri campi del sapere. Da queste premesse muove la cosiddetta "ipotesi documentaria", secondo la quale le differenze di posizioni teologiche e delle denominazioni del divino, le incoerenze testuali, i doppioni e le ripetizioni testimoniano una stratificazione letteraria molto complessa. L'ipotesi nasce precisamente dall'osservazione delle diverse denominazioni di Dio nei racconti della creazione, al principio della Bibbia. Con il contributo di Henning Bernhard Witter (1711) e successivamente di Jean Astruc (1753), l'idea secondo la quale all'origine della formazione della Torah/Pentateuco vi fosse una pluralità di fonti e documenti si afferma sempre più, fino a giungere alla sua definizione classica attra verso l'opera di Julius Wellhausen (1883; 1889; 1894). Quasi come in uno scavo archeologico, i testi della Torah/Pentateuco vengono progressivamente catalogati e distinti in documenti originari: innanzitutto lo Jahvista, con la sigla "J" a motivo dell'uso del nome Jhwh, rappresentante di una tradizione teologica dei secoli X e IX a.C., del sud, nel regno di Giuda; poi lo Elohista, con la sigla "E" a motivo dell'uso del nome 'Elohim, del nord, nel regno di Samaria del IX o VIII secolo a.C. Accanto a queste due elaborazioni vengono individuate altre due scuole, quella del Deuteronomista, con la sigla "D", e la Sacerdotale, con la sigla "P" (da Priesterschrift, termine tedesco per "documento sacerdotale"). Alla scuola deuteronomistica risale l'ideologia storiografica delle grandi narrazioni della conquista della terra e delle vicende monarchiche del sud e del nord, introdotta dalla prospettiva teologica del Deuteronomio e collocabile storicamente nei secoli VII e VI a.C., mentre alla scuola Sacerdotale vengono attribuite le sezioni teologiche e giuridiche che richiamano l'ambiente del Tempio e della liturgia nel contesto dei secoli VI e V a.C., al ritorno dall'esilio. Luoghi di formazione e ideologie distinte avrebbero così contribuito alla genesi di materiali testuali in parte comuni e in parte propri. Da queste premesse deriva la collocazione cronologica del materiale letterario della Torah/Pentateuco: l'ultimo stadio, di tradizione Sacerdotale, andrebbe collocato nell'epoca postesilica, attorno al V sec. a.C. Questa visione, pur con non piccole varianti quanto a problemi di datazione, di forma e di teologia, continua ancor oggi a essere maggioritaria presso gli studiosi.


L'approccio unitario alla Torah/Pentateuco

Al posto di un'archeologia del testo e dell'analisi delle sue stratificazioni, le tradizioni ebraica e cristiana hanno da sempre alimentato una lettura finalizzata a difendere l'unità tra le pagine dell'intero libro biblico così come si presenta nella sua forma finale e canonica. Solo la qualità e la pretesa divina di questa Parola hanno potuto legittimare una visione che fonde in unità una molteplicità di linguaggi, concezioni culturali, tempi e luoghi di formazione. La qualità canonica, in questo senso, si erge in difesa di una lettura sostanzialmente unitaria di tutto il testo biblico: la Bibbia si legge e si capisce anzitutto con la Bibbia stessa. Tale principio, ritenuto da alcuni fondamentalista e incapace di accogliere i risultati della critica e della ragione, ha in realtà aperto spazi nuovi di comprensione che hanno permesso di apprezzare dimensioni estetiche, teologiche e retoriche che con un accostamento ai testi puramente storico e contestuale sarebbero rimaste in ombra. Ciò che vantava qualità di prova decisiva per l'esistenza di tradizioni distinte - cioè i doppioni, le contraddizioni, le differenze di prospettiva - diventa ora occasione per approfondire dimensioni nuove di senso nell'accostare testi apparentemente inconciliabili. Così, i due racconti della creazione presenti nel libro della Genesi (il primo: 1,1-2,4a della scuola Sacerdotale; il secondo: 2,4b-3,24 della scuola Jahvista) oppure i due racconti intrecciati del diluvio in Genesi 6-9, rispettivamente di "J" e di "P", invece di essere studiati indipendentemente quali doppioni e fonti di due teologie e di due tradizione distinte, divengono insieme testimoni di una nuova forma teologica che il testo stesso inaugura assumendo parti e sezioni da documenti precedenti. Ben si comprende quanto il messaggio finale di questi testi non sia rappresentato dalla somma dei significati tratti dalle fonti originarie, bensì dalla sintesi prodotta dalla redazione ultima: quel che apparentemente si mostra nella sua incoerenza diviene luogo fondamentale per pensare di più e pensare meglio.


Mosè e la Torah

La Torah/Pentateuco, che si chiude con la conclusione del Deuteronomio, è distinta dalle altre sezioni della Bibbia fondamentalmente a motivo della centralità della figura di Mosè: il popolo d'Israele ha riconosciuto in lui un profeta unico, l'uomo di Dio, colui che ne ha raccolto la testimonianza e l'ha trasmessa. Sebbene Mosè emerga solo a partire dal secondo libro della Torah, l'Esodo, la tradizione ha voluto affidare a lui la completa paternità testuale, da Genesi a Deuteronomio, quasi a sottolineare quanto la comprensione profonda degli eventi originari e delle vicende dei patriarchi sia comunicabile solo e unicamente attraverso le chiavi di lettura fornite dalle parole che Jhwh dona, nell'esperienza del monte santo, al suo servo Mosè. Anche se la storia continua oltre Mosè con Giosuè, i Giudici e i Re, il senso delle vicende storiche va sempre rintracciato, nei suoi significati fondativi, nelle parole della Torah. Il tempo della liberazione, del cammino e delle prove nel deserto nell'attesa del compimento delle promesse resta per tutte le pagine della Bibbia, dalla storia alla profezia, dalla preghiera alla sapienza, un paradigma fondamentale di riferimento teologico. Per questo motivo la Torah ha svolto nella tradizione ebraica un ruolo analogo a quello rappresentato dai vangeli nella tradizione cristiana.


I nomi divini nel testo ebraico e la loro traduzione nella lingua italiana

Il passaggio da un codice linguistico a un altro richiede operazioni lessicali e semantiche molto complesse, entro le quali non tutto trova risposta adeguata; ecco la necessità di presentare alcuni criteri guida per intendere il senso delle scelte redazionali in relazione a una problematica specifica e di radicale importanza: i nomi divini. Per il Nuovo Testamento e per le sezioni greche dell'Antico Testamento il problema non si pone grazie alla facile corrispondenza tra i termini greci e il loro significato nella nostra lingua; i testi biblici in originale ebraico, invece, presentano difficoltà di traduzione a causa del nome proprio del Dio di Israele presentato attraverso il cosiddetto tetragramma consonantico, Jhwh, le cui vocali per la pronuncia originaria non sono documentabili con certezza. Infatti, l'operazione ebraico-masoretica nell'indicare i segni vocalici al testo consonantico ha voluto tutelare la natura ineffabile del nome divino Jhwh, sostituendolo nella lettura con varie dizioni tra le quali 'Adonay (il Signore), Memra (la Parola) oppure Ha-shem (il Nome). Le stesse versioni antiche, greca, siriaca e latina, traducono prevalentemente il tetragramma con "il Signore" e solo raramente troviamo riprodotto o traslitterato il tetragramma sacro. Le scelte qui presentate si fondano sulla distinzione tra denominazioni "proprie" e "comuni" documentate dal lessico ebraico per esprimere la realtà del divino. A partire da questo criterio, le terminologie specifiche del testo biblico per i nomi propri di Dio appariranno nella versione italiana in traslitterazione semplificata, mentre le denominazioni comuni saranno tradotte nel corrispettivo semantico della nostra lingua. 'El, 'Eloah ed 'Elohim, ogniqualvolta si riferiscono al Dio d'Israele, verranno resi in traduzione unicamente con "Dio". Eccezionalmente, in casi isolati, 'El verrà considerato nome proprio (Genesi 33,20; 46,3; Numeri 16,22). Inoltre, la scelta dell'iniziale maiuscola rappresenta il passaggio da una semplice indicazione generica di dio (nome comune) a una precisa identificazione con il Dio d'Israele. Baal, usato raramente per il Dio d'Israele, è invece molto popolare tra le divinità cananaiche. Quando verrà riferito in qualità di titolo al Dio d'Israele verrà reso nella nostra traduzione con "Padrone" o "Marito". Melek, usato sovente per esprimere la regalità del Dio d'Israele, verrà tradotto con l'espressione "Re". 'Adonay è un titolo rivolto al Dio d'Israele e sostitutivo nella pronuncia dello stesso tetragramma. La traduzione viene resa con "Signore" o "il Signore". Nella storia dei patriarchi si incontrano sovente designazioni divine composte con il nome 'El: 'El-'Olam (Genesi 21,33; "Dio dell'eternità"); 'El-Ro'i (Genesi 16,13; "Dio che mi vede"); 'El-Betel (Genesi 31,13; 35,7; "Dio di Betel"); 'El-Berit (Giudici 9,46; "Dio del Patto"); 'El-'Elion (Genesi 14,18.19.20.22; Salmo 78,35; "Dio l'Altissimo"); particolare rilevanza è ricoperta da 'El-Shaddai o semplicemente Shaddai presente con 48 ricorrenze nel testo ebraico; secondo alcune tradizioni bibliche questo è il nome con cui i patriarchi invocavano Dio prima della rivelazione del nome a Mosè (Esodo 3,7-15 e 6,2ss.). Queste denominazioni divine verranno indicate nel testo in traslitterazione, offrendo in apertura di sezione una breve informazione per il lettore. Jhwh è per eccellenza il nome proprio del Dio d'Israele. La scelta di presentare il tetragramma nel testo della traduzione ha l'esplicita finalità di aiutare il lettore nel distinguere immediatamente la presenza o l'assenza del nome divino. Infatti, mentre i derivati di 'El riportati per esteso nella traduzione sono complessivamente poco attestati, il tetragramma sacro ricorre 6828 volte nel testo ebraico, cifra superiore alla somma di tutti gli altri.
25/07/2008 20:08


"La Bibbia. La Storia del Regno. Dalla conquista della terra promessa alle guerre dei Maccabei" vol. II - Oscar Mondadori 2000



Da Giosuè all'esilio babilonese


Una storia di profeti e di re: così si potrebbe sintetizzare il vasto arco narrativo che dal libro di Giosuè conduce sino al Secondo libro dei Re. Ci troviamo di fronte a sei libri, Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Re, che racchiudono un arco di tempo molto vasto: dall'ingresso nella terra promessa (da collocarsi forse intorno al XII secolo a.C.) fino all'esilio babilonese, avvenuto nel 586 a.C. Queste opere rappresentano senz'altro il primo tentativo compiuto da Israele di dare un senso alla propria storia. Da un punto di vista letterario, questi sei libri hanno un'origine comune che, a grandi linee, può essere così sintetizzata: intorno all'VIII secolo a.C. si sviluppa, nel Regno del Nord, una corrente di rinnovamento religioso legata a importanti figure profetiche (Elia, Eliseo, Amos e Osea), corrente che produce un codice di leggi la cui autorità viene direttamente legata alla figura di Mosè; è la radice di quello che sarà il cuore del libro del Deuteronomio (capitoli 12-26). Intorno a questa legislazione si sviluppa una tradizione che, durante il regno di Ezechia (VII secolo), trova i suoi punti di riferimento intorno al tema dell'unicità di Jhwh, il Dio d'Israele, all'idea del patto (alleanza) che egli ha stipulato con il suo popolo, all'amore che Israele deve a questo suo Dio. Tale tradizione sarà la base della grande riforma religiosa iniziata sotto il regno di Giosia, intorno al 622 a.C., che insiste proprio sull'unicità del Dio dIsraele e sulla centralizzazione del culto nell'unico tempio di Gerusalemme. Uno dei frutti più evidenti della riforma attuata da Giosia è proprio la nascita di una serie di testi che, col libro del Deuteronomio, comprende i sei libri sopra elencati. Gli studiosi hanno coniato, al riguardo, il termine di "storia deuteronomistica". Alla base di questi sei libri (più il Deuteronomio) vi è un autentico lavoro di ricerca storiografica; gli autori di questi testi si sono serviti di materiali già esistenti, come per esempio le narrazioni popolari su personaggi famosi (Sansone, Gedeone, Samuele) o, più spesso, gli annali ufficiali della corte israelita, ai quali non di rado il lettore viene rinviato. Le discussioni relative all'origine di questi sei libri sono lontane dall'essere terminate; si può ancora aggiungere, tuttavia, che questi testi hanno certamente subito un'ampia revisione all'epoca dell'esilio, alla luce di quella catastrofe nazionale che ha segnato la vita d'Israele. Il libro di Giosuè, per esempio, descrive la conquista della terra di Canaan con un tono entusiastico e ottimista; il libro dei Giudici, al contrario, mette in risalto il peccato d'Israele che diviene un grave ostacolo nel cammino per il possesso della terra. Se il libro di Giosuè appartiene perlopiù alla prima fase della storia deuteronomistica, quella del re Giosia, il libro dei Giudici va visto più probabilmente come il prodotto della triste esperienza dell'esilio. Allo stesso modo, nel Primo libro di Samuele la monarchia è giudicata favorevolmente nei passi di epoca giosiana mentre, nei testi di epoca esilica, il giudizio sull'istituzione regale appare senz'altro molto critico. Dietro questi sei libri vi è così un vasto processo letterario, diluito in un arco di tempo abbastanza vasto. Il lettore cristiano conosce senz'altro molte storie narrate in questi testi: la storia della presa di Gerico, nel libro di Giosuè, e, in quello dei Giudici, la storia di Sansone. Molti ricorderanno la chiamata del giovane Samuele, la lotta tra Davide e Golia al tempo del re Saul, la storia del peccato di Davide con Betsabea, la saggezza di Salomone, le narrazioni relative ai profeti Elia ed Eliseo. Occorre subito osservare come le molte storie narrate in questi libri non debbano essere considerate alla stregua di ingenue novelle scritte per lontani lettori un po' creduloni. I narratori antichi erano molto abili e per nulla superficiali; lo scopo dei loro racconti è, prima di tutto, quello di coinvolgere i lettori, o, per essere più esatti, gli ascoltatori, dato che i testi venivano sempre letti ad alta voce. La lunga storia della rivolta di Assalonne, che si apre con la narrazione del peccato di Davide (2 Samuele 11-20), vuole stimolare l'ascoltatore a calarsi nei personaggi e a far suoi i fatti narrati; la storia di Davide diviene così la nostra storia: questo è vero, del resto, per ogni autentica opera letteraria. Da tale punto di vista, anche il non credente potrà continuare a leggere con frutto questi racconti, scoprendovi la presenza di un'umanità non di rado corrotta e violenta, ma sempre molto vera. Il lettore attento non mancherà di dedicare del tempo allo studio delle tecniche, spesso non difficili da individuare, di cui si servono i narratori biblici, e imparerà a gustarne i prodotti. La tradizione ebraica, tuttavia, ci invita a compiere un passo ulteriore: quelli che per i cristiani sono libri "storici", per Israele sono piuttosto testi "profetici", i "profeti anteriori" per usare la terminologia ebraica. In questi sei libri, infatti, la storia che ci viene narrata è filtrata attraverso una chiara prospettiva religiosa, o, per usare un termine più tecnico anche se meno ebraico, una prospettiva "teologica". Prendiamo due esempi, il primo dei quali è senz'altro celebre: la presa di Gerico. La distruzione della città, cosi com'è descritta nel capitolo 6 del libro di Giosuè, è difficilmente difendibile sul piano storico; i recenti studi archeologici tendono a negare quasi del tutto la veridicità storica di un tale episodio. Una lettura attenta del testo ci rivela piuttosto come la conquista della città sia descritta in Giosuè su modello di una vera celebrazione liturgica; il narratore non vuole lasciarci tanto una descrizione di carattere cronachistico, per informarci meglio su ciò che allora sarebbe realmente accaduto; vuole piuttosto farci rivivere eventi ormai remoti e lontani nel tempo come se fossero realmente presenti oggi, nel momento in cui li leggiamo. Il testo di Giosuè 6 è piuttosto una "celebrazione" della conquista di Gerico, nella quale ogni lettore si sente nuovamente coinvolto. Un altro esempio può aiutarci a comprendere ancor meglio il taglio con cui questi sei libri sono stati scritti: nei due libri dei Re il narratore ci racconta, mettendola in parallelo, la storia dei re del Regno del Nord (o Regno d'Israele) e quella dei re del Sud (o Regno di Giuda). Alcuni di questi sovrani furono molto importanti sul piano storico, come il potente Omri o il ricco Geroboamo II, entrambi re del Nord. La narrazione biblica li liquida però in pochi versetti (si vedano 1 Re 16,23-28 e 2 Re 14,23-29) aggiungendo, per coloro che fossero curiosi, l'invito a leggere gli atti ufficiali del regno dove si raccontano tutte le altre gesta di questi re, testi che per noi, purtroppo, sono definitivamente perduti. Entrambi i re sono giudicati con molta severità, perché hanno disobbidito alla legge divina; al contrario, un re politicamente fallimentare quale fu Giosia ha l'onore di avere due interi capitoli a lui dedicati (2 Re 22-23), perché è considerato l'autore di una importante riforma religiosa. Il metro di giudizio utilizzato dal narratore non è perciò quello di uno storico imparziale, ma quello di un uomo di fede. La pietra di paragone con cui il comportamento dei re d'Israele e di Giuda è valutato in questi libri è la fede nel Dio d'Israele e la fedeltà alla sua legge e al suo tempio. Che cosa concludere, allora? La tradizione ebraica, nel descrivere questi libri come profetici, ha intuito che in essi non va cercata la storia che un lettore moderno vorrebbe trovarvi, quanto piuttosto la storia illuminata dalla fede nel Dio d'Israele. Ci troviamo davanti a una vera reinterpretazione teologica della storia, al tentativo di scoprire, nell'intreccio di fatti spesso crudeli e sanguinosi, il segno di una volontà divina che opera costantemente a favore dell'uomo e del suo popolo, Israele. Non è un caso che accanto alla storia di capi politici (Giosuè, i giudici, Davide e Salomone, i molti re d'Israele) la narrazione affianchi sistematicamente la storia di qualche profeta (Debora, Samuele, Natan, Elia, Eliseo). Il profeta, uomo di Dio, non è un veggente che prevede il futuro: è prima di tutto la coscienza critica del re; è l'uomo che il Signore ha mandato perché il popolo comprenda in che direzione Dio vuole che la storia cammini. I fatti narrati dal libro di Giosuè sino ai libri dei Re divengono la storia dell'incontro fra due libertà: la libertà di Dio, che guida la storia umana nella direzione da lui prescelta, e la libertà dell'uomo, spesso in conflitto con questo Dio così misterioso e così presente e che sceglie di percorrere strade molto spesso diverse. L'incontro e lo scontro fra queste due libertà trasforma così i racconti in una profonda riflessione su una storia sempre attuale, là dove s'incrociano l'infedeltà dell'uomo e la fedeltà del Dio d'Israele.


L'opera del cronista

Con i due libri delle Cronache e con i libri di Esdra e Neemia entriamo in un contesto del tutto diverso da quello della storia deuteronomistica. Per molto tempo si è parlato, a proposito di questi quattro libri, di "opera cronistica" ovvero di un gruppo di testi che avrebbero avuto la stessa origine e lo stesso autore. Oggi si pensa che l'autore (o gli autori) di 1-2 Cronache sia in realtà diverso da quello dei libri di Esdra e Neemia; ciò che questi quattro libri hanno in comune è, tuttavia, il medesimo ambiente storico e religioso nel quale hanno avuto la loro origine. Ci troviamo nel periodo persiano, probabilmente verso la fine del IV secolo a.C., poco prima dell'arrivo di Alessandro Magno (333 a.C.), che segnerà per il Vicino Oriente l'inizio di una nuova era. Israele è da tempo ridotto al solo territorio della Giudea, una regione minuscola stretta intorno a Gerusalemme, insignificante parte di una provincia del vastissimo impero persiano. Gli israeliti, tornati dall'esilio babilonese, non hanno più riacquistato la propria indipendenza e restano sudditi dei persiani; rimangono loro soltanto il tempio di Gerusalemme, cuore del culto ebraico, e la legge di Mosè, la Torah, forse già il testo del Pentateuco vicino alla sua forma attuale. Intorno a questi due pilastri, il culto e l'osservanza della legge, si organizza la vita di un popolo che cerca con fatica di ritrovare la propria identità. Una grande influenza ebbe in tale situazione il gruppo dei leviti del tempio, non di rado in polemica contro la classe sacerdotale, come appare evidente dai due libri delle Cronache, e in aperto contrasto con le popolazioni della campagna, non toccate dall'esperienza dell'esilio che aveva, invece, profondamente trasformato buona parte degli israeliti. In questo contesto nascono i due libri delle Cronache, il cui arco narrativo va dalla creazione del mondo sino all'editto di Ciro, imperatore di Persia, che permise agli ebrei di ritornare in patria dopo l'esilio a Babilonia (538-531 a.C.). Si tratta di un'opera di grande importanza per il modo in cui la storia d'Israele è reinterpretata; alla base del racconto di 1-2 Cronache, infatti, vi è la narrazione, già allora esistente, dei due libri di Samuele e dei due libri dei Re. La storia deuteronomistica è riletta in questi due libri in una chiave del tutto nuova. L'autore delle Cronache vede un Israele radunato intorno al suo tempio e al suo re ideale, Davide, che assume ormai veri e propri tratti messianici. Tutto ciò che riguarda il peccato d'Israele e dei suoi re, così ampiamente narrato nell'opera deuteronomistica, viene quasi dimenticato o comunque minimizzato; quel che conta, per il cronista, è la speranza che rinasce all'ombra del tempio e della legge. Nel culto all'unico Dio, immutabile e regolato in ogni suo aspetto, Israele può ritrovare la sicurezza per proseguire il proprio cammino e la certezza di un futuro più luminoso. I libri di Esdra e di Neemia hanno probabilmente un'origine distinta dalle Cronache; al centro delle due opere c'è la figura dei personaggi che gli hanno dato il nome, Neemia e Esdra, i due riformatori che, in accordo con il volere del re persiano, contribuirono alla restaurazione d'Israele in un periodo che va dalla metà del V secolo (Neemia) sino agli inizi del IV (Esdra). Entrambi i libri tradiscono l'interesse per un Israele separato dal resto dei popoli vicini e ben consapevole della propria singolarità, fino a rasentare la tentazione di un vero e proprio particolarismo. La ricerca appassionata e per molti aspetti ostinata della propria identità ha prodotto, nei libri di Esdra e Neemia come già in quelli delle Cronache, pagine e pagine di liste genealogiche attraverso le quali ogni israelita poteva rintracciare la purezza della propria origine. I libri di Esdra e Neemia, come pure i due libri delle Cronache, sono il tipico prodotto del periodo postesilico, di un popolo che cerca di ricostruire se stesso e di rifondare la propria identità,
culturale e religiosa.


I libri dei Maccabei

I due libri dei Maccabei, assenti dal canone della Bibbia ebraica e da quello delle chiese riformate e accolti invece come ispirati dalla chiesa cattolica, ci portano all'interno di un'epoca ancora più recente. La narrazione in essi contenuta abbraccia un arco di tempo che va dall'ascesa al trono di Antioco IV (175 a.C.) sino alla morte dell'ultimo dei fratelli Maccabei, Simone, avvenuta nel 134 a.C. Sono gli anni in cui in Israele è arrivato ormai da tempo l'influsso massiccio della cultura greca in seguito alla conquista di Alessandro Magno; la Giudea si trova sotto il dominio dei successori di Alessandro, la dinastia siriana dei Seleucidi. L'ascesa al trono del re Antioco IV Epifane inaugura un periodo di lotte; la famiglia sacerdotale di Mattatia si ribella contro la rapacità di Antioco e il suo tentativo di ellenizzare la Giudea, visto come un attentato alla fede d'Israele, tentativo peraltro condiviso dai giudei più abbienti, specialmente dai nobili e dagli alti sacerdoti di Gerusalemme. I figli di Mattatia, noti come i Maccabei ("i martelli"), daranno a Israele un nuovo periodo di indipendenza, instaurando a loro volta una dinastia, quella degli Asmonei, che durerà più di un secolo. I due libri dei Maccabei hanno origine diversa; sono giunti a noi in lingua greca e sono stati composti probabilmente verso la fine del II secolo a.C. Il Primo libro dei Maccabei contiene la storia dettagliata della rivolta, da cui emergono lo zelo del popolo che vuole difendere la legge divina e la propria libertà, e la presenza attiva di un Dio che continuamente combatte per Israele. Il Secondo libro dei Maccabei sottolinea con più forza l'intervento miracoloso di Dio e mette in luce il valore del martirio oltre alla forza di pratiche religiose come la preghiera e l'intercessione per i morti, nella fede nella resurrezione finale, annunziata nel libro con molta chiarezza.


Quattro piccoli racconti

Con i quattro piccoli ma preziosi libri di Rut, Tobia, Giuditta ed Ester, entriamo in un campo del tutto diverso da quello di cui sinora si è parlato. Questi quattro testi hanno avuto origini indipendenti e autori diversi; Tobia ed Ester, in particolare, presentano notevoli problemi di carattere testuale. I libri di Tobia e di Giuditta, poi, come pure alcune sezioni del libro di Ester trasmesse soltanto in greco, fanno parte dei cosiddetti libri "deuterocanonici" accolti come ispirati dalla chiesa cattolica; soltanto il libro di Rut e la versione ebraica di Ester (la più antica) sono riconosciuti come facenti parte della Bibbia d'Israele, accolta anche dalle chiese riformate. Ciò che accomuna questi libri così diversi tra loro è il carattere midrashico, sul quale dobbiamo soffermarci. Con il termine midrash (dall'ebraico darash, "ricercare"), si intende un modo tutto ebraico di porsi davanti alla Scrittura. Il midrash è un atteggiamento, prima ancora che un modo di scrivere, che consiste nel porsi di fronte a un testo biblico cercando di renderlo comprensibile e attuale per il tempo presente. In questo modo si riprendono testi già esistenti e storie antiche e si rileggono alla luce di fatti nuovi, producendo così un racconto in cui la narrazione della storia passata si mescola con una profonda riflessione sulla storia presente. In tutti e quanto i libri l'argomento è infatti tratto dal passato: Rut è la nonna del re Davide, Tobia è ambientato nell'VIII secolo a.C., durante il dominio assiro, Giuditta ha come sfondo l'invasione babilonese di Nabucodonosor mentre Ester, infine, rinvia probabilmente al periodo persiano. L'epoca di composizione di questi libri è tuttavia molto tarda; si può pensare a un arco di tempo che va dalla fine del IV sino alla metà del Il secolo a.C., comunque piuttosto lontano dai fatti narrati. I racconti di Rut, Tobia, Giuditta ed Ester presentano una ben scarsa attenzione alla verità storica; per quanto riguarda il libro di Tobia, per esempio, lo sfondo storico è addirittura inverosimile. Ciò che conta è piuttosto il modo in cui queste storie così antiche vengono riproposte a lettori che vivono in contesti del tutto nuovi, in particolare, come appare ancor più dai libri di Tobia ed Ester, a giudei che vivono nella diaspora, lontani da Israele e in paesi stranieri non di rado ostili. Il vecchio Tobi, padre di Tobia, è così l'immagine del pio giudeo della diaspora che s'interroga sul senso delle proprie sofferenze e della sua fedeltà alla legge di Mosè; il libro di Ester è un invito alla resistenza e alla lotta contro i nemici della fede d'Israele, nella fiducia che Dio interverrà a favore del suo popolo. Un tema analogo emerge dal libro di Giuditta, che, come nel caso di Ester, mette in risalto un protagonista al femminile. Femminile è anche la protagonista del libro di Rut, la straniera moabita che diverrà addirittura nonna di Davide. Il libro di Rut nasce (come anche quello di Giona, di cui condivide il tema di fondo) come reazione all'eccessivo particolarismo del tempo di Neemia ed Esdra; anche i pagani possono essere accolti nel popolo di Dio e divenire così un esempio per Israele.
25/07/2008 20:10


"La Bibbia. La Sapienza di Israele. Salmi, Giobbe, Proverbi, Cantico dei cantici" vol. III - Oscar Mondadori 2000



All'interno di quello che i cristiani chiamano Antico Testamento esiste un gruppo dì libri senz'altro singolare, noto come letteratura sapienziale: si tratta, per la precisione, dei libri dei Proverbi, di Giobbe, del Qohelet, del Siracide e della Sapienza (disposti secondo l'ordine cronologico tradizionale). Questi due ultimi libri, occorre notare, non fanno parte della Bibbia ebraica né sono accettati come canonici dalle chiese cristiane riformate; fanno però parte della tradizione sapienziale d'Israele e sono stati accolti come canonici dalla chiesa cattolica. Una prima caratteristica che accomuna questi libri è l'essere poco conosciuti: Proverbi, Siracide e Sapienza sono spesso ignorati; Giobbe e Qohelet si crede talora di conoscerli, ma ci sfuggono sempre di mano. Ci addentriamo all'interno di un territorio nuovo, che deve essere esplorato con attenzione; l'esplorazione ci riserverà interessanti sorprese. Ci troviamo di fronte a cinque libri di epoche diverse, composti in un arco di tempo che va dal periodo monarchico (buona parte del libro dei Proverbi) sino alla fine del I secolo a.C. (il libro della Sapienza). Eppure, questi libri hanno molti elementi in comune: il primo e il più evidente è l'argomento, la sapienza. A questo punto, è necessario cercare di comprendere che cosa sia questa "sapienza" di cui stiamo parlando. La letteratura sapienziale non nasce, in realtà, in Israele: le sue radici remote si rinvengono in Egitto a partire dal I millennio a.C. e, poco più tardi, in Mesopotamia. Nell'antico Vicino Oriente, la sapienza è, prima di tutto, l'arte del vivere, che costituisce la virtù imprescindibile per coloro che dovranno ricoprire incarichi di responsabilità all'interno del loro stato; la sapienza è pertanto un cammino di educazione integrale dell'uomo; questa prospettiva pedagogica della sapienza non verrà mai persa, neppure in Israele. La sapienza è, lo ripetiamo, la capacità di mettere a frutto la propria esperienza e imparare così a vivere; è dunque una virtù profondamente umana, anche se non esclude la sfera religiosa. La sapienza mediorientale non è, perciò, quella "conoscenza delle cose divine e umane" che, nella definizione data dai greci, è dote intellettuale che si conquista con lo studio. In Israele la sapienza non è niente di diverso: già nel libro dei Proverbi emerge come il saggio sia colui che sa vivere, l'uomo che ha saputo mettere a frutto la propria esperienza e che ha criticamente riflettuto sulla realtà della sua esistenza quotidiana. Una sapienza laica, dunque? Il termine "laico" è solo parzialmente corretto. Alla base della riflessione del saggio israelita c'è, infatti, una convinzione profonda: la sapienza è possibile solo se l'esperienza del vivere, che ne è alla base, ha un senso; ora, questo senso esiste perché esiste un Dio che ha creato e ordinato il mondo. I saggi sono fondamentalmente ottimisti; a loro riguardo è stato detto che, per Israele, ogni esperienza del mondo è un'esperienza di Dio e ogni esperienza di Dio passa attraverso l'esperienza del mondo. La forma letteraria usata dai saggi è quella del mashal, del "proverbio", che, più precisamente, è un tentativo di scoprire il senso dell'esperienza attraverso la ricerca di costanti e di confronti tra realtà apparentemente lontane; ma tale ricerca, molto umana, è possibile perché esiste un Dio che nel mondo ha posto quel senso che l'uomo va cercando; e questo Dio è colui che il saggio incontra continuamente nella sua ricerca. Qui sta la peculiarità della sapienza d'Israele: il punto di partenza del saggio non è mai il trascendente, ma l'umano e il quotidiano. Lo sguardo del saggio è sempre limitato a ciò che l'uomo può vedere e sperimentare; eppure il saggio resta un uomo di fede, perché l'ordine delle cose che egli cerca di comprendere è garantito da Dio e a lui conduce. Nasce così, curiosamente, una personificazione della sapienza che, dal capitolo 8 del libro dei Proverbi, proseguirà attraverso altri testi sapienziali sino al libro della Sapienza. La sapienza non è più un concetto: è una persona, una donna della quale innamorarsi, che viene però da Dio ed è in relazione con lui. La Signora Sapienza - l'esperienza del mondo! - diviene così il punto di contatto tra Dio e gli uomini o, detto con un linguaggio più filosofico, la mediatrice tra ragione e fede, la via per esprimere allo stesso tempo la lontananza e la presenza di Dio, in termini teologici la sua trascendenza e la sua immanenza.

Leggendo molte parti del libro dei Proverbi o del Siracide si ha quasi l'impressione di una certa neutralità del saggio di fronte ai problemi del mondo, se non, addirittura, di una vena di cinismo. Il mondo è quello che è, e il saggio deve saper cogliere il momento opportuno per agire, consapevole che il ricco e il potente resteranno tali e che l'ingiustizia e il dolore non possono essere completamente eliminati, così come dalla mente degli uomini non può scomparire la stoltezza. In realtà, questa apparente ricerca di una felicità terrena da parte dei saggi d'Israele, accusata da alcuni di pragmatismo e di utilitarismo, va piuttosto chiamata realismo: al saggio, infatti, non interessa cambiare il mondo al modo dei profeti. Al saggio sta a cuore, invece, capire il mondo in cui vive: solo dopo averlo capito potrà pensare a cambiarlo; ma la cosa più importante, per l'uomo che insegue la sapienza, è imparare a viverci. Non dimentichiamo che lo scopo originario della sapienza è "politico": si tratta di formare persone responsabili in grado di comprendere il mondo e di imparare a governarlo; anche in questo sta l'attualità della sapienza biblica. Ma cosa accade quando il mondo diventa incomprensibile? Quando le spiegazioni legate alla fede non bastano più? Già la sapienza antica è consapevole dei propri limiti; l'ottimismo dei saggi è affiancato dalla certezza che il vero limite della sapienza sta proprio nel non credere di essere saggi. Tuttavia la letteratura sapienziale d'Israele conosce una svolta decisiva nel momento in cui il saggio viene a confrontarsi con il grande problema del dolore e della morte, con il quale si erano già misurati i saggi dei popoli vicini. In Egitto o a Babilonia la soluzione oscillava tra la rassegnazione disperata, il fideismo oppure la ribellione alla volontà incomprensibile e capricciosa degli dei. In Israele tutto ciò non era possibile: il saggio sa bene che esiste un unico Dio, il Signore creatore del mondo, buono e provvidente. Che fare, allora, quando l'esperienza del vivere quotidiano contraddice questa fede? Il libro di Giobbe dà il via a questo scontro: il protagonista, Giobbe, non accetta di soffrire senza motivo e contesta con forza i canoni della teologia tradizionale della retribuzione, secondo la quale il giusto sarà sempre felice, mentre il malvagio sarà inesorabilmente punito. L'esperienza della vita dimostra esattamente il contrario. E proprio in nome di quest'esperienza Giobbe chiama in causa Dio stesso; egli, alla fine, interverrà di persona dando sorprendentemente ragione a Giobbe. L'esperienza del dolore porta il saggio a interrogarsi su Dio e a scoprirlo, allo stesso tempo, più misterioso e più presente. La conclusione del libro di Giobbe è in realtà sulla linea della sapienza antica: Dio vuole che l'uomo continui a cercarlo attraverso le esperienze della vita, anche a costo di metterlo in discussione. La vicenda del Qohelet è ancora più radicale: di fronte alla morte tutto appare come un soffio; la vita è una sequenza di assurdità senza fine di cui la morte, appunto, è la tragica conclusione. Eppure, qualcosa rimane e anche in questo caso la tradizione sapienziale d'Israele non viene abbandonata; Dio, infatti, si rende presente all'uomo nelle piccole gioie del vivere quotidiano e, in queste gioie, l'uomo può apprendere l'unico atteggiamento possibile nei confronti di un tale Dio così difficile da capire: il timore, ovvero il rispetto del suo mistero. Di questo mistero di Dio, lontano ma presente, il saggio, dopo Qohelet, sarà sempre più consapevole. Giobbe e Qohelet rivelano il segreto della grandezza e della forza dei saggi d'Israele: la loro appassionata difesa dell'uomo, la loro voglia di cercare e di capire criticamente il valore dell'esperienza li ha condotti, attraverso lo scontro con il muro della sofferenza e della morte, a confrontarsi con quel Dio che, del resto, non aveva mai abbandonato il loro orizzonte. La saggezza come arte del vivere è dunque, per Israele, uno degli aspetti della fede. Questa dimensione religiosa sarà approfondita dai due ultimi testi sapienziali: il Siracide e il libro della Sapienza, che dovranno confrontarsi ormai da vicino con la cultura greca. Il libro del Siracide accosta la sapienza alla Legge mosaica; così facendo, mostra chiaramente come la saggezza, intesa quale arte del vivere nata dall'esperienza, non debba essere posta in contrasto con l'osservanza della Legge, data all'uomo da Dio. Per il Siracide la ricerca sapienziale dell'uomo non contraddice la rivelazione che Dio fa della sua volontà, espressa nella Legge. Nel libro della Sapienza, infine, alle soglie del Nuovo Testamento, la sapienza non è più soltanto l'esperienza della creazione che ogni uomo può fare; la "Signora Sapienza" diviene il segno di una presenza di Dio all'interno del cuore stesso dell'uomo; seguire la sapienza è, ormai, accogliere un dono di Dio e trovare così la vita eterna. L'attenzione dei saggi dunque inizia a spostarsi anche al di là di questa vita: Giobbe e Qohelet hanno così trovato una risposta. In conclusione, la sapienza d'Israele è davvero la risposta che i saggi cercano di dare al confronto tra il dato della loro fede nel Signore Dio d'Israele e l'esperienza concreta della vita quotidiana, spesso contraddittoria e deludente. La sapienza è dunque il tentativo di esprimere criticamente la propria umanità collegandola con la fede in Dio. La sapienza israelita valorizza, in particolare, la riflessione critica dell'uomo sul suo agire di ogni giorno e sul mondo intero quale realmente si presenta ai nostri occhi: il saggio è una sorta di sentinella che riesce a comprendere a fondo la realtà nella quale vive. In tal modo, per il saggio, tutto ciò che è autenticamente umano può servire a far crescere la sapienza, anche ciò che in apparenza potrebbe sembrare estraneo; ecco perché Israele ha scoperto la sapienza in seguito ai contatti con le tradizioni sapienziali dei popoli vicini. Tutto ciò che è autenticamente umano è assunto dal saggio: ecco perché la letteratura sapienziale d'Israele può diventare, ancora oggi, l'ultimo aggancio con la Bibbia da parte di chi non ha fede in Dio, pur credendo profondamente nell'uomo. La sapienza d'Israele, però, vuole rendere i saggi coscienti dei propri limiti e invitarli a considerare come ogni sapienza umana, per restare fedele a se stessa, non può che condurre a Dio.

Una storia a parte è quella rappresentata da due altri libri biblici, che solo in parte possono essere posti in relazione con la letteratura sapienziale. Il primo è il libro dei Salmi, il secondo, il Cantico dei cantici. Il libro dei Salmi è il monumento più celebre della preghiera d'Israele, fatto proprio, da duemila anni, anche da tutte le chiese cristiane e amato, come libro di preghiera, da intere generazioni di credenti. L'introduzione specifica ai Salmi metterà in luce tutta la ricchezza e, allo stesso tempo, la complessità del Salterio; a tale introduzione rimandiamo, limitandoci qui ad alcune note molto generali. Prima di tutto, che cosa sono i Salmi? I 150 Salmi che compongono il libro possono essere definiti, con due sole, semplici parole, come poesia e preghiera. Scritti in forma poetica, i Salmi si presentano come dialogo tra Israele e il suo Dio, Jhwh. Da un lato debbono essere letti come poesie, con tutto ciò che questo comporta, dall'altro non possono essere pienamente compresi se non sintonizzandosi sull'atmosfera di preghiera che essi presuppongono. Il libro dei Salmi ha conosciuto una storia redazionale molto lunga; singoli Salmi potrebbero risalire anche agli inizi dell'epoca monarchica, quella davidico-salomonica per intendersi, ma si tratta di casi rari. La maggior parte dei Salmi ruota invece intorno al periodo immediatamente posteriore all'esilio (V-IV secolo a.C.), cioè intorno all'epoca persiana. Ma soltanto verso la fine del III secolo, o forse anche dopo, già durante l'epoca dei Maccabei (prima metà del II secolo), il Salterio ha assunto la sua forma attuale, acquistando anche una logica interna che ne fa un vero e proprio libro, e non solo una serie di 150 testi sparsi (anche su questo punto si rimanda all'introduzione al libro dei Salmi). Nella Bibbia ebraica il Salterio è collocato all'inizio della sezione detta degli Scritti (Ketubim) e posto così in relazione con i primi due libri sapienziali, i Proverbi e Giobbe. Il libro dei Salmi, tuttavia, non presenta le caratteristiche proprie di questo tipo di letteratura, se non in piccola parte e solo in relazione ad alcuni singoli testi. Per quale motivo, dunque, il libro ha questa collocazione singolare, rimasta anche nel canone greco usualmente seguito dalle Bibbie cattoliche (Giobbe - Salmi - Proverbi)? Il libro dei Salmi è prima di tutto, come si è detto, un libro di preghiere, libro cioè del dialogo tra Dio e l'uomo, o meglio tra Dio e il suo popolo: in questo dialogo, Jhwh, il Dio d'Israele, è prima di tutto oggetto della preghiera che il suo popolo gli rivolge, mentre l'uomo è soggetto di quelle parole che lui stesso intende rivolgere a Dio. Vale la pena di aggiungere, a questo punto, che nella prospettiva di un credente, ebreo o cristiano, se la Bibbia - e quindi anche il libro dei Salmi - è da credersi ispirata da Dio, ciò significa che i Salmi sono anche le preghiere che Dio vuole sentirsi rivolgere dall'uomo; Jhwh, dunque, non è soltanto oggetto, ma anche soggetto della preghiera del Salterio. Ma torniamo al motivo per il quale è possibile accostare i Salmi alla letteratura sapienziale. In questi testi abbiamo visto come la sapienza, pur nascendo e sviluppandosi in un contesto profondamente umano e pur identificandosi in gran parte con l'esperienza critica della realtà, è anche, allo stesso tempo, un dono di Dio: "principio della sapienza è il timore del Signore" è un ritornello che segna l'intera teologia sapienziale (cf. Proverbi 1,7; 9,10; Siracide 1,14). Si tenga presente, comunque, che il "timore del Signore" non va inteso come "paura": è qualcosa che include rispetto, venerazione, più vicino alla nostra idea di "fede". In questa prospettiva, il libro dei Salmi serve come inizio ideale di tutta la riflessione dei saggi, in modo da far comprendere che ogni sapienza umana acquista il suo pieno valore soltanto se riferita alla fonte dalla quale proviene e alla meta verso la quale si dirige: il Signore. Un caso diverso è rappresentato da un piccolo ma celebre libro, gli otto capitoletti che compongono il Cantico dei cantici. Si tratta di un poema con il quale due giovani d'Israele cantano l'un l'altro il loro reciproco amore e celebrano la loro unione. Per molto tempo ha pesato sulla lettura del Cantico la cappa dell'interpretazione allegorica, posta concordemente dalla tradizione rabbinica e da quella patristica. In tal modo il Cantico è divenuto allegoria ora dell'esilio o dell'esodo, ora dell'amore tra Cristo (o Dio) e la chiesa (o la vergine o l'anima o Maria...). Il testo del Cantico è invece molto chiaro e, sorprendentemente, molto profano, tanto da aver scandalizzato con il suo linguaggio esplicito (ma poetico!) non pochi lettori. Solo in 8,6, quasi di passaggio, è nominato Jhwh, il Signore, come sorgente dell'amore dei due ragazzi. Ma proprio questa apparente profanità del Cantico ci permette di accostarlo alla letteratura sapienziale: al centro del poema, infatti, non c'è un interesse diretto verso Dio, ma verso l'uomo; in questo caso, verso l'amore di coppia di due ragazzi. Se è vero, inoltre, che il Cantico, come molti ritengono, è stato composto verso il III secolo a.C., quando cioè Israele aveva iniziato a venire a contatto con la cultura ellenistica, tutto questo acquista un senso anche maggiore. Il Cantico può essere considerato come la risposta di un saggio israelita alla visione greca di un amore ridotto a eros e, in qualche modo, considerato una realtà divina che l'uomo non riesce a governare. L'amore, per il Cantico, è invece una stupenda realtà umana, cantata in tutta la sua profanità e persino fisicità; realtà che, tuttavia, ha un senso perché proviene dal Signore e della sua opera nel mondo diviene simbolo vivente. Il centro d'interesse non è una pretesa allegoria di un amore sovrannaturale, che escluderebbe il senso più ovvio del Cantico: l'amore di Salomone e della "Sulammita" cantato dal poeta è l'amore di ogni coppia umana che dell'amore di Dio diviene un segno, quello che per Paolo (Efesini 5,32) è un "sacramento" (mysterion) dell'amore di Cristo per la sua chiesa.
25/07/2008 20:13


"La Bibbia. I Profeti" vol. IV - Oscar Mondadori 2000



La terminologia in uso


Nell’ebraico biblico vi sono diversi modi di indicare un profeta. Vi è il veggente (ro'eh), conoscitore delle cose occulte, che di solito viene consultato e dà i suoi responsi dietro compenso. Vi è il visionario (hozeh), il cui mezzo di conoscenza è appunto la visione. E vi è il profeta (nabi'), termine che poggia sull’idea di "essere chiamato" e che, nell’uso biblico, in parte coincide con i due termini precedenti; esso viene inoltre utilizzato sia in positivo, per indicare i profeti autentici, sia in negativo, per i falsi profeti. La traduzione greca utilizza il termine profetes quasi sempre per tradurre l’ebraico nabi', interpretando quindi la figura del profeta come un uomo che parla "per conto di" un altro (pro-phemì). Il cuore della profezia biblica, comunque, non consiste tanto nel predire gli eventi futuri, quanto nel leggere la storia dal punto di vista di Dio, individuando la logica che presiede al suo svolgimento: "La caratteristica dei profeti non è la precognizione del futuro (al modo di veggenti o indovini), ma la cognizione profonda del presente pathos di Dio" (A.J. Heschel). A ogni modo, nella complessa figura del profeta biblico, tutti questi aspetti si compongono in misure diverse: la chiamata, la visione, la conoscenza di cose nascoste all’ordinario sapere, la consapevolezza di trasmettere il messaggio di un Altro.


La prima fase del profetismo biblico

Si può dire che il profetismo ha accompagnato tutto il cammino storico di Israele fin dalla sua origine nella persona di Abramo, definito "profeta" in Genesi 20,7. Il suo essere profeta va naturalmente circoscritto all’opera di mediazione che egli svolge nei confronti dei suoi discendenti, ai quali trasmette una certa conoscenza della volontà di Dio, insieme alle esigenze di una primitiva alleanza. Il vertice di mediazione tra Dio e il suo popolo viene raggiunto con la comparsa di Mosè, che il Deuteronomio non esita a considerare come il massimo dei profeti, paragonabile solo al Messia venturo (cf. Deuteronomio 18,18). Intorno a Mosè prende anche vita una diffusa esperienza carismatica nel collegio dei settanta anziani (cf. Numeri 11,24-25) dei quali si dice che "profetizzarono" dopo avere ricevuto lo spirito. Il soffio dello spirito suscita profeti anche dopo l’arrivo del popolo nella terra di Canaan e la sua sedentarizzazione. Nella fase anteriore alla nascita della monarchia, l’esperienza profetica è vissuta prevalentemente in ambito comunitario - si tratta infatti di gruppi di profeti e non di personaggi solitari - e ha un carattere estatico (cf. I Samuele 10,5). La musica e la danza sono elementi integranti della profezia estatica, mentre non abbiamo testimonianza di parole o di messaggi intelligibili risalenti a questo periodo. Non siamo in grado di ricostruire lo stile di vita di questi gruppi né le consuetudini della loro convivenza. A questa epoca appartiene la figura di Samuele, che però si distingue sotto diversi aspetti dagli altri profeti a lui coevi, in quanto assume diversi ruoli contemporaneamente: egli è a un tempo nazireo, sacerdote, giudice e veggente. Con lui si ha il trapasso storico dall’età dei giudici a quella dei re. Dopo di lui, i ruoli del sacerdote, del profeta e del condottiero si troveranno solitamente in individui distinti, in seguito alla specializzazione delle funzioni che caratterizzerà il periodo monarchico. La profezia dell’epoca dei re conosce un’esperienza di vita comune e di discepolato, come potrebbe essere quella di Elia ed Eliseo, ma conosce anche uomini che agiscono da soli, come Natan o Gad, che di fatto non sembrano collegati a determinati circoli profetici. Essi pronunciano degli oracoli che hanno dei destinatari, ma è un materiale che non giunge mai a formare un testo scritto, e quindi non supera i confini della tradizione orale.


La profezia diventa letteratura: i profeti scrittori

La profezia scritta compare nell’VIII secolo a.C., in prossimità della perdita dell’indipendenza del Regno del Nord. Il primo dei profeti scrittori è Amos. Egli predica al nord verso la metà dell’VIII secolo a.C. e si muove sulle tematiche della giustizia sociale e della purificazione del culto. Suo contemporaneo è Osea, un profeta che prende le mosse dal fallimento del suo matrimonio per annunciare l’incondizionata fedeltà di Dio come partner dell’alleanza. Pochi decenni dopo fanno la loro comparsa i profeti Michea, che segue perlopiù le stesse linee tematiche di Amos, e Isaia, che vive alla corte del re di Gerusalemme ed è araldo del messianismo davidico. Nel VII secolo a.C. troviamo il profeta Abacuc, anche se è incerta la data esatta del suo ministero. La sua profezia è singolare in quanto si esprime in forma di dialogo; essa si incentra sul mistero del male che funesta la società umana, mentre Dio non interviene, comportandosi come un semplice spettatore. Nel medesimo tempo abbiamo i profeti Sofonia, Geremia e Naum. Questi tre profeti vivono in un momento cruciale della storia di Israele: il re Giosia (640-609) promuove una riforma religiosa nei territori del suo regno, soprattutto a partire dal 622, anno in cui viene rinvenuto nel tempio di Gerusalemme un rotolo della Legge. L’esperienza religiosa di Israele conosce così una fase di grande fioritura, precocemente interrotta nel 597 dall’assedio di Gerusalemme compiuto da Nabucodonosor. La predicazione di questi tre profeti si inserisce nel fermento spirituale delle riforme di Giosia, insistendo sui temi della purificazione del culto, della fedeltà all’alleanza e della lotta contro l’idolatria. In questo contesto Geremia si pone anche come annunciatore dell’invasione babilonese, ormai imminente, attirandosi così l’accusa di nemico della patria. Dal suo punto di vista, quella sciagura nazionale va interpretata come una conseguenza delle ripetute infedeltà dei capi e del popolo. L’esilio segna così la conclusione di un’epoca. Tra i deportati, nei pressi del canale Chebàr, nel 592 la parola di Dio viene rivolta a un giovane sacerdote: Ezechiele. Sarà lui a consolare gli esiliati con oracoli che promettono la rinascita nazionale e l’edificazione di un nuovo tempio. A questo periodo appartiene anche il Deuteroisaia, il cui annuncio ruota intorno alla tematica del ritorno, concepito come un nuovo esodo. Nel 538 viene emanato l’editto di Ciro e gli esiliati sono finalmente liberi di rimpatriare. La ricostruzione del tempio ha luogo sotto Cambise (530-522) e Dario I (522-486). Tra le non piccole difficoltà che i rimpatriati devono affrontare, si levano le voci di due profeti che incoraggiano le fatiche della ricostruzione: Aggeo e Zaccaria. All’incirca nello stesso periodo vive Abdia, il cui annuncio si basa sulla condanna di Edom, simbolo dell’orgoglio umano. A questa epoca risale anche il Tritoisaia, che descrive la nuova gloria di Gerusalemme in termini piuttosto idealizzati. Gli altri profeti del periodo postesilico sono: Malachia, che è attivo nella metà del V secolo a.C., e insiste sulla purificazione del culto e del sacerdozio, come pure sulla condanna dei matrimoni misti; Gioele, probabilmente da collocarsi tra il V e il IV secolo, che prende le mosse da un’invasione di cavallette interpretata come l’annuncio di un’invasione straniera, e infine il secondo Zaccaria, attivo a ridosso dell’epoca ellenistica, che presenta una nuova immagine della figura messianica, caratterizzata dalla mansuetudine, e annuncia al tempo stesso la definitiva vittoria di Dio sui nemici di Israele con la conseguente inaugurazione di un’era di pace. Il periodo ellenistico vede la scomparsa da Israele del fenomeno carismatico, della profezia, la quale, tuttavia, ricomparirà sotto forme mutate nel Nuovo Testamento, a partire dall’annuncio di Giovanni il Battista, che, a rigore di logica, è il vero ultimo profeta dell’Antico Testamento, ponendosi come figura di confine tra le due alleanze.


Cenni sui generi letterari profetici

La tradizione orale, quando diventa testo letterario, tende naturalmente a fissarsi in forme stabili che vanno sotto il nome comune di "generi letterari". Ciò vale per ogni tradizione, e perciò anche per quella profetica. Sarà opportuno quindi gettare uno sguardo, anche se solo panoramico, sui nodi attraverso cui il profetismo ci ha trasmesso i suoi contenuti. La principale e più diffusa forma letteraria utilizzata dai resti profetici è certamente quella dell’oracolo. Di solito un oracolo profetico è facilmente riconoscibile, perché introdotto da formule ricorrenti come "Oracolo di Jhwh", oppure "Così dice Jhwh". Si tratta di formule che intendono sottolineare l’origine extraumana della parola che viene trasmessa in tale maniera. L’oracolo è utilizzato dal profeta in una molteplicità di circostanze. Esso può annunciare un atto salvifico decretato da Dio, come pure l’imminenza di un evento disastroso; può esprimere una condanna tanto verso una nazione quanto verso un individuo. Gli oracoli di salvezza sono spesso accompagnati da formule come "non temere", "io sono con te", "ti aiuto", "sono il tuo Dio", e altre simili (cf. Isaia 41,8-13). Gli oracoli di condanna, invece, sono caratterizzati di solito dalla sequenza "accusa/annuncio del castigo" (cf. Amos 2,6-15), che si presenta talvolta in forme brevi e sintetiche, talaltra in forme lunghe e ampie. Un tipo particolare di oracoli di condanna sono quelli che vanno sotto il nome tecnico di rib, che potremmo tradurre con "controversia". Questa forma letteraria si presenta con cinque elementi strutturali ricorrenti, che la rendono subito identificabile: la convocazione del cielo e della terra in qualità di testimoni del processo tra Dio e il suo popolo; l’interrogatorio degli accusati; la requisitoria che richiama i benefici di Dio lungo la storia di Israele; la dichiarazione di colpevolezza; la condanna (cf. Isaia 1,2-9; Michea 6,1-8). Un altro genere di oracoli di condanna è caratterizzato invece dalla formula introduttiva "Guai!", desunta dalle lamentazioni che si soleva intonare in occasione dei funerali (cf. Isaia 5,8-24; Amos 5,18-20). Vi sono infine, nei libri profetici, dei generi letterari minori, scelti secondo le finalità retoriche perseguite dal profeta stesso o dettate dalla circostanza specifica. In questo ambito possiamo ricordare, per esempio, l’allegoria (Ezechiele 17,1-10), la poesia d’amore (Isaia 5, 1-7), l’elegia (Amos 5,1-3), la preghiera (Isaia 25,1-5), l’esortazione (Geremia 3,12-13).
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"La Bibbia. I Vangeli. Con i più significativi Vangeli Apocrifi in appendice" vol. V - Oscar Mondadori 2000



La figura di Gesù di Nazaret ha segnato quasi venti secoli di storia del mondo, specialmente per l’Occidente. Questo dato storico-culturale trova la sua origine letteraria nei quattro Vangeli o Vangelo quadriforme, secondo l’espressione d’Ireneo. Si tratta dei primi quattro libri del Nuovo Testamento che raccontano gli ultimi anni della vita di Gesù, dal 27 o 28 al 30 d.C., a opera di scrittori inseriti all’interno di comunità cristiane della seconda metà del I secolo. Alcuni studiosi sostengono che dietro il nome degli evangelisti vi siano gli stessi personaggi indicati, altri vi vedono invece redattori pseudoepigrafi che si servono dei nomi degli apostoli per conferire la più alta autorità ai loro scritti (soprattutto per Matteo e Giovanni). L’unicità dell’evento narrato (l’unico vangelo) nella quadruplice narrazione ha generato, per segnalare ognuno dei quattro libri, l’espressione "Vangelo secondo...", introdotta a partire dalla seconda metà del II secolo. I Vangeli costituiscono il genere letterario principale del Nuovo Testamento: si trovano al suo inizio e sono seguiti immediatamente dagli Atti degli apostoli, perché questi ultimi non sono che la continuazione del terzo vangelo e insieme formano l’opera lucana. I Vangeli si articolano in una narrazione continuata che si estende dall’incontro di Gesù con Giovanni il Battezzatore fino alla tomba aperta: all’interno sono riferiti detti e azioni di Gesù, seguiti dal racconto della sua passione e morte; il tutto è preceduto in Matteo e Luca dai racconti dell’infanzia e in Giovanni dal prologo innico a Gesù-Logos, ed è seguito dai racconti di apparizione del Risorto. Il termine "evangelo/vangelo" deriva dal greco eu-anghélion e significa "bella/buona notizia". Già presente nel mondo civile e nell’Antico Testamento per annunciare un evento fausto della vita sociale (la visita dell’imperatore, il ritorno dall’esilio, la salvezza del popolo), il termine viene qui adoperato per indicare la testimonianza di fede dei primi cristiani in Gesù di Nazaret, ritenuto il Messia/Cristo/Unto (termini provenienti rispettivamente dall’ebraico/aramaico, dal greco e dal latino) atteso nella storia e il Figlio primogenito del Padre (Marco 1,1). Egli è il segno per eccellenza della benevolenza misericordiosa del Padre verso tutti gli uomini (Luca 2,14), il "Sì", l’Amen senza ritorno della bontà salvifica del Dio biblico (Apocalisse 3,14), il Regno di Dio in atto. Un’offerta cui gli uomini potranno liberamente rispondere, per la gioia piena di una vita da figli nel Figlio e a beneficio di una fratellanza universale; una proposta capace di interpellare ciascun uomo e donna di ogni tempo, perché proveniente da quel Figlio dell’Uomo che incarna un ideale permanente d’umanità e di divinità. I quattro Vangeli presentano quest’unico vangelo in quattro racconti diversi, in quattro modi d’approccio differenti del mistero salvifico. A partire dall’esperienza-incontro col Risorto i primi cristiani compresero meglio il mistero di quella persona con la quale erano vissuti, il suo insegnamento e i suoi gesti, primo fra tutti quello della sua morte, e lo proclamarono in pubblico, da Gerusalemme fino ai confini della terra. Il termine greco per questo primo gioioso annuncio della salvezza è kérigma, e deriva dal verbo che indicava il suono della tromba dell’araldo imperiale. Col tempo le comunità cristiane si moltiplicarono e si diversificarono per ambiente d’origine e di vita, necessitando ciascuna di una predicazione e riflessione appropriate. Tenendo conto poi dell’importanza del riferimento al Gesù storico per le generazioni cristiane della seconda metà del I secolo — che più non avevano conosciuto il Gesù terreno o i suoi testimoni oculari — alfine di conservare l’identità del Risorto col Crocifisso, sorse l’esigenza di mettere per iscritto le parole e i gesti di Gesù inserendoli nella trama narrativa della sua vita pubblica, come appare evidente leggendo il prologo di Luca al suo libro (Luca 1,1-4). Da tutto questo deriva l’articolazione, comune e propria a ciascuno, dei quattro racconti che sono i Vangeli, messi per iscritto perché tutti potessero credere in Gesù come esplicitamente afferma Giovanni verso la fine del suo vangelo (Giovanni 20,31). Il Vangelo secondo Matteo (18.278 parole greche e nell’iconografia simboleggiato da un angelo), rivolto a cristiani d’origine ebraica e redatto in un greco corretto e solenne, si articola su un’alternanza di racconti e discorsi di Gesù ripresa ben cinque volte, con un rimando evidente al Pentateuco. Vi è un interesse particolare per il suo insegnamento in rapporto alla Legge, per la realizzazione del Regno di Dio e l’esperienza di chiesa fondata sulla roccia Pietro. Il primo vangelo è stato preferito dalla chiesa fino all’inizio del nostro secolo, e privilegiato nell’uso liturgico. Il Vangelo secondo Marco (11.229 parole greche, simboleggiato da un leone), indirizzato a cristiani d’origine non ebraica, con uno stile narrativo vivace e coinvolgente, privilegia le azioni di Gesù rispetto alle sue parole, e la sua struttura si presenta come uno sviluppo della fede dei discepoli nel mistero del Maestro: dall’entusiasmo iniziale all’incertezza e alla difficoltà di fronte al Messia sofferente, nella prospettiva del rilancio postpasquale in Galilea. In questo secolo il secondo vangelo ha guadagnato maggiore stima presso gli studiosi, anche dal punto di vista teologico. Il Vangelo secondo Luca (19.404 parole greche, simboleggiato da un bue), rivolto a cristiani d’origine non ebraica, in uno stile curato e personale, evidenzia una teoria di grandi personaggi, che nel loro incontro con Gesù testimoniano il volto misericordioso del Padre e il suo disegno di salvezza universale. Il racconto del terzo vangelo prosegue nel libro degli Atti, interpretando l’epoca della chiesa come un’estensione del tempo di Gesù in vista della predicazione universale del vangelo. Il Vangelo secondo Giovanni (15.416 parole greche, simboleggiato da un’aquila), indirizzato a comunità già tipicamente cristiane dell’Asia Minore, legate in particolare all’apostolo Giovanni, con uno stile elaborato e contemplativo e in un procedimento a spirale incalzante, ricco di metafore e allusioni, mira ad approfondire il dono presente della fede in Gesù Figlio, in una concezione gloriosa e attualizzata della salvezza cristiana. Dal secolo scorso in poi è stato rivalutato anche dal punto di visto storico rispetto agli altri tre. I Vangeli sono stati scritti in lingua greca, non quella classica di Atene ma quella della koiné ellenistica, semitizzante. Il testo dei quattro Vangeli che noi oggi leggiamo è una ricostruzione da vari manoscritti antichi: in primo luogo i grandi codici biblici in greco del IV e V secolo (Sinaitico, Vaticano, Alessandrino) e poi i frammenti di papiri dei secoli precedenti, che possono risalire fino alla metà del II secolo (per Giovanni) e addirittura fino alla seconda metà del I secolo (per Marco o Matteo). Per cui la data di composizione dei Vangeli può essere collocata oggi tra il 60 e il 100 d.C.: un tempo ottimale per quanto concerne la distanza dai fatti narrati, tale da rendere molto elevata la loro attendibilità storica. Del resto appartiene ormai alla consapevolezza diffusa il fatto che ogni testo — anche di genere storico — è sempre un racconto interpretante dei fatti che riferisce; in questo senso i Vangeli sono testi "confessanti", cioè di testimonianza della fede cristiana di determinati uomini e delle loro comunità. Di fronte alla Bibbia in genere, di fronte ai Vangeli, ma anche a ogni testo letterario, la domanda principale da porsi non è tanto "Che cosa è capitato?", bensì "Che senso ha per noi ciò che è narrato?". Perché fatto e senso sono inscindibili, sia per l’autore sia per il lettore, anche se epoche diverse possono accentuare l’uno o l’altro degli aspetti. I "detti di Gesù" sono anche "detti su Gesù", e continuano a essere ripetuti dai lettori di sempre. Però, se a tutto il medioevo il problema della storicità dei Vangeli come tale non esisteva e si viveva il rapporto coi testi evangelici in un’ingenua coincidenza tra testo e fatto e tra testo e lettore, a partire dal Rinascimento avvenne un confronto critico tra Bibbia e istanze storiche e letterarie. Nacque così la "questione sinottica", che cercò di spiegare le forti somiglianze dei primi tre Vangeli (Matteo, Marco, Luca), che appunto per questo sono detti "sinottici", in quanto possono essere letti parallelamente, quasi racchiusi da uno stesso colpo d’occhio. Si fece dapprima l’ipotesi delle due fonti: una fonte narrativa identificata con Marco, alla base di tutti e tre i Vangeli sinottici, e una fonte di discorsi e detti, la fonte "Q" (che sta per Quelle, che in tedesco significa "fonte"), alla base dei discorsi presenti nelle opere di Matteo e Luca. In seguito si cercò di andare oltre i testi per raggiungere la persona di Gesù colta nella sua autenticità storica, senza - si pensava - le successive costruzioni della fede dei discepoli; e si cadde nella fantasia delle varie "vite di Gesù" della teologia liberale dell’inizio di questo secolo. Successivamente si approfondì il punto di vista dei generi letterari e dei loro ambienti d’origine, per ritornare infine all’attenzione al testo nella sua globalità redazionale e nella sua teologia originale. Il vivo interesse attuale verso il Gesù storico porta a considerare i testi evangelici come una testimonianza storica della fede originale dei primi cristiani in Gesù Cristo, la quale però può essere meglio evidenziata anche attraverso il confronto coi dati storici e sociologici all’interno del Nuovo Testamento e del giudaismo del tempo.
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"La Bibbia. Gli Scritti apostolici. Atti, Lettere, Apocalisse" vol. VI - Oscar Mondadori 2000



Un giorno dell’anno 51, nella città greca di Tessalonica, un gruppo di persone, riunite in assemblea, ascoltò per la prima volta la lettura di un testo di San Paolo. Era la Prima lettera ai Tessalonicesi, il primo scritto del Nuovo Testamento. Quelle persone avevano conosciuto l’apostolo Paolo pochi mesi prima: da lui avevano accolto l’annuncio della "buona notizia" e avevano creduto in Gesù, riconoscendolo come il Cristo e il Figlio di Dio. Erano, cioè, diventati cristiani e ora formavano una comunità detta "chiesa". Tutto era cominciato qualche anno prima, nella terra di Israele, con l’opera sconvolgente di Gesù di Nazaret. Quest’uomo si era presentato al suo popolo, attirando l’attenzione con discorsi entusiasmanti e segni prodigiosi: molti pensarono che lui fosse finalmente il Messia atteso, ma egli andò oltre, avanzando una pretesa inaudita, quella di "essere Dio". Alcuni amici lo seguirono con coraggio fino a Gerusalemme, anche senza comprendere bene quale fosse il suo piano; quando poi le vicende presero una brutta piega, quasi tutti lo abbandonarono, cercando di non compromettersi troppo e di salvare la pelle. Gesù, invece, fu condannato a morte e appeso al patibolo infame della croce. La sua storia sembrava finita lì e invece quello fu l’autentico inizio di una storia nuova. Il crocifisso, infatti, si mostrò vivo ai suoi amici pochi giorni dopo la sua morte e loro, perplessi e increduli, dovettero convincersi che era proprio vero quello che non si sarebbero mai aspettati. L’incontro con il Cristo risorto fu un’esperienza straordinariamente forte da cui gli apostoli furono cambiati: da quel momento cominciarono a credere sul serio che Gesù aveva ragione nella sua enorme pretesa. Capirono che era davvero Dio e che il suo amore generoso e fedele fino alla morte aveva la forza di cambiare il mondo: niente era più come prima. Capirono che in Gesù si erano compiute le antiche profezie dei saggi d’Israele e che in lui Dio era intervenuto nella storia in modo definitivo per capovolgere la situazione e salvare l’umanità. Ma non capirono tutto insieme; a pasqua cominciarono a comprendere qualcosa, ma ci impiegarono anni per giungere a una visione organica, per poter spiegare in modo completo il senso e il valore dell’esperienza di Gesù di Nazaret. Questo cammino di comprensione, fatto di condivisione e di annuncio, coincide con la composizione dei libri che formano il Nuovo Testamento: infatti, dall’anno 30 fino alla fine del secolo, i discepoli di Gesù Cristo si mossero in tutta l’area del Mediterraneo, trasmettendo ad altri, a moltissimi altri, la loro singolare esperienza e la loro profonda convinzione di fede. Dal ricordo vivo nacquero, innanzi tutto, la predicazione e la celebrazione liturgica; poi, le concrete esigenze della comunicazione li portarono a mettere per iscritto i ricordi e le prediche, e si giunse, infine, a una raccolta di 27 testi che, a partire dalla generazione cristiana del II secolo, venne considerata come ufficiale e canonica, cioè "misura" insuperabile della fede cristiana, in quanto registro della Parola di Dio e autorevole documento della rivelazione. A continuazione e complemento dei libri dell’antica alleanza di Israele, questa raccolta di libri cristiani apostolici venne chiamata "Nuovo Testamento", perché riconosciuta come l’espressione della nuova alleanza stipulata fra Dio e l’umanità in Gesù Cristo morto e risorto: tale antologia comprende i quattro Vangeli e gli Atti degli apostoli, tredici lettere di Paolo, la Lettera agli Ebrei e altri sette scritti epistolari attribuiti a vari apostoli, per finire con l’Apocalisse di Giovanni. Nella nostra breve presentazione introduttiva, anziché seguire l’ordine in cui questi scritti compaiono nel canone, risulta più utile e interessante collocarli nel loro ambito storico e culturale, evidenziando le qualità letterarie e teologiche che li caratterizzano. Ecco perché siamo partiti dalla Prima lettera ai Tessalonicesi di San Paolo. Il giudeo Paolo di Tarso è infatti l’autore più rilevante di tutta la raccolta di libri neotestamentari: i più antichi scritti cristiani che ci siano giunti sono i suoi. Egli non conobbe Gesù durante la sua vita terrena, ma lo incontrò come risorto, in modo così straordinario che la sua vita cambiò, come quella degli altri apostoli e forse ancora di più. Teologo fariseo ed esperto conoscitore delle Scritture ebraiche, Paolo divenne un cristiano convinto e, dopo i primi incerti passi, a metà degli anni 40 iniziò un intenso lavoro da profeta pellegrino, divenendo predicatore itinerante per portare ovunque l’annuncio del vangelo di Cristo. Con molti collaboratori egli fondò numerose comunità cristiane in Siria, a Cipro, nell’attuale Turchia e in Grecia. Alla base del suo metodo di evangelizzazione c’erano la predicazione orale e la testimonianza di vita, prendendo le mosse, in ogni città dove arrivava, dalla sinagoga dei giudei: se questi non accettavano il suo annuncio e non condividevano il suo messaggio cristiano, Paolo si trovava qualche altro punto d’appoggio per incontrare persone e proporre a ciascuno la figura di Gesù Cristo come unico salvatore dell’uomo. Solo in un secondo tempo l’apostolo cominciò a scrivere lettere, e lo fece sempre per continuare a distanza i rapporti con le comunità che erano sorte per la sua predicazione. Il primo scritto che di lui ci è giunto è indirizzato ai cristiani di Tessalonica: Paolo lo dettò mentre si trovava a Corinto, probabilmente nella primavera dell’anno 51, dopo aver ricevuto buone notizie da quella comunità. E pochi mesi dopo ne aggiunse un secondo, per esprimere da amico e da padre il proprio stato d’animo, per completare la formazione dottrinale di quei giovani cristiani e per correggere alcune idee erronee che si stavano diffondendo sulla venuta gloriosa del Cristo, ritenuta imminente. Qualche anno dopo, durante un lungo soggiorno a Efeso, Paolo ebbe modo di scrivere numerosi altri testi, sempre per mantenere i contatti con la "sua" gente. Scrisse ai cristiani di Corinto quella che noi chiamiamo la Prima lettera ai Corinzi, reagendo alle brutte notizie che aveva ricevuto sul comportamento di qualche cristiano di quella comunità; vi aggiunse, inoltre, una dettagliata risposta a molte questioni teologiche che una delegazione di corinzi gli aveva sottoposto, relative al matrimonio e a casi di coscienza, ai carismi e alla risurrezione. Le sue posizioni, però, non trovarono buona accoglienza nella chiesa di Corinto e si creò una spiacevole situazione di tensione con l’apostolo: Paolo reagì con forza e decisione, ma anche con affetto e tenerezza, inviando la Seconda lettera ai Corinzi. Contemporaneamente scriveva anche alle comunità della Galazia e ai cristiani di Filippi. Ai galati muoveva forti rimproveri, per il fatto che avevano ceduto a predicatori giudaizzanti che imponevano come obbligatoria l’osservanza della Legge di Mosè: per reagire a quella situazione, Paolo affrontò la questione della salvezza e abbozzò la dottrina della giustificazione per fede. Ai filippesi, invece, riservò elogi e ringraziamenti, aprendo il proprio cuore in un’affettuosa effusione di amicizia. Superato quel difficile momento di Efeso, Paolo trascorse un quieto inverno a Corinto fra il 57 e il 58, dettando all’amanuense Terzo il suo capolavoro teologico: la Lettera ai Romani, in cui riprendeva e approfondiva l’insegnamento sulla giustizia di Dio che ci è data in Gesù Cristo sulla base della fede. Egli insegna che tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma tutti hanno la possibilità di essere giustificati gratuitamente sulla base del sacrificio di Cristo, purché accolgano con fede tale dono: solo così si può realizzare per ogni uomo e ogni donna un’autentica libertà e una vita nuova. Gli ultimi anni della vita dell’apostolo furono segnati da lunghe prigionie e dall’impegno di organizzare al meglio le comunità da lui fondate. Durante il soggiorno obbligato a Roma, scrisse ai colossesi e agli efesini per sottolineare il ruolo unico del Cristo, superiore a ogni altra forza religiosa o spirituale; allegò anche un biglietto personale per il suo amico Filemone, chiedendogli la liberazione dello schiavo Onèsimo. All’ultimo periodo del suo apostolato risalgono, secondo la tradizione, le tre lettere chiamate "pastorali", indirizzate a Timoteo e a Tito per istruirli sulle modalità da seguire nell’organizzazione delle chiese. Molti studiosi moderni, però, ritengono che si tratti piuttosto di testi rielaborati dai discepoli di Paolo dopo la sua morte, avvenuta nell’anno 67. Un suo fedele discepolo, Luca, dopo aver raccolto nel proprio Vangelo secondo Luca molte antiche tradizioni su Gesù, si accinse anche a narrare i fatti più salienti della primitiva comunità cristiana: nacquero così, fra il 70 e l’80, gli Atti degli apostoli, che raccontano il cammino della predicazione apostolica da Gerusalemme fino a Roma, mettendo in evidenza il grande ruolo di Paolo e sottolineando in modo espressivo la sua piena sintonia con l’insegnamento di Pietro e della chiesa madre. All’ambiente paolino appartiene anche la cosiddetta Lettera agli Ebrei, che è una splendida omelia teologica sul sacerdozio di Cristo: l’anonimo autore, abilissimo retore e fine pensatore, riflettendo sulle qualità umane e divine di Gesù mette in evidenza con maestria la sua funzione di perfetto mediatore, l’unico a essere in grado di creare unione fra l’umanità e Dio. Con linguaggio originale viene ribadito il messaggio di fondo di tutto il Nuovo Testamento: Gesù Cristo costituisce per ogni essere umano l’unica via di accesso a una vita di comunione con Dio. Per gli altri scritti del Nuovo Testamento, conosciuti come "lettere cattoliche", è più difficile stabilire la data e l’ambiente di composizione: si tratta, più che di lettere secondo il modello paolino, di omelie messe per iscritto, rielaborate e trasmesse ad altre comunità per diffondere l’insegnamento apostolico sulla persona di Gesù e sui modi di accogliere e vivere la fede in lui. A questo genere letterario appartengono le due lettere di Pietro e quelle attribuite a Giacomo e a Giuda. Un’altra realtà, originale e interessante, è costituita dalla cosiddetta comunità giovannea: infatti, il gruppo cristiano che si costituisce a Efeso intorno a Giovanni, verso la fine del I secolo, produce una ricca e profonda letteratura teologica. Oltre al Quarto vangelo, a Giovanni sono attribuite tre lettere, che affrontano i problemi dottrinali della comunità, e l’Apocalisse, una meravigliosa sinfonia simbolica che proclama con serena fiducia il rinnovamento del mondo operato dalla pasqua di Cristo: anche se i redattori di questi testi possono essere differenti, resta unitario l’ambiente culturale di riferimento, e lo stile giovanneo li caratterizza tutti, con un’insistenza particolare sulla necessità di conservare la Parola di Dio e di rimanere in Gesù Cristo. Nell’arco di questi straordinari settant’anni, dunque, la comunità cristiana, partita da un piccolo nucleo nella periferica provincia della Giudea, ha raggiunto il cuore dell’Impero romano, moltiplicandosi in un’infinità di gruppi cittadini grazie all’impegno e all’abilità di molti "ministri della Parola", che hanno lasciato per iscritto i documenti fondamentali del cristianesimo. Per chi si accinge a leggere, o a rileggere, i libri del Nuovo Testamento, questa meravigliosa esperienza delle origini ritorna d’attualità; questo cammino di comprensione, fatto di condivisione e di annuncio, si presenta per essere rivissuto.
25/07/2008 20:24


Vittorio Messori "Ipotesi su Gesù" - SEI 2001



E se fosse vero?


O Dio esiste o Dio non esiste. Per quale di queste due ipotesi volete scommettere? Per nessuna delle due. La risposta giusta è non scommettere affatto. Vi sbagliate. Puntare è necessario, non è affatto facoltativo. Anche voi siete incastrato (Blaise Pascal).

Di Gesù non si parla tra persone educate. Con il sesso, il denaro, la morte, Gesù è tra gli argomenti che mettono a disagio in una conversazione civile. Troppi i secoli di devozionalismo. Troppe le immagini di sentimentali nazareni con i capelli biondi e gli occhi azzurri: il Signore delle signore. Troppe quelle prime comunioni presentate come "Gesù che viene nel tuo cuoricino". Non a torto tra persone di gusto quel nome suona dolciastro. E irrimediabilmente tabù.

Ci si laurea in storia senza aver neppure sfiorato il problema dell'esistenza dell'oscuro carpentiere ebreo che ha spezzato la storia in due: prima di Cristo, dopo di Cristo. Ci si laurea in lettere antiche sapendo tutto del mito greco- romano, studiato sui testi originali. Senza aver però mai accostato le parole greche del Nuovo Testamento. È singolare: la misura del tempo finisce con Gesù e da lui riparte. Eppure egli sembra nascosto. O lo si trascura o io si dà per già noto.

Neppure preti, pope, pastori ne parlano molto. È vero: ogni domenica accennano a lui in qualche milione di prediche, omelie, sermoni. Ma sembra troppo spesso che per loro la fede in lui non costituisca un problema. Piuttosto, un dato di fatto. Si costruiscono complesse architetture sui vangeli; ma pochi scendono con chi li ascolta in cantina per vedere se le fondamenta ci sono davvero. Pochi cercano di saggiare se ancor oggi è solida la pietra angolare su cui appoggiano la loro fede e le loro chiese. Nella intera storia degli uomini, questo è il solo uomo cui sia mai stato associato senza mediazioni il nome di Dio. Ma a questo scandalo inaudito molti devono essersi abituati. Lo danno per scontato. È come se l'incenso (ha osservato un impertinente) li avesse ormai intossicati. Dice un detto "segreto" attribuito a Gesù da un vangelo apocrifo: "Chi si stupisce, regnerà". Molti sembrano aver perduto il dono dello stupore.

Eppure, un sondaggio di opinione ha mostrato che, ogni cento italiani, 64 considerano Gesù "il personaggio più interessante della storia". Garibaldi e Luther King, secondo e terzo in quella sorprendente classifica, seguono con grande distacco. Vengono poi Gandhi e infine Marx. Gli intervistati hanno detto che di Gesù vorrebbero sapere qualcosa di più e soprattutto di più attendibile. Ma non sanno dove informarsi. I giornali, la cultura laica, si occupano delle istituzioni (il Vaticano, le chiese...) che poggiano sulla fede, ma ignorano questa. La cultura dei credenti, da parte sua, sembra preferire le variazioni ascetiche, le meditazioni spirituali su Gesù; ma così spesso, come osservammo, non ne affronta il formidabile problema storico. "Che sia proprio il Cristo, all'interno e all'esterno della cristianità, lo sconosciuto che fa del cristianesimo stesso un noto sconosciuto?" si chiede Hans Kung.

Sembra dunque che nessuno si occupi del problema di Gesù. Ma non è vero. La bibliografia su di lui è in realtà un oceano, per giunta in continua tempesta. Nel solo secolo scorso, a lui sono stati dedicati circa 62 mila volumi, Alla Biblioteca Nazionale di Parigi, specchio della cultura occidentale, la sua "voce" è seconda per numero di schede. La prima, significativamente, è Dieu. In realtà, da molti secoli il dibattito storico su Gesù è la riserva di caccia, gelosamente sorvegliata, di chierici e di laici accademici, spesso a loro volta ex-chierici. Sono gli specialisti che hanno prodotto e producono quelle migliaia di volumi, confutandosi a vicenda in una interminabile disputa di dotti. Alla gente si lasciano i libri di devozione o qualche divulgazione non di rado addomesticata o propagandistica. Così, molti ignorano che a proposito di Gesù tutte le ipotesi sono state fatte, tutte le obiezioni confutate, ribadite, riconfutate all'infinito. Ogni parola del Nuovo Testamento è stata passata al vaglio mille volte; tra i testi di ogni tempo e paese questo di gran lunga il più studiato, con incredibile accanimento.

Al non specialista giunge appena qualche eco attenuata del dibattito. Dura da ormai duemila anni, ma negli ultimi tre secoli ha cambiato bersaglio. Mentre, sino al Settecento, la disputa era soprattutto interna al cristianesimo (questione di "ortodossia" e di "eresia") a partire da quel secolo nasce la critica extra-cristiana. Le Scritture su cui si basa la fede sono contestate nella loro storicità. Si attacca ciò che sino ad allora era dato per scontato, pur nella polemica più aspra e talvolta sanguinosa: la credenza, cioè, in un particolare rapporto dell'uomo Gesù con Dio; la fede in lui come il Cristo, il Messia, l'atteso di Israele.

Disputa, comunque, sempre tra pochi dotti. Scrive Jean Guitton, lo studioso francese cui questo libro deve molto:

Il grande pubblico ne ha tratto la convinzione che il problema di Gesù sia questione di sapienti e di teologi, al di sopra della sua competenza. La difficoltà di crearsi un'opinione personale ha fatto sì che ciascuno distogliesse il pensiero dal problema. L'incredulo per conservare il suo dubbio sulla storicità del Gesù dei vangeli. Il credente per vivere di fede. Il silenzio è tornato quindi a regnare su questo problema fondamentale.

Le pagine che seguono sono proposte da chi non ha accettato quel silenzio e si è inoltrato da bracconiere nella riserva di caccia degli specialisti. Non sono che un "profano" che, a suo rischio e pericolo, si è azzardato nel sancta sanctorum dove si scrive in tedesco o in latino, si disputa su parole ebraiche, su lapidi aramaiche, su codici greci. Non sono un cattedratico né un ecclesiastico. Non sono che un laico. Dietro questo libro c'è il bisogno di quel cronista che sono di raccogliere notizie innanzitutto per me, per poi offrirle ai lettori. Conosco gli stanzoni di cronaca dei quotidiani e le redazioni dei settimanali più che le aule delle università pontificie. Né vengo dal sérail, il serraglio, come lo chiamano i francesi: quello che troppo spesso è il "ghetto" anche culturale della cristianità.

Parlare di sé è irritante e rischioso. Se mi ci azzardo è perché vorrei rassicurare il lettore: sono partito dal dubbio; o meglio dall'indifferenza. Come lui, come tanti oggi. Non certo dalla fede. Sono arrivato a questi studi dopo 18 anni di agnostica scuola di Stato. Ho dovuto imparare tutto, partendo dal niente. A scuola, gli unici preti sono stati per me quelli delle "ore di religione" imposte dal sistema concordatario. Poi, improvvisa, è cominciata una caccia al tesoro, sempre più appassionante, nella Palestina del primo secolo. Il primo biglietto della catena fu una copia dei Pensieri di Pascal, acquistata per certe ricerche marginali del corso di laurea. A Blaise Pascal questo libro è dedicato: senza di lui non sarebbe mai stato scritto. O sarebbe stato del tutto diverso. È dedicato anche alla schiera immensa di coloro che, nei secoli, sono andati cercando soluzione al più affascinante tra i "gialli": le origini del cristianesimo.

Non occorre però la passione del genere poliziesco per essere coinvolti da questa storia. Ciascuno di noi vi è aggregato di autorità, per il fatto stesso di vivere. "Vous étes embarqués", anche voi siete incastrati, ricorda Pascal a chi vorrebbe eludere il problema del proprio destino. Che lo si voglia o no, che piaccia o no, da secoli in Europa, nelle Americhe in Oceania, in Africa, in parte dell'Asia, quelle due sillabe (Gesù) sono legate al senso del nostro futuro. Quello vero: quello eterno. Lo ripetono, caparbi, dall'inizio dell'Impero Romano sino a noi, coloro che credono quel Nome risposta definitiva alle domande dell'uomo; che lo associano, addirittura, al concetto inaudito di "Figlio di Dio"; che dicono che nella sua storia noi tutti siamo, e saremo per sempre, coinvolti.

In queste pagine ho tentato di esaminare se vi sono ancora ragioni accettabili della testarda, incredibile riproposta agli uomini come loro Redentore e Rivelatore dell'oscuro israelita. Cercherò di spiegare più avanti perché, nel bric-à-brac delle religioni del mondo, sono persuaso che proprio di lui valga innanzitutto la pena di occuparsi. Perché Gesù e non Maometto o Lao-Tse o Zarathustra. Ho raccolto un dossier di notizie che rispondesse alle mie domande; ad alcune almeno, non certo a tutte. Domande, mi auguro, che sono anche quelle della gente che lavora. Della gente per la quale ogni giorno è un problema. E tanto spesso così assillante da non lasciare certo spazio alla ricerca di soluzioni al "Problema". Quello davvero di fondo, il più a monte di tutti, come si ama dire.

Il "Problema", cioè, che sta dietro alle domande spesso irrise, quasi fossero da lasciare agli adolescenti, indegne di adulti: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? C'è un futuro per noi, al di là della linea di un orizzonte che cozza, ineluttabile, contro il muro della morte? O davvero, come canticchiava amaro Petrolini, non siamo che pacchi, campioni senza valore, che l'ostetrico spedisce al becchino? Al di qua dell'ostetrico e al di là del becchino, la vita è aperta su due misteri. Prima della nascita e dopo la morte, da entrambi i capi la nostra esistenza è immersa nell'ignoto. Senza dubbio, sull'eterno. Eterno, il nulla da cui forse siamo venuti. Eterno, il niente nel quale forse sprofonderemo.

Non crediamo sia in torto chi ha paragonato la nostra condizione a quella di chi si svegli su un treno che corre nella notte. Da dove è partito quel treno su cui siamo stati caricati, non sappiamo quando e perché? dove è diretto? e perché questo treno e non un altro? C'è chi si accontenta di esaminare il suo scompartimento, di verificare le dimensioni dei sedili, di analizzare i materiali. Per poi riaddormentarsi tranquillo: ha preso coscienza dell'ambiente che lo circonda, tanto gli basta, il resto non è affar suo. Ché, se poi l'angoscia dell'ignoto prenderà alla gola, ci sarà sempre modo di scacciarla pensando ad altro. Come esorta il poeta, "meglio oprando obliar senza indagarlo, quest'enorme mistèr dell'universo".

Io non so chi mi ha messo al mondo né che cosa è il mondo né che cosa sono io stesso. Vedo questi impressionanti spazi dell'universo che mi rinchiudono e mi trovo attaccato a un angolo di questa vasta distesa, senza che io sappia perché sono stato collocato in questo luogo piuttosto che in un altro. Né perché questo poco tempo che mi è dato da vivere mi è dato a questo punto, piuttosto che a un altro di tutta l'eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Io non vedo che infiniti da tutte le parti che mi rinchiudono come un atomo e come un'ombra che dura solo un istante senza ritorno. Tutto quel che conosco è che debbo presto morire: ma quel che ignoro di più è proprio questa morte che non saprei evitare.

"Pazzo sublime", "nevrotico squilibrato", "inguaribile adolescente", "presuntuoso che non si è rassegnato alla legge del dubbio", "genio rubato alla scienza": sono alcune delle definizioni affibbiate a Pascal, l'autore delle righe riportate. Colpevole, infatti, di aver passato i suoi 39 anni a cercare se non ci fosse per caso soluzione al mistero della condizione umana. Agli ironici confortatori al suo capezzale, egli replicava però ritorcendo in anticipo l'ironia: "Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, hanno deciso, per rendersi felici, di non pensarci". O meditava, amaro, che la sensibilità dell'uomo per le cose piccole e l'insensibilità per le cose grandi è indizio di uno strano pervertimento .

Pascal, infatti, amava e stimava in modo eguale due generi di persone: i "credenti" e gli "increduli". Chiunque, cioè, al tavolo dove si gioca la vita, avesse puntato per una ipotesi o per l'altra: "O Dio c'è o Dio non c'è. Su quale delle due possibilità volete scommettere?". Gli riusciva invece incomprensibile l'atteggiamento di chi non prende posizione: "Un erede trova i titoli relativi al suo casato. Credete che dirà: "Forse sono falsi" e che trascurerà di esaminarli?". E concludeva poi, con quel suo radicalismo così passionale e così scandaloso per orecchie delicate: "Ma allora, non soltanto lo zelo di coloro che lo cercano prova l'esistenza di Dio. Lo prova anche l'indifferenza di coloro che non lo cercano affatto".

Per tornare all'immagine del treno, anche i più saccenti, qui, hanno una sola informazione sicura da dare: che il convoglio finirà per imboccare un tunnel oscuro, senza che alcuno possa scendere prima. Ma che vi sia oltre l'imbocco della misteriosa galleria, non sanno. "Non c'è nulla, c'è solo il buio", dicono alcuni. Un'opinione rispettabile. Ma che ha purtroppo il difetto di mancare di prove. Nessuno è tornato indietro per darci relazione del suo viaggio al di là della Todeslinie, la linea della morte. Noi siamo tra gli ingenui, gli inguaribili adolescenti, gli alienati. Tra coloro cioè che sono sgomentati, e senza vergognarsene, dal silenzio eterno degli spazi infiniti che ci circondano. Invece di starcene tranquilli al nostro posto, guardando il buio correre fuori, preferiamo girare di scompartimento in scompartimento. Nella speranza, chissà?, di trovare un qualche "orario" che dia un nome e una direzione a questo viaggio che non abbiamo voluto.

Più che rispondere a delle domande, ho dunque cercato di dare delle informazioni. Ho raccolto notizie, nel tentativo di stendere una "ipotesi di bilancio" sul problema di Gesù. Questo, infatti, è il solo uomo nella storia di cui si dice che sia tornato vivo dalla galleria della morte. E se fosse vero? Sono partito oltre dieci anni fa come per un servizio giornalistico che rispondesse a quella domanda e ho finito (il lettore se ne accorgerà subito) per esserne sino in fondo coinvolto; forse, ancora una volta ha ragione il Cristo di Pascal: "Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato". Ciò che qui propongo è, comunque, offerto con onestà; ho lavorato innanzitutto per me. Dunque, ho cercato di non ingannare me stesso. Dio non ha bisogno delle nostre bugie. Il personaggio storico chiamato Gesù e che da venti secoli è legato al mistero stesso di Dio ha diritto alla verità, non alle astuzie apologetiche. E noi abbiamo diritto a non essere imboniti ma informati.

Ho cercato così di attenermi a ciò che tutti possono accettare; a ciò che è per quanto possibile fuori discussione. Dopo tante dotte e preziose analisi, occorre che qualcuno si azzardi, a suo rischio e pericolo, a tentare una sintesi. Questa mia è (come e più che ogni altra in questo argomento) una sintesi provvisoria. È una semplice proposta che ha bisogno di essere verificata e discussa, superata e nuovamente formulata. Anche se, purtroppo, ogni libro è per sua natura un mezzo "autoritario"; o, quanto meno, un monologo. Il vangelo, invece, è un dialogo che non finisce mai. "Ma voi, chi dite che io sia?", chiede ancora e sempre l'enigmatico protagonista.

Il mio debito verso tutti coloro che si sono occupati del problema (sia per negare che per affermare) è tale, da potere sottoscrivere quanto Pascal ebbe un giorno a osservare:

Quegli autori che, parlando delle loro opere, dicono "il mio libro, il mio commento, la mia storia", assomigliano a quei borghesi che hanno qualche bene al sole e sempre un "mio" sulla bocca. Farebbero meglio a dire: il nostro libro, il nostro commento, la nostra storia, visto che di solito in quelle opere ci sono più beni d'altri che loro.

Qui, addirittura, a ogni frase avrei potuto far seguire una nota con il riferimento a un lavoro altrui. Ho scelto l'estremo opposto e di note erudite non ne ho quasi messe, limitandomi a segnalare alcune citazioni prese di peso e neppure elaborate. Gli eruditi, infatti, probabilmente non leggeranno questo libro che pure deve tutto alle loro ricerche preziose. Molti lo sdegneranno come l'incursione di un dilettante, un intruso che ha tentato di mettere in piazza una disputa troppo profonda per il volgo. Di note, comunque, eventuali lettori specialisti non hanno bisogno: sanno bene dove controllare, se vorranno, le affermazioni sulle quali mi appoggio. Agli altri, ai "profani" come me, basti sapere che quanto cito è citato alla lettera, senza deformazioni interessate. Che ogni notizia è documentata e documentabile.

Ho dato quanto ho potuto, vincendo la riluttanza a tentare bilanci quando si è ancora, com'è il mio caso, in piena ricerca e si considera la profondità insondabile degli abissi che si spalancano da ogni lato. Paolo di Tarso descrive lo stato d'animo in cui si presentò davanti ai Corinti: "debole, timoroso, tutto tremante". Se è lecito richiamarsi, almeno nella debolezza, a quello straordinario press-agent del cristianesimo nascente, ebbene il mio stato d'animo è del tutto simile. Ho però avvertito anche il dovere di rispondere all'invito di un altro ebreo, Simone detto Pietro: "Siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi a chiunque chieda una spiegazione, ma con mansuetudine e rispetto".

"Mansuetudine e rispetto". Per affrontare questo problema di Gesù che investe l'uomo eppure lo supera, c'è davvero bisogno di tutti gli uomini. Le polemiche, qui, sono più che inutili; sono stupide. Do tutta la mia solidarietà e la mia simpatia ai cosiddetti "increduli" quando non vogliono i cristiani creduli; che è il contrario di credenti. Senza gli "increduli", sul problema di Gesù si sarebbe ancora all'apologetica barocca. Scriveva Lacordaire, il volterriano che finì domenicano:

Ciò che veramente mi importa non è convincere di errore chi la pensa diversamente da me. Ciò cui tengo è unirmi a lui in una verità più alta.

Mi è parso sin qui di scoprire che, malgrado tutto, su Gesù i conti tornano. Che l'ultimo passo della ragione può essere il riconoscere che vi è una dimensione che supera la ragione stessa. Che può essere ragionevole scommettere sull'ipotesi su cui si regge la fede. Certo, resta fitto il mistero, appena rischiarato da qualche luce; tanti problemi non trovano risposta. Se davvero il Creatore stesso dell'universo è entrato nel tempo e nello spazio, perché proprio su questo piccolo frammento di rocce e metalli che ruota attorno a una stella, tra i duecentocinquanta miliardi di stelle della sola nostra galassia? "Credere non è capire tutto" dice Teilhard de Chardin. Quel mistero, quei problemi, però, mi sembrano ancora più grandi se si punta sulla soluzione contraria. Se si afferma, cioè, che il cristianesimo non è che il più grosso degli equivoci in cui gli uomini siano incappati. Comunque, alla fin fine: "chi biasimerà i cristiani del non sapere dare sino in fondo ragione della loro fede, visto che dichiarano, esponendola al mondo, che quella fede è assurda, è un'idiozia?". Idiozia, stultitia è infatti, per Paolo di Tarso, l'annuncio che in un predicatore vagante ebreo Dio stesso si sarebbe manifestato; che quel visionario sconfitto avrebbe vinto la morte rovesciando la pietra del sepolcro. Un'idiozia, per la sapienza del "mondo".

Ma, avendo udito parlare di resurrezione dai morti, alcuni (degli ateniesi) presero a deriderlo, altri poi dissero: "Su questo ti sentire un'altra volta". Così Paolo uscì di mezzo a loro (Atti, cap. 17).

Proprio il mattino di quella risurrezione, secondo il racconto che è attribuito a Luca, "due uomini in abito sfolgorante" apparvero alle donne giunte al sepolcro. "Perché cercate colui che è vivo in mezzo ai morti?" chiesero i due. In questa domanda del vangelo è il senso e il limite di ogni ricerca come la nostra sul Gesù sulla storia, su quest'uomo da cui ci separano più di trenta vite d'uomo.

Dal Gesù nato sotto Augusto e morto sotto Tiberio bisognerebbe partire per riconoscere che ogni uomo, qui e ora, è il Cristo della fede. E per confessare che, ovunque si pratica davvero l'amore, lì il Dio di Abramo e di Gesù si manifesta ancora una volta nella storia. E che lì, dove si tende alla giustizia, alla liberazione da quanto opprime l'uomo dentro e fuori, lì è l'ecclesìa, l'adunanza di chi crede al Gesù resuscitato; conosca o no il suo nome. Ha scritto Bonhoffer, il cristiano appeso a un gancio dai nazisti, che chi dice di credere in un certo Gesù che ha insegnato, che è morto, che è risorto, può anche cantare in gregoriano. Ma, aggiunge, soltanto se grida allo stesso tempo per le vittime di ogni presente e futuro. Gesù, ha detto un poeta contemporaneo, non si trova al termine dei nostri ragionamenti; ma, semmai, al termine del nostro impegno di misericordia.
25/07/2008 20:35


Israel Knohl "Il Messia prima di Gesù" - Arnoldo Mondadori Editore 2001



Dopo tre giorni


Inizieremo la nostra ricerca sul contesto storico del messia di Qumran prendendo in esame due opere apocalittiche che, a mio parere, ci parlano della morte violenta del messia di Qumran. Il nostro primo compito consisterà nel datare gli eventi in esse narrati. In un'opera apocalittica l'autore descrive in genere gli accadimenti del suo tempo come profezia del futuro. Per questo le opere apocalittiche vanno interpretate sullo sfondo degli eventi storici dell'epoca in cui sono state composte. Come argomenterò in modo circostanziato, il contenuto delle nostre due apocalissi può essere chiaramente compreso alla luce della situazione politica nell'impero romano nella seconda metà del I secolo a.C., appena prima della vita e del ministero di Gesù. Nel 44 a.C. Giulio Cesare venne ucciso da un gruppo di cospiratori guidati da Bruto e Cassio. Dopo l'assassinio, si diede lettura del suo testamento. In esso Cesare dichiarava di avere adottato Ottaviano - figlio di sua nipote Azia - come proprio figlio, il quale ricevette il suo nome, divenendo Caio Giulio Cesare Ottaviano. A quell'epoca Ottaviano, che avrebbe ricevuto in seguito il titolo di "Augusto", era un giovane di diciannove anni, e dovette lottare per il potere a Roma contro rivali più anziani ed esperti, specialmente contro Marco Antonio. Gli sforzi principali di Ottaviano furono rivolti in quel periodo a ottenere onori divini per il Cesare assassinato; se fosse stata riconosciuta la divinità del padre adottivo, infatti, egli stesso avrebbe automaticamente acquisito uno status divino. Per sottolineare come fosse figlio del "divino Giulio", si definì divi filius, "figlio di dio" o "figlio del deificato". Tale titolo appare sulle sue monete. Gli anni successivi all'uccisione di Cesare videro divampare guerre spietate. Prima Ottaviano e Marco Antonio combatterono insieme contro gli assassini di Cesare e i loro sostenitori; poi, sconfitti i nemici, si divisero l'impero. Ottaviano, da Roma, si pose a capo delle regioni occidentali, mentre Marco Antonio, stabilitosi ad Alessandria, governava le province orientali. Ma gli stretti rapporti di Marco Antonio con Cleopatra, regina d'Egitto, suscitarono fra i due acute tensioni che sfociarono nel 31 a.C. nella battaglia navale di Azio. L'esito della battaglia era ancora indeciso quando

improvvisamente si videro le sessanta navi di Cleopatra alzare le vele per prendere il largo e fuggire passando attraverso il folto dei combattimenti. [...] Allora Antonio manifestò chiaro a tutto il mondo che non era più mosso dai pensieri e dalle ragioni dì un comandante, e neppure dai suoi propri [...] poiché si lasciò trascinare dalla donna quasi fosse attaccato e si muovesse con lei. Appena vide la sua nave che si allontanava, dimentico di tutto il resto, tradì, abbandonò coloro che combattevano e morivano per lui [...] e si diede a inseguire colei che l'aveva già rovinato.

Così Antonio e Cleopatra furono sconfitti dalla flotta di Ottaviano e, fuggiti ad Alessandria, si suicidarono. Tali drammatici eventi sono riflessi, a mio parere, nell'apocalisse nota come "Oracolo di Istaspe".


L'Oracolo di Istaspe

La profezia di Istaspe è menzionata per la prima volta a metà del II secolo d.C. da Giustino Martire, che fu messo a morte dalle autorità romane per la sua fede cristiana. Egli racconta che chiunque avesse letto quella profezia, che prediceva la caduta dell'impero romano, sarebbe stato condannato da Roma alla pena capitale. Ma aggiunge che, nonostante la crudele minaccia, lui e i suoi amici continuavano a leggerla. Il Padre della Chiesa Clemente Alessandrino, dal canto suo, dice che Paolo di Tarso raccomandava di leggere la profezia di Istaspe e di citarla. Il mitico Istaspe, cui l'Oracolo era attribuito, era un re della Media che si presumeva vissuto prima della guerra di Troia. Ma l'identità persiana maschera il fatto che l'opera apocalittica fu scritta da un ebreo per parlare del popolo giudaico e di Gerusalemme. Alcuni suoi brani si sono conservati in un'opera del Padre della Chiesa Lattanzio (300 d.C. circa), che era noto come il Cicerone cristiano. Nella sua profezia Istaspe parla di due re. Del primo, destinato a dominare sull'Asia, dice: "Angarierà il mondo con il suo intollerabile dominio [...] e accarezzerà nuovi progetti nel petto, per assicurare il potere a se stesso. [...] E infine muterà il nome dell'impero e ne trasferirà la sede". Dopo di che giungerà un altro re, più terribile del primo, e lo annienterà. Di questo secondo re Istaspe scrive che "si costituirà e denominerà dio e ordinerà di essere venerato come figlio di dio". Chi sono questi due re? Istaspe dice che il primo, che dominerà sull'Asia, muterà il nome dell'impero e ne trasferirà la capitale. Tali affermazioni corrispondono esattamente alle accuse che i sostenitori di Ottaviano Augusto muovevano a Marco Antonio per i suoi rapporti con Cleopatra. Nel 40 a.C. Antonio, in seguito a un accordo raggiunto quell'anno a Brindisi con Ottaviano Augusto, ne sposò la sorella, Ottavia. L'accordo e il matrimonio suscitarono grandi speranze fra i romani, stanchi di interminabili guerre, ma tali speranze s'infransero quando Antonio tornò dalla sua amante, Cleopatra, e la sposò. La sua rivalità con Ottaviano Augusto raggiunse l'apice nel 32 a.C., anno in cui divorziò da Ottavia e la scacciò dalla propria casa. Ottaviano reagì sottraendo illecitamente il suo testamento alla custodia delle sacerdotesse vestali a Roma e leggendolo di fronte al senato. In esso Antonio aveva scritto che, anche se fosse morto a Roma, desiderava essere portato ad Alessandria e sepolto accanto a Cleopatra. Tali volontà furono assunte a prova dell'accusa secondo cui mirava a trasferire la capitale dell'impero ad Alessandria. Il senato ordinò una guerra contro la regina d'Egitto, guerra che portò alla battaglia di Azio tra la flotta di Augusto e quella di Antonio e Cleopatra. Secondo lo storico romano Dione Cassio a Roma si credeva che "se [Antonio] avesse vinto, avrebbe fatto dono di Roma a Cleopatra e avrebbe trasferito in Egitto la capitale dell'Impero". Nella visione di Istaspe si dice che il primo re "accarezzerà nuovi progetti nel petto, per assicurare il potere a se stesso. [...] E infine muterà il nome dell'impero e ne trasferirà la sede". In questo re si può identificare Marco Antonio. Egli, continua Istaspe, sarà annientato da un secondo re. Questo secondo re è Augusto, che prevalse su Antonio. Di lui Istaspe dice: "si [...] denominerà dio e ordinerà di essere venerato come figlio di dio"; e, come abbiamo visto, Ottaviano Augusto si denominò divi filius. Inoltre:

Sarà anche un profeta di menzogne, e si costituirà e denominerà dio e ordinerà di essere venerato come figlio di dio, e gli sarà dato il potere di compiere segni e prodigi, con la cui vista circuirà gli uomini perché lo adorino. Ordinerà che il fuoco scenda dal cielo.

Perché Augusto, il "figlio di dio", è descritto come falso profeta?


Il falso profeta nel Libro dell'Apocalisse

La figura di un falso profeta che fa scendere fuoco dal cielo ci è familiare anche dalla famosa visione del capitolo 13 del Libro dell'Apocalisse nel Nuovo Testamento. In questa visione sono descritte due bestie. La prima, che ha sette teste e dieci corna, sale dal mare. Una delle sue teste viene gravemente ferita, ma la ferita guarisce. Tutti gli abitanti della terra la adorano. In seguito "sorge" una seconda bestia: "Vidi poi salire dalla terra un'altra bestia, che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago" (Apocalisse 13,11). Per mezzo di segni e prodigi, tra cui quello di far piovere fuoco dal cielo, la bestia persuade gli abitanti della terra a farsi un'immagine della prima bestia e a adorarla. "Operava grandi prodigi, fino a fare piovere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini" (Apocalisse 13,13). La seconda bestia assomiglia moltissimo alla figura del falso profeta, il "figlio di dio", di Istaspe. Della visione delle due bestie sono state proposte, lungo tutta la storia del cristianesimo, interpretazioni d'ogni genere, ma nessuna finora, sembra, davvero convincente. A mio avviso la chiave per comprendere la visione sta nel rendersi conto che Giovanni, che pare abbia scritto il Libro dell'Apocalisse attorno all'80 d.C., si servì qui di uno scritto più antico, risalente all'inizio del I secolo, durante il regno di Augusto. Nella visione la seconda bestia ha due corna simili a quelle di un agnello e parla come un drago. Questa strana combinazione di drago e corna di agnello può trovare un'adeguata spiegazione nella propaganda sull'origine divina di Augusto. La figura di un capretto o una capra con due corna, il capricorno, svolge un ruolo importante nel mito sulla sua divinità. Il capricorno era il segno del mese in cui Augusto era stato concepito. L'importanza che egli attribuiva a questo segno è fatta risalire da Svetonio a quello che l'astrologo Teogene gli aveva detto quando era giovane:

Durante il suo ritiro in Apollonia, Augusto era salito in compagnia di Agrippa fino all'osservatorio dell'astrologo Teogene; essendo stato predetto un magnifico e quasi incredibile futuro ad Agrippa, che aveva consultato per primo l'astrologo, egli aveva insistito nel tacere i dati relativi alla propria nascita e a non volerli rivelare, per il timore e la vergogna di essere trovato inferiore al compagno. Quando tuttavia alla fine, dopo molte esortazioni, a stento ed esitando li rivelò, Teogene balzò su e si prosternò a adorarlo. In seguito Augusto ebbe tanta fiducia nel proprio destino, da far pubblicare il suo oroscopo e da far coniare una moneta d'argento con inciso il segno del capricorno, sotto il quale era nato.

In effetti il capricorno compare su numerose monete emesse da Augusto. Una di esse, coniata in Spagna, mostra una capra con due corna che regge un globo e, sotto, la scritta "Augustus". Augusto pose il simbolo del capricorno anche su alcune insegne delle legioni romane, il che, come ha spiegato il classicista J.R. Fears, voleva significare che egli regnava con il favore degli dei ed era stato scelto da loro per governare il mondo. Nell'Apocalisse la bestia con due corna d'agnello parla come un drago. Il drago simboleggia il legame di Augusto con il dio Apollo. Dione Cassio afferma che Giulio Cesare scelse Ottaviano Augusto come suo successore sotto l'influenza di una storia narrata da Azia secondo cui lo avrebbe concepito con il dio Apollo:

Vari motivi lo spingevano a ciò: soprattutto il fatto che Azia affermava con piena sicurezza di averlo generato da Apollo, perché, essendosi una volta addormentata nel tempio di questo dio, le era sembrato di avere rapporti con un drago, per cui al momento giusto aveva partorito il bambino.

Svetonio, che racconta anch'egli questa storia nelle Vite dei Cesari, aggiunge che dopo l'episodio nel tempio era apparsa sul corpo di Azia una macchia a forma di drago. Il drago era simbolo dell'epiteto "Pitico", che Apollo si era guadagnato uccidendo, nella grotta di Delfi, Pitone, il mostruoso serpente. La leggenda della nascita miracolosa di Augusto compare per la prima volta in un epigramma di Domizio Marso, poeta e amico dell'imperatore. Il legame di Augusto con il dio si fece ancora più stretto dopo la vittoria di Azio, che avvenne non lontano da un tempio di Apollo. Il poeta Properzio, contemporaneo di Augusto, descrive il dio Apollo in piedi sulla nave di Ottaviano nell'atto di scagliare frecce contro la flotta di Cleopatra. Dopo la vittoria, Augusto fece erigere presso la propria casa sul Palatino uno splendido tempio ad Apollo. Su un colonnato vicino al tempio venne innalzata una statua del dio con le fattezze dell'imperatore, e su monete coniate in Asia minore dopo la battaglia di Azio Augusto fu raffigurato come Apollo. La bestia con due corna d'agnello che parla come un drago è Augusto, che si rappresentava come Apollo. Questo dio era noto per le sue doti profetiche, la cui massima espressione era l'oracolo di Delfi, e doti profetiche furono attribuite anche ad Augusto. L'autore della visione del Libro dell'Apocalisse in realtà controbatte la propaganda augustea: l'imperatore, afferma, non è un vero profeta, ma un falso profeta che parla come un drago. Il drago profetante è Pitone, il mostruoso serpente di Delfi ucciso da Apollo. Se Augusto sfruttò il mito di Apollo per conferirsi la sua divinità, l'autore della visione sfruttò lo stesso mito per rappresentare Augusto come un mostruoso drago. Nella visione delle due bestie il falso profeta persuade tutti gli abitanti della terra a adorare l'immagine della prima bestia (Apocalisse, 13,12). Come spiega diffusamente R.H. Charles, la prima bestia vuole rappresentare l'impero romano. Essa viene ferita gravemente a una delle teste, ma guarisce, così come l'impero romano si riprese e continuò a dominare il mondo dopo l'uccisione di Giulio Cesare. Quindi l'immagine della prima bestia, immagine che il falso profeta persuade tutti gli abitanti della terra a adorare, è la statua rappresentante l'impero romano. A spiegarlo è Svetonio, il quale racconta che Augusto ordinò che accanto alla statua dell'imperatore, nei templi eretti in suo onore, si collocasse una statua della dea Roma, simbolo dell'impero. Augusto era il falso profeta del culto imperiale alla statua di Roma. Nella visione delle due bestie del capitolo 13 dell'Apocalisse e nell'Oracolo di Istaspe si esprime una polemica contro la propaganda che rappresentava Augusto quale sovrano con attributi divini e contro il culto imperiale diffuso al suo tempo. Istaspe critica Augusto e lo accusa di creare un culto in cui è adorato come dio e "figlio di dio", e il Libro dell'Apocalisse attacca il secondo elemento del culto imperiale, quello della dea Roma, simbolo dell'impero.


L'uccisione dei messia e la loro risurrezione

L'Oracolo di Istaspe descrive la venuta di un grande profeta:

All'avvicinarsi della fine dei tempi un grande profeta sarà inviato da Dio a convertire gli uomini alla Sua conoscenza. Ed egli riceverà il potere di fare cose prodigiose. Ogni qual volta gli uomini non lo ascolteranno, egli chiuderà il cielo, e farà sì che trattenga le sue piogge; egli tramuterà l'acqua in sangue [...] e se qualcuno tenterà di nuocergli, dalla sua bocca uscirà un fuoco che lo brucerà. Tramite questi prodigi e poteri egli convertirà molti al culto di dio.

Il secondo re, il "figlio di dio", descritto come falso profeta,

combatterà contro il profeta di Dio e vincerà e lo ucciderà, e lo condannerà a giacere insepolto; ma dopo il terzo giorno egli risusciterà; e mentre tutti guarderanno e si stupiranno, sarà rapito in cielo.

Il falso profeta, il "figlio di dio", è Augusto. Istaspe afferma quindi che Augusto, il falso profeta, ha combattuto contro il vero profeta mandato da Dio e lo ha ucciso. Poi ha impedito che il suo corpo venisse sepolto, ma dopo tre giorni il vero profeta è tornato in vita ed è salito al cielo. Una tradizione parallela si trova nella storia dei due testimoni nel capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse. Gli stessi miracoli attribuiti da Istaspe al profeta di Dio sono attribuiti qui ai due testimoni. E il loro destino assomiglia a quello del profeta:

E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall'Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sodoma ed Egitto, dove appunto il loro Signore fu crocifisso. Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permetteranno che vengano deposti in un sepolcro. Ma dopo tre giorni e mezzo, un soffio dì vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo: "Salite quassù" e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici (Apocalisse 11,7-9, 11-12).

Negli elementi essenziali i due racconti sono simili. La principale differenza è che Istaspe parla di un singolo profeta, mentre il Libro dell'Apocalisse di due testimoni profetanti, rappresentati come due olivi che stanno davanti al Signore di tutta la terra (11,4), una terminologia che è inequivocabilmente quella di Zaccaria 4,11,14: "Quindi gli domandai: "Che significano quei due olivi [...]?".Mi rispose: "[...] sono i due consacrati che assistono il dominatore di tutta la terra"". "Due olivi" e due "consacrati" indicano due messia unti con olio. Il profeta Zaccaria accenna qui ai due leader della sua epoca, l'epoca del ritorno a Sion: il messia regale Zorobabele, figlio di Sealtiel, e il messia sacerdotale Giosuè, figlio di Iozadak. Stando così le cose, si direbbe che i due testimoni dell'Apocalisse siano due capi messianici: un messia regale e un messia sacerdotale. Istaspe dice che il profeta di Dio viene ucciso dal "figlio di dio", che abbiamo identificato in Augusto. Nel Libro dell'Apocalisse (11,7) i due testimoni-messia sono uccisi da una bestia che sale da un abisso (abyssos), anch'essa una definizione di Augusto e del suo esercito. Secondo l'Apocalisse i due testimoni-messia vengono uccisi nel corso di una battaglia per le strade di Gerusalemme. Quando si svolse questa battaglia? Nei primi due versetti del capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse, prima della storia dei due testimoni, si dice:

Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: "Alzati e misura il santuario di Dio e l'altare e il numero di quelli che vi stanno adorando. Ma l'atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani".

Questi versetti ci dicono che durante la battaglia in cui i due testimoni furono uccisi, i soldati romani erano penetrati nel cortile del Tempio, ma il Tempio stesso e l'altare si salvarono. Il che ci offre la chiave per datare con precisione l'evento. Il re Erode, che regnava sulla terra di Israele per concessione dei romani, morì nel 4 a.C., e dopo la sua morte scoppiò nel paese una grande rivolta, contro il successore di Erode, Archelao, e l'esercito romano che lo appoggiava. Durante la rivolta i soldati romani entrarono nel cortile del Tempio e ne saccheggiarono il tesoro. Inoltre diedero alle fiamme le camere esterne del cortile, ma non entrarono nel Tempio né nei locali interni in cui era situato l'altare. Tutto ciò corrisponde esattamente ai versetti iniziali del capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse, dove si dice che i pagani calpestarono l'"atrio" del Tempio, ma non il Tempio stesso e l'altare. La rivolta del 4 a.C. fu brutalmente soffocata da Quintilio Varo, governatore di Augusto in Siria. Varo giunse dalla Siria con due legioni e altre forze, crocifisse duemila rivoltosi, e altri vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi. I soldati del suo esercito lasciarono dietro di sé distruzioni e abusarono delle donne. I giudei fecero ricadere la responsabilità della brutale repressione della rivolta e dell'incendio nel cortile del Tempio sull'imperatore romano Augusto. Tale accusa trova espressione in due versetti dell'opera pseudoepigrafa l'Assunzione di Mosè, che descrive la repressione:

Verranno nel loro territorio coorti e un potente re dall'occidente, che li sottometterà e li porterà via prigionieri. Brucerà una parte del loro tempio col fuoco, alcuni li crocifiggerà vicino alla loro città.

Il potente re giunto dall'occidente è Augusto, rappresentato qui come un crudele carnefice, agli occhi dei giudei responsabile delle azioni del suo governatore e dei suoi soldati. Si può capire, quindi, perché Augusto sia ritratto, nelle fonti che abbiamo esaminato, con tanto odio. L'Oracolo di Istaspe parla dell'uccisione del "profeta di Dio"e il Libro dell'Apocalisse di quella di due messia. Come va spiegata la differenza tra le due fonti? Si direbbe che uno dei due capi messianici fosse più importante dell'altro. Istaspe parla soltanto del "profeta di Dio" per creare un'opposizione con il "profeta di menzogne", Augusto. In entrambe le fonti troviamo motivi che ci sono familiari dalla letteratura del Mar Morto. Istaspe descrive la disfatta del falso profeta e del suo esercito a opera della spada di Dio, che scende dal cielo. Tale descrizione corrisponde a quella di Herev-El (la spada di Dio) nel Rotolo della Guerra dei Figli della Luce contro i Figli delle Tenebre. Nell'Apocalisse troviamo la storia dei due testimoni messianici. Nella letteratura del Mar Morto troviamo due messia: un messia sacerdotale e un messia regale. È presumibile che la tradizione relativa all'uccisione del profeta o dei messia che trova espressione in queste opere provenisse dai membri della setta di Qumran o da circoli a loro vicini. Si direbbe quindi che i capi messianici delle cui morti parlano queste fonti appartenessero alla comunità di Qumran. Poiché i due capi messianici furono uccisi nel 4 a.C., erano indubbiamente attivi nel periodo precedente, cioè durante il regno di Erode (37-4 a.C.). Come abbiamo visto, tutte e quattro le copie degli inni messianici furono scritte proprio in tale periodo. Si può quindi presumere che uno dei due messia uccisi nel 4 a.C. fosse l'eroe degli inni messianici di Qumran, ma il protagonista di questi inni era il messia regale o il messia sacerdotale? L'eroe degli inni non ha alcun attributo sacerdotale, mentre afferma di sedere su un "trono di potere" e menziona una corona. Possiamo dedurne che si trattasse del messia regale. C'era tuttavia anche l'altro "olivo", un messia sacerdotale.


Guardando il messia trafitto

Gli inni messianici fanno pensare che per qualche anno i membri della setta di Qumran abbiano creduto che l'età della redenzione fosse giunta. Essi erano convinti che avesse avuto inizio una nuova era in cui il dolore fosse scomparso e dominassero luce e gioia. Ma la realtà si dimostrò diversa. Il loro capo messianico fu ucciso dai soldati romani e il suo corpo venne lasciato insepolto in strada per tre giorni, come quello di un criminale. Non disponiamo di fonti storiche che descrivano i sentimenti dei membri della setta di Qumran al vedere il corpo trafitto del messia giacere per strada. Può aiutarci tuttavia un'analogia storica. Rivolgiamoci alle osservazioni di Gershom Scholem sulla crisi in cui precipitarono i discepoli di Shabbetai Zevi, un leader messianico ebraico del XVII secolo, quando egli abbandonò l'ebraismo per farsi musulmano: i sentimenti dei seguaci del messia di Qumran prima del 4 a.C. dovevano indubbiamente essere simili a quelli dei seguaci di Shabbetai Zevi prima della crisi generata dal suo cambiamento di religione:

Essi dovevano credere in perfetta semplicità che si aprisse una nuova era della storia e che essi stessi avessero già iniziato ad abitare un mondo nuovo e redento. Una tale convinzione non poteva non esercitare un profondo impatto su coloro che la nutrivano: i loro più intimi sentimenti, che li assicuravano della presenza della realtà messianica, parevano del tutto in armonia con il corso esteriore degli eventi.

La crisi scoppiò, per i membri della setta di Qumran, quando gli eventi del 4 a.C. si dimostrarono in totale contraddizione con i loro sentimenti sull'avvento della redenzione. Una situazione analoga è descritta da Gershom Scholem:

Tra i due livelli del dramma della redenzione, quello dell'esperienza soggettiva e quello degli oggettivi fatti storici, appariva per la prima volta una contraddizione. [...] Soprattutto, i "credenti", coloro che rimanevano fedeli all'esperienza interiore, furono costretti a trovare una risposta alla semplice domanda: quale poteva essere il valore di una realtà storica che si era rivelata così amaramente deludente, e come si poteva porre tale realtà in rapporto con le speranze che aveva tradito?

Una risposta a tale domanda si può trovare soprattutto nelle fonti che descrivono la morte del messia: l'Oracolo di Istaspe e il capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse. Da queste fonti possiamo dedurre che i credenti trovarono una chiave fondamentale per comprendere la catastrofe nel Libro di Daniele. Essi interpretarono la visione della quarta bestia nel capitolo 7 di Daniele come una profezia su Augusto e l'impero romano: era l'impero romano sotto Augusto la bestia che divorava e calpestava tutta la terra. Daniele dice che la quarta bestia "muoveva guerra ai santi e li vinceva" (7,21). I credenti interpretarono queste parole come una predizione dello scontro militare tra il messia e i suoi seguaci e i soldati di Augusto. Secondo tale interpretazione la sconfitta dei "santi" (il messia e i suoi seguaci) da parte dell'esercito romano era stata predetta nelle Scritture. Un'altra Scrittura che servì da base alla comprensione del tragico destino del messia fu un versetto di Zaccaria (12,10): "Guarderanno a colui che hanno trafitto", interpretato in riferimento al messia, il cui corpo trafitto venne lasciato in strada per tre giorni perché tutti lo vedessero. Abbiamo osservato nel primo capitolo come il messia di Qumran si appropriasse della descrizione del 2servo sofferente" di Isaia 53,3-4:

Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.

Dopo la morte del messia questi versetti acquisirono indubbiamente un significato del tutto nuovo. Che il corpo del messia fosse stato lasciato insepolto in strada come quello di un criminale poteva ora essere spiegato da questo passo dello stesso capitolo di Isaia:

Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori. (Isaia 53,9,12)

Dopo la morte del messia, insomma, i suoi fedeli crearono un'ideologia "catastrofica". La reiezione del messia, la sua umiliazione e la sua morte furono ritenute predette nelle Scritture e passi necessari del processo di redenzione. I discepoli credettero che dopo tre giorni il messia umiliato e trafitto risuscitasse e fosse destinato a riapparire sulla terra come redentore, vincitore e giudice. Daniele profetizzava che la quarta bestia sarebbe stata distrutta e il regno consegnato al "figlio dell'uomo", che egli descrive seduto su un trono celeste e apparso sulle nubi del cielo. I discepoli e seguaci del messia qumranico credevano che dopo tre giorni egli fosse risorto e salito in cielo su una nube. Ora sedeva in cielo, come egli stesso aveva detto nella sua visione, su un "trono di potere nel concilio angelico". Alla fine sarebbe tornato, scendendo dall'alto con le nubi del cielo, circondato da angeli. Sarebbe allora giunto il tempo della disfatta della quarta bestia, Roma, e il messia avrebbe così realizzato la visione del "figlio dell'uomo" di Daniele.


Il messia di Qumran e Gesù

La data esatta della nascita di Gesù non ci è nota, ma si ritiene che egli sia nato nel 6 a.C., cioè a poca distanza dalla morte del messia di Qumran. Non è pensabile quindi che fra quest'ultimo e Gesù vi siano stati contatti personali. A mio parere, tuttavia, la figura del messia qumranico e l'ideologia messianica a lui connessa esercitarono una profonda influenza su Gesù e sullo sviluppo del messianismo cristiano. Gesù veniva dalla Galilea, e certi aspetti della sua personalità possono essere spiegati con le caratteristiche spirituali dell'ambiente in cui crebbe. Nel suo ruolo di operatore di miracoli e guaritore di malati fa pensare agli hasidim galilei della sua epoca, dediti anch'essi a tali attività. Anche la sua sensibilità morale trova un parallelo nei racconti sugli hasidim galilei e nei detti di Hillel, e le sue parabole sono di un genere usuale per il luogo e il tempo in cui visse. Il messianismo di Gesù tuttavia, l'elemento più importante della sua personalità qual è descritta nel Nuovo Testamento, non è spiegabile nei termini delle tradizioni galilee. Gli hasidim galilei non erano capi messianici, e non esiste una sola tradizione che li associ a personalità del genere. Se vogliamo capire il messianismo di Gesù dobbiamo renderci conto che, in aggiunta ai caratteri religiosi e spirituali che acquisì dal luogo in cui nacque e dall'educazione appresa in gioventù, subì anche l'influenza, negli ultimi anni, di un'altra tradizione religiosa, dalla quale ricevette la sua dottrina messianica. Il mio intento è di dimostrare che l'immagine messianica di Gesù si formò nell'incontro con coloro che tenevano viva la tradizione del messia di Qumran. Non c'è ragione di occuparci qui dei miracoli compiuti da Gesù, delle sue parabole e dei suoi insegnamenti morali. Nulla di tutto ciò ha a che vedere con il retaggio qumranico, bensì, come abbiamo osservato, con le tradizioni galilee e di Hillel. Ciò su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione è la cristologia di Gesù, cioè il suo messianismo quale lo descrivono i Vangeli.


Il segreto messianico

Dopo avere udito, mentre veniva battezzato da Giovanni, la voce dal cielo, Gesù tenne la conoscenza della propria missione messianica per sé, senza rivelarla a nessuno. La prima occasione in cui la rivelò ai suoi discepoli è raccontata dal Vangelo di Marco (8,27, 29-31):

Interrogava i suoi discepoli dicendo: "E voi chi dite che io sia?". Pietro gli rispose: "Tu sei il Cristo". E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno. E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare.

Questo racconto solleva diversi interrogativi: Gesù si vedeva quale "figlio dell'uomo"? In questo caso perché parlò del "figlio dell'uomo" in terza persona? Poteva prevedere la sua reiezione, la sua morte e la sua risurrezione? Come abbiamo visto, la tendenza dominante negli studi neotestamentari da oltre un secolo è di negare l'autenticità storica di tale racconto. Gesù, secondo questa posizione, non si riteneva il Messia e non era riconosciuto come tale dai suoi discepoli. Non poteva prevedere la sua passione, morte e risurrezione, e tale predizione gli fu attribuita in data posteriore. Nelle parole di R. Bultmann: "La scena della professione di fede messianica di Pietro non costituisce una controprova; al contrario! Essa infatti è un racconto pasquale che Marco proietta all'indietro nella vita di Gesù". Per Bultmann tutte le predizioni di Gesù relative alla sua futura passione e risurrezione sono invenzioni tarde, perché "il giudaismo non conosceva l'idea di un messia o "Figlio dell'uomo" che patisce, muore e risorge". Una visione simile è stata espressa più recentemente da G. Vermes, eminente studiosa dei Rotoli del Mar Morto e del Nuovo Testamento, che scrive: "Né la sofferenza del messia, né la sua morte e risurrezione sembra facessero parte della fede del giudaismo del I secolo". Il nostro studio ha rivelato che questa sentenza corrisponde solo in parte a verità. Essa si applica alla maggioranza dei giudei all'inizio del I secolo d.C., ma non ai discepoli del messia di Qumran. Questo gruppo reagì al trauma dell'anno 4 a.C. creando un modello catastrofico di messianismo basato su versetti della Bibbia. I suoi membri credettero che la sofferenza, morte e risurrezione del messia fossero una necessaria base per il processo di redenzione. In vita il messia di Qumran si era ritratto come una combinazione del "figlio dell'uomo", che siede in cielo su un trono possente, e del "servo sofferente", che si carica di tutti i dolori. Come abbiamo visto, questo messia aveva attribuito a se stesso le parole di Isaia 53: "Disprezzato e reietto dagli uomini". È una chiara dimostrazione che l'idea di un messia sofferente esisteva già una generazione prima di Gesù. Secondo Istaspe la risurrezione del grande profeta che abbiamo identificato con il messia di Qumran avvenne "dopo il terzo giorno". Come abbiamo osservato, la credenza nella risurrezione del messia dopo tre giorni era strettamente connessa con il fatto che per tre giorni i romani avevano proibito la sepoltura del suo corpo, che venne lasciato in strada perché tutti lo vedessero. Gesù si aspettava che il destino del "figlio dell'uomo" fosse simile a quello del messia di Qumran, e predisse che il "figlio dell'uomo" sarebbe stato ucciso, come era stato ucciso dai soldati romani il messia qumranico. Si aspettava inoltre che dopo tre giorni il "figlio dell'uomo" sarebbe risuscitato, come si credeva che "dopo il terzo giorno" fosse risuscitato il messia di Qumran.


La notte al Getsemani

La missione messianica di Gesù fu quindi un viaggio verso una sofferenza e una morte conosciute. Secondo l'idea che gli fu trasmessa dai discepoli del messia qumranico, passione e morte del messia erano parte integrante del destino messianico. Farsi carico di una tale missione era naturalmente molto arduo, e il parlare di se stesso in terza persona, come "figlio dell'uomo", sembra rifletterlo. La difficoltà di tale missione è drammaticamente espressa dal racconto dell'ultima notte della vita di Gesù. Dopo l'Ultima Cena, egli si recò con i discepoli nell'orto del Getsemani. Lì cadde in una profonda depressione:

Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate". Poi, andato un po' innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell'ora. E diceva: "Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu". (Marco 14,33-36)

La lotta interiore nell'anima di Gesù era ormai giunta al suo apice. Egli sentiva che era venuto il momento che si compisse la sua missione messianica, che non poteva che significare sofferenza e morte. Poiché la sua volontà di vivere si ribellava a un destino così terribile, pregò il proprio Padre onnipotente di revocare la dura sentenza. Tuttavia si rassegnò a quella che credeva fosse la decisione divina, anteponendo alla propria volontà quella di Dio. Avrebbe quindi seguito le orme del suo predecessore, il "servo sofferente" dei Rotoli del Mar Morto.


25/07/2008 20:38


Da Chi l'ha visto? del 12/02/2007



Di tutti i più importanti esponenti della banda della Magliana si conoscono nome e volto, ma di uno dei più pericolosi killer che ha agito per loro o contro di loro nella faida che ha disgregato la banda, non è mai apparsa alcuna immagine. Importanti pentiti hanno raccontato segreti terribili, hanno fatto nomi e cognomi, ma incredibilmente di questo killer, che avrebbe compiuto i delitti più feroci, non hanno mai pronunciato il vero nome: dicono di non ricordarsi il cognome, parlano di un tale Libero chiamato "Rufetto". Il pentito Antonio Mancini, a conoscenza di tanti oscuri retroscena, nel corso di un’intervista rilasciata a Chi l’ha visto?, riconobbe la voce dell’uomo, di quell’introvabile Mario, che fece una fondamentale telefonata depistante alla famiglia di Emanuela Orlandi: il collaboratore di giustizia disse che quella voce apparteneva a uno dei componenti della banda della Magliana, probabilmente a Rufetto; su queste dichiarazioni lo scorso marzo Antonio Mancini fu interrogato dal procuratore aggiunto Italo Ormanni e dal sostituto Simona Maisto. Seguirono lanci di agenzie con notizie fuorvianti e si fece anche circolare la voce che Rufetto fosse morto, ma diverse fonti ci dicono che Rufetto sarebbe vivo e il primo, vero mistero sta nel fatto che un malvivente al quale si attribuiscono crudeli delitti, circoli libero: forse perché Rufetto era l’uomo di fiducia di Enrico De Pedis, un killer al servizio di "Renatino", cioè il boss incredibilmente sepolto nella basilica vaticana di S. Apollinare al fianco di un cardinale? Un’importante testimone, amica intima di Renatino e compagna di due capi della banda, già nel giugno del 1994, testimoniava: "Il Rufetto era stato usato come killer dai testaccini, faceva il killer già all’epoca di Abbruciati". Rufetto avrebbe cominciato la sua carriera criminale con Danilo Abbruciati, che era appartenuto al clan dei marsigliesi al fianco di Albert Bergamelli e Francis Turatello; Abbruciati si era poi legato alla mafia di Pippo Calò, ai servizi segreti deviati, alla destra eversiva e alla massoneria piduista. Morì il 27 aprile del 1982 a Milano mentre cercava di attentare alla vita di Roberto Rosone, vice di Roberto Calvi al Banco Ambrosiano. Abbruciati ferì il banchiere ma venne colpito a morte da una guardia giurata: una morte misteriosa la sua, perché l’uomo era un boss, non certo un gregario; ad oggi non si è chiarito perché si scomodò personalmente per quell’avvertimento, invece di inviare un suo sottoposto. La risposta potrebbe essere in una visita che due settimane prima dell’agguato a Rosone, cioè il 9 aprile, Abbruciati ricevette mentre era in carcere a Rebibbia: con il lasciapassare di Maurizio Barbera, vicedirettore del penitenziario, lo andò a trovare il capitano dei carabinieri Giancarlo Paoletti, in forza al centro di controspionaggio Roma 2 del SISDE. Diciotto giorni dopo il capo dei testaccini, cui successe "Renatino" De Pedis, sparò a Rosone rimettendoci la vita. Si era nel pieno del ciclone che si stava abbattendo sulla vicenda del Banco Ambrosiano, che stava trascinando nello scandalo l’Istituto delle Opere vaticane e alcuni tra i più potenti uomini politici. Si direbbe che in un colpo solo i registi della storia occulta d’Italia lanciarono un avvertimento a Roberto Calvi perché tacesse e fecero tacere per sempre Danilo Abbruciati, che avevano adoperato per i loro torbidi intrighi. Enrico De Pedis, "Renatino", assunse in grande il ruolo che era stato di Abbruciati, e Rufetto passò definitivamente al suo servizio. Quando Renatino, che aveva ereditato oltre al potere anche grandi segreti, venne a sua volta eliminato, Rufetto sparì dalla circolazione. Subito dopo le rivelazioni di Mancini ci siamo messi a cercare di capire chi poteva essere questo misterioso "Rufetto" di cui nessuno sembrava conoscere, o poter conoscere, il suo vero nome. Abbiamo letto di un verbale dove risultava che un tale Libero, detto Rufetto, era stato fermato negli anni '80 nella caserma dei carabinieri di via Morosini nella Capitale; a raccontarlo era Fabiola Moretti, la donna che fece processare il senatore Claudio Vitalone nell’ambito del processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, per poi ritrattare: "Rufetto", che si chiama Libero, ma di cui non ricordo il cognome, una volta fu fermato in occasione di un nostro incontro dai carabinieri della caserma di via Emilio Morosini, nella stessa occasione io subii anche una perquisizione; il verbalizzante fu il capitano Tuosto, e il relativo processo lo aveva il giudice Destro”. Con questi labili elementi proviamo a rintracciarlo cercando di mettere insieme i pochi tasselli che abbiamo: la nostra ricerca cominciò la scorsa estate, come potete vedere dalle immagini, e poi continua in più riprese arrivando fino ad oggi. Cominciamo dai fatti, dalle persone che sicuramente lo hanno conosciuto: in questo libro [Gianni Flamini, La banda della Magliana, Kaos Edizioni 2002] leggiamo che il giudice Destro si occupò di lui, dopo diversi tentativi risaliamo a lui, scopriamo che attualmente lavora in Cassazione; lo scorso 5 settembre lo rintracciamo telefonicamente nel suo ufficio ma il giudice non sa dirci molto, ricorda questo soprannome ma non a chi potesse appartenere e ci dice che purtroppo non ha conservato i documenti dell’epoca. Ci rechiamo allora nella caserma dei carabinieri situata in via Morosini, dove avrebbe lavorato il capitano Tuosto citato da Fabiola Moretti; in caserma troviamo tante difficoltà, ci dicono che non possono recuperare i verbali dei primi anni '80 perché dopo dieci anni vengono portati al macero, abbiamo però la conferma che proprio negli anni '80 in questa caserma ha lavorato un carabiniere che si chiamava Giuseppe Tuosto, poi andato in pensione nel 1982. Quel carabiniere, ci dicono, aveva origini campane, inoltre aggiungono che non c’è mai stato un Tuosto che abbia avuto la qualifica di capitano. A questo punto cerchiamo il suo nome sull’elenco telefonico tramite i motori di ricerca su Internet: troviamo diversi omonimi, telefoniamo a tutti, finalmente qualcuno ci conferma di essere stato un militare, decidiamo di andarci a parlare da vicino.

D. Lei come si chiama?
R. Tuosto Giuseppe.
D. E’ stato carabiniere?
R. Sì… mi sono congedato nel 1983. Gli ultimi 10 anni, 9 anni li ho fatti qui a Cellole e sono rimasto qui a Cellole. A Roma non ci sono mai stato.
D. Non ha mai lavorato nella caserma di via Morosini?
R. No, no, no… anche perché io non avevo l’altezza per stare a Roma.
D. Addirittura?
R. Perché allora ci voleva minimo 1,70. Io 1,66… 1,67… per Roma non ero idoneo, per l’altezza…
D. Non ne sa niente della banda della Magliana, insomma?
R. No… ho sentito qualche volta per televisione, ma non so niente di questi fatti.

La nostra ricerca sembra terminata in un vicolo cieco, ma resta il fatto che Rufetto, secondo diverse testimonianze, già negli anni '80 si sarebbe macchiato di agguati e delitti: il 5 luglio del 1983 sarebbe stato lui a uccidere in una barberia di via Storelli a Ostia il ventiduenne Sergio Zampilloni, che stava occupando spazi nel campo dello spaccio di eroina.

Dal Tg1 del 5 luglio 1983: "E veniamo all’omicidio di Sergio Zampilloni, il giovane di ventidue anni, pregiudicato, ucciso questa mattina ad Ostia secondo un rituale che ha fatto rivivere il clima della Chicago anni ’30, il periodo delle lotte tra le cosche di Cosa Nostra. Zampilloni infatti è stato assassinato mentre si trovava dal barbiere, il killer è entrato nel negozio che vediamo nelle immagini, e all’improvviso, impugnando due pistole, ha fatto fuoco e poi si è dato alla fuga, la stessa dinamica che fu usata oltreoceano nell’uccisione di Anastasia, capo dell’anonima omicidi, braccio armato della mafia americana".

Il killer, mai identificato, entrò nella bottega impugnando due pistole e sparando cinque proiettili calibro 7,65. Due pallottole furono fatali per Zampilloni, che crollò in un lago di sangue trascinando la poltrona sulla quale era seduto. Fabiola Moretti racconta ancora: "Il Rufetto anche in altre occasioni era stato usato come killer dai testaccini, come in occasione dell’attentato a Raffaele Garofalo, detto "Ciambellone" in piazza Piscinula, dove però il Ciambellone venne mancato. Rufetto faceva il killer già all’epoca di Abbruciati". Poi si era messo a lavorare in grande, proprio come braccio armato di Enrico De Pedis, e sarebbe stato proprio Rufetto a togliere la vita a Edoardo Toscano, detto l’"Operaietto". Quest’ultimo, dopo il pentimento di Claudio Sicilia e la fuga all’estero di Maurizio Abbatino, insieme con l’ergastolano Marcello Colafigli e con Antonio Mancini, era uno dei personaggi più importanti del gruppo originario della banda della Magliana; Toscano venne scarcerato nel febbraio del 1989 e freddato poco più di un mese dopo, come racconta ancora Fabiola Moretti: "Quando Toscano venne rilasciato si diede subito a cercare De Pedis per ammazzarlo, prima di espatriare come era sua intenzione. Renatino venne a sapere che Edoardo lo cercava e ritenne di doverlo far uccidere, in quanto altrimenti sarebbe stato ucciso lui. Sapendo che Bruno Tosoni "reggeva" i soldi di Toscano – circa 50 milioni di lire – offrì a costui una somma di altri 50 milioni di lire, perché attirasse Toscano in una imboscata. L’incarico di uccidere Toscano venne dato da Renatino a "Ciletto" e a Rufetto". Il sedici marzo del 1989 il trentacinquenne Edoardo Toscano uscì dalla sua villa al villaggio Axa a Casal Palocco, dove viveva con la moglie Antonietta, sorella di Vittorio Carnovale. L’uomo si recò in via della Marina a Ostia perché aveva un appuntamento con il cinquantaduenne Bruno Tosoni, un pregiudicato già inquisito per rapine ed estorsioni che qui gestiva un forno. La panetteria esiste ancora ed è in funzione, solo che dalla strada non si vede, tredici anni fa è stata inglobata nella grand’area di questo ristorante cinese, come potete vedere. Ma torniamo al 1989: mentre Toscano e Tosone chiacchieravano sul marciapiede, si avvicinò a loro un killer a piedi: tre colpi, uno alla nuca, due ai polmoni, un quarto proiettile colpì Tosoni a una tibia, poi l’assassino scappò su una moto ritrovata successivamente a duecento metri dall’agguato e risultata rubata. Stranamente questo clamoroso delitto trovò poche tracce in cronaca e non si arrivò mai a mettere in piedi un processo: nessuno ha mai pagato per quell’omicidio. Gli ex componenti della banda della Magliana hanno detto e ripetuto che ad uccidere è stato Rufetto, però per la giustizia italiana non è stato ancora nessuno.
25/07/2008 20:43


I Millenari "Via col vento in Vaticano" - Kaos Edizioni 1999



LA ZIZZANIA NEL FRUMENTO


La tavola dei dieci comandamenti è la più grande zattera che Dio ha gettato agli uomini in traversata su cui potersi salvare; ma a lui resta un numero infinito di altre scialuppe da gettare in mare in aiuto ad altri natanti in pericolo. Sappiamo che ciò che sta nei comandamenti è ottimo, perché promanazione dell’infinita bontà di Dio; tuttavia Dio non può racchiudersi nel solo bene finito e limitato dei dieci comandamenti, i quali non sono che una piccola parte di Lui infinito. Ne consegue che l’amore infinito di Dio necessariamente trasborda l’amore del bene circoscritto dal decalogo. Si dà il caso di parecchi che si attengono ai comandamenti e tuttavia restano lontanissimi da Dio. E si dà il caso del contrario. Gli ostacoli all’amore sono differenti per ogni individuo. Ogni persona ha differenti debolezze, differenti vizi derivanti dal suo patrimonio genetico, dalla sua indole, dalla sua biografia, dal suo diennea. Anche un orologio rotto segna l’ora due volte al giorno, nel senso che in ognuno di noi v’è sempre un angolo d’umanità e un barlume di coscienza. Pertanto, ognuno ha degli ostacoli diversi, e le dosi di colpevolezza non sono misurabili soltanto sulla bilancia del decalogo: i pesi morali stanno sui piatti corrispondenti, quello della sua cosciente consapevolezza e quello della paternità divina. La morale non è una cosa statica; è un processo nel quale valori antichi vengono sempre scandagliati di nuovo, messi alla prova in contesti di vita diversi. A volte questi valori etici sono nuovamente indagati alla luce dell’esperienza della vita contemporanea; a volte essi si scoprono come non più pienamente adeguabili e quindi da riadattare all’autenticità del messaggio di Cristo che, non essendo mai statico, è sempre originale. Sebbene nel primo Concilio di Gerusalemme gli apostoli nella lettera ai fratelli di Antiochia, Siria e Cilicia scrissero "abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia. Farete quindi cosa buona a guardarvi da queste cose", oggi nessun moralista imporrebbe quei divieti sotto pena di peccato grave, ritenute allora cose necessarie e dettate dallo Spirito Santo in regime di rivelazione apostolica. Il concetto del buon costume è un concetto dinamico, più che statico, nel quale concorrono in varia misura molteplici elementi di principio e di prassi, di ideologie e di ambienti, di tradizioni e di tecnica, di umanità e di scienza, di progresso e di involuzione, di orientamenti e di comportamenti. "Il Signore si serve anche della miseria", dice don Primo Mazzolari. "Noi non sappiamo fin dove un peccato ci distacca momentaneamente da Dio e dove pone le gettate di un ponte sulla strada del ritorno". E Einstein diceva a modo suo di credere in un Dio grande e misericordioso, che pensa e provvede a tutto, talmente santo da ritenerlo alieno dalla morbosità d’ispezionare più di tanto i testicoli dell’uomo. Sant’Isacco Siro arrivò a dire: "Dio non è giusto, ma Amore senza limiti"; e Stefano Avtandilian, vescovo armeno di Tiflis nel 1789, insegnava: "Una tacita tolleranza sui fatti morali, quantunque reprensibili ma non in coscienza inquietanti, può in pratica mostrarsi di un certo vantaggio, anziché e al posto di uno sterile insegnamento pastorale proibitivo. Di fatto il Vangelo insegna che una zizzania radicata da tempo, che non ha viziato il frumento d’accanto, se si estirpasse inopportunamente, porterebbe per effetto lo sradicamento del frumento ed anche l’isterilimento del campo. Nel qual caso non è bene inquietare le coscienze degli uomini".


La lezione di San Bernardo

Ogni Papa dovrebbe imparare a memoria e recitare tutte le mattine quello che San Bernardo (1090-1153) scrisse al suo discepolo cistercense, fatto Pontefice col nome di Eugenio III, che chiedeva dal suo Maestro consigli su come riuscire a fare bene da Papa. Se poi il regnante Pontefice fosse uno che viene da lontano, cioè del tutto digiuno dei movimenti tellurici nel sottofondo della curia romana, codesto ignaro Pontefice dovrebbe recitare con la stessa frequenza del breviario ciò che fu scritto da Bernardo nella sua Considerazione IV. Eugenio III (1145-53) mai avrebbe pensato di diventare Papa; scelse la rigorosa solitudine claustrale dei cistercensi per non impelagarsi nelle pastoie mondane, che già da allora fiaccavano la Chiesa di Roma. Era uno dei migliori discepoli di Bernardo, anche lui chiamato Bernardo, forse dei Paganelli di Montemagno nell’astigiano. Dopo la sua morte gli fu riservato il culto di beato, confermato nel 1872. San Bernardo se ne privò solo per donarlo alla Chiesa, perché la riformasse. Sebbene già Papa, San Bernardo continuò a ritenere Eugenio III come alla sua scuola, dove impartire lezioni di vita, le più scabrose e rudi. Stralciamo qui i tratti più salienti non tanto per consolare i protagonisti che degenerano la curia e la Chiesa di questi tempi, quanto per esortare i riformatori ad accingersi all’opera che la Madonna a Fatima chiedeva.

"Bisogna ora riflettere sulle cose che ti circondano. Pure queste ti sono subordinate, ma proprio perché ti sono più vicine, riescono ancor più fastidiose. Infatti, non si può trascurare le cose che ci stanno intorno, né far finta di non vederle o dimenticarle. Esse incalzano con più impeto, aggrediscono con maggior furia, e c’è da temere che ci riducano all’impotenza. Intendo parlare qui del tuo cruccio quotidiano, quello che viene dalla città di Roma, dalla curia, dalla tua diocesi particolare. Son queste le cose - te lo ripeto - che stanno intorno a te, il tuo clero e il tuo popolo, quelli che ti assistono quotidianamente, che fanno parte della tua famiglia, della tua mensa, incaricati di diverse mansioni al tuo servizio. Tutte queste persone ti visitano con maggior familiarità, bussano più spesso alla tua porta, ti sollecitano con maggiore petulanza. E’ questa la gente che non ha ritegno a svegliare la diletta, prima che essa lo voglia. [Sul carattere del clero e della popolazione di Roma] Devi poi giudicare il disordine che ti circonda particolarmente scandaloso. E’ importante che chi ti circonda sia come lo specchio e il modello di ogni onestà e di ogni ordine. Quanto alla popolazione, che dire? Che c’è di più notorio della sfrontatezza e della caparbietà dei romani? Gente disabituata alla pace, riottosa che non si piega all’autorità se non quando non riesce più a reagire. Ecco la piaga: sta a te a curarla, non ti è lecito dissimularla. Forse tu sorridi di me, persuaso che la piaga sia incurabile. Ma non scoraggiarti: tu sei tenuto a curarla, non a guarirla. In fin dei conti, hai sentito dire: "Abbine cura" e non "curalo" o "guariscilo". Disse bene un poeta: "Non è sempre affar del medico che il malato torni in salute". Ma siamo giunti ora al punto critico e la discussione diventa piuttosto scabrosa. Da che parte dovrei cominciare per dire quel che penso? Ti rendo testimonianza che non badi alle ricchezze, non più dei tuoi predecessori. Qui sta il grande abuso: esse sono impiegate in modo diverso. Potresti citarmi uno solo, che non ti abbia accolto come Papa senza che fossero intervenute elargizioni di denaro o senza speranza di averne? E adesso, dopo che si sono dichiarati al tuo servizio, pretendono ogni potere. Si professano fedeli, ma per fare più comodamente del male a chi si fida di loro. Da questo momento non avrai progetto dal quale si credano esclusi; non avrai segreto nel quale non si intromettano. Non vorrei essere al posto di un usciere che faccia aspettare qualche minuto uno di costoro, mentre se ne sta alla porta! E ora puoi constatare da qualche accenno, se io non conosco un tantino il carattere di questa gente. Sono valentissimi nel fare il male, mentre sono incapaci di fare il bene. Sono in odio alla terra e al cielo, e su tutt’e due hanno allungato le mani; sono empi verso Dio, impudenti verso le cose sante; turbolenti tra loro, invidiosi dei vicini, senza pietà verso gli altri; nessuno riesce ad amare costoro, che non amano nessuno; e mentre si vantano d’essere temuti da tutti, è giocoforza che essi stessi abbian paura. Non accettano di star sottomessi, ma non hanno imparato a comandare; sono infedeli verso i superiori e insopportabili per gli inferiori. Sono senza ritegno nel domandare e altezzosi nel rifiutare. Insistono con petulanza quando vogliono ottenere qualcosa, sono impazienti finché non l’ottengono, sono più ingrati quando l’hanno ottenuta. Hanno imparato a riempirsi la bocca di grandi parole, ma nelle azioni sono meschini. Sono grandiosi nelle promesse, ma grettissimi nel mantenervi fede; sono carezzevoli nell’adulazione e taglienti nella maldicenza: dissimulano col più innocente candore, tradiscono con la più esperta perfidia. Mi sono lasciato andare a questa digressione, perché intendevo aprirti gli occhi su questo aspetto particolare di quel che ti circonda. Ritorniamo ora all’argomento. Cos’è questo sistema di comperare con il bottino delle chiese spogliate il favore di quelli che ti acclamano? E’ la vita dei poveri che si sperpera per le strade dei ricchi. È vero che questo costume, o piuttosto malcostume, non è cominciato con te, e voglia il cielo che con te finisca. Ma andiamo avanti. Eccoti avanzare tu, il pastore, tutto scintillante d’oro, rutilante di mille colori. Che vantaggio ne ha il tuo gregge? Oserei dire che questo è più un pascolo di demoni, che di pecore. S’affaccendava forse in queste cose Pietro, si divertiva in questo modo Paolo? Guarda come serve lo zelo degli ecclesiastici, tua solo per garantirsi il posto! Tutto vien fatto per la carriera, niente o ben poco per la santità. Se per qualche buona ragione tu tentassi di ridurre questo apparato e di essere un po’ più alla mano, direbbero: "Per carità, questo non va bene, non è conforme ai tempi, non è adatto alla vostra maestà; badate alla dignità della vostra persona". Il loro ultimo pensiero è quello che piace a Dio; sul pericolo della salvezza non han dubbi di sorta, a meno che vogliano credere salutare quello che è grandioso, e giusto quello che splende di gloria. Tutto quello che è modesto, è talmente aborrito dalla gente del palazzo che sarebbe più facile trovare chi preferisca essere umile piuttosto che sembrarlo. Il timor di Dio è considerato un’ingenuità, per non dire una dabbenaggine. Chi è giudizioso e ha cura della propria coscienza, vien bollato d’ipocrisia. Chi ama la pace e si dedica di tanto in tanto a se stesso, lo ritengono un fannullone. Ma su queste cose basta quanto abbiam detto. Ho appena sfiorato il muro, senza sfondarlo. Tocca a te, in quanto figlio di profeta, andare più a fondo e vederci chiaro. A me non è lecito andar oltre. Leggiamo nel Vangelo che vi fu una discussione tra i discepoli per sapere chi di loro fosse più importante. Saresti sfortunato, se intorno a te tutte le cose andassero in questa maniera. La curia ormai m’è venuta a noia e conviene uscir dal palazzo. Ci aspetta il personale della tua casa, che non solo ti circonda ma, in qualche modo, sta dentro di te. Non è inutile riflettere sui mezzi e i modi per riordinare la tua casa; direi persino che è necessario, senza trascurare gli affari di massima importanza per impicciolirti in faccende di bassa fureria, quasi a perderti in minuzie. Tuttavia, se bisogna attendere alle grandi cose, non si può trascurare le piccole. Devi allora cercarti un uomo che s’impegni e giri la mola per te; dico per te e non con te. Se però costui non sarà fedele, diventerà ladro; se non sarà avveduto, si farà derubare. Bisogna allora cercare un uomo fedele e avveduto da mettere a capo della tua famiglia. Vorrei che tu stabilissi come regola generale di ritenere sospetto chiunque abbia paura di dire in pubblico ciò che sussurra all’orecchio; se poi rifiutasse di ripeterlo davanti a tutti, consideralo alla stregua di un calunniatore, non di un accusatore. Accettiamo più facilmente le perdite di Cristo che le nostre. Il rigagnolo d’acqua col suo scorrere scava la terra; così il flusso delle cose temporali corrode la coscienza. Molte devi ignorarle, parecchie trascurarle, alcune dimenticarle. Ve ne sono tuttavia alcune che non vorrei fossero sconosciute, vale a dire la condotta e le inclinazioni di alcune persone. Tu non devi essere l’ultimo a conosce i disordini che avvengono nella tua casa. Alza la tua mano sul colpevole. L’impunità provoca la temerarietà e questa apre la via a ogni eccesso. Con chi hai dimestichezza, o sono più onesti degli altri, o riempiono di chiacchiere la bocca di tutti. I vescovi tuoi fratelli [cardinali, ndr] imparino da te a non tenersi attorno ragazzi zazzeruti o giovanotti seducenti [il solito vizietto di tutti i tempi, ndr]. Fra teste mitrate sta davvero male quel viavai di acconciature sofisticate [allora esattamente come adesso, ndr]. Non ti consiglio tuttavia di essere severo, ma grave. La severità è costante per chi è un po’ debole, mentre la gravità mette a freno chi è sventato. La prima rende odiosi, ma se manca la seconda si diventa oggetto di scherno. Comunque, è più importante in ogni caso il senso della misura. Io non ti vorrei né troppo severo, né troppo debole. Nel palazzo comportati da Papa, tra i più intimi da padre di famiglia. Riepilogando, la Chiesa romana, che governi per volontà di Dio, è madre delle altre chiese, non loro padrona: di conseguenza tu non sei il padrone dei vescovi ma uno di essi. Per il resto considera che devi essere il modello esemplare della giustizia, lo specchio della santità, l’esempio della pietà, il testimone della verità, il difensore della fede, il maestro delle genti, la guida dei cristiani, l’amico dello sposo, il paraninfo della sposa, l’ordinatore del clero, il pastore dei popoli, il maestro degli ignoranti, il rifugio dei perseguitati, il difensore dei poveri, l’occhio dei ciechi, la lingua dei muti, il sacerdote dell’Altissimo, il vicario di Cristo, l’unto del Signore, e… da ultimo il dio di faraone".

Tutte queste pennellate a spatola di Bernardo, altro non formano che l’esatto dipinto della curia romana dei nostri giorni nei loro protagonisti più immediati ed eloquenti: Papa, cardinali, arcivescovi, dignitari, prelati, carrieristi, imbroglioni e persino il viavai degli zazzeruti diversi.


Il dossier e il furto mirato

Paolo VI, che non fece misteri sull’asfissia del fumo satanico al centro della Chiesa, ai primi del 1974 si vide costretto a formare una ristretta commissione con incarico di facciata volta a studiare la riorganizzazione amministrativa della curia romana; invece le affidava il mandato secreto di appurare che cosa di marcio vi bollisse in pentola. A presidente di essa fu scelto un prelato canadese tanto genuino quanto retto e sincero, l’arcivescovo Edoard Gagnon, che a suo segretario scelse, o meglio gli affibbiarono, il tedesco monsignor Istvan Mester, capo ufficio della Congregazione per il clero. Passarono per quasi tutti i dipartimenti di curia invitando gli impiegati a esprimere liberamente il proprio punto di vista sui superiori e sull’andamento dell’ufficio. Posti a loro agio, furono molti quelli che si aprirono a denunziare fatti e misfatti dell’ambiente. Il materiale raccolto fu interessante e rivoluzionario. Il presidente della commissione monsignor Gagnon stette per tre mesi impegnato a stendere la voluminosa relazione, che alla massoneria vaticana apparve subito scottante e pericolosa: si facevano i nomi e le attività occulte di certi personaggi di curia. Occorreva inventarsi qualcosa perché la relazione inquisitoria non arrivasse a papa Montini, già non tanto bene in salute. Il tutto doveva essere eseguito nel più stretto riserbo. Si escogitò il piano e lo si pose in atto: "Nessun dorma!". Monsignor Gagnon, terminato in tutti i vari aspetti il duro lavoro d’insieme sul risultato conclusivo dell’inchiesta, domandò tramite la segreteria di Stato d’essere ricevuto da Paolo VI per esporgli di persona e a voce le sue riflessioni in merito a certe devianze all’interno del Vaticano. I giorni passavano e la risposta non veniva. Finalmente gli comunicarono che, data l’estrema riservatezza della materia, era bene che lui, Gagnon, consegnasse l’intero dossier della relazione alla Congregazione per il clero, dove il segretario, monsignor Istvan Mester, avrebbe pensato a custodire il tutto in un robusto cassettone a doppia serratura nella stanza d’ufficio. Il bravo arcivescovo non seppe darsene una spiegazione, ma ubbidì agli ordini. La mattina di lunedì 2 giugno 1974, monsignor Mester, aperta la porta, s’accorge subito che nella sua stanza qualcosa non va: qualche foglio sparso per terra, dei libri fuori posto, dei fascicoli spostati. Poi constata che il grosso cassettone accanto alla scrivania ha le serrature scardinate: dal ripiano manca la serie dei dossier relativi all’inchiesta fatta da Gagnon. Due giorni a disposizione degli asportatori, pomeriggio di sabato 31 maggio e domenica 1 giugno, sufficienti per lavorare con calma e riservatezza sul trafugamento del dossier. Tanto per cominciare, s’impone a tutti il secreto pontificio sull’accaduto; nessun deve parlare. Poi, vengono doverosamente informati la segreteria di Stato e il presidente Gagnon che, per niente sorpreso, promette d’essere in grado di stendere in breve tempo copia della relazione già redatta. Per tutta risposta intanto lo dispensano dal rifarla, se del caso gliel’avrebbero chiesta in seguito. Lo stesso capo dell’ufficio di vigilanza, Camillo Cibin, viene incaricato di eseguire il sopralluogo, mettendo a verbale quanto rilevato nell’ispezione, inviandolo in segreteria di Stato. Al Papa viene riferito del grave furto e che il dossier non è più reperibile. Sull’episodio, intanto, si sarebbe fatto scendere il silenzio più assoluto. Ma la notizia sul furto comincia a circolare già nel primo pomeriggio di martedì 3 giugno: dei ladri avrebbero forzato una cassaforte, si accenna alla scomparsa di documenti su commissione. I giornalisti prendono atto con poca convinzione della smentita del portavoce della sala stampa vaticana, dottor Federico Alessandrini. Gli addetti al mestiere sanno che là quando ci si affretta a dire di non essere a conoscenza di ciò che si asserisce, allora c’è sempre qualcosa sotto, di cui si è al corrente, allorquando la si smentisce. La si definisce restrizione mentale sulla verità che è diversa. Non essendo bugia, non è neanche peccatuccio. La notizia s’allarga a macchia d’olio, tanto che l’"Osservatore Romano", organo di stampa quasi ufficiale della Santa Sede, è invitato a dare informazione accomodante: "Si è trattato di un vero e proprio furto per sfregio. Ignoti ladri sono penetrati nell’ufficio di un prelato e hanno asportati alcuni dossier custoditi in un robusto cassettone a doppia serratura. Il furto è clamoroso". La loggia massonica conosce i mandati e i mandanti, che risultavano non del tutto ignoti a molti. La situazione della curia romana all’epoca era molto tesa e la Commissione di monsignor Gagnon non contribuì a rasserenare l’ambiente. Un capodicastero straniero mise con garbo alla porta i cinque membri di detta Commissione, mentre un altro cardinale dichiarò la propria indisponibilità a permettere un’indagine del genere sul personale del suo dicastero. Dunque quel dossier doveva contenere evidentemente giudizi e apprezzamenti sul personale, i superiori e l’andamento di tutta la curia. Il furto, pertanto, era mirato. Anche se non gli fu più richiesto, il prelato Gagnon approntò ugualmente un altro dossier simile al precedente; chiese di essere ricevuto in udienza privata dal Papa, che ancora una volta non gli fu accordata. Allora, pregò la segreteria di Stato di inoltrare il dossier in tutta segretezza a Paolo VI, ma neanche quest’altro malloppo fu recapitato, perché al Pontefice era stato riferito che i documenti asportati erano ormai irreperibili. La congiura di corte aveva deciso di lasciare il Papa all’oscuro degli intrallazzi di curia. Monsignor Gagnon, vistosi così raggirato, considerò ormai terminata la sua missione di permanenza a Roma, si consigliò con persone sagge e rette e prese la radicale decisione di ritirarsi in Canada, dove aveva già maturata la sua pensione. Tornò in patria, considerandosi un pensionato a tutti gli effetti. Ma papa Wojtyla, venuto a conoscenza della rettitudine del personaggio, lo richiamò a Roma, facendolo cardinale, per avvalersi del suo consiglio sul dissodamento dell’ambiente vaticano, intriso - ahinoi - nel profondo di diossina satanica. "Piangendo lo dico: ci sono tra voi molti che si comportano da nemici della croce di Cristo".
25/07/2008 20:46


I Millenari "Fumo di Satana in Vaticano - Via col vento in Vaticano n. 2" - Kaos Edizioni 2001



LA DEBOLEZZA DELLA CARNE


* Nella Casa di Pietro c’è uno spettro innominabile ma ricorrente, fantasmatico ma tormentoso. Non se ne parla però aleggia, non si vede però esiste, lo si scaccia però incombe. E se per caso si soccombe, lo si fa ma non lo si dice - la castità è un imperativo assoluto, che viene dato per scontato benché non lo sia affatto. Come le schiere di religiosi, sacerdoti e vescovi che cedono alle lusinghe della carne una o cento o mille volte, così i prelati della Curia vaticana fronteggiano il dèmone tentatore con alterne fortune. L’essenziale è non parlarne, quasi che il silenzio fosse il solo antidoto in grado di cancellare il peccaminoso spettro materializzato. Il fantasma carnale assume spesso le sembianze vieppiù esecrande dell’omosessualità, una inclinazione che è da intendersi non solo in senso praticante ma anche quale allegorico strumento delle lotte carrieristiche e di potere curiale: o in forma di diceria calunniosa, oppure quale peculiare requisito aggiuntivo, handicap o benemerenza a seconda. Per i promuovendi, lo spettro della gayezza può consentire loro una più lesta avanzata, per i sommergendi può essere una pietra al collo. Vedasi due casi da manuale d’uso, come l’esemplare carriera al rialzo perenne dell’Arcieccellenza gioiosa dalla notoria propensione omoerotica. E per converso, le difficoltà al ribasso di Giovanni XXIII: per fermarne il processo di beatificazione, i tradizionalisti della Curia vaticana pensarono bene di riesumare l’antica diceria secondo la quale monsignor Roncalli, allorquando era Nunzio apostolico in Turchia, avrebbe intrattenuto una relazione sessuale con un suo domestico (stavolta però l’arma impropria fece cilecca: la Congregazione delle cause dei santi, con un’indagine suppletiva, appurò la totale infondatezza della diceria). Intanto echeggiano anche in Vaticano le esortazioni del Pontefice: "La castità è una difficile quanto necessaria conquista… La castità richiede un impegno coraggioso e perseverante della volontà corroborata dalla Grazia divina, che guarisce la natura dalle sue cattive inclinazioni e la orienta verso il bene. Il frutto della castità è l’armonia interiore della persona". Ma il cuore di questo popolo si è indurito, e con gli orecchi hanno udito male, e hanno chiuso i loro occhi; per non vedere con gli occhi né udire con gli orecchi.


* Per comprendere appieno la vicenda qui narrata occorre sapere che i Legionari di Cristo (Congregazione religiosa di diritto pontificio fondata in Messico nel 1941 per "stabilire il Regno di Cristo secondo le esigenze della giustizia e della carità cristiana fra intellettuali, professionisti e operai, con l’azione sociale e dell’insegnamento") sono uno dei gioielli della Chiesa. Attivi negli Stati Uniti, Canada, America Latina, Europa e Australia, i Legionari contano circa 500 sacerdoti e 2.500 chierici, e dirigono 9 Università e 166 scuole e istituti superiori. Una piccola potenza, sostanziata da molto denaro, guidata dal Padre fondatore nonché attuale Superiore generale. È accaduto di recente che una decina di ex seminaristi dei Legionari di Cristo, oramai in età adulta, abbiano denunciato pubblicamente di avere subìto, in gioventù, molestie e abusi sessuali da parte del Padre fondatore della Congregazione nonché attuale Superiore generale della medesima. Sette di essi – tre insegnanti, due imprenditori, un avvocato e un ingegnere, firmandosi con nome e cognome – hanno precisato le loro accuse ricordando i fatti accaduti in seminario:

Il primo denunciante: "Il Padre era a letto, completamente nudo, e volle che gli applicassi una lozione alle cosce e ai genitali. La cosa si ripeté decine di volte… Ma quando rifiutai di sottopormi a una penetrazione anale, lui rivolse le sue attenzioni a un altro seminarista".
Il secondo: "Il Padre cominciò ad abusare sessualmente di me quando avevo 12 anni… Io gli dicevo che ero turbato, che volevo andarmi a confessare; ma lui mi rispondeva: "Non c’è niente di male. Se proprio vuoi, ecco, ti do io l’assoluzione", e mi impartiva il segno della croce".
Il terzo: "A volte il Padre chiamava me e un altro ragazzo insieme nel suo letto per masturbarci reciprocamente. Io non riuscivo a nascondere la mia ripugnanza, ma il Padre mi assicurava che tutto era moralmente corretto, che il mio compito era quello tecnico di un infermiere, e che il Papa gli aveva dato lo speciale permesso di far svolgere questo compito professionale a ragazzi invece che a donne".
Il quarto: "Il Padre mi diceva che soffriva di una ritenzione di sperma nei testicoli, con dolori insopportabili che potevano essere alleviati solo da uno specifico farmaco o da una masturbazione, che egli mi chiede di praticargli in più occasioni e che io naturalmente gli praticai".
Il quinto: "A 14 anni decisi di non subire più gli abusi sessuali del Padre: feci di tutto per farmi espellere dal seminario, e ci riuscii".
Il sesto: "Il Padre mi abbassò i pantaloni e le mutande e cominciò a manipolarmi il sesso… Alla fine mi sentivo soddisfatto per essermi messo alla mercé di colui che giudicavo un santo, che aveva santificato con le sue mani e dato valore divino a un atto che i semplici mortali e la stessa Chiesa considerano peccaminoso".
Il settimo: "Il Padre sembrava dissociare se stesso, la propria attività di sacerdote, dagli atti sessuali che compiva. Dopo un incontro con lui nel suo letto, ricordo che egli si rivestì con calma e appena uscito fuori benedì un pranzo all’aperto, tra i suoi giovani, come se niente fosse accaduto".

Gli ex seminaristi della Legione hanno concluso la loro pubblica denuncia collettiva chiedendo alle autorità vaticane di accertare la verità dei fatti. In passato, era già pervenuta alla Segreteria di Stato un’analoga denuncia firmata da un sacerdote, che accusava il Padre fondatore dei Legionari di molestie e abusi sessuali contro i giovani seminaristi, ma era finita nel pozzo senza fondo della censura curiale: infatti – a parte il potere della Congregazione legionaria – l’accusato è un pupillo del segretario personale del Papa, del cardinale Segretario di Stato, e di varie Eccellenze della Curia vaticana, dunque in quanto tale egli è al di sopra di ogni sospetto. Di fronte alle accuse multiple e dettagliate con nomi, date e fatti, il Padre fondatore dei Legionari si è limitato a definirle "calunniose, false e senza nessun fondamento". La Segreteria di Stato ha mosso tutte le possibili pedine affinché i mass media ignorassero la vicenda. e il Padre accusato - vero intoccabile del potere vaticano - ha continuato tranquillamente a mantenere tutte le sue cariche: Superiore generale dei Legionari di Cristo, Consultore della Congregazione per il clero, Gran cancelliere del Pontificio ateneo "Regina Apostolorum". Così, in occasione del 60° anniversario dei Legionari di Cristo, il Pontefice ha celebrato la ricorrenza ricevendo in udienza, in piazza San Pietro, i membri della Congregazione guidati dal Padre fondatore nonché Superiore generale, al quale il Santo Padre ha rivolto uno speciale saluto "con particolare affetto". Come se niente fosse.


* L'uomo, un siciliano quarantenne, si inginocchiò di primo mattino sulla scalinata della Basilica di San Pietro, si versò addosso della benzina e appiccò il fuoco, trasformandosi in torcia umana. Il poveretto, ex seminarista tormentato dalla propria condizione omosessuale malvissuta, lasciò uno scritto che venne riportato dai giornali così: "Chiedo scusa per essere venuto al mondo, per aver appestato l’aria che respirate con il mio venefico respiro, per aver osato pensare e agire da uomo, per non aver accettato una diversità...". Il fuoco di quell’atroce suicidio nella Casa di Pietro incendiò anche la coda di paglia della Curia vaticana, più che altro per imbarazzo pubblico. Infatti il vice direttore della Sala stampa della Santa Sede, slavato Padre passionista agli ordini del superiore direttore-portavoce papale, si affrettò a mettete le mani avanti: "Nello scritto del suicida non si afferma in nessun modo che il suo gesto sia determinato dalla sua presunta omosessualità o da protesta contro la Chiesa. Le cause del gesto vanno ricercate in non meglio precisati motivi familiari". In verità, quello pubblicato dai giornali era solo la prima parte dello scritto lasciato dal suicida: la parte successiva era stata censurata per l’amor di Dio e soprattutto della Curia romana. Infatti c’era scritto: "Penseranno che sono pazzo perché ho scelto il Vaticano per darmi fuoco. Spero capiranno il messaggio che intendo lasciare: è una forma di protesta contro la Chiesa che demonizza I’omosessualità e al tempo stesso l’intera natura, poiché l'omosessualità è figlia di Madre natura. Se Dio non esiste non avrò paura dell'inferno, ma se davvero esiste sarà molto più buono, giusto e misericordioso di quanto lo descrive la Chiesa cattolica".


* Il pingue Monsignore, teologo della domenica e moralista di modernità, cenò insieme ad alcuni confratelli di buon appetito tracannando generose bicchierate di ottimo Chianti. Durante il dopocena, fra un sorseggio e l’altro di whiskey irlandese doc, la conviviale discussione incappò nei temi della morale sessuale, e allora l’alticcio Monsignore pingue fece sfoggio della propria caratura intellettuale: sostenne che la fellatio non fosse considerabile un rapporto sessuale vero e proprio, e che dunque dovesse essere ritenuta peccato carnale solo a metà. "In vino veritas, ha praticato a se stesso uno sconto del 50 per cento", malignò poi un confratello.


* Il Parroco, accusato da otto bambini di abusi sessuali, finì sotto processo insieme ad altre persone. Il pubblico ministero chiese dure condanne al carcere per pedofilia e sevizie, ma prima della sentenza il Sacerdote-imputato morì d’infarto. La Curia locale protestò l’innocenza del Sacerdote, la Curia vaticana tacque. Sulla vicenda "L’Osservatore Romano" fece calare la mannaia censoria: non le dedicò una sola riga. La sentenza del Tribunale riconobbe la colpevolezza di tutti gli imputati, e in sostanza anche del Parroco defunto (i giudici si limitarono infatti a stabilire il "non luogo a procedere per morte del reo"). La Curia locale protestò l'innocenza del defunto Parroco, la Curia vaticana tacque. "L'Osservatore Romano" mantenne la censura. Al termine del processo di appello, gli otto bambini furono giudicati non credibili, e tutti gli imputati - compreso il defunto Sacerdote - vennero assolti. La Curia locale festeggiò, quella vaticana mantenne ancora il silenzio. Parlò invece "L’Osservatore Romano": riportò la notizia della "assoluzione postuma" del Parroco "ingiustamente accusato", e precisò che "le campane delle chiese hanno suonato a festa per quasi un’ora".


* Il Vescovo francese venne processato dal Tribunale con l’accusa di non aver denunciato alla magistratura il Sacerdote pedofilo che nella Diocesi abusava di minori, delitti di cui Sua Eccellenza era stato puntualmente informato ma per i quali si era limitato a consigliare al Sacerdote reo il conforto della psicoterapia. Il Vescovo si difese sostenendo di aver ritenuto che si trattasse "solo di palpeggiamenti" e non di veri abusi sessuali, e comunque giustificò il proprio comportamento appellandosi alla necessità di salvaguardare il segreto confessionale e professionale. Non poteva certo riferire ai giudici di essersi consultato con l’amico Porporato della Curia vaticana, e di avere ricevuto la direttiva di mantenere il silenzio fecendo finta di niente. Tantopiù quando l’avvocato dei familiari delle vittime arrivò a chiedere alla Corte che venisse convocato di persona il Sommo Pontefice, allo scopo di "far prendere piena coscienza alla Chiesa che il dilagare della pedofilìa nel mondo ecclesiastico è ormai di estrema gravità": ben 30 sacerdoti condannati in Francia, negli ultimi tempi, per abusi sessuali a danno di minori, e altri 19 sotto inchiesta. Al termine del processo il Vescovo fu dichiarato colpevole della mancata denuncia dei crimini sessuali su minori commessi dal Sacerdote-pedofilo (condannato a 18 anni di carcere). Non tutto il male venne per nuocere: presso il vertice della Curia vaticana l’omertosa e stoica Eccellenza francese - confermata nell’incarico pastorale - guadagnò 200 punti in carriera. Tutt’altra storia, benché identica, quella dell’Arcivescovo inglese, finito nei guai ma privo di amicizie nell’alto dei cieli della Curia romana. In seguito alla condanna penale di due Sacerdoti della sua Arcidiocesi per pedofilìa, egli venne subito invitato dalla Congregazione per i vescovi a dimettersi in quanto ritenuto colpevole di non avere esercitato il dovuto controllo e il necessario rigore. L’Arcivescovo, però, si ribellò alla regola vaticana dei due pesi e due misure, e restò al suo posto.


* Era un anonimo monaco benedettino ben vicino all’Opus Dei, e grazie agli agganci che aveva nella Curia vaticana - in particolare con il Porporato stagionato, gallo cedrone della cordata piacentina, e all’interno del clan polacco - venne insediato d’un botto, come per miracolo, al vertice dell’episcopato austriaco: Arcivescovo di Vienna con acclusa berretta cardinalizia. L’Arcivescovo per nomina clientelare, del tutto inadeguato a ricoprire l’altissima carica, era un indefesso predicatore di morale sessuale e un inflessibile fustigatore dei peccati della carne. Con la goffaggine che gli era propria non si peritava di inneggiare al celibato né di ammonire: "Se un uomo o un ragazzo gioca con i suoi organi genitali, sbaglia: perché Dio gli ha dato questi organi non per giocare o per trarne soddisfazione come da una caramella, ma solo per creare una nuova vita - tutto il resto è peccato". Lo scandalo scoppiò quando alcuni ex seminaristi denunciarono pubblicamente di avere subìto per anni, in gioventù, insidie e abusi sessuali da parte dell’Arcivescovo, quando egli era insegnante nel seminario minore di Hollabrunn. Sua Eminenza reagì affermando che si trattava di falsità inventate per diffamare la Chiesa. Ma le voci di trascorsi pedofili dell’Arcivescovo erano già circolate da tempo nel convento in patria e fra il clero locale, ed erano rimbalzate anche nella Curia vaticana senza sortire alcun effetto. Nonostante il deflagrare dello scandalo, e l’evidente attendibilità delle accuse multiple rivolte all’Arcivescovo, il Vaticano fece muro in sua difesa. Infatti il porporato-pedofilo ricevette una lettera di solidarietà ispirata dai suoi sodali curiali e firmata dal Santo Padre, quindi venne rieletto Presidente della Conferenza episcopale austriaca. Tali furono le proteste dei fedeli della Diocesi che la Chiesa austriaca, per placarle, dovette avviare un’inchiesta interna finalizzata ad accertare la fondatezza delle accuse. L’Arcivescovo, coperto dai suoi protettori della Curia vaticana, venne mantenuto in carica fino al raggiungimento dell’età pensionabile. Poco dopo, l’inchiesta della Chiesa locale si concluse accertando che le accuse rivoltegli rispondevano a verità. "Abbiamo raggiunto la certezza morale che gli addebiti mossi all’Arcivescovo sono sostanzialmente veri", confermò il successore dell’Arcivescovo-pedofilo, e chiese perdono "per tutto quanto il mio predecessore, e altri dignitari della Chiesa, hanno inflitto ai ragazzi affidati alla loro cura". L'ex Arcivescovo-pedofilo venne esiliato in un convento svedese. I suoi sodali in Vaticano - cioè il Porporato stagionato e il clan polacco - erano già in tutt’altre faccende affaccendati, ma non si dimenticarono di lui: qualche tempo dopo gli fecero avere in gran segreto un’udienza del Papa a scopo di conforto.


* Sacerdote-imputato, al termine del processo di primo grado, venne riconosciuto colpevole e condannato per reiterate molestie sessuali nei riguardi di un chierichetto dodicenne. Ma in appello, come d’incanto, la sentenza si ribaltò in assoluzione. Il Vescovo della Diocesi, allo scoppio dello scandalo, aveva avviato un’inchiesta interna sulla vicenda, nel corso della quale erano emersi nuovi elementi a carico del Sacerdote, recidivo in materia di molestie sessuali, tali da sconsigliare "l’opportunità di un ulteriore incarico pastorale in questa o in altre Diocesi". Dunque, sebbene assolto dal Tribunale d’appello, il Sacerdote venne sospeso dal Vescovo, e invitato a sottoporsi a una terapia psicologica approfondita. Del resto, l’episcopato locale aveva opportunamente stabilito che, anche in assenza di condanne penali, nel caso di denunce a carico del clero per molestie o abusi sessuali si adottasse un particolare rigore. Forte dell’assoluzione giudiziaria in appello, il Sacerdote contestò la sospensione decisa dal Vescovo, e tramite l’amico Nunzio apostolico, effettivo di un clan della Curia romana (quello antico di connivenza massonica), chiese aiuto in Vaticano. E l’aiuto, puntuale, gli arrivò: un apposito decreto della Congregazione per il clero ordinò che egli fosse immediatamente reintegrato nel suo ministero sacerdotale, e che venisse risarcito di tutti i danni morali e materiali patiti durante la sospensione.


* Detestato e bersagliato da vari papaveri della Curia vaticana (i quali gli avevano affibbiato lo spregiativo soprannome di Monsignor stregone, e in passato, nei corridoi, gli avevano attribuito a mezza voce perfino lo stupro di una suora e altri crimini di natura sessuale), l’emerito Arcivescovo africano passò il segno per ritorsione: si unì a una setta, e con rito settario in mondovisione si legò in matrimonio a una donna coreana. Il rito si svolse in un albergo di New York sotto l’occhio delle telecamere - lo sposo in frac, e la sposa in abito nuziale con velo e strascico. Lo scalpore fu planetario: non solo apostasia ma anche proditoria violazione del celibato ecclesiastico, un doppio scandalo pubblico da scomunica ipso fatto. Ma l’Eccellenza stregona era ormai troppo nota e potente per incorrere nei rigori della legge canonica. Lo spiegò bene Monsignorone, il burocratico braccio destro dell’altrimenti inflessibile Presidente della Congregazione per la dottrina della fede: "C’è il pericolo che una parte della Chiesa, quella più progressista, segua quel suo esempio per cavalcare ancora l’abolizione del celibato per i preti. C’è il pericolo di uno scisma all’interno del clero che avrebbe conseguenze disastrose per la Chiesa". Così i falchi vaticani (cioè l’Eminenza mongolfiera, l’Eminenza teutonica, e il Sovrano cardinale Vicario) si fecero subito colombe, e il rigore della legge canonica - pronta e implacabile contro i deboli - svaporò per pura convenienza davanti al forte Arcivescovo. Ragione per cui l’Eccellenza stregona, fra blandizie e minacce, incontri segreti e udienze papali, promesse sostanziali e formali pentimenti pubblici, venne ammansita e condotta al sicuro, in isolamento. Il maggior turbamento vaticano non era tanto per lo scandalo in sé, quanto per l’enorme eco che esso aveva sui mass media - era il solito problema della "immagine pubblica" della Chiesa. Restava aperta la questione della di lui consorte, donna coreana determinata a far valere in pubblico le proprie ragioni di sposa sedotta e abbandonata dello sposo-Arcivescovo. La Curia vaticana tentò di cancellarla sostenendo che il matrimonio fosse inesistente perché il rito col quale era stato celebrato era irregolare, e in ogni caso l’unione era invalida essendo lo sposo "plagiato" dalla setta. Ma la sposa si recò a Roma e cominciò uno sciopero della fame contro la Santa Sede chiedendo di potersi incontrare col marito-Arcivescovo fatto sparire. Scandì la sua clamorosa protesta con raffiche di dichiarazioni raccolte dai mass media di mezzo mondo:

"Quando siamo partiti per l’Italia mio marito Monsignore mi ha avvertito che la situazione era difficile, ma mi ha detto di aver fiducia in lui e che mi avrebbe protetto da qualunque pericolo... Mi ha detto che non era libero di parlare, che mi avrebbe richiamato, ma non l’ho più sentito. Perché non me lo fanno vedere? Siccome la Chiesa non mi permette di vederlo, ho cominciato a digiunare. Il nostro matrimonio è stato consumato, noi siamo marito e moglie. Mio marito non ha mai abbandonato la sua fede, io non sono cattolica ma amo molto la Chiesa: ci alzavamo insieme, prima dell’alba, per pregare, per studiare la parola di Dio e imparare da mio marito i fondamenti della religione cattolica. Io e lui condividiamo una missione di fede, e certo anche le gioie del matrimonio... Facciamo la vita di tutte le coppie, Monsignore ha anche conosciuto i miei familiari, e mi ha regalato una collana e degli orecchini... So che sta cercando una strada per rimanere Vescovo e non abbandonare me. Perché un uomo di 72 anni, da sempre celibe, avrebbe dovuto fare il passo di sposarsi se non ne fosse stato convinto? Ho un ritardo mestruale. Certo non posso sapere se è dovuto allo stress di questi giorni e ai viaggi che ho fatto, ma non ho ancora fatto il test di gravidanza, lo farò quando Monsignore tornerà da me. Siamo una coppia normale, e come ogni coppia abbiamo desiderato un figlio. Abbiamo consumato il matrimonio, e so che a questo passo - me lo ha detto lui - lo hanno guidato Gesù e la Madonna. Lui aveva sempre vissuto una vita da celibe, casta: per quali altri motivi, se non per la diretta indicazione di Dio, poteva scegliere il matrimonio? Di certo non per il sesso: se avesse voluto, lo avrebbe fatto prima, oppure di nascosto. No, Monsignore non è stato accecato dalla libido, non è perché aveva voglia di una donna... Conosco cosa pensa mio marito, non può esistere il sesso libero, noi siamo assoluti su questo punto: purezza prima del matrimonio, fedeltà poi... Io e lui ci siamo sposati, e lo sa il mondo intero. Mio marito è anziano ma non è pazzo. Lui mi ha sposato davanti a tutto il mondo, mi ha abbracciata ed era felice, mi ha chiesto un bacio, era goffo perché non aveva mai baciato una donna sulle labbra prima di allora... Non è vero che adesso Monsignore vuole lasciarmi. Non è lui che non vuole vedermi, è che lo tengono prigioniero in Vaticano e sicuramente gli danno della droga per tenerlo stordito... Se non potrò rivedere mio marito, denuncerò la Santa Sede per sequestro dì persona e mi lascerò morire".

Le proteste della signora erano frecce che, scagliate dai mass media, piovevano sul Vaticano come dardi infuocati. Così, per tentare di placare l’incendio e diradare il fumo, prese la parola il solo Porporato della Curia romana non ostile all’Arcivescovo-sposo: "Monsignore comunicherà alla signora, con un messaggio, le ragioni del suo ripensamento. Lui vuole trascorrere un periodo nel silenzio, nella meditazione e nella preghiera... Non so se la signora sia incinta, aspettiamo di vedere come si evolverà la situazione: prima di preoccuparci se ci dobbiamo buttare nel fiume, aspettiamo di arrivare almeno presso la riva... Se arrivasse un figlio, il Monsignore, pur restando Vescovo e pur rimanendo nella comunità ecclesiale, sarà chiamato a rispettare gli obblighi di sostentamento per il figlio e per la madre... Non è la prima volta che la Chiesa fa tutto il possibile per recuperare un suo figlio che ha sbagliato. Certo, una moglie complica la situazione. Però Monsignore adesso vuole rimettersi in ordine, dentro la Chiesa, dopo un periodo di riflessione e preghiera. Lasciamolo in pace e tutto si risolverà". La donna si sottopose al test della gravidanza, che diede esito negativo - le Sacre mura vibrarono di sollievo. Subito dopo essa ricevette una lettera dell’Arcivescovo-sposo, preannunciata dal Porporato curiale. C’era scritto:

"La mia Madre Chiesa cattolica mi ha chiamato a ritornare nel suo ovile. Alcuni prelati mi hanno parlato in nome di Gesù per aiutarmi a capire la grande responsabilità che ho nella Chiesa. Le persone che mi cercano e mi aspettano sono molte. Più di queste sono soprattutto le congregazioni fondate da me stesso che attendono la mia guida spirituale. Le parole del Santo Padre mi hanno commosso: "In nome di Gesù Cristo ritorna alla Chiesa cattolica". Il mio vivo desiderio è quindi di obbedire al Santo Padre e di sottomettermi alle leggi della Santa Madre Chiesa. Io ti amo come sorella. Continuerò a pregare per te per tutta la mia vita. Il Signore ti benedica".

La signora non si diede per vinta, e proseguì lo sciopero della fame sotto l’occhio dei mass media. Fra le Sacre mura la tensione per la prova di forza era alle stelle, a memoria d’uomo mai prima il Vaticano era finito al centro di uno scandalo del genere. Determinata a incontrarsi a tu per tu con l’Arcivescovo che aveva sposato, la consorte dell’Eccellenza si spinse a rivolgere una pubblica supplica al Pontefice:

"La presente vuole essere un’umile preghiera a Sua Santità. Io sono la sposa e compagna di Sua Eccellenza l'Arcivescovo. Sono veramente dispiaciuta se durante il mio tentativo di tro vare mio marito le mie azioni abbiano in qualche modo causa to sconforto e offesa nei Vostri confronti. Io so che mio marito Vi ama profondamente. So anche che lui ha sempe avuto una grande stima e rispetto per Vostra Santità e ha sempre avuto la grande speranza di incontrarVi personalmente. Infatti è stato questo il motivo del suo viaggio in Italia: trovare il modo di riconciliarsi con la Santa Chiesa come fedele sposato. Per questo lui ha posto tutta la sua fede e la sua vita nelle Vostre Mani. Sua Eccellenza mio marito ha detto pubblicamente che in ogni sua decisione, riguardante il nostro futuro, mi avrebbe fatta partecipe. La supplico con tutto il mio cuore di facilitare tale incontro. Ora pare che lui abbia già deciso tutto senza interpellarmi, ma so anche che lui mi ama ancora, e vuole incontrarmi di persona. Se veramente il suo pensiero è cambiato, mi appello a Lei Santo Padre affinché possa ottenere un po' di più che pochi minuti con lui in un posto freddo e impersonale. Io e mio marito ci siamo sposati di fronte a Dio e al mondo. Abbiamo iniziato a vivere insieme. Ci siamo fatti promesse che io per prima non sarei mai capace di spezzare... Se mio marito intende rinunciare a tutto ciò che ha promesso, si sieda pure con me e me lo dica in faccia, e mi spieghi ogni cosa, con il cuore in mano, quale uomo libero e responsabile. Io lo ascolterò con tutto il cuore come sono sicura che lui ascolterà me. Una volta che ci saremo chiariti, io non farò più opposizione. Santo Padre, sono davvero dispiaciuta se i miei metodi possono averLa offesa, ma io devo rivedere mio marito. Ho cominciato a digiunare proprio per poterlo incontrare... Sono ormai tredici giorni che bevo solo acqua. Credo che se Monsignore potesse capire la mia situazione e la mia supplica, vorrebbe vedermi subito. Io credo e ho fiducia in Monsignore, Monsignore crede e ha fiducia in Voi. Quanto ancora dovrà continuare il mio digiuno? Se lui è pronto a incontranni, La prego, permetta che questo diventi realtà. Sua Santità, mi affido alla Vostra misericordia. La mia vita è nelle Vostre mani".

Le pressioni della donna attraverso i mass media finirono per avere la meglio. L’incontro fra i due sposi venne organizzato in un albergo di Roma presidiato dagli agenti della Vigilanza vaticana, e si svolse alla presenza di una decina di testimoni. L’Arcivescovo consegnò alla sposa ripudiata una lirica lettera di addio. C’era scritto:
"Mia cara sorella, come le acque del mare rilasciano i corpi annegati in stadi successivi, prima sulla superficie delle medesime acque, poi le onde spingono i corpi sulla spiaggia del mare, così è stato il mio destino. L’America mi ha depositato sulla superficie dell’Italia. L’Italia mi ha portato alla spiaggia della mia Chiesa, la Città Vaticana. Ed è qui che i miei confratelli mi hanno accolto di nuovo, e mi hanno portato non alla sepoltura, ma a rinforzare la vita in me. Il mio impegno nella vita della Chiesa tramite il celibato non mi permette di essere sposato. Il richiamo della mia Chiesa al mio primo impegno è giusto. Io sono consapevole della tua sofferenza. Io sono con te in tutte le tue sofferenze, pregando per te ogni giorno. Non soltanto io, ma ci sono tanti che sono con te. La benedizione di Dio ti accompagnerà per tutta la vita".

Al termine dell’incontro la signora dichiarò rassegnata: "La cosa più dolce che Monsignore mi ha detto è che siamo una cosa sola, un corpo unico. In passato, quando eravamo sposati, mi ripeteva sempre che siamo anime gemelle. Non si è pentito del matrimonio, noi rimarremo marito e moglie spiritualmente... Seguirò la volontà di Monsignore: partirò, andrò lontano, e soprattutto rimarrò zitta - mi ha detto che il modo migliore per stargli vicina spiritualmente è rimanere in silenzio. Lo amo, e farò quello che mi ha chiesto". Il ritorno nell’ombra dell’asiatica signora, e il suo silenzio, risolsero ogni problema. Nella Casa di Pietro tutto può accadere, purché non si sappia in giro. In Vaticano può succedere di tutto, basta che non se ne dia pubblico scandalo, cioè non se ne parli. Qualunque cosa è tollerabile tra le Sacre mura, a patto che sia salvaguardata "l'immagine pubblica" della Chiesa.


* Il Monaco benedettino austriaco, sull’onda del clamore suscitato dai ricorrenti scandali sessuali che coinvolgevano il clero, pubblicò un breve saggio tratteggiando "il terreno di coltura psicosociale che, all’interno della Chiesa, favorisce quei nefasti sviluppi e che nel corso dei secoli è diventato parte integrante della vita interna della Chiesa". Lo scritto, raccolto e diffuso da un’agenzia di stampa, suscitò grande irritazione ai piani alti della Curia vaticana. Forse perché le argomentazioni del Monaco benedettino erano pregnanti, articolate, disinibite e di pura ragionevolezza:

"Chi abbia seguito attentamente, negli ultimi anni, le vicende della Chiesa, si sarà accorto che vi sono alcuni ambiti in cui essa si ostina particolarmente a mantenere il suo punto di vista: penso qui al celibato, al rifiuto dell’accesso delle donne al sacerdozio, alla ridotta liceità consentita alla sessualità; penso all’esclusione dai sacramenti dei divorziati risposati, e penso al diritto esclusivo del Papa nella nomina dei vescovi. Tutti questi temi sono compresi nel campo di tensione sessualità-potere, e credo che siano tutti fra loro correlati. La Chiesa giustifica la sua intransigenza con la fedeltà alla volontà di Gesù Cristo, cioè alla volontà di Dio. La Chiesa si riferisce di solito a una concreta parola di Gesù. Ma se si guarda con maggiore attenzione, ci si accorge di una discrepanza, poiché il Magistero ecclesiale mentre pondera alcune singole espressioni di Gesù e ne fa discendere delle leggi, altre le giudica meno importanti o le sorvola. Un esempio: è sulla base del testo del discorso della montagna (Mt 5,31 ss) e di altri testi evangelici (come Mc 10,2 ss), che i moralisti della Chiesa giustificano il loro rigido atteggiamento rispetto al divorzio e all’esclusione dai sacramenti dei divorziati risposati. Non si discute: le parole di Gesù sono molto chiare e esigenti. Ma altrettanto chiare e esigenti sono le parole di Gesù riguardo alla rinuncia all’uso della forza (Mt 5,38-48), alla rinuncia al giuramento (Mt 5,33-37), e alla rinuncia al possesso (Lc 14,33). Se la fedeltà a ciò che Gesù voleva sta nel fatto di trasformare le Sue indicazioni in precetti morali, la cui inosservanza viene punita in parte con l’esclusione dai sacramenti, allora la Chiesa dovrebbe proprio fare anche della rinuncia all’uso della forza un precetto morale, dovrebbe introdurre il divieto di prestare giuramento e di possedere beni materiali. La realtà appare del tutto diversa: è facilmente dimostrabile quanto sia generosa la Chiesa nell’ammettere il diritto alla proprietà, quanto spesso debbano essere prestati giuramenti nell’assunzione di incarichi ecclesiali, e quanto disinvoltamente la Chiesa abbia giustificato la morte dei nemici in guerra. Che la discrepanza, così chiaramente riconoscibile, non sia presa sul serio dai moralisti cattolici appare dai forti meccanismi di rimozione, dai riferimenti distorti alla realtà, dalla tendenza alla fissazione, tutti sintomi che si possono osservare di solito negli psicopatici. lo penso che la tensione sessualità- potere, come si è formata nel corso dei secoli nella Chiesa cattolica, potrebbe essere una miniera e un ricco campo d’azione per gli psicoterapeuti. Per me è importante però illustrare quanto i moralisti cattolici abbiano nascosto i desideri autentici di Gesù, facendo esattamente quello che proibiscono agli altri: riducono il Vangelo, storpiano la volontà divina trasformandola in un codice morale umano, in paragrafi di una legge. Sul terreno di questa morale decadente talvolta nascono fiori grotteschi ma anche cinici. Faccio solo due esempi. La morale cattolica non giudica l’inclinazione omosessuale come peccato; ma chi vive questa inclinazione pecca gravemente. La soluzione per questo problema: pentimento e confessione. Il concetto chiaro e tondo di questa morale: ti amiamo, porco! Secondo esempio. I divorziati risposati sono esclusi dai sacramenti, con una sola eccezione: che vivano come fratello e sorella, cioè senza una vita sessuale. Invece di un concetto chiaro e tondo, una domanda: da dove viene un cinismo tanto lontano dalla realtà? In risposta, l’invito a riflettere sull’interrogativo: dall’invidia sessuale dei vertici "celibi" della Chiesa? Che in molte situazioni possa essere necessaria la rinuncia temporanea a soddisfare il proprio istinto non lo metto assolutamente in questione. Ma quando le leggi e le regole interne alla Chiesa prescrivono per tutta la vita un comportamento che è in contrasto con le fondamentali esperienze e esigenze della vita, si pecca contro la natura umana. Lo scandalo del cardinale-arcivescovo di Vienna dimostra una volta di più quanto sia inadeguata la prassi della nomina dei vescovi da parte di Roma. Se il vescovo fosse stato scelto dalla Chiesa locale, lo scandalo non si sarebbe mai verificato. Ma per l’ottusità degli attuali vertici della Chiesa un segnale così clamoroso e scioccante era necessario. Il Vaticano con lo scandalo del cardinale-arcivescovo si è messo in un bel guaio, e ne è responsabile. Per i "romani" avere a che fare con questo scandalo è di certo un fatto straordinariamente increscioso, solo che non lo manifestano apertamente. Perché se si tratta di ammettere un errore, le dittature come il Vaticano ovviamente non lo fanno mai. Da anni si chiede perdono per diversi capitoli bui e tristi della storia della Chiesa, che ormai appartengono al passato. Ma per riflettere sul presente in modo autocritico mancano palesemente carattere e spina dorsale. L’errore gravido di conseguenze per cui ammettere le proprie colpe e ritornare sulle proprie posizioni dottrinali indebolirebbe l’autorità della Chiesa, impedisce nella Chiesa sincerità e verità, e lascia il fedele nell’infantilismo e nell’immaturità al momento di formulare un proprio giudizio. L’unilaterale sopravvalutazione dell'ufficio pontificio si fonda su una parola di Gesù iperlogorata (Mt 16,18): "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa". Che Gesù non avesse l’intenzione di fare della persona di Pietro un papa infallibile, lo dimostra la scena che viene descritta qualche versetto dopo, dove Gesù rimprovera duramente Pietro a causa di parole superficiali (Mt 16,23): "Lungi da me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini!". Un versetto che le autorità della Chiesa in confronto citano molto raramente. E' indiscutibile che in una istituzione come la Chiesa debbano esistere strutture di governo, e che all’interno di queste strutture venga anche esercitata l’autorità. Ma bisogna anche ricordare quello che Gesù ha detto sull’autorità della Chiesa (Lc 22,26): "Chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve". E' senz’altro più che discutibile che si possa chiamare servizio il tentativo delle autorità vaticane di emettere prescrizioni ai cristiani di tutto il mondo fin nella camera da letto. Come anche - per rimanere in tema - quando Roma, in spregio ai desideri e alle esigenze delle comunità regionali, promuove vescovi la cui qualità consiste innanzitutto nel seguire acriticamente la linea dell’attuale Papa. Certo, Gesù non ha posto alla base delta sua Chiesa una struttura democratica. Sono pochi, negli scritti degli apostoli, i riferimenti a direttive di Gesù al riguardo. Ma ciò che sicuramente Egli non voleva era che un ceto elitario di celibi di un piccolo Stato del Sud Italia ordinasse e dirigesse fin nei dettagli la Chiesa di tutto il mondo, e che questo sistema di potere centralistico fosse perfino fatto risalire a Lui con argomenti ipocriti. Non si può giustificare con nulla, nemmeno con la volontà di Dio, il fatto che il Papa eserciti un potere illimitato su tutti i cattolici e che non esista alcun correttivo. E non ha sicuramente nulla a che fare con Gesù il fatto che il Papa abbia la possibilità di garantire la sua politica anche per il futuro nominando da solo quelli - i cardinali - che scelgono il suo successore. La maggior parte dei cattolici sono abituati a accettare questi fenomeni come ovvi. Non si accorgono che qui, con l’abuso della Bibbia e con il discutibile richiamo alla volontà d Dio, viene giustificato un sistema che in primo luogo serve a uno scopo quantomai banale: la protezione del proprio potere. Alcuni vescovi austriaci mi fanno pensare molto alle parole di Gesù (Mt 15,14): "Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!". Forse a volte le parole dei suddetti vescovi ci fanno un’impressione penosa, ma intanto realizzano anche qualcosa di buono: contribuiscono a smascherare il potere nella Chiesa [...] Qui diviene visibile quanto domini, nel repertorio della comunicazione all’interno della Chiesa, un gioco di volontà di dominio, di servilismo e di infantilismo. Si potrebbe anche parlare della cosiddetta "mentalità del ciclista": curvare la schiena verso l’alto per dare pedate verso il basso [...] Ciò che spesso ai cristiani manca sono prospettive, atteggiamenti e modi di agire pieni di speranza, che facciano capire come l’orientarsi al messaggio di gioia di Gesù porti a una vita sana. In questo i preti, i vescovi e il Papa dovrebbero vedere il loro compito prioritario: dovrebbero vivere in modo credibile l’invito di Gesù a fondare la propria idea di vita sulla fiducia e non sulla paura. I monasteri, per esempio, dovrebbero essere luoghi dove si possa avvertire che la fede dà frutti e fa bene, che la vita diventa vita sana. Sarebbe urgente e necessario, secondo me, che i cattolici la smettessero di guardare così tanto verso l’alto. La Chiesa non inizia in Vaticano, ma nelle singole comunità parrocchiali. E i responsabili delle strutture che vi poggiano sopra, fino ai più alti livelli della gerarchia ecclesiale, sarebbero ben consigliati se considerassero questi livelli di base, plasmati dalla vita reale, il fondamento della Chiesa e non soprattutto la buca delle lettere di prescrizioni e ammaestramenti. Laddove gli uomini edificano una comunità, è necessario anche l’esercizio dell’autorità; ma le autorità ricevono il loro incarico dalle comunità. Non c’è nessun motivo serio per cui questo non debba avvenire anche nella Chiesa: i responsabili continuano a essere controllabili dalla comunità, e possono essere rimossi dal loro ufficio. Se però si assiste al tentativo di eludere gli interrogativi critici sullo stile dell’esercizio dell'autorità con argomenti pseudoteologici (come: questa è la volontà di Gesù), la critica e la resistenza diventano un dovere di coscienza".

Apriti cielo! Il saggio del Benedettino austriaco provocò travasi di bile nella Segreteria di Stato, attacchi d’ira nella Congregazione per la dottrina della fede, sorde rabbie nel clan polacco, e accese riprovazioni nella Congregazione per i vescovi. Il testo venne messo all’indice - circolava nei corridoi curiali di nascosto, in fotocopie clandestine, come fosse un samiszdat.
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