Dall'Archivio di Repubblica (di Nello Ajello)
Gassman Un ricordo del grande Bellimbusto che raccontò miseria e nobiltà d' Italia
ROMA Sono passati dieci anni da quel 29 giugno del 2000 che vide la morte di Vittorio Gassman, uno degli attori italiani più memorabili del recente passato. Aveva settantotto anni. Non lo ricordiamo come un vecchio, secondo le misure cui ci ha ormai abituati il nostro tempo: e fatichiamo a racchiudere il suo lavoro in una definizione univoca. Ogni attore di razzaè di per sé uno nessuno e centomila. Figuriamoci lui, che è stato duttile fino alla meraviglia o alla sfrontatezza. Che seppe mostrarsi di volta in volta aulico e popolaresco, tracotante e generoso secondo i giri del palcoscenico, le chiamate sul set, i passaggi in tivù. Sta di fatto che quasi quattro decenni, dai Cinquanta agli Ottanta, ci sembra di averli vissuti sorridendo, spesso con amarezza, di fronte a ciò che Gassman ci raccontava del nostro paese. Filtrato da lui, esso ci appariva un mostro sociologico in grado di ipnotizzarci. Una simile destrezza scenica non gli apparteneva in esclusiva in quella fase d' arte che i cineasti chiamano «commedia all' italiana», e che poi era un concentrato di acume popolare misto a cattiveria. Altri attori - Sordi, Mastroianni, Tognazzi, Manfredi, Monica Vitti, per non dire di Totò e Peppino - salivano in cattedra. Ma non era facile insidiare a Gassman un titolo che si era guadagnato nonostante la sua imprevedibilità (o, magari, grazie ad essa): il titolo di grande Bellimbusto. Grande, nel senso di imponente, egli era per natura. Era pure bello, in maniera direi classica. Costruire un personaggio comico con quel fisico da medaglia, non dovette essere facile. La voce, poi: metallica, dai toni alti e sospirosi, sembrava più adatta alle tragedie di Vittorio Alfieri che alle commedie di Dino Risi. Lui stesso, quando otto anni prima di morire concesse al suo amico Luciano Lucignani un' Intervista sul teatro, tributò al palcoscenico un sentimento esclusivo e divorante. Fra i ricordi presenti in quel testo, affiorava un personaggio-attore nel quale Gassman amava riconoscersi. Era Kean, teatrante dell' Ottocento, «attore misterioso, angelicoe diabolico insieme». Un modo, per lui, di tracciare un autoritratto di conio drammatico per interposta persona. In materia di ricordi, ce n' è uno personale che m' insegue. Tardi anni Quaranta. Al teatro Mercadante di Napoli va in scena L' Aquila a due teste di Cocteau. L' ancora quasi sconosciuto Vittorio Gassman incarna il ruolo d' un giovane, quasi un ragazzo. Con addosso un paio di shorts, l' attore dall' insolito cognome tedesco duetta con una delicata collega, Olga Villi. Nelle pause «di scuola», nei gesti studiati, nel suo stesso birignao, Gassman lasciava indovinare un confronto con le vette della prosa di quegli anni: un Ruggero Ruggeri, un Renzo Ricci. Ancora oggi, i dizionari dello spettacolo individuano, al fondo delle sue radici espressive quel «teatro di parole» che è inconciliabile con difetti di pronunzia e allergico alle scivolate dialettali. E c' è allora da domandarsi in quale angolo dell' intelligenza di Gassman, professionista coltivato come un fiore di serra (sposò, fra l' altro, una figlia del grande Ricci) si sarà nascosta l' espressione inebetita di quel «pugile suonato» a nome Peppe, che avrebbe trionfato nei Soliti ignoti di Monicelli. In quale recesso del suo talento covava la sgangheratezza vernacola di Brancaleone, impagabile soldato di ventura? Che cosa potrebbe far supporre, nell' ispirato interprete dell' Adelchi di Manzoni, l' improntitudine, stile «miracolo economico» di quell' altro bellimbusto, automobilistico stavolta, che Gassman incarna nel Sorpasso di fronte all' incredulo e delicato Trintignant? E l' eroe per caso che s' immola accanto a Sordi nella Grande Guerra? E l' avvocato arrivista di C' eravamo tanto amati? E l' irrefrenabile, cinico donnaiolo di Profumo di donna che - particolare di ardua resa comica - è anche cieco? Spetta agli specialisti il compito di stabilire se proprio a Gassman vada assegnata la palma di massimo portavoce di quell' Italia straripante di affaristi e di balordi, di miserie (tante) e nobiltà (introvabili), di macchiette dal vero e di stereotipi inventati, che ispirò una stagione rimpianta del nostro cinema.I concorrenti al titolo di Re dalla commedia all' italiana, l' abbiamo detto, sono tanti. Basterà qui ricordare che, nella più generale sorpresa che ci riservava quella scuola, Gassman riuscì a colpirci, ogni volta, come una sorpresa a se stante. Educato - l' abbiamo visto - per un' altra specializzazione, privo di tratti comici rilevabili a prima vista, dava l' impressione di aggiungere al realismo dei propri ruoli qualcosa che non risultava nel copione: un surplus di autoironia. La sua attitudine a comportarsi da mattatore (fu questo il titolo di una sua non dimenticata serie in tivù) veniva sdrammatizzata dal gusto d' indossare la maschera del romano grande, grosso e «piacione». Non ci sembra per nulla indegno scoprire, sotto quei panni di scena, uno degli interpreti prediletti di quel secolo, il Novecento che, mentre noi lo ricordiamo, s' allontana.