Tywin Lannister VIII pdv
CRONACHE DEL DISTRUTTORE DEL MONDO
- Io sono Tywin -
La forchetta si mosse per abitudine tra il piatto e la bocca. Il grondante boccone di agnello, il cui aroma spargendosi dalle cucine inondava la sala da pranzo, aveva il sapore della cenere nel suo palato.
Masticava con un viso privo di espressione; lo sguardo assente fissava un punto imprecisato del tavolo, senza guardarlo davvero.
L’unico commensale, l’uomo che un tempo fu il leone di Castel Granito, ora sedeva ingobbito, era l’ombra della persona che era stata solo pochi mesi prima.
Il peso degli anni sembrava averlo raggiunto in una notte e ora gravava su di lui curvandogli le spalle, rallentandogli i movimenti e stillandogli goccia dopo goccia la vita dal cuore.
Erano bastate solo poche parole per distruggere tutto il suo mondo dorato: una lettera giunta da lontano, una lettera che portava l’odore della morte, degli incendi. L’odore della sconfitta.
“Tutto è perduto. È la fine di tutto: della guerra, del regno…della Famiglia. Addio padre.”
Queste erano state le parole di suo figlio Tyrion, scritte poco prima della disfatta di Vecchia Città.
Tutto il suo esercito era stato annientato, non c’era nulla nei Sette Regni che avrebbe potuto fermare l’avanzata di Robert. Certo la capitale non era ancora caduta, ma per quanto tempo avrebbe potuto resistere? Aveva ancora senso combattere? Si era chiesto più di una volta nelle notti insonni. C’era ancora qualche possibilità di vittoria? Gli stendardi porpora avrebbero ancora garrito nel vento?
No, tutto era perduto, i suoi figli erano caduti in mano ai nemici e i suoi lombi erano troppo vecchi e stanchi per dare nuovo vigore alla stirpe. Se casata Lannister, la sua discendenza, era perduta, tutto era perduto.
Per chi avrebbe dovuto combattere? Per chi avrebbe dovuto tenere il potere saldo tra le mani? Se non fosse stata la famiglia Lannister, la sua stirpe, a governare sui Sette Regni nei secoli a venire, allora non valeva pena combattere, allora la vita non aveva più alcun senso; allora era giusto che lui, un vecchio inutile leone stanco, ormai arrivato alla fine della sua esistenza, si allontanasse per morire camminando verso il tramonto.
Questo era ora Re Tywin Lannister Signore di Castel Granito, Scudo di Lannispot, primo del suo nome, Re degli Andali, dei Rhoynar e dei Primi Uomini, Lord dei Sette Regni e Protettore del Reame.
Questo era diventato.
Un uomo finito, un’anima perduta il cui nome non atterriva più i nemici, la cui sagoma stagliata sul campo di battaglia non gettava più nello sconforto interi eserciti. Ora si poteva provare solo pietà e disgusto per quell’essere che era stato l’uomo più potente dei Sette Regni.
Dalla lettera di suo figlio i giorni si susseguivano uguali, l’uomo si trascinava in una vuota apatia. Non provava più passione, non lo interessavano le letture, né la caccia, non i dispacci dal continente occidentale e neppure quelli delle terre d’oriente; si rifiutava di incontrare ospiti e ambasciatori, che fossero essi potenti principi, possibili alleati o splendide donne in cerca della compagnia di una sera.
Come una grigia figura Lord Tywin si aggirava tra il palazzo senza una meta precisa, come sospinto da un vento di dolore e ricordi.
Un altro movimento della mano e un altro boccone a riempire lo stomaco. L’uomo scostò il piatto ancora pieno e abbondante al contrario della brocca del vino, nella quale non si faticava ad intravedere il fondo nelle poche gocce rubizze rimaste al suo interno.
L’uomo si alzò su passi traballanti per dirigersi nelle sue stanze. Il calar della sera era ormai prossimo, le giornate cominciavano a farsi più corte con piogge più frequenti. Avrebbe avuto ancora forse un paio di ore di luce, ma per farne cosa? Attraversando il corridoio superò il proprio studio; pergamene ancora chiuse con la ceralacca ingombravano intonse il tavolo, la cenere del camino era fredda da settimane e uno strato di polvere incominciava a ricoprire ogni cosa come la coperta che avvolge l’uomo perso nell’oblio del sogno.
Lord Tywin raggiunse la propria stanza. Quando si soffermò un istante davanti allo specchio vide l’immagine di un uomo che non conosceva: una rossiccia barba incolta gli copriva il viso, due scure occhiaie risaltavano nel colore cereo del volto di quella persona ingobbita. La casacca macchiata in più parti, era sciupata e mostrava il tempo trascorso addosso all’uomo che non ricordava più nemmeno quando l’aveva indossata e neppure gli interessava farlo.
Macchie di bianco calcare punteggiavano il bacile d’argento, strumento ormai dimenticato.
Il sovrano si sedette sul letto senza spogliarsi, allungò la mano verso una caraffa piena di vino, vi aggiunse una generosa dose di latte di papavero e poi la vuotò in una lunga sorsata augurandosi un sonno privo di sogni, privo di incubi.
I giorni trascorrevano uguali a se stessi; Lord Tywin si trascinava tra le vecchie sale come una barca sospinta dalla marea, mesto come un marinaio a cui si erano spezzati i remi e con essi la speranza.
Quella mattina bussarono alla porta della stanza con decisione.
“Signore, presto, dovete venire nel salone principale. Rimer ha grandi novità” la voce del servo era carica di ansia e aspettativa allo stesso tempo.
“Si.” Fu la sola risposta del Protettore del Regno.
Si alzò dal letto e senza curarsi di rendersi presentabile si trascinò come un’ombra nel salone grande.
Le tende erano state scostate e le vetrate aperte; il freddo e la luce lo ferirono come lance acuminate. Nella stanza c’erano una decina di uomini armati: il comandante Rimer, Narcil, l’uomo che lo aveva svegliato, e un individuo ai ceppi con il viso tumefatto accasciato al centro della stanza.
Il sire vi posò lo sguardo un instante: era un uomo sulla quarantina, la calvizie iniziava a mostrare il cranio, mentre ciuffi di capelli castani spuntavano ancora dai lati della testa. Aveva folte sopracciglia, l’occhio sinistro era rigonfio e chiuso, il naso mostrava una piega innaturale e le labbra erano spaccate in più punti. Respirava con affanno e teneva la testa china.
“Mio Re” cominciò a parlare Rimer, “abbiamo catturato quest’uomo mentre cercava di entrare nelle cucine fingendosi il garzone mugnaio. Vorrei prendermene il merito, ma è stato un vero colpo di fortuna, infatti il nuovo cuoco che proprio oggi sostituiva quello malato è il fratello del mugnaio e ha riconosciuto l’inganno.”
Il Re pareva non ascoltare, fissava l’uomo in catene mentre la sua mente vagava chissà dove.
“Così” riprese il comandante della scorta “lo abbiamo preso in custodia e lo abbiamo interrogato. All'inizio ha risposto alle nostre domande con un ostinato silenzio, ma poi ha rivelato la propria identità.” Fece una pausa come per creare attesa nel suo lord, ma esso rimase immobile e distaccato. “Quest’uomo di chiama Mariùs e viene dal continente Occidentale; è un sicario inviato da quell’infame di Robert Baratheon per attentare alla vostra vita. Avrebbe dovuto avvelenare il vostro cibo, capite, Robert si sarebbe affidato al veleno mostrando ancora una volta quale vigliacco sia. Non vi è onore nel veleno. È un’arma da eunuchi e da pavidi.” Così dicendo con la voce carica di rabbia e disprezzo diede un calcio nello stomaco del prigioniero che emise un mugolio sofferente.
“Crediamo ci sia un complice, un altro assassino, ma questo cane non vuole aggiungere altro.” Un altro calcio, un altro singhiozzo di dolore. “Cose dobbiamo fare di lui, signore? Volete interrogarlo? Volete che sia giustiziato?”
“Si” fu l’unica risposta di Lord Twyin che così dicendo si voltò e lasciò la stanza.
Rimer, confuso, rimase immobile in piedi al centro della stanza. Guardò negli occhi i presenti che mostravano lo stesso imbarazzato smarrimento.
Persino Mariùs nella sua sofferenza sembrava non capire cosa stesse per succedere, sembrava incerto sul proprio destino.
La lama fredda del capitano della guardia che si apriva la strada lungo il suo collo mostrò una rossa e dolorosa riposta ad ogni suo dubbio; un’ultima risposta che, chiara, segnava la fine della sua vita.
La scoperta che un assassino era riuscito ad avvicinarsi tanto da attentare alla sua vita aveva lasciato in Tywin una strana sensazione. Non un senso di paura o di preoccupazione, ma un amaro senso di inadeguatezza, una serena mestizia.
Non aveva pensato alla morte sino a quel momento, ma ora la nera mietitrice iniziava ad irretirlo con il suo fascino.
La morte in fondo non avrebbe fatto altro che privarlo delle sofferenze. Non sarebbe mancato a nessuno, nessuno aveva più bisogno di lui. Non poteva far nulla per aiutare la sua famiglia, non poteva far nulla per distruggere i suoi nemici, non poteva far nulla di nulla e allora perché non perdersi in questo nulla? Perché non arrendersi al dolce abbraccio dello Sconosciuto, perché combattere quando ci si poteva arrendere ad un destino ineluttabile?
Questi erano i pensieri di Tywin Lannister, un uomo spezzato che si trascinava nei giorni in attesa di una tanto sospirata morte.
In gioventù aveva immaginato la sua morte su di un campo di battaglia alla testa di eserciti, portando con sé una moltitudine di nemici. Le sue gesta sarebbero state narrate dai cantori per generazioni, vi avrebbero scritto ballate. Sarebbe stato un fulgido esempio da seguire, come Brandon il Costruttore o Baelor Il Benedetto; i bambini lo avrebbero impersonato nei loro giochi, le fanciulle avrebbero cercato le sue doti nei loro fidanzati…sarebbe stato un Eroe degno delle leggende, la sua vita e la sua morte sarebbero stati ricordati per sempre.
Ora invece eccolo li: un vecchio il cui unico desiderio era quello di morire prima di non riuscire a farla più nel pitale; un vecchio che non avrebbe raggiunto i propri antenati nelle grandi sale celesti; un vecchio la cui morte ingloriosa avrebbe cancellato in un sol attimo tutti i gesti di una vita.
Sarebbe bastato indugiare un poco di più con il latte di papavero e il dolce sonno, come lo chiamavano i Maestri, lo avrebbe accolto. Oppure avrebbe potuto smettere di mangiare; il cibo così come la vita non gli davano più alcun piacere.
Tywin sorrise per la prima volta dopo settimane. Morire sarebbe stata la sua ultima vittoria, con la sua morte avrebbe tolto a Robert Baratheon il piacere di renderlo schiavo e la gioia di ucciderlo.
Per alcuni giorni il sovrano si fece più cupo e triste, quasi non toccava cibo, non conversava più con nessuno, passava il suo tempo chiuso al buio nelle proprie stanze eccedendo con il vino e con il latte di papavero.
Era scesa una cappa di tensione insopportabile sull’intero palazzo, tra gli uomini andava diffondendosi un malumore che presto sarebbe sfociato in rivolta, i servi iniziavano a trascurare i propri compiti poiché ormai nessuno faceva più caso né all’etichetta né allo stato del palazzo. Tutto stava marcendo come il cadavere di un animale lasciato alle intemperie.
Il gruppo di cavalieri in livrea porpora giunse al galoppo la prima ora del pomeriggio. Le loro vesti erano coperte di fango; sicuramente arrivavano da lontano e avevano cavalcato sotto l’acquazzone di quella mattina. L’impossibilità di essersi fermati a cercar rifugio alla pioggia abbondante, stava a significare sicuramente che avevano fretta, avevano qualcosa di importante da comunicare.
Rimer li osservò arrivare da sotto il portico con sguardo triste. Lui sapeva cosa erano venuti a dire quegli uomini; un corvo era giunto durante la notte e aveva portato la notizia, una notizia tanto terribile che lui non aveva ancora avuto il coraggio di comunicare al suo Lord perché, ne era certo, ascoltarla lo avrebbe ucciso.
Lasciò il portico per andare incontro ai nuovi venuti, pronto ad accogliere nuovamente la notizia della caduta della capitale, pronto a vedere altri uomini vinti unirsi alla schiera dei fantasmi che abitavano quella villa: nuovi prigionieri della vita, nuove anime dannate.
Quando il capitano della guardia incrociò lo sguardo del cavaliere che gli si faceva incontro notò qualcosa di strano, qualcosa che non pensava di poter rivedere in tutta la sua vita e quasi faticò a riconoscere. In quegli occhi lesse gioia e speranza.
L’uomo gli si avvicinò e scese da cavallo con un movimento che la lunga cavalcata aveva reso meno fluido.
“Sono Willer Hill, per servirla mio signore.” Si presentò il soldato con un breve inchino.
Ser Rimer fece un cenno con la testa ancora dubbioso.
“Il giorno stesso in cui Re Tywin Lannister è sbarcato sulle coste Orientali ha affidato una missione a me e alla mia compagnia” riprese il cavaliere “dopo due lunghi mesi e non poche perdite sono lieto di comunicare” fece un gesto ad un altro cavaliere che scese da cavallo e si avvicinò tenendo tra le braccia un fagotto di stracci “che abbiamo ritrovato ‘Ruggito di Luce’, l’antica spada di casata Lannister” così dicendo, l’altro uomo svolse il fagotto mostrando una spada lunga.
Riflessi porpora correvano lungo la lama di acciaio di Valyria; l’elsa era in oro, i due bracci rappresentavano due leoni pronti al balzo; sopra di loro era stato inciso in antico Valyriano “Odi il mio ruggito”.
Al centro dell’elsa era stato modellata la testa di leone che teneva tra le fauci spalancate un enorme rubino. Un altro rubino era posto sul pomo, circondato dai fregi d’oro e d’argento come per sottolineare la ricchezza della casata protettrice dell’Occidente.
Era un’arma davvero impareggiabile, una visione sublime, che non poteva che destare ammirazione e timore negli occhi dell’osservatore.
Ser Rimer non rimase immune a quel fascino, e un sentimento di ritrovata speranza si fece largo nel suo petto. Decise che avrebbe fatto chiamare il suo Sovrano nella sala grande, che gli avrebbe dato la notizia della Caduta di Approdo e subito dopo gli avrebbe mostrato la lama della sua famiglia, nella speranza che una notizia positiva ne cancellasse una negativa; una vuota speranza, lo sentiva, ma l’unica speranza che aveva.
Lord Tywin aprì gli occhi. Non stava dormendo, ma giaceva immobile su letto.
La stanza era completamente buia, la testa gli pulsava, la nausea stringeva come una morsa il suo stomaco.
Fece per rispondere a chi si ostinava a bussare alla sua porta, la voce gli bruciò in gola, fece uno sforzo ma non ricordò neppure quanti giorni erano trascorsi dall’ultima volta che aveva parlato con qualcuno. Ci riprovò con maggior convinzione ed eruppe un suono gutturale che ben poco aveva del “si” che aveva intenzione di pronunciare.
Allungò la mano verso il comodino accanto al letto e vi trovò una piccola caraffa, l’avvicinò alle labbra…vuota.
A tentoni cercò sul pavimento e vi trovò un'altra piccola brocca, vuota anch’essa. Decise di alzarsi dal letto. Con passi malfermi, inciampando tra i cocci, raggiunse la porta e aprì l’uscio.
Narcil fu investito da una zaffata di tanfo acido e malsano: l’aria nella stanza chiusa da giorni era decisamente troppo calda, e un odore di vino acido, urina, vomito e feci lo travolse facendolo trasalire. Istintivamente fece un passo indietro e trasse una profonda boccata dell’aria fresca del corridoio. Stava per riprendersi quando la vista della figura che era apparsa dalla camera lo sconvolse ancora di più.
L’uomo che gli si stagliava davanti aveva un volto scarno e malato, gli occhi erano circondati da un alone rosso e sembravano spiritati, sembravano persi nel vuoto. Aveva una lunga barba rossa che copriva interamente il collo, aggrovigliata come il nido di un merlo e punteggiata di incrostazioni di vomito.
Dal cranio spuntavano ciuffi di capelli che solitamente il lord teneva completamente rasati, e le labbra erano secche e crepate.
L’uomo era scosso da un tremito, sembrava faticare persino a stare lì fermo appoggiato allo stipite. Era scalzo e i piedi erano lerci e poco curati, la casacca era sporca e le dita delle mani sanguinavano dove probabilmente si era strappato le unghie a morsi in un eccesso di sconforto.
L’odore dell’uomo era insopportabile.
“Sire, la stanno aspettando nella sala grande” disse il servo chinando leggermente il capo.
L’altro uomo non rispose, non sembrava neppure aver compreso.
“Sire, non potete presentarvi in queste condizioni. Seguitemi” continuò Narcil prendendo l’altro sottobraccio e riportandolo nella stanza.
“Si” fu la risposta di Lord Tywin mentre si faceva accompagnare nella stanza.
Narcil, facendo molta attenzione, attraversò la stanza e riuscì a raggiungere la finestra per scostare i pesanti tendaggi e aprire le imposte chiuse, per fa entrare la fioca luce del tramonto.
Fece accomodare il suo Re sul letto e si voltò per osservare la stanza.
Una grossa pozza di vomito ormai secca si allargava da sotto al letto, una decina di caraffe di vino giacevano a terra qui e là e i numerosi cocci erano dimostrazione che la sete del sovrano non si era limitata a quelle. Quattro flaconi di latte di papavero giacevano vuoti su di un tavolino. Il secchio degli escrementi era colmo e tracimato sul pavimento, alcune feci erano sparse anche negli angoli della stanza.
Narcil guardò con orrore l’uomo che, seduto sul letto, fissava il pavimento. Come aveva potuto ridursi in quello stato e come loro, suoi uomini che gli erano da sempre stati fedeli, avevano potuto permetterlo?
Chiamò un altro domestico e gli affidò il secchio della latrina, poi con una scopa ripulì alla ben e meglio la stanza, accese il fuoco e vi mise a scaldare dell’acqua.
Prima di dedicarsi al suo Re diede l’ordine che fosse preparata un'altra camera per la notte per il sovrano.
Aiutò l’uomo a sfilarsi la casacca, poi con un panno e del sapone gli deterse il viso attingendo dal bacile di acqua calda, gli lavò il capo e il petto, con un pettine gli ravvivò la barba e gli sistemò i capelli pettinandoli all’indietro e frizionandoli con dell’olio. Rovistando tra le ampolle del cassetto trovò un’essenza profumata al mughetto e con essa cosparse sia il corpo del sovrano che la tunica pulita che estrasse dall’armadio.
Sembrava quasi una bambina che gioca a vestire una bambola di pezza: il sovrano non opponeva resistenza, ma non collaborava in alcun modo alla propria toeletta.
Dopo aver vestito il sovrano, riempì un catino di acqua calda e sali e si mise a lavargli i piedi. Scorrendo le mani sulla pelle del Re si rammaricò di non poter lavare anche l’animo di quell’uomo; avrebbe voluto detergere il male che lo opprimeva come stava togliendo lo sporco dai suoi piedi.
Calzati i sandali, accompagnò il sovrano nella sala comune.
La sala era ampia; entrambi i camini posti uno di fronte all’altro erano stati accesi.
L’ondeggiare delle fiamme creava ombre guizzanti tra i fregi marini di marmo bianco. Le candele erano state cambiate in ogni candelabro per l’occasione.
Tutte le ante della porta finestra nella parete di fondo erano chiuse.
Il grande disco di ottone che fungeva da lampadario al centro del salone era stato acceso e la luce riflessa sul mosaico di specchi del soffitto illuminava la stanza a giorno.
Tywin superò l’arco d’ingresso passando accanto alle statue di due tritoni, attraversò la sala con i passi ovattati dai tappeti che coprivano il pavimento e si andò a sedere su di una sedia posta davanti alle vetrate.
Per l’occasione il grande tavolo di noce era stato spostato accanto al muro di sinistra.
La stanza accoglieva una ventina di persone: c’erano il Capitano Rimer con cinque dei suoi uomini, Narcil e altri due domestici e un’altra dozzina di cavalieri. Tutti avevano indossato dei vestiti di gala e profumavano di fresco come se si fossero lavati per l’occasione.
Lord Tywin fece scorrere con vuoto interesse lo sguardo sugli astanti.
“Mio Re,” iniziò a parlare Rimer facendo alcuni passi per portarsi al centro della stanza - il tono delle sua voce cupo e mesto “la notte scorsa è giunto un corvo dalla capitale.” L’uomo fece una pausa cambiando il peso da un piede all’altro come per sopportare la gravità della notizia che stava per dare. “Non sono buone notizie…”
“Ali oscure, oscure parole” aggiunse Willer Hill, sottolineando i suoi umili natali.
Rimer lo rimproverò con uno sguardo silenzioso, poi riprese il suo discorso.
“Maestro Edwin ha mandato un corvo poco prima che le forze di quell’infame di Robert Baratheon sfondassero le porte della fortezza rossa: comunicava che le strade della capitale erano in mano al nemico e che presto anche la fortezza sarebbe capitolata all’assalto delle truppe del cervo.
Sire, l’animale è giunto stremato, ma credo che la notizia sia vecchia di settimane…la capitale è caduta.”
Lord Tywin non sembrò minimamente scosso dalla notizia. Alzò sguardo incontrando gli occhi del suo capitano; si guardarono per un lungo istante in silenzio.
Rimer vide la resa, la disperazione, lo smarrimento.
Il vuoto.
Non vi era luce in quello sguardo, non vi era vita.
“Avete capito? Mi avete sentito?” Esplose il capitano in un impeto di rabbia, “la capitale è caduta. Voi non siete più il Re di nulla.” Fece due passi verso l’ex sovrano sollevando i pugni davanti a sé: ”stupido vecchio, dite qualcosa! Non siete ancora morto, lo volete capire! Fate qualcosa per i Sette!!!”
Alcune guardie fecero per muoversi ma si fermarono all’istante quando Lord Tywin si mosse. Il vecchio leone si alzò in piedi per un momento. Sembrò essere tornato l’antico guerriero, guardò il suo capitano stagliarsi tremante di rabbia davanti a lui e disse con voce piatta, senza alcun sentimento: “Si”.
Il capitano cadde in ginocchio. Avrebbe voluto scuotere quell’uomo, avrebbe voluto che reagisse, ma tutto era stato vano. Era pronto a morire pur di far rivivere lo spirito del leone nel suo Signore, ma tutto era stato vano.
Lord Tywin volse le spalle all’uomo e tornò a sedersi sul suo scranno.
“Sire…Lord…insomma, mio Signore” intervenne Willer Hill, facendosi avanti: “risollevatevi! Porto buone notizie! Le mie non sono arrivate sulle ali di un uccello iettatore.” Cosi dicendo fece un segno di scongiuro e raggiunse il centro della sala mentre Rimer tornava verso i suoi soldati con il viso solcato dalle lacrime.
Lui gli fece un sorrisetto di derisione.
“Sono venuto qui di persona per dirvi che ho compiuto la più grande tra le imprese, neppure vostro fratello Gerion, un cavaliere, era riuscito a fare ciò che io ho fatto. Ho attraversato luoghi impervi, risalito il fiume fumante, sono giunto dove nessun uomo si era spinto negli ultimi cento anni.”
L’uomo gesticolava molto mentre raccontava le proprie avventure, come se fosse in una taverna da quattro soldi e volesse far colpo su qualche servetta.
“Ho combattuto nemici impareggiabili e finalmente sono fiero di potervi dire che ho ritrovato ‘Ruggito di Luce’, la spada della vostra famiglia.”
Il volto di Lord Tywin fu solcato da una fulminea espressione di interesse.
“Ho perso molti uomini in questa impresa e molti altri lungo il percorso si sono uniti alla mia -alla vostra- causa. Ecco dunque, perché indugiare ancora? Portate la spada al suo legittimo proprietario.”
Fece un gesto con la mano e dal gruppo dei suoi uomini avanzò un ragazzo che non doveva avere più di quindici anni; il suo fisico asciutto e guizzante si intravedeva sotto il farsetto di velluto color porpora. Aveva capelli scuri e occhi nocciola. Una barba di primo pelo gli ombreggiava il volto.
Camminava a passo lento portando tra le mani di fronte a sé la spada, con l’attenzione con cui si porta un neonato e la sacralità con cui i septon portano le reliquie degli Dei. Tutti seguivano in assoluto silenzio i passi di quel ragazzo. Rimer osservava il sovrano in attesa di qualche reazione.
Lord Tywin si alzò in piedi. I suoi movimenti sembravano rallentati, l’intera scena sembrava svolgersi con una lentezza innaturale.
Il ragazzo aveva attraversato la metà della sala e lasciato qualche passo dietro di sé Willer, che lo guardava con espressione carica di compiacimento.
Poi, tutto accadde. Come un lampo che rischiara la notte, come l’ultimo battito di un cuore prima di spegnersi.
“Per Re Robert!!! Per Mariùs!!!” gridò il ragazzo afferrando l’elsa della spada con entrambe le mani e caricando Lord Tywin in una corsa sfrenata.
Tutti i soldati si mossero all’istante, ma il ragazzo aveva troppo vantaggio su di loro, era ormai troppo vicino alla sua preda.
Lord Tywin allargò le braccia come per accogliere in un affettuoso abbraccio il nemico che si avvicinava per conficcargli la lama nel petto.
“Ecco dunque la tanto desiderata morte…sono pronto!” sussurrò con un filo di voce.
Non più di un braccio separavano la fredda lama di acciaio di Valyria dal torace del Lord di Castel granito quando egli, rapido come una serpe, si mosse di lato. Non era un gesto voluto: il suo corpo si era mosso da solo. Era l’istinto del guerriero, di chi era sopravvissuto a mille battaglie.
La sua mente e il suo spirito si erano arresi da tempo, ma il suo corpo desiderava vivere, il suo corpo agognava ancora il combattimento.
Il ragazzo fu colto di sorpresa dall’improvvisa reazione dell’uomo; cercò e di frenare la sua corsa, ma scivolò sul tappeto che copriva il pavimento e cadde rovinosamente in avanti.
Rimer, acciaio in pugno, raggiunse il suo signore frapponendosi tra lui e l’assassino, che però rimase a terra immobile accovacciato a pancia in giù sulla spada. Il capitano della guardia si avvicinò con cautela mentre anche gli altri uomini circondavano il ragazzo che ancora rimaneva a terra.
L’uomo infilò un piede sotto la spalla dell’assalitore e facendo forza girò il ragazzo in posizione supina.
Lo sfortunato aggressore era caduto sulla propria arma, uno squarcio correva dalla mandibola sinistra sino a sotto il pettorale destro; il peso del suo corpo, lo slancio della caduta e l’impareggiabile filo delle lame di Valyria non gli avevano lasciato scampo.
La ferita non era certo profonda ma doveva aver reciso qualche importante arteria nel collo perché il sangue zampillava copioso e una piccola pozza scura cominciava ad allargarsi sul pavimento.
Rimer si voltò verso il suo Signore per sincerarsi che stesse bene.
Lord Tywin aveva lo sguardo fisso sulla spada che ancora giaceva a terra, una fiamma brillava nei suoi occhi.
Si avvicinò alla scena e poggiò un mano sull’avambraccio di Rimer per farlo scostare. Il capitano si stupì della forza della presa.
Senza dire nulla afferrò l’elsa della spada, ne sentì la forza, passò una mano sulla lama coperta di sangue e poi strinse il pugno.
Si voltò versò i suoi uomini tenendo la spada salda davanti a sé.
Ciò che essi videro non era più lo spettro disperato di quella casa: un’aurea radiosa sembrava provenire da quell’ uomo, un’aurea che scacciava la rassegnazione e la tristezza. Davanti a loro si stagliava un guerriero, un lord, un re, un eroe delle antiche ballate.
“Io sono vivo!” disse con voce ferma e tonate.
Gli uomini esplosero in un’ovazione. Quella dichiarazione di vita non erano solo parole, ma contenevano una forza quasi tangibile, una forza che spezzava la coltre di morte che avvolgeva la casa, come il sole scaccia le nubi di tempesta.
“Io sono vivo!” riprese Lord Tywin portandosi al centro della sala. Il suo passo era sicuro, il suo portamento eretto e marziale. Gli uomini fecero un grande cerchio intorno a lui.
“E’ stato il destino a decretare che io dovessi vivere. Questa spada” così dicendo allargò le braccia e girò su se stesso mostrandosi a tutti gli astanti “la spada della mia famiglia, ha ucciso il mio assassino: i miei avi sono hanno voluto che io vivessi” -fece una pausa, “è il cielo stesso che ha deciso che io viva!
Una volontà superiore a qualunque altra ha voluto che io rimanessi qui a compiere il mio destino, il destino che è scritto nel cielo stesso. Nulla potrà fermare il mio cammino verso ciò che mi aspetta, verso ciò che è mio di diritto, verso la conquista dei Sette Regni e del mondo intero!”
Un altro urlo di gioia proruppe tra i presenti. Il leone di Castel Granito sapeva ancora ruggire.
“Dunque perché aspettare! Il destino non aspetta chi non percorre la sua strada con determinazione. Che sia ordinato a Lord Marbrand di armare la mia flotta! Domani stesso navigheremo verso occidente per prendere ciò che mi spetta.”
Così dicendo si voltò verso l’arco che conduceva nelle proprie stanze e mentre il cerchio si apriva per cedere il passo una voce intervenne alle sue spalle.
“Mio sire, perdonatemi” il capitano Reimer si fece avanti “sono lieto di vedere in voi un rinnovato desiderio di rivalsa, ma se posso permettermi vi vorrei consigliare di non cedere all’impulsività e di rivalutare la vostra strategia. Qui in oriente disponiamo solo di cinque navi, e di un piccolo contingente di uomini. Non avremo scampo contro le forze del cervo. Dovremo a mio avviso chiedere un prestito alla banca di Bravos e provare ad assoldare alcune compagnie mercenarie. Dalle informazioni in mio possesso i Secondi Figli e i Corvi della Tempesta dovrebbero trovarsi nei pressi di Mereen; anche la Compagnia dorata e i Figli del Vento sarebbero un’ottima scelta.”
Lord Tywin si voltò verso di lui.
“Inoltre” continuò il soldato “non sarebbe saggio salpare in questo momento: la stagione delle tempeste è ormai alle porte. Direi che la riconquista del regno dovrebbe ripartire non prima di un anno, tempo sufficiente anche per sondare gli umori della popolo nella nostra patria cosi da poter organ….”
Le parole si fecero liquide, morendogli in un rosso gorgoglio nella gola. Un palmo di acciaio di Valyria usciva dalle sue scapole dopo aver attraversato completamente il suo torace. Lord Tywin fece un passo indietro estraendo la spada dal petto dell’uomo che lo fissava con gli occhi sgranati, poi con un movimento fluido come una pennellata tracciò un arco nell’aria e la testa del uomo si staccò di netto dal corpo, il quale si afflosciò a terra come un sacco vuoto.
“Partiremo domani a mezzodì. C’è qualcun altro che osa contraddire il mio volere?!?”
Nessuno nella sala si mosse.
Il sole era sorto da non più di un’ora, ma Lord Tywin era già in piedi da parecchio tempo.
La notte precedente aveva dormito poco rapito dal vortice dei frenetici preparativi per la partenza.
Aveva ordinato che la sua armatura fosse lucidata e oliata, avrebbe dovuto risplendere come un sole e calzare come un guanto. Si era personalmente preso cura della propria spada passando molto tempo ad affilarla e a studiarne gli intarsi perso in pensieri di gloria e conquista. Aveva chiesto che il Trono di Spade fosse fissato sulla tolda dell’ “Artiglio di Lannispot” la sua ammiraglia.
Ora era di fronte allo specchio e si stava radendo i capelli e la barba per lasciare sul viso solo le caratteristiche basette bionde.
Il tempo trascorso nella disperazione aveva segnato il suo fisico: i muscoli avevano perso la tonicità, era troppo magro e cereo, ma ora, mentre fissava la sua immagine riflessa, non vedeva tutte queste mancanze. Lo spirito della battaglia si era impossessato di lui, lo stesso Guerriero avrebbe dovuto tremare al suo cospetto. Una fiamma gli bruciava nel petto, una fiamma che era alimentata dalle sconfitte del passato e che illuminava un domani di vittorie e di conquiste. Lui era stato scelto dal cielo, lui incarnava il futuro di tutta l’umanità; lui era un Dio, l’unico vero Dio, un Dio che camminava come essere superiore tra gli uomini, che aveva il potere di vita e di morte, che con un suo capriccio avrebbe potuto distruggere interi regni. Lui era colui che teneva il cielo e la terra stretti nella forza del suo pugno.
Finì di prepararsi con cura, indossò un abito porpora e si fece aiutare da Narcil nell’indossare l’armatura completa, l’armatura dorata del leone.
“Sono pronto.” Così dicendo Tywin sollevò la corona dei sette regni e la pose sul capo con un gesto solenne. Il contatto del freddo oro con il cranio glabro fu un brivido di piacere, il peso della corona a sette punte gli diede la dolce sensazione di potere che essa rappresentava.
Tywin si sentiva un sovrano, si sentiva invincibile; si sentiva un Dio.
Allacciò il cinturone con “Ruggito di Luce” e indossò una cappa fatta con la pelle di un grosso leone.
La testa dell’animale faceva bella mostra sulla spalla del sovrano; gli occhi erano stati sostituiti con due grossi rubini, le zanne erano state placcate in oro zecchino.
Il risultato era una figura imponente e maestosa. L’armatura splendente, la cappa ferina e la corona trasudavano potere e rispetto; un’aurea di riverenza incorniciava quell’uomo. Difficilmente qualcuno sarebbe rimasto indifferente al suo carisma, al suo fascino.
La parte più inquietante e terribile di quell’essere era però lo sguardo. Negli occhi incavati si intravedeva brama, desiderio e follia. Era lo sguardo di un folle, di una creatura giunta dall’abisso, di una piaga inarrestabile pronta a divorare ogni cosa intralciasse il proprio cammino, pronto a distruggere il mondo intero.
“Narcil, che i miei uomini siano schierati nel cortile all’istante e che la pece venga sparsa per tutta la casa. Il momento è giunto, la partenza imminente.“ Il sovrano uscì dalla stanza lasciando il servo ai suoi doveri.
Narcil scosse la testa. Ogni notte aveva pregato gli Dei Antichi e quelli Nuovi perché gli restituissero il suo Signore, ma ora non riconosceva l’uomo che aveva davanti.
Non vi era più compassione o speranza, non vi era disperazione o tristezza nell’uomo che indossava la corona dei Sette Regni; non aveva più alcun sentimento, solo un indomabile desiderio di conquista, una brama di distruzione, una ferra volontà che lo avrebbe portato a procedere per il suo cammino, che forse lo avrebbe portato alla fine della sua vita o a quella del mondo intero.
Spinto dall’abitudine e dalla rassegnazione, sentendosi forse in colpa per le sue preghiere, l’uomo rassettò la stanza ed eseguì gli ordini che gli erano stati assegnati.
L’esercito di Tywin Lannister era schierato su dieci file nel cortile, poco meno di cinquecento uomini. Willer Hill e i suoi si erano allontanati durante la notte e alcuni soldati li avevano seguiti, soprattutto quelli appartenenti alla guarnigione della casa una volta sotto il comando di Remer, ma ciò non preoccupava il sovrano: avrebbe schiacciato quei pusillanimi alla prima occasione. Sarebbe stato stupido preoccuparsi ora per loro, l’intero mondo sarebbe capitolato sotto il filo della sua lama e allora non ci sarebbe stato posto dove nascondersi, non ci sarebbe stato un luogo dove fuggire alla sua vendetta, alla sua giustizia.
“Uomini, il momento è giunto. La nostra rinascita, la rinascita della Gloriosa Casata Lannister partirà da questo luogo. Io, come Aegon Il Conquistatore, partirò dall’Oriente alla conquista dei Sette Regni. Ciò che è accaduto sino ad ora non avrà alcun senso. L’intera storia dell’uomo verrà riscritta da questo momento in avanti. Siete di fronte ad un prodigio, siete di fronte all’anno zero.
Scoccate le frecce! Che il fuoco consumi il nostro passato, da ora in avanti cammineremo soltanto verso un futuro di gloria e vittorie.”
Gli arcieri incoccarono le frecce incendiarie e tirarono in direzione della casa. In breve iniziarono a salire colonne di fumo nero in più punti.
“Nulla fermerà la nostra avanzata: uccideremo chiunque si opponga alla mia marcia,
bruceremo i villaggi di chi non si sottometterà al mio volere, forgeremo un nuovo mondo dove il leone sarà il Re.”
Il fuoco avvampava ora rabbioso alle spalle del sovrano; riflessi rossi e arancioni guizzavano sulla sua armatura dorata, agli occhi di chi lo osservava sembrava che le fiamme stesse scaturissero dal suo corpo.
Il roboante fragore dell’incendio si mescolava alla sua voce rendendo ancora più efficace e allo stesso tempo inquietante il suo discorso.
“Dunque, uomini, voltatevi verso occidente.”
L’esercito si mosse come un sol uomo in perfetta sincronia.
“Marciamo verso la vittoria, verso casa.”
Così dicendo si mise alla testa degli uomini e spronò il cavallo in direzione del porto.
La navigazione non si dimostro niente affatto agevole.
Lord Tywin viaggiava sull’ammiraglia “L’artiglio di Lannisport” che era stata affidata a Ser Marbrand. Le sue doti di capitano erano state messe alla prova sin da subito.
Il giorno della partenza la marea non era adatta per salpare e il vento soffiava contrario, ma il sovrano era stato inamovibile, e così erano partiti.
Durante la prima settimana di navigazione erano incappati in una tempesta e la “castagna dorata” aveva impattato contro uno scoglio sommerso, subendo gravi danni alla chiglia. Avevano caricato il grosso dell’equipaggio e del carico sulle altre navi e abbandonato la carcassa lungo la costa.
Il periodo non era adatto ad intraprendere un viaggio così lungo e così mal organizzato.
Tra gli i marinai iniziava a serpeggiare il malumore, c’è chi sosteneva che la malasorte seguiva le navi e che le avrebbe affondate una ad una poiché Tywin aveva sfidato gli Dei. C’è chi pensava che avrebbero navigato fino all’inferno per morire nel mare fiammeggiate e che le loro anime sarebbero state dannate per l’eternità, costrette a navigare al seguito di quel demone in armatura dorata.
Era ormai il terzo giorno di bonaccia che incontravano. Il mare era una tavola, il cielo terso e non un alito di vento gonfiava le vele, Lord Tywin aveva ordinato che tutti gli uomini che non erano indispensabili si mettessero ai remi e che il viaggio non venisse interrotto né che subisse rallentamenti.
Il sovrano passava gran parte del tempo sul ponte della nave, seduto immobile sul trono di spade con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte.
Toglieva l’armatura solo per dormire e la rindossava appena desto; anche se i molti uomini di mare gli avevano detto che era una pazzia, lui non aveva sentito ragioni, e nessuno aveva osato opporsi alle sue scelte per timore delle sua reazione.
Il clima era teso e presto non fu più la fede nel loro Lord, ma il terrore che provavano nei suoi confronti a guidare gli uomini.
Dopo il settimo giorno di bonaccia apparve ciò che nessun capitano vorrebbe mai incontrare per mare: la grande tempesta.
Marbrand aveva cercato di avvertire Tywin che questo poteva accadere; spesso la quiete in mare presagiva l’apocalisse.
La Grande tempesta si abbatté su di loro come un magio: onde alte come palazzi, una raffica di vento strappò l’albero maestro della “danzatrice degli oceani” portando in mare parte dell’equipaggio, un mulinello trascinò negli abissi il “canto della sirena”, un’onda di trenta metri rovesciò completamente la “tartaruga di mare”. Gli uomini imprigionati sotto la chiglia, rovesciata in mezzo ad un mare che ribolliva, sarebbero morti di una morte atroce.
Lampi, saette, tuoni dardeggiavano nel cielo; chicchi di grandine grandi come pompelmi flagellavano la nave squarciando le vele e menomando gli uomini; Ser Marbrand gridava ordini che si perdevano nel boato delle onde.
Il capitano colse con la coda dell’occhio il suo sovrano che in armatura si dirigeva sul ponte della nave, stringeva tra le mani una catena.
Lo raggiunse.
“Signore, dove state andando??” Marbrand dovette urlare con tutta l’aria che aveva nei polmoni per farsi sentire.
Il leone di Castel Granito continuava ad avanzare verso il trono.
Marbrand lo afferrò per un braccio.
“Dovete andare verso le scialuppe, non credo che questa nave riuscirà a sopportare ancora per molto!” Gridò il capitano.
“Il mio posto è sul trono di spade” Rispose Tywin accostandosi allo scranno di ferro.
“Siete un pazzo, questa tempesta ci affonderà! Dovete andare su una scialuppa, dovete tornare a Tyria.” Strinse ancora di più la presa sul bracciale dell’armatura di Lord Tywin.
Il sovrano si divincolò dalla mano del capitano, afferrò ser Marbrand per il bavero e con tutta la sua forza lo scagliò contro lo schienale del trono. Le lame degli antichi guerrieri sconfitti trafissero il corpo del capitano, rosee sanguinee si aprirono in più punti della sua veste, il corpo si afflosciò a terra mescolando il sangue con la pioggia e con il mare.
“Io sono Tywin di casata Lannister. Il cielo stesso ha voluto che io vivessi; non sarà una tempesta a porre fine alla mia vita. Fa del tuo peggio: soffia vento, soffia, non mi strapperai dal mio trono, non mi strapperai dal mio destino.”
Così dicendo si sedette sul trono e si assicurò ad esso con la catena che aveva portato sin lì. La nave ondeggiava pericolosamente, chicchi di grandine si frantumavano sulla sua armatura. Una scheggia gli trafisse il volto sotto lo zigomi lacerando la pelle, una lacrima di sangue corse lungo il volto subito lavata via dalla pioggia scrosciante.
“Io sono Colui che nelle cui mani è posto il destino del mondo, io sono il leone che regna su tutto e su tutti. Nessuno può fermare il mio cammino, giungerò ad Approdo e sfiderò a singolar tenzone ogni singolo cavaliere del regno. Rober Baratheon, i suoi servi Arryn e Stark…io sono invincibile, impugno la spada della fine del mondo, bagnerò la terra con il loro sangue, erigerò palazzi con le loro ossa…io sono il leone...io sono Dio…nessun ostacolo può fermare la mia avanzata, non gli uomini, non la natura e neppure gli Dei…io forgerò un nuovo mondo…io sono il mondo…”
Si udì uno schianto improvviso. La “danzatrice degli oceani”, priva di controllo, speronò “l’artiglio di Lannispot” proprio nel centro della fiancata, sventrandola. Molti uomini volarono oltre il parapetto. La nave cominciò ad abissarsi nei flutti tempestosi.
“Non è questa la mia fine” gridò il guerriero incatenato al trono stringendo la spada davanti a sé “vieni Sconosciuto, io ti sfido! Non sarai tu a portarmi nell’altro regno, io non ho bisogno dell’aiuto di nessuno, neppure per morire.
Io sono l’ultimo Re sul Trono di Spade, non ho nessun rimpianto, io sono il distruttore del mondo, la mia leggenda non avrà mai fine…ecco, guardate tutti come muore un Re…come muore Tywin Lannister…io sono…”
Le ultime parole di Tywin di casata Lannister, Signore di Castel Granito, Scudo di Lannispot, Protettore dell’ Occidente, primo del suo nome, Re degli Andali, dei Rhoynar e dei Primi Uomini, Lord dei Sette Regni e Protettore del Reame, distruttore del mondo e Ultimo Re sul Trono di Spade, si persero tra le onde mentre la nave affondava e lui veniva trascinato nelle sale abissali con la spada ancora sollevata sopra la testa.
Nessuno sopravvisse a quella terribile tempesta. Stannis di Casata Barathon fu incoronato nuovo Re dei Sette Regni, ma non poté mai sedersi sul Trono di Spade.
Gli eredi di casata Lannister furono mandati alla Barriera o uccisi, il seme del leone andò perduto e la dinastia scomparve.
Nessuno seppe mai dove fosse finito Tywin Lannister anche se ancora oggi, molti anni da quando questi fatti sono accaduti, le mamme raccontano ai bambini di come Tywin “il distruttore del mondo”, sarebbe venuto a ghermirli nelle notte con i suoi occhi fiammeggianti e le sue mani dorate se non avessero ascoltato i loro genitori.
Qualche marinaio ha giurato che sulla rotta che porta da oriente a occidente una nave con vele porpora appaia nelle notti di tempesta: un uomo in armatura dorata siede su di un trono sul ponte, e un equipaggio di spettri affonda qualunque nave si metta sulla loro rotta, la rotta verso Approdo del Re.
L’uomo è morto, ma la leggenda vivrà in eterno.
[Modificato da Faccia da cavallo 10/11/2014 21:24]
NEL GIOCO DEL TRONO:
Lord ROBERT BARATHEON
CRONOLOGIA PG:
- Nella seconda partita: Styr un Uomo Libero!!!
- Nella terza partita: Re Jon Arryn, Signore del Nido dell'Aquila,Protettore della Valle e dell'Est. Primo cavaliere, Protettore delle terre della tempesta e signore di Capo Tempesta,Sangue dei Re delle Montagne.
- Nella quarta partita: Tywin Lannister, morto nelle sale del dio Abissale, ultimo Re sul Trono di Spade. Distruttore del mondo.
- Nella quinta partita: Tormund "Orso Bianco" Re Oltre e sopra la Barriera, Gran Maestro Guaritore, uomo libero
- Nella sesta partita: Quellon Greyjoy Sommo Sacerdote,Lord Mietitore delle isole di Ferro, Principe di Lancia del sole, signore di Castel Granito, protettore del Mare(ex protettorato di Dorne) e dell'Occidente
CITAZIONI
"Sono stata Arya di casa Stark, Arya Piededolce, Arya Faccia da cavallo.Sono stata Arry e la Donnola, Squab e Salty, Nan la coppiera, un topo grigio, una pecora, il fantasma di Harrenhal...cat, la gatta...nessuno!"
"Quando cade la neve e soffiano venti ghiacciati, il lupo solitario muore, ma il branco sopravvive"