Vado a vivere a Cuba

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aston villa
00mercoledì 27 maggio 2009 06:45
Si parte!
Non è facile descrivere cosa mi aveva spinto a trasferirmi a Cuba. Forse è quello che spinge tutti
a fare un passo del genere, e cioè un po' il senso dell'avventura, un po' la voglia di cambiare "aria"
che prende tutti quelli che hanno intorno ai 30 anni. Io avevo già conosciuto quella che poi sarebbe
diventata mia moglie e lei era già venuta qua in Italia in visita per un mese nel 1995. A lei non era
piaciuta l'Italia (e ancora non le piace adesso!) e mi aveva sempre detto che non avrebbe mai
lasciato il suo paese (mai dire mai, eh eh eh!). Così appena mi si è presentata l'opportunità di un
lavoro a Cuba ho deciso di fare il grande passo, e ciò è avvenuto pressapoco a giugno del 1995,
quando lei, Maribel, telefonandomi da Cuba mi dice che lì a Niquero dove vive c'è un piccolo
centro di calcolo dove sarebbe possibile entrare a lavorare (io sono analista-programmatore).
Ad agosto sono andato giù per sposarmi e per parlare con il direttore del centro di calcolo. Il
matrimonio era fino ad allora un concetto per me sconosciuto e non ne avevo mai voluto sapere
(mai dire mai!!).
Sposarsi a Cuba è una delle cose a base di burocrazia che si svolgono più facilmente: bastano
due certificati tradotti e legalizzati in Italia e 600 dollari e il gioco è fatto.
La decisione di trasferirmi si è materializzata solo nel momento in cui ho trovato la possibilità di
lavoro: è vero che se hai dei soldi (molti) puoi vivere a Cuba anche senza fare niente, però non è
quello che cercavo io. Io volevo condurre una vita normale così come la conducono i cubani. Prima
pensavo che fosse possibile, ma solo molto tempo dopo mi sono reso conto che non lo era affatto.
Infatti tutti a Cuba mi dicevano: non sarà facile per te vivere qui, ma chi te lo fa fare di venire
qua se in Italia puoi avere molto di più e vivere meglio, ecc... E chi mi diceva queste cose non
erano, come si potrebbe pensare, degli anti-rivoluzionari invidiosi della mia "libertà", anzi, erano
persone come mio suocero, combattente della rivoluzione cubana, fervido sostenitore di Fidel,
patriota integerrimo, comunista dalla testa ai piedi. Ma io no, volevo fare di testa mia, dicevo: cosa
c’è di strano a venire a vivere a Cuba, ma scusate, siete o non siete rivoluzionari, il vostro paese non
è meglio del nostro in quanto a stile di vita, solidarietà sociale, ecc...? Allora perché mi dite che in
Italia si sta meglio? Non ci capivo molto in tutto ciò, sapevo solo che volevo trasferirmi a Cuba, e
ora ne avevo l’opportunità. E siccome anche io sono un simpatizzante della rivoluzione cubana
pensavo che nulla mi poteva fermare, che avrei trovato le porte aperte, che finalmente potevo vivere
e realizzare ciò che in un paese capitalista come l’Italia non è possibile trovare.
Quindi non sarei potuto andare a fare il nababbo, sarebbe stato un insulto per la società cubana.
L’aver trovato un lavoro chiudeva il cerchio e mi portava a compiere quel salto che doveva
cambiare completamente la mia vita. Decidere di trasferirsi per sempre in un altro paese non è una
scelta facile: in quei giorni che precedono la partenza quando ti svegli al mattino ti senti invadere da
un senso d’angoscia (che per fortuna dura poco, ma sembra interminabile) durante il quale ti chiedi
se stai facendo la cosa giusta, vedi tutta la tua vita scorrere velocemente, pensi agli amici che non
vedrai più come prima, anche alla famiglia, se ce l’hai, a tutte le cose che facevi e che d’ora in poi
non avrai più la possibilità di fare, specialmente se vai a Cuba, un paese bello sì, ma molto, molto
diverso dal nostro.
Dicevo, allora, che ad agosto del ‘95 mi sono sposato e ho avuto l’incontro con il direttore del
centro di calcolo, il quale mi dice: bene, sono contento che tu venga qui a lavorare da noi, ho un
sacco di iniziative per la testa, con il tuo aiuto potremo fare delle cose nuove, ecc... Bella
prospettiva, interessante, non c’è che dire... Solo che uno dei difetti de cubani è quello di
"esagerare" un po’ nel fare i progetti, le pianificazioni; di solito sono molto ottimisti e sbagliano per
eccesso. Bisogna saper interpretare molto bene le loro dichiarazioni, per evitare successivamente
malintesi a volte insanabili.
Così, una volta tornato in Italia, mi ero un po’ montato la testa, ero eccessivamente esuberante
nel pensare a tutte queste cose che andavano a gonfie vele. E nel bel mezzo di questo godimento ho
fatto le valigie, ho "inscatolato" casa mia (nel senso che ho imballato tutti i mobili e li ho spediti in
aereo) e il 23 novembre 1995 sono partito per il Nuovo Mondo.
Arrivando a Cuba con tutta la mia "mercanzia" (praticamente avevo portato tutto, anche il letto e
il divano!) mi sono imbattuto nei primi, drammatici, estenuanti meandri della burocrazia cubana e
delle incomprensioni che ne scaturiscono. Prima di partire dall'Italia mi ero informato al Consolato
di Milano e mi avevano detto che non c'erano problemi: andando a Cuba per risiedervi avevo,
secondo loro, il diritto di portarmi dietro le mie cose. Purtroppo non era proprio così. Io arrivai
all'Avana un venerdì sera dove mi stavano aspettando il fratello di mia moglie, suo zio e suo cugino
con un camion e due autisti che avevano noleggiato per l'operazione presso un'impresa agricola
locale (non ci sono le imprese di traslochi!), un camion per il trasporto delle merci, coperto da un
telo, dentro il quale avremmo dovuto viaggiare anche noi quattro per una notte intera. Loro con quel
camion avevano già fatto il viaggio di andata da Niquero a l'Avana e ora dovevamo fare il percorso
inverso. Peccato però che di venerdi sera la dogana è chiusa, e il sabato mattina pure.
Aspettammo quindi fino al lunedi, quando ci presentammo di nuovo all'aeroporto, zona "cargo",
agli sportelli della dogana. Qui un vetro separava me dalla persona che stava oltre, ma la cosa
angosciante, kafkiana oserei dire (e kafkiano fu tutto il mio rapporto con Cuba in quel periodo in cui
rimasi laggiù), era che una tapparella oscurava il vetro quasi totalmente, lasciando aperta in basso
solo una fessura di circa 10 centimetri, il minimo necessario per far passare i documenti, e non
permetteva quindi di vedere in faccia la persona con cui stavo parlando, ma solo le sue mani, e la
voce a malapena si udiva, così che dovevo abbassarmi verso quella fessura per accostare l'orecchio,
cercando invano di individuare il volto della donna che parlava, ma potendo solo vedere al massimo
il suo mento. In questa situazione, già di per sé desolante, mi sento anche dire che non avrei potuto
ritirare le mie cose, perché da nessuna parte risultava che io fossi già residente cubano, quindi
dovevo prima dimostrare questa mia posizione.
La cosa si complicò parecchio. Ritornammo in città per cercare una soluzione presso l'Ufficio
Stranieri, cercando di farci rilasciare uno straccio di documento che mi desse qualche possibilità.
Qui, in un atrio semideserto, una poliziotta stava seduta ad un tavolino, impegnata a fare nulla;
ascolta impassibile le nostre richieste e alla fine, senza batter ciglio, con lo sguardo fisso davanti a
noi, con la monotonia della voce, risponde che non si può fare nulla. Insistiamo ma ripete che devo
recarmi prima nel luogo prescelto per la residenza e farmi dare da loro un certificato provvisorio.
Continuiamo a insistere (da l'Avana a Niquero sono 850 km!) e finalmente riusciamo a schiodarla
da quella benedetta sedia, si alza e dice che va a consultare i suoi superiori. Torna dopo dieci
interminabili minuti. Lo sguardo è sempre lo stesso, stampato come sul bronzo, così che non si
riesce a percepire, guardandola solamente, se le notizie che deve darci sono buone o cattive.
Purtroppo erano cattive. Nulla da fare: secondo loro dobbiamo tornare a Niquero per cominciare le
pratiche di residenza, e poi tornare qui con quelle.
Non ci arrendiamo tanto facilmente. Tentiamo ancora una sortita nientemeno che alla Direzione
Generale Della Dogana Di Cuba. (Detto per inciso muoversi rapidamente in una città grande come
l'Avana senza un mezzo proprio significa ogni volta prendere un taxi e spendere in una giornata
qualche decina di dollari: solo il tragitto dal centro all'aeroporto costa circa 13-14 dollari).
Qui sembra che qualche possibilità in più ci sia: la donna alla reception è molto più disponibile e
umana di quelle che l'hanno preceduta nella nostra odissea. Capisce che il mio problema è
fondamentalmente dovuto ad una errata e superficiale informazione datami dal Consolato di Cuba
in Italia, così mi consiglia di fare un esposto indirizzato alla Direzione (anzi, mi avrebbe anche fatto
parlare con un responsabile, ma in quel momento non era lì). Entro un paio di giorni ci avrebbero
fatto sapere qualcosa, così ci consigliano di non lasciare l'Avana e aspettare una loro telefonata.
Dopo due giorni la risposta arriva: purtroppo non si può proprio fare nulla. Devo proprio andare
prima a Niquero e poi tornare qui con un certificato di residenza. L'unico vantaggio acquisito finora
è che almeno ufficialmente abbiamo lasciato una traccia con quell'esposto alla Direzione Generale
della Dogana. Torniamo all'aeroporto a prendere mio cognato e suo cugino che erano rimasti lì nel
piazzale della zona cargo per delle ore sotto il sole sperando che arrivassimo con delle buone notizie
(naturalmente il telefono cellulare a Cuba è un lusso per pochi, così come il telefono in generale, sia
privato che pubblico, e ciò ci ha complicato la vita non poco in quest'occasione come in altre).
Si decide allora di partire per l'Oriente cubano, destinazione Niquero, ridente località della
provincia Granma (si fa per dire!). Il camion viene a prenderci verso sera, già carico di mobili per
metà, perché i due autisti di loro iniziativa avevano deciso di dare un passaggio fino a Niquero a
due conoscenti che dovevano portare dei mobili fin laggiù. Già, e i miei mobili dove li avremmo
messi, visto che non c'era più spazio?? Ma ai due sembra non importare molto...
Così passiamo una notte tremenda di viaggio dentro il cassone di un camion che ad ogni buca del
terreno (e ce ne sono molte sull'unica autostrada cubana che percorre l'isola per lungo) ti rimescola
gli organi addominali in maniera tale che quando credi di avere male alla milza in realtà è il fegato,
che ha cambiato posto.
A Niquero comincio le pratiche per la residenza. Ogni straniero che voglia stabilirsi a Cuba deve
richiedere la residenza, che è di due tipi: permanente o temporanea. Quella temporanea viene
richiesta da chi deve rimanere per un periodo definito e limitato nel territorio dello stato, per motivi
di lavoro, di studio, o altro. Ti viene consegnato il cosiddetto Carnet de Identidad di colore grigio e
con questo non hai problemi, puoi andare dove vuoi, fare quello che vuoi, ecc... La residenza
permanente viene richiesta solo da qualche "pazzo" come il sottoscritto (non ho conosciuto altri
stranieri che l'avessero chiesta) che decide di trasferirsi per un tempo indefinito a Cuba: ti viene
consegnato un Carnet de Identidad di colore verde e anche con questo puoi fare tutto quello che fa
un cubano, anche aprire un'attività per conto proprio (cosa che con il carnet grigio, se non ricordo
male, non si può fare) e ritirare di diritto la tua quota di alimenti con la famosa "libreta". Ma la
differenza più spettacolare tra i due carnet (a parte il colore, ovviamente) è che quando decidi di
uscire dal paese devi chiedere prima il permesso alle autorità di polizia e attendere circa una
settimana e pagare circa 30 dollari nel caso del carnet grigio, mentre se hai la residenza permanente
devi aspettare circa un mese e pagare 150 dollari (!), esattamente come un qualsiasi cubano.
Ovviamente io non ero al corrente di queste "insignificanti" differenze, e tantomeno a nessuna di
tutte le persone con cui ho dovuto parlare negli uffici della polizia è mai venuto in mente di
dirmelo...
Quando vado all'ufficio immigrati di Niquero pensavo di cavarmela in qualche ora. Ad agosto,
quando ero venuto a Cuba per sposarmi, ero già venuto qui negli stessi uffici ed avevo parlato con
un grassone baffuto, vagamente somigliante al sergente Garcia del famoso telefilm "Zorro", il quale
mi aveva scrutato dalla testa ai piedi e chiedendomi perché volevo prendere la residenza qui
sfogliava il mio passaporto: "Così lei è stato in Cecoslovacchia... e in Ungheria... Come mai?" I
cubani sono talmente poco abituati ad uscire dai confini del loro paese (se lo hanno fatto in passato
era solo per missioni ufficiali di lavoro) che non riescono a concepire che uno possa recarsi
all'estero semplicemente per turismo, specialmente se il tuo interlocutore è uno della polizia o della
dogana. "E' stato anche in Nicaragua e in Salvador... lei viaggia molto!". Insomma, alla fine mi dice
che per chiedere la residenza non devo far altro che portare il certificato di matrimonio.
Per questo in quel giorno di novembre non avrei mai immaginato che ottenere il Carnet de
Identidad sarebbe diventato arduo come poi è stato. Adesso mi dicono che lì a Niquero non si può
fare nulla di tutto ciò, che loro dipendono da Manzanillo (una cittadina più grande che dista 60 km)
e che quindi devo andare là.
Va bene, andiamo a Manzanillo. Scriverlo è semplice (sono 5 parole) ma metterlo in pratica
significa alzarsi alle 5 del mattino, recarsi alla stazione degli autobus di Niquero (non è che ci siano
autobus, però come saprai ci sono gli "amarillos" che controllano il transito dei camion statali e su
quelli vuoti fanno salire la gente), sperare che passi qualche mezzo pesante e sopportare 1 ora e
mezza di strada dissestata in piedi. Un viaggio a Manzanillo è come una temibile punizione.
A Manzanillo troviamo proprio lui, il grassone, che mi riconosce pure e riconosce anche Maribel
e fa anche il gentiluomo: come va?, tutto bene? No, io qui non posso fare niente, ora dipende tutto
da Bayamo (il capoluogo della provincia Granma che dista altri 60 km, per un totale di 120 km da
Niquero), dovete andare là. Per fortuna quel giorno eravamo in macchina, ci avevano portato quelli
del centro di calcolo di Niquero (il mio futuro nuovo posto di lavoro), e quindi in 1 ora circa
arriviamo a Bayamo. Ci manca solo più che anche qui ci dicano che loro non possono fare niente e
che dobbiamo andare magari fino a l'Avana...
Invece pare che siamo arrivati nel posto giusto; nell'ufficio immigrazione di Bayamo il tipo che
mi riceve va a prendere il testo della legge sull'immigrazione e mi dice: prendi nota, per chiedere la
residenza occorre:
- certificato di matrimonio
- 2 foto
- dichiarazione del futuro datore di lavoro
- dichiarazione del coniuge che si assume le spese di vitto e alloggio
- esami del sangue (ricerca HIV), delle urine e delle feci
- radiografia al torace
- certificato penale
Di fronte a una lista del genere avevo capito che forse ci avrei messo un po' più di un'ora. Mentre
eravamo a Bayamo siamo andati alla sede centrale dalla quale dipende il centro di calcolo di
Niquero, dove ho avuto un colloquio con la direttrice, la quale ad un certo punto sai cosa mi dice?
Che per poter iniziare a lavorare dovevo prima avere la residenza! Gli emigranti hanno vita difficile
in qualsiasi parte del mondo si trovino. Comunque almeno sono riuscito a farmi dare la
dichiarazione in cui si dice che si impegnavano ad assumermi: un documento era già fatto, ne
mancavano solo più altri sette...
Analisi varie le ho fatte a Niquero (meno male che le prestazioni sanitarie non si pagano, o
meglio: in una grande città te le farebbero pagare, in quanto straniero, ma qui in un paese piccolo
con le amicizie si riesce a fare qualsisasi cosa), l'assurda dichiarazione del coniuge che si assume le
spese di vitto e alloggio è solo una formalità (un modulo da sottoscrivere e sul quale si applica una
marca da bollo di 50 dollari, pari a otto mesi di stipendio di Maribel!), il certificato di matrimonio
l'avevamo già, mancavano solo più il certificato penale e le foto.
Per il certificato penale provo a rivolgermi telefonicamente all'ambasciata italiana: "Ah ma
questi sono problemi suoi, l'ambasciata non è mica qui per fare i certificati! Deve farselo lei in
Italia!" mi risponde la scortese e scorbutica funzionaria che si occupa degli italiani resdienti qui
(non è che se ne occupi poi tanto, se li tratta tutti così). La cosa quindi si complica: non posso mica
andare in Italia solo per fare un certificato!
Qualche giorno dopo da Niquero telefono a mia sorella, le spiego la situazione, si va ad
informare in procura e mi dice che accettano anche una persona delegata, con fotocopia della carta
d'identità dell'interessato. Sembrerebbe facile, se non fosse che fare una fotocopia a Niquero è più
difficile che fare 6 al superenalotto. Qui non ci sono fotocopiatrici, però adesso che mi viene in
mente al museo civico c'è un fax, così vado lì e siccome conosco il direttore e tutti quelli che ci
lavorano non ho problemi ad ottenere una discreta copia della mia carta d'identità. Devo solo più
mandarla via posta in Italia e normalmente ci vuole circa un mese di tempo (più un altro mese per la
risposta fanno circa due mesi di attesa).
Nel frattempo ammazzavo il tempo al centro di calcolo, dove mi avevano proposto di cominciare
comunque a frequentare, tanto per vedere l'ambiente e conoscere i colleghi. Oltretutto avevo portato
giù anche il mio glorioso 486 DX 33 con modem e scanner manuale (il modem in realtà non è che
servisse molto, dato che il collegamento a internet non è previsto per i cubani) che faceva la sua
bella figura al centro, dotato solo di un povero 386, pure senza Windows. Io invece con il mio
Windows 3.1 sfoggiavo una superiorità invidiabile, tale che dovetti organizzare un corso di
Windows per pochi adepti. Nella sede centrale di Bayamo, però, ricordavo di aver visto molti PC
anche potenti, dotati già di Windows 95 e altre meraviglie: fu allora che cominciarono ad assalirmi i
primi sospetti su quanto poco fosse tenuto in considerazione il centro di calcolo di Niquero e le
persone che vi lavoravano.

CONTINUA......
aston villa
00mercoledì 27 maggio 2009 14:08
Come portare a Cuba 1100 chilogrammi di effetti personali e vivere felici

Meno male che l'ufficio di immigrazione mi aveva rilasciato un certificato provvisorio in cui si
diceva che avevo cominciato le pratiche per ottenere la residenza: mi sarebbe stato molto utile
almeno per ritirare tutta la mia roba che stava ancora là nei magazzini della dogana aeroportuale
dell'Avana.
La richiesta del certificato penale riuscii poi a mandarla "brevi manu" tramite alcuni amici
italiani che erano venuti a trovarmi a Niquero (finora sono stati gli unici "coraggiosi" che hanno
osato oltrepassare la città-confine di Manzanillo...). Ciò avvenne una graziosa domenica pomeriggio
d'aprile. Ero a casa da solo da alcuni giorni perché mia suocera era stata operata alla cistifellea
nell'ospedale di Bayamo e quindi Maribel e i suoi fratelli si erano recati là. Stavo lavando i piatti
quando bussarono alla porta: mi recai ad aprire a dorso nudo, in ciabatte e bermuda, con le mani
insaponate, e nella mia manifestazione di sorpresa i tre "pionieri" mi immortalarono sulla soglia in
una foto che è rimasta nella storia ufficiale di Niquero.
Per andare a prendere la roba all'Avana dovemmo organizzare un nuovo viaggio con il solito
camion noleggiato da una impresa agricola locale. Siccome il costo del noleggio non era proprio
basso (2000 pesos, circa 100 dollari) pensammo di spargere la voce per il paese, in modo da fare il
viaggio d'andata con un po' di passeggeri: con il ricavo dei biglietti avremmo ammortizzato la
spesa. E' vero che 100 dollari non sembrano molti per un viaggio di oltre 800 km e ritorno, ma
quando si vive a Cuba (così come in ogni altro paese povero) si fa in fretta ad entrare nell'ottica
dell'economia locale, cosicché anche 10 pesos (mezzo dollaro) per un pacchetto di sigarette ti
sembrano tante se paragonate agli stipendi medi, che sono di 200 pesos.
Avevamo organizzato tutto meticolosamente, avevamo preparato da alcuni giorni una lista
d'attesa dove la gente si iscriveva e pagava, avevamo recuperato delle panche da mettere sul
cassone del camion per far sedere i passeggeri, avevamo dato appuntamento per una certa ora prima
della partenza, fissata per le 15 di un sabato pomeriggio... ma il camion quel giorno non arrivava.
Dopo mezz'ora niente; un'altra mezz'ora e ancora niente. La gente in attesa cominciava ad
innervosirsi e anche noi. L'amministratore dell'impresa agricola che ci aveva affitato il camion era lì
con noi e pure lui era nervoso e preoccupato. Si andò in cerca degli autisti nelle rispettive case, ma
non c'erano, erano già usciti da tempo, dissero i loro familiari. Un signore si lamentava del ritardo,
perché nella valigia aveva del pesce congelato che voleva portare a suo fratello a l'Avana, ed in
effetti si cominciava a vedere dell'acqua che usciva dal bagaglio, dovuta all'inizio di scongelamento
(ma come si fa a pensare di portare del pesce congelato in una valigia per 800 km??).
Alla fine si intravede il camion arrivare ma, come qualcuno aveva già sospettato, non era vuoto:
nel cassone coperto c'erano già una ventina di persone in piedi che occupavano per metà lo spazio
disponibile. Era chiaro che erano dei "clandestini", nel senso che non avevano regolarmente
prenotato presso di noi. Il mistero si svelò subito: i due autisti (gli stessi dell'altra volta) avevano
pensato bene di fare un giro di raccolta per Niquero, caricando amici e conoscenti che dovevano
andare nella capitale, facendosi pure pagare! A questo punto si scatenò un putiferio: la gente da
sotto che gridava, noi che intimavamo ai clandestini di scendere, che così non potevamo viaggiare,
che c'era posto per tutti ma prima dovevano scendere. Niente. Non si muovevano di un dito,
aggrappati ai sostegni ci guardavano come per dire: perché costoro si agitano tanto?
Dopo tante insistenze finalmente si decidono a scendere. Intanto l'amministratore discuteva
seccato con i due autisti, i quali dal canto loro reagivano con veemenza, accampando il diritto di
guadagnarsi qualche quattrino con il trasporto di quel gruppo di malcapitati. L'unica cosa che mi fu
chiara è che dei due autisti era meglio non fidarsi troppo e che erano degli irresponsabili. Ormai
però li avevamo "assunti" e ce li dovevamo tenere fino al ritorno.
Partimmo con due ore di ritardo, ma partimmo e questo era già tanto in un paese dove i trasporti
sono affidati al caso. Ovviamente i turisti stranieri non possono godersi queste gioiose situazioni,
perché loro viaggiano in costosi pullman con aria condizionata, bar, TV e tutte queste comodità,
quindi non possono gustarsi il piacere di un viaggio fatto di notte sul cassone di un camion con il
tubo di scarico che ti carbonizza la faccia e le vie respiratorie. Normalmente chi va a Cuba per fare
del turismo "avventuroso" adora fare delle esperienze del genere, anzi si stupisce del perché i
cubani che viaggiano sul cassone di un camion abbiano delle facce disgustate e si lamentino tanto, e
dice: "Voi sì che state bene, niente stress da vita moderna, non come noi in Italia!".
Incredibilmente la domenica mattina arrivammo a L'Avana sani e salvi, con la schiena un po'
rotta, ma senza altri problemi. Il nostro scopo principale era dunque quello di andare all'aeroporto a
prendere tutti gli scatoloni del mio trasloco, che giacevano là da un mese. Speravo anche che non ci
fossero altre complicazioni.
Il lunedì mattina si fece quest'operazione e tutto andò stranamente liscio: dovetti pagare "solo"
270 dollari per la movimentazione delle scatole dall'aereo verso il magazzino, mentre la giacenza di
30 giorni mi venne scontata grazie a quell'esposto che feci la volta prima. A dire il vero non so
nemmeno io come ho fatto a sdoganare 1100 (millecento!) kg di scatoloni senza pagare neanche un
centesimo: forse quella volta la fortuna fu dalla mia parte. Quando la funzionaria della dogana che
mi stava assistendo mi chiese: "Qualcosa da dichiarare" ci pensai qualche istante, poi timidamente
dissi: "Mah, una torcia elettrica e un fornello...", "Valore?" A questo punto ricordai che sotto i 100
dollari non si sarebbe pagato nulla e dissi: "Circa 60 dollari","Ok, va bene così". (E' vero, sono stato
porprio un bastardo! Però, accidenti, almeno una volta ogni tanto anche io ho diritto a un po' di
giustizia, no? E poi in effetti non è che avessi articoli nuovi, era tutta roba usata che stava a casa
mia, mobili, libri, piatti, posate, la bicicletta, ecc...)
Avevamo deciso di lasciar passare la giornata per riposare e per riprendere il fiato prima di
affrontare il faticoso viaggio di ritorno, previsto per l'indomani: gli scatoloni furono "parcheggiati"
in casa di parenti, la stessa casa dove dormivamo anche noi. I due autisti, intanto, dimoravano a
casa della sorella di uno dei due in qualche lontanissimo quartiere de l'Avana. Almeno così noi
credevamo...
Ma il martedì mattina il camion non arriva (è una scena che avevo già visto...!). Cerchiamo di
contattare gli autisti, ma costoro risultano introvabili: la sorella di uno dei due dice che non sa dove
siano (o forse lo sa ma non lo dice) e per tutta la giornata di martedì non si hanno notizie di loro.
Trascorriamo la giornata in casa aspettando che si degnino di telefonare, invano.
Il mercoledì trascorre praticamente nello stesso modo, per cui alla fine decidiamo di andare alla
polizia per chiedere aiuto, ipotizzando che forse i due hanno avuto un guasto al camion o un
incidente e quindi in questo caso la polizia doveva esserne al corrente. Al commissariato, però, non
ci prendono molto sul serio: "Eh, ma chi l'ha detto che sono scomparsi?" chiede con sufficienza
l'agente che ci sta di fronte. "Be', sono due giorni che non abbiamo notizie, avevamo appuntamento
ieri mattina... e nemmeno i parenti sanno dove si trovino..." rispondiamo. "Sì, ma magari loro sono
andati in giro in cerca di donne e voi venite qui a pensando che sono scomparsi..." ribatte il tipo,
infastidito dalla nostra preoccupazione secondo lui eccessiva. Nulla da fare, quindi: essendo la
"caccia alle donne" un'attività sacra giriamo i tacchi e usciamo.
Giunti a casa scopriamo che è appena arrivata una telefonata dalla sorella di uno degli autisti
dicendo che per quanto ne sa si trovano a Batabanó (il porto di Isla de la Juventud!) e stanno per
arrivare qui. Ma che diavolo sono andati a fare sulla Isla?, ci chiediamo. Comunque ci conferma che
la partenza è fissata per il giorno dopo. Forse questa è la volta buona, pensiamo.
In effetti il giorno dopo i due si presentano; devo dire che ho fatto fatica a controllarmi, per non
litigare e per evitare di complicare la situazione. Alla sera si parte; carichiamo sul camion tutti gli
scatoloni, non senza fatica, e verso l’ora di cena siamo in cammino. Già, l’ora di cena... Noi
avevamo un pranzo al sacco, ma i due autisti evidentemente no e, dato che sono sempre stati
abituati a farsi i propri comodi senza avvisare, anziché prendere la strada per l’oriente cubano
imboccano una strada secondaria che porta non si sa dove. Ci fermiamo poco dopo in una casa
sperduta in una frazione della periferia dell’Avana e ci dicono di rimanere sul camion che loro
tornano subito. Il “subito” in questo caso è durato 45 minuti (ma cosa sono di fronte ai due giorni
che abbiamo atteso prima?) e scopriamo che la casa era quella della famosa sorella di uno dei due e
la “breve” tappa si era resa necessaria per permettere ai due di rifocillarsi, prima del lungo viaggio.
E noi ad aspettare sul cassone come degli ovini...
Di notte la strada scorreva sotto le ruote del nostro maledetto camion che, essendo stato
progettato per trasportare delle merci e non degli umani, amplificava anziché ammortizzare ogni
buca del terreno; a ciò bisognava anche aggiungere il maldestro stile di guida adottato dagli autisti i
quali, avendo il volante dalla parte del manico, probabilmente si stavano divertendo sulla nostra
pelle dirigendo questa sadica coreografia.
Durante il viaggio bucammo per ben “tre” volte: era ovvio, dato che avevamo “due” ruote di
scorta. A Cuba vige un particolare corollario della legge di Murphy, secondo il quale il numero
delle volte che le ruote di un veicolo si bucano è sempre uguale al numero delle ruote di scorta
tenute a bordo, più una. La terza volta dovemmo quindi fermarci ad una stazione di servizio per far
riparare le gomme e perdemmo un po’ di tempo prezioso.
Riprendemmo il cammino e qualcuno riuscì anche a dormire alla bell’e meglio. Non io, che
soffrivo abbastanza freddo, anche perché avevo prestato il mio piumino ad un ragazzo che
viaggiava con noi e che aveva addosso solo una maglietta con le maniche corte, e perciò ero rimasto
solo con una felpa e un k-way di nylon. Sembrerà strano ma di notte anche a Cuba fa freddo,
specialmente viaggiando a bordo di un camion. Il tipo col mio piumino, invece, se ne stava beato
nelle braccia di Morfeo. Oltretutto non riuscivo a trovare una posizione decente che mi permetesse
di dormire almeno mezz'ora ogni tanto; alla fine riuscii a trovare un equilibrio appoggiando i gomiti
sulle ginocchia e tenendo la testa tra le mani e seguendo così l'ondeggiare del camion potevo anche
assopirmi fino alla buca successiva, quando un salto improvviso mi faceva scivolare la testa e
dovevo perciò ricominciare da capo. Anche gli altri non è che stessero meglio. Nel camion pieno di
scatoloni ognuno si era dovuto cercare uno spazietto libero dove fare il nido... C'erano anche due
anziani, uno zio e una zia di Maribel, li guardavo ed erano i più sereni di tutti noi che avevamo
almeno 40 anni di meno. Certo!, pensavo, loro ne hanno viste di peggio nella loro lunga vita, cosa
vuoi che sia un viaggio in un camion!
Il giorno dopo arrivammo finalmente a Niquero: mi sembrava veramente che un incubo fosse
terminato. Quando mi soffiai il naso veniva fuori solo nera fuliggine (i gas di scarico del camion!).
E meno male che durante tutto il viaggio mi ero messo un bavaglio davanti alla bocca... Un freddo
così non me lo ricordavo da tempo. A proposito, dov’è il ragazzo col mio piumino? Se ne era già
andato, mollando il piumino su un sedile e senza nemmeno ringraziare... Pazienza, l’importante era
essere arrivati.
Ecco cosa significa organizzare un trasporto di questo tipo a Cuba, come è diverso rispetto ad un
paese come il nostro, dove una cosa così è di una semplicità assurda (basta pagare un’impresa di
traslochi!). Farlo una volta sarebbe anche divertente, se lo si prende come un’avventura da
raccontare, ma inserendosi nella realtà quotidiana tutto questo diventa molto, molto più deprimente.
Se noi, italiani in vacanza, in una situazione come questa ci divertiamo, i cubani invece non si
divertono affatto.

CONTINUA......
beboroma
00mercoledì 27 maggio 2009 16:14

mah altro che avventura..qua si rasenta il delirio, penso che il tizio sia leggermente masochista [SM=x1572479]
Swash
00mercoledì 27 maggio 2009 18:33
Aston ricordo bene questa storia.
Era su cubapratica ai tempi.

chiavitos
00mercoledì 27 maggio 2009 19:15
aston appena puoi dacci il seguito, è è è mondiale , non so se ridere, piangere, cancellare cuba dalla cartina geografica o amarla di più [SM=x1571569] [SM=x1496801] [SM=x1496801]
aston villa
00mercoledì 27 maggio 2009 22:01
Re:
Swash, 27/05/2009 18.33:

Aston ricordo bene questa storia.
Era su cubapratica ai tempi.




Io non la ricordavo....

Comunque non scrive male e si legge volentieri...

aston villa
00mercoledì 27 maggio 2009 22:06
Comprare casa, comprare auto, prenotare un volo

Non è che io voglia a tutti i costi sembrare quello che ha le manie di persecuzione, però quando a
Cuba tenti di fare qualcosa di semplice tutto diventa subito molto più complicato... specialmente
quando vorresti farlo (oppure sei costretto a farlo) da una prospettiva "cubana", anziché "turistica"; i
turisti, infatti, si fermano nell’isola per 4 settimane al massimo e comunque frequentano luoghi
“privilegiati” in cui i vari confort fanno sembrare tutto più bello.
Sono tanti gli esempi che si possono fare per rendere l’idea di cosa voglia dire “vivere”
veramente a Cuba (detto per inciso, comunque, credo che noi in quanto nativi dell’emisfero ricco
del pianeta avremmo le stesse difficoltà a vivere in qualsiasi paese del terzo mondo, o in via di
sviluppo che dir si voglia, e non solo a Cuba; vero è semmai che a Cuba ci sono delle caratteristiche
uniche che non si trovano in nessun altro paese, già solo per il fatto che si tratta di uno degli ultimi
paesi in cui vige il sistema socialista. Quando dico “difficoltà a vivere” intendo dire che per le
comodità cui noi siamo inconsciamente abituati nel nostro paese per la maggior parte dei casi ci
troveremmo a disagio nell’affrontare gli aspetti di vita quotidiana cubana. Per fortuna, non è tutto
così brutto e diabolico: in diversi casi ho potuto apprezzare la maggior “attenzione sociale”, cosa
meno conosciuta da noi in Europa).
Per esempio uno dei temi fondamentali di ogni essere umano è: la questione della casa. Come si
fa a comprare una casa? O meglio, come fa un cubano a comprare casa? Per uno straniero che vuole
andare a Cuba a fare la bella vita e comprarsi tutto ciò che vuole non ci sono problemi, può anche
comprarsi una casa perché ha le tasche piene di dollari: va in un'agenzia statale e il gioco è fatto. Io
no. Io potevo solo fare ciò che normalmente fanno i cubani (sempre che ciò sia possibile), non per
moda o per sport, ma semplicemente perché mi ero sposato una cubana che ama il suo paese e
anche io pensavo di poterci vivere.
Ritorniamo alla domanda: come si fa a comprare casa? La questione si risolverebbe
semplicemente in due righe, poiché la risposta è: a Cuba non è possibile comprare casa, dato che
non è prevista dalla legge la compravendita di immobili, per lo meno non nel senso in cui lo
intendiamo noi. Ovviamente, siccome il problema esiste, è chiaro che qualcuno ha dovuto inventare
la scappatoia.
Dal punto di vista legale per avere una casa è permesso autocostruirsela su un terreno comprato
allo stato oppure, avendone già una, permutarla con un’altra, oppure comprarla dallo stato. La prima
ipotesi ormai è solo più un sogno, poiché i materiali da edilizia scarseggiano e se si trovano al
mercato nero sono carissimi. La terza ipotesi non è molto praticata, perché lo stato non mette molti
immobili a disposizione dei cubani per l’acquisto: preferisce venderli a prezzi occidentali agli
stranieri, oppure tenerseli per attribuirli a istituzioni pubbliche. Resta la seconda ipotesi, quella della
permuta, che è abbastanza diffusa anche se piuttosto difficoltosa da mettere in pratica, se si pensa
che a Cuba non ci sono giornali di annunci economici, agenzie immobiliari o cose simili.
Al di fuori di ciò restano le vie illegali, che oggi rappresentano, forse, la maggioranza dei casi di
compravendita di case a Cuba. A occhio e croce oltre la metà dei cubani ha comprato o venduto
casa in maniera illegale (basta chiedere in giro, tra amici e conoscenti, quanti hanno adottato questo
metodo).
Ma cosa significa comprare casa in maniera illegale? Semplicemente che tu consegni una somma
di denaro a qualcuno, il quale ti dà in cambio la casa che lui abita. Fin qui per noi in Italia
sembrerebbe tutto regolare, ma a Cuba invece è un reato, indipendentemente dal fatto che chi ti
cede la casa abbia tutti i documenti in regola, sia che non li abbia. Questo significa che anche chi si
è costruito la propria casa con le proprie mani non potrà mai venderla a terzi, ma solo allo stato, il
quale però fisserà il prezzo d’acquisto (ovviamente inferiore a quello di mercato). Infatti anche chi
si è autocostruito la casa in realtà non ne è il “proprietario”: secondo la legge lo è, ma secondo me
no (se lo fosse potrebbe farne ciò che vuole); è invece una specie di usufruttuario a vita, se così si
può dire (e può trasferire questo titolo, per fortuna, anche agli eredi).
Cuba è piena di persone che abitano una casa comprata con il metodo illegale, che a loro volta ne
hanno magari venduta un’altra con lo stesso metodo. Se si dovessero punire tutti quanti si
riempirebbero i tribunali! Credo che il governo stia chiudendo un occhio sui casi meno eclatanti,
anche se da qualche anno sono state create delle apposite commissioni municipali composte da
membri del consiglio comunale, della polizia, dell’assessorato alla casa, del partito con lo scopo di
monitorare la situazione ed agire di conseguenza. Il risultato è stato che in molti municipi si è dato
luogo alla confisca degli immobili oggetto di compravendita illegale e/o al pagamento di multe
salate. E’ da notare che la sanzione peggiore tocca al venditore, dato che il reato sta nella vendita
dell’immobile, e non nell’acquisto, se non ricordo male.
Anche noi, naturalmente, abbiamo fatto parte del giro. Come tutti avevamo la necessità di una
casa (tutti i giovani sposi ce l’hanno questa necessità) e così capitò che un collega di mia moglie
avesse deciso di trasferirsi da Niquero a Matanzas e quindi volesse cedere la sua casa. Lui era uno
di quelli in regola, nel senso che aveva il titolo di proprietà come avevo spiegato prima; la casa gli
era stata assegnata dallo stato negli anni ’60, non l’aveva costruita lui, però ne era il “proprietario”,
così come inteso dalla legislazione cubana, e pertanto poteva rimanerci dentro finché voleva o, al
massimo, permutarla. Decise invece di vendercela e, per dare un minimo di legalità alla cosa,
facemmo un contratto di affitto, che è legalissimo e che avremmo mostrato alle autorità in caso di
controlli. Facemmo anche una scrittura privata “segreta” in cui riportammo invece i termini di
compravendita e che doveva servire solo ad uso nostro, per evitare contestazioni in futuro.
Pagammo 3300 dollari per una graziosa casetta composta di soggiorno, due camere, bagno, cucina e
un grande cortile con tanto di “gazebo” in legno e paglia, ideale per la siesta pomeridiana, e “corral”
per il maiale (fondamentale animale domestico che non deve mancare).
Pensavamo di rimanere al riparo da incovenienti fiscali per un po’ di tempo (almeno qualche
anno), invece ci scoprirono dopo pochi mesi, proprio grazie alla commissione municipale di cui
parlavo prima e grazie anche alla “soffiata” di qualche vicino invidioso. Vennero a casa nostra due
funzionari che sapevano già tutto, forse sapevano anche il prezzo che avevamo pattuito, ma
facevano finta di non saperlo. Vollero sapere come avevamo avuto la casa e vedere tutte le carte che
avevamo firmato. Se le portarono via e ci fecero firmare un verbale. Alla nostra richiesta di
informazioni sul cosa sarebbe successo in seguito l’unica risposta omertosa che furono capaci di
darci fu: “Vi faremo sapere”.
Scoprimmo poi di essere stati i primi in assoluto nel nostro municipio a ricevere la visita della
commissione ma non sapemmo mai con precisione da chi partì la soffiata. In più in un programma
radiofonico locale dedicato all’argomento e condotto da uno dei due funzionari che ci fecero visita
non ci risparmiarono nemmeno di esporci al pubblico ludibrio assieme ad altri sfortunati come noi
incappati nella rete della legge.
Trascorsero alcuni mesi prima che il tribunale provinciale si pronunciasse sulla vicenda. Il solito
funzionario ci convocò nel suo ufficio per leggerci la sentenza: la casa venne confiscata e tornò ad
essere proprietà dello stato, all’incauto venditore venne appioppata una multa pari alla somma
percepita nello scambio (3300 dollari!), e a noi venne concesso il diritto di rimanere nell’immobile,
con l’obbligo di pagare un canone di affitto mensile vita natural durante.
Tutto sommato ci è andata ancora bene: è vero che non siamo più proprietari della casa (ma
d’altra parte non lo eravamo nemmeno prima) ed è vero che la somma che abbiamo pagato non ci
verrà mai restituita, ma abbiamo ottenuto la casa, che era ciò che volevamo, e comunque non ci
sarebbero stati altri metodi più efficaci. Anzi, adesso abbiamo anche le carte in regola, cosa che
prima non avevamo. La casa è stata poi intestata a mia suocera, perché nel frattempo noi avevamo
già deciso di trasferirci in Italia e volevamo evitare di perdere il diritto di locazione: adesso,
siccome il canone di affitto è stato calcolato sulla base del reddito, mia suocera paga circa 10 pesos
mensili (600 lire!).
Non a tutti è andata "bene" come a noi: ho letto successivamente sul Granma che in certe altre
provincie hanno agito più duramente proprio per dare un aspetto esemplare alla questione.
Resta il fatto che il problema della casa non è cambiato: lo stato fa poco, e i cubani quindi si
arrangiano alla loro maniera. Per quel che ne so all’Avana si riesce addirittura ad effettuare la
compravendita illegale in maniera... legale! Nel senso che ci sono molti notai ben disposti che per
alcune decine di dollari ti mettono in regola con la proprietà di un immobile, alterando i registri
catastali in maniera invisibile ed indolore...
Nei momenti in cui vivevo quella situazione mi sembrava di impazzire: perché non si può
comprare una casa, mi chiedevo. Quale pericoloso significato sovversivo si celerà mai dietro una
azione commerciale di questo tipo, tale da indurre la legge cubana ad agire in questo modo?
Oltretutto non è che mi andasse molto la faccenda di far parte della categoria di quelli che violano le
leggi. Quando però entri in un vortice non è così facile uscirne. E' come lottare contro i mulini a
vento.
Gli stessi problemi che si incontrano per l’acquisto di una casa si presentano anche nel caso
dell’acquisto di un veicolo. Comprare un’automobile non è meno difficile. Le regole sono sempre le
stesse, ovvero, in teoria non si può ma in pratica si riesce a farlo. Non si può perché anche la
compravendita di veicoli è vietata dalla legge, così come per le case. Le automobili che si vedono in
giro (tranne quelle americane degli anni ’50) sono il frutto del duro lavoro di operai e impiegati
dello stato che, al raggiungere certi meriti, acquisivano anche il diritto ad acquistare un automobile.
Fu così che vennero distribuite le varie Lada (tipo Fiat 124), Polski (tipo Fiat 126) e Moskvich. E’ il
caso di parlare al passato, dato che oggi questo meccanismo non è più in funzione: al massimo
adesso danno delle bellissime biciclette cinesi o (meno belle) cubane.
Per le auto americane degli anni ’50 che si vedono ancora circolare il discorso è diverso, così
come per tutti gli altri veicoli immatricolati prima della rivoluzione (quindi anche per certi camion
che oggi vengono usati come “guaguas”). I proprietari di questi veicoli hanno potuto conservare il
loro mezzo di trasporto godendo di tutti i diritti di proprietà, quindi anche di vendere. Infatti oggi a
Cuba l’unico modo per acquistare legalmente un’automobile è comprare una di queste auto, oppure
rivolgersi ad un concessionario Fiat (per esempio sul Malecon dell’Avana) e comprarne una nuova,
sempre che si abbia denaro sufficiente. Per i cubani la seconda possibilità e ovviamente esclusa a
priori dato che un’auto nuova costa come in Italia; resta la prima possibilità, oppure la terza, di cui
non ho ancora parlato, ma che si può facilmente intuire...
La terza possibilità consiste nel comprare “in nero” una di quelle auto di cui parlavo all’inizio,
per esempio una Lada o un Polski. Questo significa, come per le case, che tu dai dei soldi a
qualcuno che in cambio ti dà un’automobile: peccato, però, che tutti i documenti restino intestati a
lui, a meno di far intervenire il solito notaio che ti modifica opportunamente il registro
automobilistico dietro un certo corrispettivo in dollari...
Anche qui, in tutta questa questione dei trasporti, ci sono dei paradossi niente male. Dicevo
prima dei camion degli anni ’50 che negli ultimi anni sono stati trasformati per poter trasportare
persone: bisogna riconoscere che questi proprietari stanno rendendo un ottimo servizio alla
popolazione, specialmente in quelle zone come Niquero dove i trasporti pubblici sono inesistenti da
tempo. Adesso almeno ci sono un paio di camion privati che fanno la spola tra Niquero e
Manzanillo (60 km) ad orari quasi fissi e questo ha migliorato parecchio la situazione. Ovviamente
trattandosi di un servizio privato è un po’ più caro di quello pubblico (ma ultimamente hanno anche
abbassato i prezzi) e inoltre non garantisce la continuità del servizio, nel senso che se un giorno
l’autista ha mal di pancia puoi scordarti di viaggiare... Dove sta il paradosso? Semplicemente nel
fatto che se questi privati cittadini hanno potuto fare tanto non si capisce perché non lo possa fare
anche lo stato. Si sente sempre e solo dire dai mezzi di informazione “ufficiali” (quindi dal partito)
che a causa della scarsità di combustibile non è possibile far viaggiare gli autobus, e che comunque
non ci sono autobus. Ma allora i privati dove lo prendono il gasolio? Sì, è anche vero che spesso lo
sottraggono in maniera poco lecita ad altri camion statali o da qualche azienda con la complicità di
qualcuno, ma queste possono essere solo eccezioni (spero!) e non la regola. I camion privati
viaggiano quotidianamente e non sono mai privi di carburante (eppure consumano parecchio!),
quindi da qualche parte il gasolio c’è e non è che si possa fabbricare in casa o attraversare la
frontiera per fare rifornimento in Slovenia o in Svizzera o in Francia. E se c’è per i camion privati
allora perché non ci può essere anche per gli autobus pubblici? Non sono mai riuscitro a
spiegarmelo...
Un’altra “perla” della burocrazia cubana fu quando cercai di prenotare da laggiù un biglietto
aereo per l’Italia.
In quel periodo non lavoravo già più al centro di calcolo (quindi stavo benissimo sotto questo
aspetto...). Un bel giorno di primavera del 1996 decisi che dovevo cominciare ad occuparmi del
viaggio che avevo intenzione di fare in Italia a luglio per fare visita a mia madre e per sbrigare le
pratiche per far venire Maribel in Europa, dato che avevamo già deciso di trasferirci. (Il perché
avessimo deciso di trasferirci è un tema che sarà sviluppato in un altro momento...). Quando avevo
lasciato l'Italia avevo portato con me circa 3000 dollari. Mi bastarono per circa un anno, facendo la
vita cubana. Prima che finissero del tutto, però, dovevo tornare in visita in Italia. Embè? Che ci
vuole? Basta andare all’agenzia viaggi, no? Certo, se ce ne fosse una. Ma a Niquero non ce ne sono
e comunque non è questo il problema. Allora bisogna prendere il telefono e fare qualche telefonata
in giro, per esempio alle sedi delle varie compagnie aeree. Sì, ma quali sono i numeri di telefono?
Mi si dirà: prendi la guida telefonica e guarda! Certo, e se le guide telefoniche non vengono più
stampate da 14 anni? Chiama il servizio informazioni! Buona idea...
Effettuare una comunicazione telefonica da una zona di provincia verso il resto dell'isola è la
cosa più angosciante che esista, le centrali telefoniche sono vecchissime e logore, la linea non si
prende prima di una decina di tentativi, se riesci a prenderla o tu non senti l'interlocutore o lui non
sente te, e se c'è un temporale non funziona più niente. Le ore migliori sono quelle serali dopo le 8,
ma se devi parlare con qualche ufficio sei obbligato a chiamare di giorno, quando il traffico è tutto
congestionato. Allora aspettai un bel giorno di sole e intorno alle ore 9 provai:
“Pronto? Buongiorno vorrei il numero della...”
“Come?? Signore non capisco. Parli più forte per favore!”
“BUONGIORNO! VORREI IL NUMERO DELLA LAUDA AIR DI HOLGUIN”
“Un momento... Ecco il numero è xxxxxx.”
“GRAZIE!”
“Di niente.”
Telefono alla Lauda Air all’aeroporto di Holguin che sta a meno di duecento chilometri da
Niquero: vorrei partire da lì anziché andare all’Avana che sta a più di 800 km, evitando così un
viaggio troppo lungo e scomodo in treno o in autobus. Purtroppo, però, non ci sono più posti
disponibili.
Allora provo con la Cubana de Aviación:
“Pronto? Buongiorno vorrei il numero della...”
“Come?? Signore non capisco. Parli più forte per favore!”
“BUONGIORNO! VORREI IL NUMERO DELLA CUBANA DE AVIACION DI HOLGUIN”
“Un momento... Ecco il numero è xxxxxx.”
“GRAZIE!”
“Di niente”
Compongo il numero dato ma si fa fatica a prendere la linea. Alla fine qualcuno risponde:
“Buongiorno. Vorrei prenotare un volo per Milano, sola andata.”
“Per quale data intendwwe... bzzz.. hjhweuyh?”
“Scusi, non ho capito, ci sono delle interferenze. Può ripetere?”
“Quando vuole partire?”
“Intorno agli inizi di luglio.”
“Qual è il suo nome?”
“Alessandro Pilotto, con doppia S e doppia T.”
“Bene signore, abbiamo deejjk.... per il giorno whjwhj... .oppure anche per... kkjdsauhiuiule
hhhhwww!!”
“Come?? Non ho capito, parli più forte!”
“...tu...tu...tu...tu...tu...”
Dannazione! Doveva anche cadere la linea! Rifaccio il numero, ma già alla terza cifra dà
occupato. Ritento e stavolta dà occupato già alla seconda... Dopo diversi tentativi finalmente riesco
a ripescare il tipo di prima:
“C’è un volo il giorno 4 e uno il giorno 7.”
“Va bene il 4.”
“Ok. Il biglietto costa 400 dollari.”
“Voi avete gli uffici lì in aeroporto, vero? Quando posso venire per il pagamento?”
“No, ma non deve venire qui. Per pagare deve andare all’Avana.”
“COSAAAAAA???”
“Sì, noi qui facciamo solo la prenotazione. L’emissione del biglietto la fanno all’Avana. Deve
andare là.”
Non ci posso credere... Uno decide di partire da Holguin perché è più vicino a casa e poi per
ritirare il biglietto deve andare all’altro capo dell’isola... E’ come se in Italia per partire da Milano
dovessi prima andare fino a Roma per comprare il biglietto... Ovviamente gli dico di lasciar perdere
la prenotazione e mi rassegno all’idea che dovrò per forza andare all’Avana.

CONTINUA....E RICORDIAMOCI CHE SI PARLA DEL 1995....
enmanuel
00mercoledì 27 maggio 2009 23:00
Mi sembra che sia Ale di Lovely.
Un tipo magrolino coi capelli neri e ricci.
el mono loco
00giovedì 28 maggio 2009 02:28
PEr certi versi ammiro questa gente che lascia , bene o male, le comodità del proprio paese per andare a stare peggio [SM=x1496801] molto peggio.

Sarà gente molto paziente e rassegnata d'animo...... [SM=x1543498]

Io rimango dell'idea che Cuba è un bel (??) posto SOLO x andarci in vacanza.
aston villa
00giovedì 28 maggio 2009 07:26
1995

In un campo nella provincia Granma

Viverci...

C'era poco da stare allegri...... [SM=x1465775]
aston villa
00giovedì 28 maggio 2009 07:36
Il centro di calcolo

In questo benedetto centro di calcolo di Niquero avrei dovuto lavorarci a tempo pieno ma l’attesa
della residenza stava complicando la cosa: infatti non potevano ancora assumermi regolarmente e
quindi non potevo iniziare l’attività. Jorge, il direttore del centro di Niquero, mi propose comunque
di stabilirmi lì e di iniziare a fare qualcosa. Io accettai di buon grado, anche se sapevo che non avrei
avuto diritto a nessuna retribuzione, così mi prepararono una scrivania in un ufficio insieme ad altri
futuri colleghi, anzi colleghe: Maria Emilia, responsabile del settore informatico, Aleyda e Yasira la
figlia di Jorge. Avevano solo un vecchio PC con il Dos che usavano per sviluppare dei programmi
di gestione della contabilità che avrebbero poi distribuito ad alcune imprese locali; l’arrivo del mio
PC con Windows 3.1 attirò subito l’attenzione, perché nessuno aveva ancora mai visto quel
“nuovo” sistema operativo, anche se tutti ne avevano sentito parlare. Poi avevo anche altri
“miracolosi” strumenti tecnologici come un modem e uno scanner manuale; il primo non è che
servisse molto perché il collegamento internet non era disponibile ai comuni mortali (e chissà
quando lo sarà); il secondo, invece, fu usato diverse volte per riprodurre dei documenti e stamparli
poi sulla stampante, surrogando così una normale fotocopiatrice.
Per essere precisi il centro non si occupava solo di informatica, ma anche di riparazioni
elettroniche; a lato del nostro ufficio, infatti, stava il laboratorio dove lavoravano altre persone:
Obel il responsabile, Pepito, Felipe... A differenza del nostro ambiente di lavoro, dove si aveva
un’impressione di tranquillità e di ordine, con l’arredamento ridotto al minimo indispensabile,
Aleyda e Emilia assorbite silenziosamente nel loro lavoro disturbato solo dal ronzio di sottofondo
dell’aria condizionata, al di là del muro il clima era piuttosto diverso: banconi pieni di
apparecchiature aperte e di pezzi di ricambio sparsi, un via vai di clienti che portavano qualcosa a
riparare, i colleghi che parlavano e ridevano ad alta voce, spesso anche la radio accesa e, quando
Jorge non era in sede, a volte una bottiglia di rum passava di mano in mano...
Io cominciai a seguire Emilia nel suo lavoro, che in quei giorni consisteva nell’installare una
nuova versione di un antivirus 100% cubano presso i clienti locali che avevano già installata la
precedente versione. Così andammo in visita alla Tienda Panamericana e al Central Azucarero dove
fui presentato come il nuovo collaboratore del centro di calcolo. Quello che mi colpì fu la
semplicità e la sobrietà di quei luoghi: tutta la gestione amministrativa era demandata ad un
semplice PC con un solo addetto il quale con un software piuttosto antiquato portava avanti tutta la
baracca. Nella mia mente mi ero già raffigurato qualcosa di nuovo da realizzare e da proporre a
questi clienti per migliorare e rinnovare i loro sistemi, assolutamente fattibile con i mezzi e il
software che possedevo e che avevo messo a disposizione del centro di calcolo: il bello
dell’informatica è che non hai bisogno di molta materia prima per creare, basta solo avere delle idee
e del tempo da impegnare. Ne avevo parlato sia con Maria Emilia che con Jorge e avevano
apprezzato l’idea; ne era anche scaturito uno studio di massima che avevo consegnato a Jorge, ma
che purtroppo era destinato a rimanere per sempre chiuso nel suo cassetto.
Mi resi conto, infatti, man mano che passava il tempo, che al centro di calcolo c’era come una
misteriosa forza esteriore che tratteneva ogni tentativo di innovazione e di proporre cose nuove;
c’erano molte idee e si facevano tanti bei discorsi, ma alla fine tutto rimaneva come prima. Eppure
questo non era nemmeno dovuto alle difficoltà economiche (i mezzi c’erano, come dicevo prima):
era invece qualcosa di meno tangibile e più perentorio. Capii in seguito che il centro di calcolo di
Niquero non era altro che una succursale “stupida” della sede centrale di Bayamo, senza nessuna
autonomia decisionale, destinato quindi ad un’eterna dipendenza totale da essa, alla quale doveva
obbedire rispettando tutti i doveri, ma senza poter rivendicare diritti.
Nell’area amministrativa lavorava anche, come dissi all’inizio della storia, mia cognata Maria
Elena; lei era sempre impegnata in antipatici e noiosi calcoli contabili fatti un po’ a mano e un po’
con la calcolatrice, così quando le feci vedere quali meraviglie si potessero realizzare con il
computer rimase sorpesa ed entusiasta, perché scoprì che poteva risparmiare un sacco di tempo. Le
preparai alcuni fogli elettronici ed ogni fine mese la aiutavo a riempirlo (lei, infatti, non ebbe mai
tempo per imparare ad usarlo).
Un’altra “stregoneria” che realizzai fu quella di riprodurre dei moduli amministrativi che si erano
esauriti e che dal ministero non mandavano più (tantomeno si poteva pensare di fotocopiarli perché
a Niquero non esistevano fotocopiatrici): con un banale word processor in Windows fu un gioco da
ragazzi creare un modello e stamparlo quante volte si voleva. L’unica stampante ad aghi disponibile
non era proprio il massimo, ma il risultato era buono.
Le settimane trascorsero così allegramente, senza nessun rompicapo o stress particolare, cosa a
cui in Italia ero purtroppo sottoposto quotidianamente. Con i colleghi e le colleghe si andava
pienamente d’accordo, il clima era disteso e familiare. Non guadagnavo nemmeno un peso, è vero,
ma mi era stato assicurato che i giorni di presenza che avevo maturato mi sarebbero stati
riconosciuti anche in seguito, per esempio come ferie o permessi (firmavo il registro delle presenze
tutti i giorni).
Un giorno successe un fatto che davvero mi lasciò amareggiato. Correva voce che dalla sede
centrale di Bayamo stessero seriamente pensando di rinnovare il look dei dipendenti dotandoli di
uniforme (camicia, pantaloni e scarpe); anche a noi sarebbe toccata la stessa sorte, così Maria Elena
passò da ciascuno per annotare la taglia e la misura delle calzature, nonché per incassare i 10 pesos
di contributo dovuto. Anch’io diedi la mia parte e mai avrei pensato cosa sarebbe avvenuto qualche
giorno dopo: venne da me Maria Elena con aria sconcertata e mi restituì i soldi, riferendomi che da
Bayamo le avevano detto che io non avevo diritto ad alcunché, poiché ufficialmente non ero un
membro dell’azienda... Non fui il solo a rimanerci male, anche i colleghi (io sì li consideravo tali
anche se “ufficialmente” non lo erano) espressero la loro solidarietà nei miei confronti. Non ero
triste perché non avrei avuto l’uniforme, ovviamente, quanto perché fino a quel momento pensavo
che la fiducia reciproca fosse stata alla base di quel rapporto di lavoro, anche se informale.
Così cominciai a dare molta più importanza al fatto che stavo lavorando praticamente gratis, e
anche il fatto che comunque una volta assunto non avrei guadagnato più di 250 pesos (circa 10
dollari) cominciava a farsi sentire, cosa che invece prima non avevo per niente considerato come
importante.
Intanto la residenza non era ancora arrivata, così andai a parlare con Jorge per dirgli che forse era
meglio se per un po’ avessi sospeso la mia attività. Lui fu d’accordo. Ai primi di aprile riportai il
mio PC a casa, in attesa di tempi migliori.
Ma il tempo passava, la vita cambiava, e al centro di calcolo, purtroppo o per fortuna, ero
destinato a non tornarci più.


CONTINUA.....
el mono loco
00giovedì 28 maggio 2009 07:57
LA cosa peggiore che ci può capitare è che ci venga tolta la facoltà di Sognare: poveretto tanti progetti e tanti buchi nell'acqua.........................
lampo155
00giovedì 28 maggio 2009 10:31
Re:
enmanuel, 27/05/2009 23.00:

Mi sembra che sia Ale di Lovely.
Un tipo magrolino coi capelli neri e ricci.



confermo, avevo letto lo scritto alcuni mesi fa su lovely, il finale della storia e' che si rompe le palle di essere preso per il culo nel centro di calcolo, lo abbandona e dopo alcuni mesi con rammarico fa fagotto e burattini e se ne torna in italia con la moglie, dove ritorna al suo lavoro informatico.

Aston perche' non inviti l'autore a scrivere su questo spazio cosi' i commenti li facciamo al diretto interessato??


aston villa
00giovedì 28 maggio 2009 12:32
Re: Re:
lampo155, 28/05/2009 10.31:



confermo, avevo letto lo scritto alcuni mesi fa su lovely, il finale della storia e' che si rompe le palle di essere preso per il culo nel centro di calcolo, lo abbandona e dopo alcuni mesi con rammarico fa fagotto e burattini e se ne torna in italia con la moglie, dove ritorna al suo lavoro informatico.

Aston perche' non inviti l'autore a scrivere su questo spazio cosi' i commenti li facciamo al diretto interessato??





Lampo ci sono ancora tanti capitoli.....perche' hai svelato il finale......? [SM=x1496801]

Non conosco Lovely conosco solo FOX MOLDER....

Se qualcuno lo vuole invitare e' iolp benvenuto.

Cerchiamo di essere cauti coi giudizi,ripeto ancora nel 95' in un posto simile,anche avendo il grano era dura riuscire a muoversi.....

aston villa
00giovedì 28 maggio 2009 12:35
Re: Re:
lampo155, 28/05/2009 10.31:



confermo, avevo letto lo scritto alcuni mesi fa su lovely, il finale della storia e' che si rompe le palle di essere preso per il culo nel centro di calcolo, lo abbandona e dopo alcuni mesi con rammarico fa fagotto e burattini e se ne torna in italia con la moglie, dove ritorna al suo lavoro informatico.

Aston perche' non inviti l'autore a scrivere su questo spazio cosi' i commenti li facciamo al diretto interessato??





Lampo ci sono ancora tanti capitoli.....perche' hai svelato il finale......? [SM=x1496801]

Non conosco Lovely conosco solo FOX MOLDER....

Se qualcuno lo vuole invitare e' iolp benvenuto.

Cerchiamo di essere cauti coi giudizi,ripeto ancora nel 95' in un posto simile,anche avendo il grano era dura riuscire a muoversi.....

aston villa
00giovedì 28 maggio 2009 15:57
La moto di Nestor

Nestor era un carissimo amico di un nostro cugino, felicemente sposato e con 2 bambini. Aveva
una moto, cosa rara da queste parti, una MZ 250 che si era portato dalla Germania Orientale,
quando si era recato a lavorare là negli anni 70 e 80, come tanti altri cubani. Era riuscito a portarsela
a Cuba, poiché a quell'epoca era ancora permesso. Ora non si può più fare e non è neanche possibile
comprarsene una, pur avendo i soldi. Ero stato spesse volte a casa sua, perché era una persona
veramente piacevole con cui parlare, di animo buono, sempre sorridente; non l'ho mai visto una
volta incazzarsi, al massimo alzava un po' la voce con i figli quando lo facevano irritare, ma niente
di più. Prova della sua bontà era anche il fatto che la moto la prestava gratis un po' a tutti, forse
perché non sapeva dire di no.
Ma ora la moto era ferma da tempo: non aveva più le gomme, completamente consumate, forse
proprio per averla prestata a decine di persone. "Nestor è troppo buono" diceva la moglie "Tutti
vengono qui, gli chiedono la moto, gliela consumano e poi non li vedi più".
Così un giorno, su suggerimento di Maribel, decisi di proporgli una "società": io gli avrei
comprato le gomme nuove e lui in cambio mi avrebbe prestato la moto quando avessi avuto bisogno
di spostarmi. L'idea gli piacque molto e si entusiasmò perché finalmente avrebbe potuto riutilizzarla
anche lui.
Durante un viaggio a Bayamo riuscii a trovare le gomme e le camere d'aria della misura giusta (a
Niquero nenanche a pensarci, non si vedevano pneumatici nuovi da un decennio). Spesi parecchi
dollari, ma pensai che ne valeva la pena. Tornai da Nestor e gli si illuminarono gli occhi: dopo un
paio di giorni la moto era bella pronta per correre di nuovo.
La prima volta che gliela chiesi in prestito fu per andare a Bayamo per sbrigare una delle solite
faccende per la residenza. Il problema era trovare la benzina e l'olio da metterci dentro. Comprarla
al distributore Cupet in dollari era fuori discussione: circa un dollaro al litro, troppo cara. Non
potevo spendere i miei pochi quattrini in benzina. Ma spargendo la voce in giro qualcuno che aveva
benzina da vendere si trovava sempre e a Niquero costava pure meno che a L'Avana, circa 3 o 4
pesos al litro. L'olio, invece, me lo procurò Ermes, un vicino di casa che lavorava al Central
Azucarero e al quale una volta regalai una camera d'aria nuovissima per la sua bicicletta: da quella
volta si sentì quasi in debito perenne nei miei confronti, e quel giorno (era appena uscito da
lavorare) venne da me con un flacone di shampoo che teneva nascosto sotto la camicia e con il
quale mi aveva procurato un po' di olio: "Grazie, Ermes, ma non vorrei che ti cacciassi nei guai per
colpa mia...", "No non è niente, Ale". Non era olio fresco, probabilmente l'aveva preso da qualche
bidone di olio usato da buttare, ma andava benissimo per miscelarlo con la benzina e gliene fui
veramente grato.
Ero quindi pronto per partire per Bayamo. Là ci viveva anche Andy, una sorella di Maribel,
quindi normalmente si passava da casa sua a mangiare ed eventualmente passare la notte. Lei
abitava in uno dei "barrios" più popolari, dove le case sono fatte di mattoni, lamiera, teli di iuta e
cartone, alle finestre (che non sono finestre, ma feritoie fatte con mattoni) si mettono pezzi di sacchi
neri come tendine, e i pavimenti sono di terra battuta con qualche piastrella di recupero appoggiata
sopra. La casa di Andy era composta da cucina, comedor, camera da letto, gabinetto e patio, il tutto
in 20 metri quadrati senza pareti divisorie. Le uniche pareti erano quelle che dividevano la casa di
uno dalla casa dell'altro. In quelle strade non c'erano auto, ma solo ragazzini che giocavano
schiamazzando. La porta di casa rimaneva normalmente aperta, perché ogni tanto qualche vicino si
affacciava per salutare o chiedere un fiammifero in "prestito", oppure veniva qualcuno a vendere
qualcosa. Da Andy si stava bene, perché si respirava la sua indipendenza: era l'unica figlia ad essere
andata via da casa molto presto, aveva trovato lavoro a Bayamo ed era contenta così.
Quel giorno rimanemmo a casa sua fino alle 5 del pomeriggio, poi riprendemmo il cammino per
Niquero: preferivo tornare a casa prima che facesse buio, non si sa mai.
E infatti sembrava che me lo sentissi che doveva capitare qualcosa di imprevedibile. Al calar
della sera, quando feci per accendere il faro.... niente! Beh, pensai, devo accelerare per guadagnare
il più possibile terreno. Ma per quanto corressi, la strada era ancora lunga. Passammo Manzanillo
che era ancora un po' chiaro, ma quando arrivammo a Campechuela, dopo aver schivato per
miracolo un cavallo selvaggio che proveniva contromano (senza le luci accese!) non si vedeva più
niente di niente. Il nulla. Nero assoluto. Sopra, sotto, a destra e a sinistra. Carajo! Un buio così non
l'avevo mai visto. Non c'era nemmeno la luna, che almeno avrebbe schiarito un po' le ombre della
strada. Dovetti rallentare quasi a passo d'uomo. Ci restavano ancora 40 chilometri, ne avevamo già
fatti 80 in un'ora circa, ma a quel passo quando saremmo arrivati?!?! Ogni tanto arrivava qualche
auto da dietro, così approfittavo della sua luce per aumentare la velocità; cercavo anche di evitare
che mi sorpassassero, ma questi di solito andavano troppo veloci e mi lasciavano indietro, così il
buio assoluto piombava di nuovo su di noi. Guidavo piegato in avanti per cercare di vedere
qualcosa, ma non individuavo nemmeno la ruota davanti. A tratti mi sembrava di percepire il
grigiore della strada e seguivo quello, poi d'un tratto spariva anch'esso e io scoprivo di essere sul
bordo, anzi quasi fuori, così dovevo sterzare bruscamente e rallentare. Conoscendo lo stato della
strada e la zona altamente rurale di quella provincia la mia unica paura era quella di finire in un
buco, oppure di schiantarmi contro una vacca o un carretto a cavalli. Passando per Medialuna
riposai un po' le pupille, poiché c'era l'illuminazione pubblica. Ma poi di nuovo il buio. Ci vollero 4
ore per percorrere quei 40 chilometri. Arrivammo a casa alle 10 di sera, ormai ci avevano dati per
dispersi in un viaggio che normalmente dura 2 ore. Riportai la sera stessa la moto a Nestor e quando
gli raccontai l'accaduto mi disse: "Coño, Ale! Mi ero dimenticato di dirti che c'è un falso contatto!"
Tolse la sella e mi fece vedere dei fili: "Vedi, se muovi questo qui... ecco, adesso la luce s'accende".
Avrei voluto strozzarlo, ma ero troppo stanco per farlo.
La seconda volta che presi la moto di Nestor fu per andare a Medialuna, 20 km da Niquero, dove
viveva una zia di Maribel. Stavolta, pensai, non mi succederà niente di simile, ormai so come si fa
ad accendere il faro. E infatti, a parte il diluvio che ci prendemmo al ritorno, andò tutto bene.
Ma la terza volta, andando di nuovo a Bayamo, per poco non ci ammazziamo. Stavo seguendo
un camion puzzolente e gli stavo piuttosto vicino in attesa di sorpassarlo, quando all'improvviso
compare sulla strada un buco enorme! Non ebbi il tempo di evitarlo e ci finimmo sopra: la moto
ebbe un sobbalzo tremendo, ma rimanemmo in equilibrio, solo che uno degli specchietti retrovisori
si staccò e andò in frantumi e, cosa ancor più incredibile, la chiave dell'accensione a causa dell'urto
si sfilò, fece una parabola verso l'alto e finì sulla strada chissà dove. E il bello è che la moto rimase
accesa! Mi fermai per cercare lo specchietto e la chiave e li trovai entrambi; verificai anche la ruota
davanti e, con dispiacere, notai che il cerchione si era leggermente piegato. Si poteva ancora
guidare, ma mi sentivo addolorato per Nestor: se gli avessi rotto irrimediabilmente la moto, come
facevo a comprargli i ricambi o una moto nuova? Proseguimmo e il resto del viaggio, quella volta,
andò bene.
Ma la volta successiva, sempre sulla strada di ritorno da Bayamo, la gita si trasformò di nuovo in
avventura (sarà che Bayamo porta sfortuna?). Eravamo io e Maribel, avevamo appena superato il
villaggio di Campechuela e ci restavano solo più 35 km per arrivare a casa, quando la moto
improvvisamente inizia a sbandare. Riesco a fermarmi senza cadere e mi accorgo che abbiamo
bucato la ruota posteriore. Questa non ci voleva: peggio che andare di notte a fari spenti! Così, in
mezzo a un campo di platano a sinistra e un campo di mais a destra mi metto a smontare la ruota
maledetta. Dico a Maribel di aspettarmi lì, io sarei tornato a Campechuela a cercare un gommista. Il
paese dista un paio di chilometri, così mi metto a fare l'autostop. Mi carica un signore su una jeep
piccolissima (solo due posti); a fianco a lui siede la moglie, così io mi devo arrangiare nel vano
posteriore, insieme a delle casse di ortaggi. Dopo circa 500 metri l'auto comincia a fare dei rumori
strani e a sbandare. Il tipo si ferma, scende, guarda le ruote, poi prende una chiave inglese e lo sento
trafficare su una ruota. Poi risale in macchina. "Cosa c'è?" domanda la moglie. "No, niente, c'erano
dei bulloni un po' svitati...". Andiamo bene! penso. Riuscirò ad arrivare, non dico a casa, ma almeno
dal gommista sano e salvo? Giunti in paese ringrazio e scendo. Vado all'unico Cupet che c'è, quello
in moneta nazionale, do la ruota al tizio che lavora lì, la apre e me la riporta subito dopo dicendo
laconicamente: "Non si può riparare: la camera d'aria è squarciata". Scompare così velocemente
come era apparso e rimango lì come un fesso, non sapendo più che fare. Chiedo ad un signore se
per caso c'è una "tienda" dove vendono camere d'aria, ma il posto più vicino è Manzanillo, a 20 km.
Improvvisamente mi ricordo di aver visto, venendo in qua, un piccolo cartello sulla strada
principale che indicava la presenza di una "ponchera particular". Torno sui miei passi e per fortuna
non avevo avuto le allucinazioni. Un paio di isolati verso l'interno del paese trovo una botteguccia
dove un signore anziano sta lavorando con delle camere d'aria. Vediamo se è in grado di fare anche
i miracoli.
"Buongiorno, guardi ho un grosso problema, la camera d'aria si è squarciata... sono già andato
anche al Cupet, ma non hanno potuto fare niente. Chissà se lei ha qualche idea?"
"Oh, che guaio!" dice con rammarico. "Vediamo un po'... che misura è?"
"Diciotto".
"Aspetta un momento..."
Va nel retrobottega a cercare qualcosa, mentre io sto ad aspettarlo. Mi guardo intorno e noto che
la bottega, a dispetto dell'apparenza, è molto ben organizzata: il tipo ha l'aria di saperci fare e
sembra che la saggezza e l'esperienza che gli deriva dalla sua lunga età non gli manchino davvero.
"Ecco quà!" esclama tornando da me "Ho questa camera qui, solo che è una diciannove e le
manca la valvola".
"Quindi?" domando timoroso, non sapendo se il suo annuncio sia da prendere in senso positivo o
negativo.
"Quindi bisognerà adattarla".
"Adattarla?" chiedo stupito, non sapendo fin dove potesse arrivare la sua fantasia.
"Sì, la accorciamo un po'.. dovrebbe starci lo stesso nel pneumatico... Fammi provare".
Così, manipolando ad arte la camera e facendo rientrare una parte del tubolare dentro se stesso
riesce ad ottenere una camera d'aria diametro diciotto pollici da una di diametro diciannove.
Semplice no? Chissà perché i produttori di pneumatici non ci hanno mai pensato?
"Adesso proviamo a gonfiarla, ma prima togliamo la valvola dalla tua e la mettiamo qui".
Se non lo vedessi non ci crederei. La camera calza permettamente dentro il pneumatico: sembra
fatta apposta.
"Solo che perde ancora aria... ci deve essere un buco..." mi dice. Già, penso, sarebbe troppo bello
che una camera di recupero senza valvola sia anche intera...
Così immerge la camera in una bacinella e, trovata la falla, si mette all'opera con colla e pressa.
Per riparare un buco ci sono voluti circa 20 minuti di attesa, ma intanto era già passata più di un'ora
da quando avevo lasciato Maribel sola in mezzo ai campi con la moto senza una ruota... Speriamo
che non cominci anche a piovere...
"Ecco fatto" esclama il tipo. Ma quando la gonfia, la camera perde ancora.
"Mmhhh, ci deve essere ancora un buco da qualche parte...."
Altri venti minuti di attesa. Nel frattempo mi offre un sigaro e si parla del più e del meno.
Altro tentativo, ma la camera perde ancora aria.
Alla fine si scopre che i buchi erano tre, ma ora la gomma è come nuova (si fa per dire...).
"Bene, ora dovresti essere a posto!" dice soddisfatto.
"Lei è stato eccezionale!" dico. "Quanto le devo?"
"Mah, dammi quello che vuoi... Io prendo 2 pesos per ogni riparazione... In più c'è la camera
d'aria..."
Quando mi dicono "Dammi quello che vuoi" vado sempre in crisi. Tiro fuori un biglietto da venti
(comunque non è che avessi molto di più in tasca) e glielo porgo. Lo accetta senza problemi, ci
salutiamo e mi incammino. Intanto sono passate già due ore. Un'auto mi dà un passaggio, trovo
Maribel ormai esausta, rimonto la ruota e ripartiamo. Mentre viaggio mi chiedo se quel tipo fosse
un angelo mandato dal cielo o cosa.
Chiesi la moto in prestito a Nestor ancora un paio di volte, prima di arrendermi definitivamente.
(Evidentemente doveva esserci qualche strana maledizione dietro tutto questo: non era possibile che
succedessero tutte a me!)
Una volta per andare a Medialuna a fare un giro di piacere che si trasformò in un giro di dolore.
Avevamo appena percorso un paio di chilometri quando Maribel si accorge di avere dimenticato il
carnet de identidad a casa; mi fermo per fare inversione di marcia e il motore si spegne. Mentre
tento di riaccenderlo la pedivella mi sbatte violentemente sul ditone del piede. Un dolore
allucinante! Non riesco nemmeno a stare in piedi e mi devo sedere sul bordo della strada, gridando
di dolore con le lacrime come non mi succedeva da quand'ero bambino. Si sarà senz'altro rotto,
pensavo. Dopo alcuni minuti il dolore si affievolisce leggermente, riusciamo a far partire la moto a
spinta e torniamo a casa. Nestor si offre di accompagnarmi all'ospedale, per farmi visitare.
Troviamo il radiologo anche se è sabato pomeriggio, e miracolosamente riusciamo a fare la
radiografia immediatamente. Caspita! penso, non si troverà la benzina ma l'efficienza sanitaria è
eccellente, in mezzo a tutte le difficoltà che ci sono... Comunque il dito non è rotto; devo fare degli
impacchi freddi e non sforzarlo: si metterà a posto da solo.
L'ultima volta che montai la moto rimanemmo a piedi ancora una volta, perché la batteria si era
completamente scaricata e il motore non ne voleva più sapere di ripartire. Dovetti lasciarla
parcheggiata in una casa e tornare a Niquero con l'autostop. Poi Nestor mi disse che per avviarla
anche con la batteria scarica bastava staccare uno dei cavi... Quando mi vide tornare a piedi non era
più sereno e sorridente come al solito.
Decisi allora che, per evitare ulteriori incidenti, era meglio se la moto non la prendevo più. Mi
addolorava dover raccontare a Nestor che ogni volta che usavo la sua moto mi succedeva qualcosa
di spiacevole. Non potevo nemmeno premettermi il lusso di rischiare tanto: se gliela avessi
irrimediabilmente danneggiata come gliela riparavo? Mica si possono comprare i pezzi di ricambio!
Per lui la moto era un bene troppo prezioso, non me la sentivo di essere uno dei responsabili della
sua "morte".
Da allora mi sentivo più sollevato: una responsabilità in meno, pensavo. Se avevo bisogno di
muovermi preferivo chiedere un passaggio a pagamento.
Così, nei giorni seguenti, capitava che camminando per le strade di Niquero vedevo la moto di
Nestor sfrecciare veloce, ma a bordo non c'era lui. Evidentemente l'aveva di nuovo prestata a
qualcuno...
aston villa
00giovedì 28 maggio 2009 22:34
Ristrutturiamo il tetto!

La casa dove vivevamo a Niquero era più che dignitosa: spazio ce n’era a sufficienza, il “patio”
era abbastanza grande e c’erano persino alcune piante da frutta (avocado, banane e mango); c’era
spazio per un piccolo pollaio e per la casetta del maiale. C’era anche un delizioso gazebo in paglia
sotto il quale mi rinfrescavo nelle calorose estive sieste pomeridiane, dondolandomi nell’amaca.
Purtroppo, però, non riuscivo mai ad addormentarmi perché c’era sempre un via vai di gente,
peggio che in un porto di mare, e sul più bello quando gli occhi ti si stanno per chiudere e nelle
orecchie percepisci solo più lo spirare di una leggera brezza e il canto dei galli del vicinato (che
cantano a tutte le ore), arrivava sempre qualcuno che, trovando la porta aperta, giungeva fino a me
nel cortile esclamando “Hola, Ale! Qué tal? Estás aburrido?”. A tale domanda (per la quale ogni
risposta sarebbe stata superflua o offensiva) il mio corpo sussultava e a stento evitavo di cadere
dall’amaca.
La casa, dicevo, era abbastanza confortevole. Aveva solo alcuni lievi difetti. Primo: come tutte le
case “de placa” nel periodo da maggio a ottobre si trasformava in un forno crematorio. Secondo:
come tutte le case “de placa” di stampo cubano-socialista la planimetria era sempre la stessa già
vista in altre milioni di case sparse per tutta l’isola, con quell’odiosa “zona notte” tipo open-space,
cioè con le camere comunicanti, senza pareti né porte, e con il bagno in mezzo. L’architetto che ha
progettato questo modello di abitazione doveva essere un sadico. In una stanza da letto simile se ci
vivi da solo con tua moglie e i figli potrebbe anche andare bene, ma se ci vivi con genitori, suoceri,
fratelli, cognati, nipoti o simili vorresti poter disporre di un po’ di privacy in più, specialmente tra le
ore 24 e le 8 e specialmente se ti dedichi ad attività motorie che per loro natura comportano
notevole agitazione e produzione di inconfondibili suoni (al termine di tale attività speri sempre
che, mentre ti rechi in bagno, all’occupante dell’altra stanza non venga in mente di fare la stessa
cosa). Terzo: la cucina e il “comedor” erano stati aggiunti in un secondo momento e (forse per
problemi economici) il tetto in queste due zone non era stato fatto “de placa” ma “de fibrocen” (il
tristemente famoso fibrocemento a base di fibre di amianto cancerogeno, di cui Cuba ne è fiera
produttrice.. chissà fino a quando?) e siccome era stato montato male, nelle giornate di pioggia
pioveva sia fuori che dentro casa.
Per i primi due difetti non c’erano molte soluzioni possibili, se non abbattere l’immobile e
costruirne uno nuovo. Per il terzo, invece, avevamo pensato ad una leggera ristrutturazione, che
consisteva nello smontare il tetto e rimontarlo con una pendenza maggiore, affinché l’acqua piovana
potesse scorrere via più facilmente.
Fu così che cominciò la ricerca dei materiali da costruzione per avviare l’opera.
Occorrevano delle travi nuove, dei mattoni, dei chiodi, sabbia e cemento. Cose del tutto normali,
quindi, ma a Niquero praticamente introvabili. E anche a Bayamo non è che fosse più facile. Forse a
L’Avana si sarebbero trovati, disponendo di dollari, ma chissà a che prezzi (e comunque non
potevamo andare fino là a prenderli).
Cominciammo con il cemento: ci venne proposto di acquistare un sacco di cemento a 35 pesos
da un amico non meglio identificato che si presentò a casa nostra. Veniva gente quasi tutti i giorni a
casa nostra a proporci qualcosa da comprare. Sapendo che in quella casa ci vivevo io ipotizzavano
che fossi un buon socio per fare affari. Così non avevo che l’imbarazzo della scelta: pesce fresco (e
anche meno fresco), aragoste, radio rubate, mangime per animali, latte in polvere, latte in bottiglia,
automobili, animali vivi... Se avessi dovuto comprare tutto ciò che mi proponevano sarei rimasto
senza soldi dopo una settimana. Invece “selezionavamo” i prodotti, accettando solo quelli di cui
avevamo reale necessità. E non era nemmeno facile prendere certe decisioni. Come fai ad accettare
serenamente che una giovane donna ti offra le due libbre di latte in polvere che lo stato le fornisce
per il suo bebé e che lei invece preferisce vendere a 50 pesos perché le servono per comprare le
scarpe al bambino? L’unica persona che spesso si presentava a casa nostra non per vendere ma per
chiedere qualcosa era una signora piuttosto malandata, di circa ottant’anni (o forse ne aveva meno,
ma li portava male!) la quale, poverina, non era molto in sé, nel senso che il suo cervello da un bel
po’ di tempo l’aveva abbandonata. La scena era sempre la stessa: bussava alla porta, io aprivo e lei
mi diceva: “Buongiorno, non è che avrebbe dei giornali da regalarmi? Sa, sono per mia madre che è
malata...deve andare al bagno”. Sua madre? Ma quanti anni avrà sua madre? pensavo. Centodieci?
“Va bene, aspetti un attimo”. Tornavo con due fogli del Granma e lei incalzava: “Mi regala anche
dei fiammiferi?”. “Mi spiace ma fiammiferi non ne abbiamo. Sono mesi che non li danno”.
Ringraziava e se ne andava. A parte questo, anche se avevamo molte possibilità in più rispetto alle
altre famiglie di comprare dei beni di prima necessità, in realtà quando avevamo bisogno di
qualcosa di specifico non riuscivamo mai a trovarlo. Era appunto il caso dei materiali da
costruzione per rifare questo dannato tetto. Questo amico, quindi, ci permise di acquistare il primo
sacco di cemento (ne servivano tre). Non seppi mai da dove proveniva quel cemento. Ogni mia
domanda al riguardo si perdeva in risposte evasive... Ma non era difficile immaginarlo. Se uno non
è scemo sa che queste materie prime vengono sottratte illecitamente da qualche magazzino statale e
finiscono al mercato nero. Io non è che fossi scemo, solo che forse cercavo inconsciamente di
respingere l’idea di dovermi rassegnare a entrare in questo giro di affari. Ma d’altra parte scoprii
anche che tutti i cubani se vogliono vivere e sopravvivere prima o poi devono entrare in questo giro.
Ci sono entrati tutti, anche stimati funzionari di partito, quindi se volevo rimanere a vivere a Cuba
giunsi alla conclusione che volente o nolente dovevo entrarci anch’io. Il boccone era amaro, ma
dovevo mandarlo giù.
Il secondo sacco di cemento arrivò dopo qualche settimana, sempre con modalità simili. Questa
volta l’amico era di mio suocero, patriota integerrimo, “combatiente de la revolución”, comunista e
rivoluzionario... un cubano che vive a Cuba.
Le travi riuscimmo ad averle da Alberto, un nostro parente che le aveva comprate parecchio
tempo fa perché anche lui doveva rifare il tetto di casa sua, ma per gli stessi nostri problemi di
reperimento di materiali era rimasto fermo. E lo sarebbe rimasto a lungo, perché lui di soldi da
spendere non ne aveva proprio. Ci vendette le sue sette travi a 35 pesos e ci sentivamo felici, perché
erano una delle cose più difficili da trovare.
Ma intanto il tempo passava e ci stavamo preoccupando perché non riuscivamo a trovare i chiodi
e i mattoni, e il cemento che avevamo rischiava di diventare inutilizzabile, perché con l’umidità
cominciava a indurirsi.
Con un po’ di fortuna e l’aiuto di Rogelio, un nostro cugino, riuscimmo ad avere della sabbia. Lo
stesso Rogelio riuscì ad informarsi e a scoprire che a Niquero c’era un tipo che fabbricava mattoni
di terracotta. Incredibile! Era sicuramente un miracolo dovuto a qualche divinità sconosciuta! Ci
recammo da questo “messia” che viveva con la sua famiglia in una zona rurale di Niquero chiamata
El Hato, in una casa di paglia in mezzo alle palme, sulla terra rossa tipica di quelle parti. Mi
servivano 300 mattoni e il prezzo era di 50 centesimi l’uno. Però aveva bisogno di un paio di
settimane per fabbricarli. Va bene. Nel frattempo mi organizzai per il trasporto. Come li porto 300
mattoni? E quanto spazio occupano? Sempre con il prezioso supporto di Rogelio ci venne in aiuto
un tipo che aveva un carretto e un cavallo e per 20 pesos ci fece il servizio. Un altro quesito su cui
non mi ero preparato era: adesso dove li metto? Dopo alcuni ripensamenti decidemmo di
accatastarli di fianco alla casa e di coprirli con un nylon (non si sa mai). E in effetti dopo qualche
giorno capitò l’imprevisto: un violento acquazzone sciolse come dei biscotti inzuppati nel latte tutti
i mattoni che stavano a contatto col terreno. Meno male che ne avevo comprati in abbondanza. Il
perché si siano sciolti con della semplice pioggia è tuttora un mistero irrisolto. Per fortuna gli
antichi romani non hanno usato la stessa tecnica per produrre mattoni di terracotta...
Passavano i mesi e non riuscivamo a trovare l’ultimo tassello del puzzle: i chiodi. Tutti i giorni
andavo a controllare i sacchi di cemento e con sgomento scoprivo che uno dei sacchi era già per
metà indurito. Comprammo, infine, il terzo sacco tramite le solite amicizie, ma i chiodi non ne
volevano sapere di comparire. Ormai eravamo a giugno, i temporali si susseguivano ogni giorno e
temevo per la buona salute dei mattoni...
Poi un giorno, parlando con Palomino, un collega del centro di calcolo, venne fuori che suo
fratello faceva il fabbro e per lui non era un problema fabbricare chiodi. “E non potevi dirlo
prima?”. “Non me lo hai chiesto...”. Così Palomino mi portò da suo fratello che viveva fuori
Niquero, a circa tre chilometri in una località chiamata El Hondón... e il nome era tutto un
programma. El Hondón dà la sensazione di qualcosa di profondo, diciamo di situato in basso; e così
è. A El Hondón quando piove si allaga tutto e non ci si può andare. Essendo la stagione delle
pioggie in elevata attività dovetti rimandare diverse volte l’appuntamento. Quando finalmente
riuscii ad arrivare a El Hondón notai la quantità d’acqua che ancora stagnava sul terreno, nonostante
non piovesse da almeno un paio di giorni e immaginai come dovesse essere due giorni prima...
Parlai, dunque, col fabbro e gli ordinai una libbra e mezza di chiodi da 4 pollici e mezzo al costo di
20 pesos. Me li avrebbe preparati in poche settimane. Ma come faceva a fare i chiodi? mi chiesi.
Allora mi fece vedere tipi diversi di chiodi che stava fabbricando: partiva da un tondino di ferro, lo
tagliava a misura, poi con una mola gli faceva la punta e dall’altra parte lo ribatteva fino a creare
una specie di testa. Forse non era un chiodo elegante, ma aveva tutta l’aria di poter svolgere la sua
funzione. E Niquero era piena di artigiani fantasiosi: scoprii anche che c’era un tipo che fabbricava
cinghiette di gomma per registratori, quelle che fanno girare le puleggie e che spesso si rompono. A
me se ne era rotta una e tramite un collega del centro di calcolo conobbi un tale che in casa sua, non
so come, fabbricava queste cinghiette. Non so come facesse: so solo che usava come materia prima
delle vecchie camere d’aria. E che dire di quel tizio che mi fabbricò un perno nuovo per il
giradischi? Qui, devo dire con orgoglio, ci misi anche io la mia parte. Siccome il mio giradischi era
europeo e funzionava quindi a 50 hertz, qui a Cuba, dove la frequenza è di 60 hertz, girava più
velocemente e i dischi erano inascoltabili. Con carta, penna e righello presi le misure del perno
vecchio, feci alcuni calcoli e ricavai le misure che in teoria avrebbe dovuto avere il perno nuovo.
Alberto mi mise in contatto con un suo amico che lavorava al tornio al Central Azucarero e mi disse
che sarebbe stato in grado di costruire quel perno, ma non aveva il materiale. “Servirebbe un pezzo
di ottone” disse. Mi si accese un neurone nel cervello e pensai ad un vecchio rubinetto che avevo
conservato: il perno di comando sembrava fatto apposta per ricavarci un perno da giradischi.
Neanche Michelangelo ci sarebbe arrivato! Diedi il rubinetto all’amico e dopo alcune settimane mi
consegnò il perno su misura nuovo di zecca. Lo montai e... meraviglia delle meraviglie! Un
giradischi pefettamente funzionante! Ben presto si organizzarono pellegrinaggi a casa mia per
osservare questa prodigiosa invenzione...
Ma torniamo al tetto. Eravamo quasi arrivati alla fine di questa maratona preparatoria. Quando
tornai a El Hondón in bicicletta per prendere la merce, siccome era tutto allagato, come al solito, mi
impantanai in un fango argilloso mai visto prima: una cosa indescrivibile! Dopo solo mezzo giro le
ruote si bloccarono perché il fango era talmente appiccicoso che uno strato spesso almeno due
centimetri era rimasto attaccato tra le gomme e i parafanghi. Pazzesco! Dovetti scendere perché la
bicicletta era inservibile e mi ci volle un quarto d’ora per pulire i parafanghi prima di poter ripartire.
Non solo: anche sotto le suole delle scarpe successe la stessa cosa e imporovvisamente mi ritrovai
più alto di ben tre centimetri... Mi chiesi come faceva la gente a vivere in quel luogo.
Finalmente potemmo dare l’avvio ai lavori. Ci aiutarono dei nostri cugini esperti in lavori di
muratura. Si cominciò al mattino presto perché bisognava assolutamente terminare entro la sera
stessa. Andò tutto bene. Il cemento era ancora utilizzabile e i mattoni furono sufficienti. Anche la
prova dell’acquazzone diede ottimi risultati. Per un po’ di tempo eravamo a posto, anche perché
dopo tutte quelle difficoltà non avevo nessuna intenzione di programmare altri lavori di
ristrutturazione.
Dopo tutta questa faccenda avevo sviluppato un senso quasi maniacale rispetto alla necessità
delle materie prime in generale: non buttavo via niente, conservavo tutto, ancora più di quanto
facessi quando ero in Italia. E scoprii di non essere l’unico. La necessità aguzza l’ingegno e obbliga
ad essere più sensibili rispetto a certe cose. Un giorno transitavo per la via principale in biciletta,
portando Maribel sul portapacchi. Ad un certo punto frenai improvvisamente: “Che fai?” mi chiese.
“Aspetta un momento”. Scesi dalla bicicletta per raccogliere dalla strada una vite che avevo visto
all’ultimo momento. “Questa la tengo. Non si sa mai, può sempre servire”.

CONTINUA
el mono loco
00venerdì 29 maggio 2009 00:24
Re: Re: Re:
aston villa, 28/05/2009 12.35:



Lampo ci sono ancora tanti capitoli.....perche' hai svelato il finale......? [SM=x1496801]



Ed io pensavo che fosse il maggiordomo il colpevole [SM=x1543720]

aston villa, 28/05/2009 12.35:


Non conosco Lovely conosco solo FOX MOLDER....

Se qualcuno lo vuole invitare e' il benvenuto.

Cerchiamo di essere cauti coi giudizi,ripeto ancora nel 95' in un posto simile,anche avendo il grano era dura riuscire a muoversi.....




Sarebbe interessante sapere il suo giudizio adesso sul suo passato. Rinnovo il mio rispeto per il coraggio nel buttarsi in una Odissea dai risvolti kafkiani, come conferma pure lui.

Aston, hai perfettamente ragione di andare cauti con i giudizzi ma io sono stato a Cuba proprio in quegli anni, e sicuramente 3000 dollares non sono certo una cifra che ti poteva permettere di vivere serenamente. Leggendo i suoi scritti credo che, forse, abbia peccato di ingenuità e che forse la sua compagna lo doveva informare un pò meglio sulle questioni burocratiche e non.

Poi ripeto, io non capirò mai stà mania di vivere a "LO CUBANO": capisco chi lo faccia x vocazione/lavoro di andare nei paesi del terzo mondo in un progetto di cooperazione mondiale, ecc ma VIVERCI........uno di solito se cambia cerca di cambiare in meglio mica in peggio !!!

Non voglio certo essere ipocrita, ma sarebbe come se io qua mi mettessi a vivere nelle case di lamiera, apagones, senza acqua corrente, fammi la doccia con i secchi, cagare nel bagno alla turca, dormire nelle stanze con altre 20 persone, ecc

L'ho fatto e lo continuerò a fare, ma non certo x 365 giorni per il resto della mia vita. Senza andare OT , parlando della mia esperienza, prima di scegliere dove andare a vivere ho fatto un pò di viaggi, mi sono informato, ho letto e soprattutto ho cercato di GUARDARE la realtà che mi circondava con OCCHI CRITICI senza farmi illusioni o farmi abbindolare dai discorsi "Qua la gente è più ospitale che in Italia!"........ [SM=x1543715]

Poi ogniuno fà ì kè vole della sù vita [SM=x1272126]
ladillita
00venerdì 29 maggio 2009 03:24
Re:
aston villa, 28/05/2009 7.26:

1995

In un campo nella provincia Granma


Viverci...

C'era poco da stare allegri...... [SM=x1465775]




..hambre negra... [SM=x1496801]

..sin duda.. [SM=x1539155]
aston villa
00venerdì 29 maggio 2009 08:06
Re: Re: Re: Re:
el mono loco, 29/05/2009 0.24:



Sarebbe interessante sapere il suo giudizio adesso sul suo passato. Rinnovo il mio rispeto per il coraggio nel buttarsi in una Odissea dai risvolti kafkiani, come conferma pure lui.

Aston, hai perfettamente ragione di andare cauti con i giudizzi ma io sono stato a Cuba proprio in quegli anni, e sicuramente 3000 dollares non sono certo una cifra che ti poteva permettere di vivere serenamente. Leggendo i suoi scritti credo che, forse, abbia peccato di ingenuità e che forse la sua compagna lo doveva informare un pò meglio sulle questioni burocratiche e non.

Poi ripeto, io non capirò mai stà mania di vivere a "LO CUBANO": capisco chi lo faccia x vocazione/lavoro di andare nei paesi del terzo mondo in un progetto di cooperazione mondiale, ecc ma VIVERCI........uno di solito se cambia cerca di cambiare in meglio mica in peggio !!!

Non voglio certo essere ipocrita, ma sarebbe come se io qua mi mettessi a vivere nelle case di lamiera, apagones, senza acqua corrente, fammi la doccia con i secchi, cagare nel bagno alla turca, dormire nelle stanze con altre 20 persone, ecc

L'ho fatto e lo continuerò a fare, ma non certo x 365 giorni per il resto della mia vita. Senza andare OT , parlando della mia esperienza, prima di scegliere dove andare a vivere ho fatto un pò di viaggi, mi sono informato, ho letto e soprattutto ho cercato di GUARDARE la realtà che mi circondava con OCCHI CRITICI senza farmi illusioni o farmi abbindolare dai discorsi "Qua la gente è più ospitale che in Italia!"........ [SM=x1543715]

Poi ogniuno fà ì kè vole della sù vita [SM=x1272126]



Tutto vero,la scelta anche a me e' parsa un po' avventata,15 anni fa d'altronde non c'erano le informazioni di cui possiamo disporre oggi anche grazie a forum come questo,oggi se devi fare un documento,chiedi qua' come e dove farlo e ti porti avanti col lavoro,allora era davvero un casino....


aston villa
00venerdì 29 maggio 2009 08:10
Animali

Nota: in questo capitolo verranno trattati argomenti scabrosi riguardanti il destino ineluttabile di alcuni animali
normalmente considerati domestici; dato che i temi affrontati potrebbero, per certe persone, essere considerati
raccapriccianti ed urtare la propria sensibilità se ne consiglia la lettura solo se effettivamente interessati.
Avere a che fare con gli animali a Cuba era cosa più che normale. Non si poteva dire che fosse
prerogativa di chi viveva in campagna, perché anche in città, come a L’Avana, mi era capitato di
osservare incredibili situazioni in cui la relazione uomo-animale diventava un legame più che
necessario (per l’uomo) dovuto a ragioni di importanza vitale, come poteva essere quello
dell’alimentazione: non era raro, dunque, scoprire per esempio nel piccolo patio di una lussuosa
villa in stile neocoloniale un maiale costretto in un metro quadrato, intento a sgranocchiare qualche
buccia di platano, crogiolandosi nella sua melma puzzolente.
Se si voleva mangiare carne con una certa periodicità (non dico tutti i giorni ma almeno una volta
alla settimana) l’unico modo era quello di allevare da se gli animali. Lo stato con la libreta non
passava quasi niente e comunque quelle poche volte bisognava fare una fila incredibile alla casilla.
La casilla è una bottega dove lo stato, mediamente una volta al mese, vende carne, pesce, uova.
Dire “mediamente” è già azzardato: in realtà nemmeno lo stato sa di preciso se e quando, nell’arco,
di un certo mese, si venderà mai carne, pesce o uova. Infatti per la maggior parte del tempo la
casilla è fuori servizio. Ciò non vuol dire che sia chiusa, perché i dipendenti statali che ci lavorano
devono guadanarsi onestamente il salario, mica possono starsene a casa! Allora la casilla rimane
aperta, vuota. Nella cella frigorifera non c’è niente, non c’è niente sul bancone e non c’è niente
sugli scaffali. Ci sono solo i due dipendenti che normalmente con aria annoiata, seduti su una sedia
con i gomiti appoggiati sul bancone, guardano la gente che passa sul marciapiede. Poi quando arriva
il fatidico giorno in cui finalmente per volere di qualcuno situato ad alti posti di comando nella
direzione comunale, provinciale, nazionale o chissà dove si decide che è ora di distribuire qualcosa
ecco che rapidamente la voce si sparge per il villaggio, di casa in casa: “Maria! C’è carne alla
casilla!”,”Carmen! Sono arrivate le uova!”. Allora ti precipiti in strada con la libreta in una mano e
una borsa di plastica nell’altra per dirigerti alla bottega preparandoti a fare una coda interminabile,
magari ti tocca litigare con qualcuno che ti vuole passare davanti, poi scopri che altri hanno invece
il diritto di passarti davanti perché appartengono alla lista “Plan Jaba”, che sono quei nuclei
familiari in cui tutti i componenti lavorano e quindi viene loro concessa questa facoltà. Quando
finalmente riesci a raggiungere il bancone ritiri quel poco che spetta a te e alla tua famiglia: alcune
once di qualcosa che non si sa bene che cosa sia. Di solito davano la cosiddetta jamonada, una
specie di insaccato fatto con carne macinata, simile alla nostra mortadella ma di colore più scuro e,
soprattutto, di un sapore ben diverso. Nessuno ha mai saputo dirmi con quali animali si facesse la
jamonada: forse parecchi, o forse nessuno. A noi che in famiglia eravamo ufficialmente in tre
spettava una fetta di jamonada larga circa tre centimetri. Praticamente la porzione per una persona
normale. Poca roba, quindi, ma almeno per un giorno si riempiva lo stomaco.
Noi stavamo in campagna e là maiali, galline e agnelli erano più numerosi degli umani. Per strada
era più probabile essere investiti da un cavallo che da un’automobile; di notte biciclette e cavalli
senza luci di posizione erano un vero pericolo, specialmente se decidevi di fare una passeggiata
dopo cena a casa di qualche amico e prendevi una di quelle vie secondarie dove l’illuminazione
pubblica non esisteva, o se era mai esistita comunque aveva le lampadine bruciate: capitava allora
che mentre camminavi nel buio più nero tentando di non inciampare in una buca del terreno e di
non finire dentro un tombino aperto delle fognature percepivi dietro di te un rumore, ma non capivi
se era una bicicletta con una o due persone a bordo, oppure un cavallo senza conducente, oppure
poteva essere un cavallo con un carretto, e mentre tentavi di intuire da che parte spostarti per cedere
il cammino, perché non sapevi se loro avevano visto te, riuscivi a malapena ad evitare lo scontro,
dato che in realtà non era da dietro che provenivano i rumori, bensì dal davanti.
A parte questo il rapporto uomo-animale, come dicevo all’inizio, era più che altro basato su una
necessità alimentare. Animali domestici da compagnia non se ne vedevano molti. Qualche raro
gatto, non ancora “trasformato” in coniglio, ma nient’altro. Niente canarini, criceti, pesci rossi o
cincillà; né, tantomeno, pitoni, coccodrilli o tigri siberiane. Per fortuna!, mi vien da dire.
Personalmente non ho mai amato vedere degli animali in gabbia. Cani ce n’erano parecchi, ma non
li classificherei nella categoria “da compagnia”, quanto piuttosto nella categoria “da guardia”
poiché questa era la loro mansione principale. La maggior parte degli animali domestici, dunque,
faceva parte della categoria “da macello”. Ogni famiglia aveva il suo bel maialino o le sue galline o
il suo agnellino destinati al sacrificio e siccome la maggior parte delle famiglie viveva in casette
singole con un po’ di spazio libero nel cortile era facile predisporre un’abitazione anche per gli
animali.
Anche noi avevamo la nostra piccola fattoria domestica. In principo era il maiale, verrebbe da dire
parafrasando un famoso best-seller... e il maiale fu l’animale al quale più mi affezionai e che più mi
stupì per la sua intelligenza, probabilmente superiore a quella del cane. La gallina, si sa, è stupida
per definizione e non c’è niente da fare; anche se vivesse con te cento anni e tu le promettessi di non
sacrificarla lei continuerà ad avere paura di te quando le porti da mangiare. E’ fatta così, non c’è
rimedio. Ma vivendo a stretto contatto per la prima volta con un maiale mi resi conto delle sue
straordinarie proprietà intellettuali.
Dicevo che cominciammo con un maialino che ci venne regalato da un nostro amico, la cui scrofa
ne aveva partoriti ben dodici (un vero capitale!). Era poco più grande di una spanna, dal pelo nero e
già da piccolo si dimostrò irrequieto, mostrando tutto il suo carattere estroso. Lo stesso giorno che
lo portai a casa riuscì a fuggire da una fessura che c’era tra due assi di legno della sua casetta; io
non me ne accorsi, fino a quando bussarono alla porta di casa e un vicino me lo restituì dicendo che
lo aveva trovato e riconosciuto mentre trotterellava nella strada principale del paese. Detto per
inciso, il perché un anonimo vicino avesse riconosciuto il mio maialino dopo solo due ore da
quando ne ero proprietario era l’effetto del fatto che normalmente in un piccolo paese nessuno si
faceva gli affari propri; però almeno questa volta era servito a qualcosa.
Siccome non sapevamo che nome dargli era diventato semplicemente “il Puerquito”. Cresceva
bene, considerando il poco che riuscivamo a dargli: avanzi dei nostri pasti, qualche foglia di banano
e niente di più. Poi un giorno “comparve” un sacco di mangime. Sul come certe cose apparissero
“miracolosamente” ho già avuto modo di parlare nel capitolo 6. Questo sacco, quindi, si
materializzò come per incanto in casa nostra. In realtà, siccome non credo ai miracoli, scoprii che
un collega o amico di Maribel, non ricordo bene, aveva questo sacco da vendere, evidentemente
materializzatosi nelle sue mani per merito di un fenomeno di telecinesi piuttosto diffuso a Cuba,
fenomeno che fa sì che degli oggetti scompaiano da un posto (normalmente un magazzino, una
fabbrica o un deposito statale) e compaiano altrove (normalmente la casa di qualcuno). Ci costò 100
pesos e una accesa discussione tra me e Maribel, dato che ero contrario a questi giochi di
commercio un po’ oscuri. Ma siccome ero da solo a lottare contro i mulini a vento mi rassegnai
anche a questo fatto, come a molti altri. Il Puerquito, almeno, era contento. In realtà il mangime non
era per lui, bensì per la gallina e i pulcini, ma non poteva saperlo perché effettivamente non glielo
avevamo mai detto. Un giorno il Puerquito non si trovava e siccome era come i bambini, che
quando non li senti per alcuni minuti cominci a temere perché sicuramente stanno combinando
qualche marachella, ci venne un atroce sospetto: eccolo lì, infatti, che si rotolava silenziosamente e
beatamente dentro il sacco con aria soddisfatta. Capimmo, allora, che anche lui aveva diritto alla
sua parte di mangime quotidiano.
Cresceva e anche il suo intelletto si sviluppava in egual rapidità; siccome, mentre era ancora
abbastanza piccolo, durante il giorno lo lasciavamo libero nel cortile iniziò a comportarsi da vero
animale domestico. Quando, per esempio, dopo pranzo andavo sotto il gazebo per prendere un po’
di fresco ecco che lui, il Puerquito, veniva ad accucciarsi tra i miei piedi; si sdraiava su un lato e con
aria sonnacchiosa si addormentava. Allora prendevo un bastoncino e gli grattavo la pancia e lui con
un sorrisino sulle labbra pareva dire “Oh, sì, che bello! Continua così, un po’ più giù...”. Di notte lo
mettevamo dentro la sua casetta di legno, di quelle che si usavano qui, sopraelevate rispetto al
terreno e scoperte, e al mattino quando uscivo in cortile appena mi vedeva da lontano si alzava in
piedi sulle zampe posteriori appoggiando le anteriori su uno dei bordi e cominciava a guaire finché
non mi avvicinavo per accarezzarlo e, soprattutto, per dargli la “colazione”, che normalmente
consisteva in una foglia di banano. Insomma, sembrava di avere a che fare con un cagnolino, invece
che con un maiale da macellare; e infatti certe volte già pensavo con rammarico al suo atroce
destino. Invece non con lo stesso rammarico pensavo ai due grossi maiali del nostro vicino
Victoriano, i quali una notte sfondarono la rete di cinta che separava i nostri rispettivi cortili per
venire dal nostro lato a seminare distruzione, come un’orda di barbari: distrussero completamente
delle piante di zucca che stavamo faticosamente facendo crescere, fecero cadere le biciclette
danneggiandone una e se ci fossero state delle bottiglie di rum probabilmente se le sarebbero
scolate. Il giorno dopo non potemmo far altro che constatare la situazione: Victoriano, desolato per
l’accaduto, si scusò. Non ebbi il coraggio di chiedergli nemmeno un peso di risarcimento per i danni
subiti, perché comunque non sarebbe stato in grado di sostenerlo. Anche lui, come tanti altri,
quotidianamente aveva il suo da fare per tirare avanti, mantenere i figli e arrivare fino a fine mese
con il suo salario e quello della moglie. E poi eravamo buoni vicini, c’era un rapporto di stima
reciproca e di mutuo soccorso: spesso ci scambiavamo qualcosa, normalmente generi alimentari,
quando uno dei due ne aveva in abbondanza (il che succedeva raramente!). E poi era veramente un
tipo onesto: pur essendo, sia lui che la moglie, funzionari di partito e lavorando nel settore degli
alimentari non l’avevamo mai visto approfittarsi della sua posizione. La maggior parte delle persone
in paese pensava che Victoriano e la sua famiglia a pranzo e cena facessero banchetti suntuosi,
pensavano che tutti i giorni mettesse in atto la “telecinesi” facendo comparire a casa sua chissà quali
vettovaglie, ma era tutto falso; anche loro, come tanti altri, vivevano con quello che passava la
libreta e inventando delle soluzioni. Come tutti. No, non potevo chiedergli un risarcimento per
quella notte dei maiali; io, con i dollari in tasca, non potevo certo fare il morto di fame e andare a
chiedergli di ripagarmi le zucche e la bicicletta. Non che questo migliorasse la mia posizione,
perché per la maggior parte della gente rimanevo comunque, per motivi a me poco chiari, un morto
di fame. Ma a Victoriano non potevo chiedere nulla. Per me l’episodio era chiuso; un giorno,
quando ne avesse avuta l’opportunità, si sarebbe sicuramente sdebitato. Ai suoi maiali, però,
augurai di andare all’inferno il più presto possibile.
Oltre il maiale avevamo anche una gallina che deponeva uova, quando ne aveva voglia. Un giorno
riuscimmo anche a procurarle anche un gallo e quindi speravamo che prima o poi dalle uova
nascessero dei pulcini. Ci riuscì. In un fortunato periodo depose dodici uova in dodici giorni e (non
finirò mai di stupirmi dei prodigi di madre natura!) decise che era venuto il momento di covarle. Le
avevo preparato un luogo “appartato” fatto con uno scatolone di quelli che avevo usato per il
trasloco Italia-Cuba (non si butta mai via niente) e lei vi entrò come se fosse casa sua. Vi rimase per
venti giorni senza quasi mai uscirne. La gallina sarà stupida ma quando è l’ora di un sacrificio sa
cosa deve fare. Quando nacquero i pulcini eravamo tutti contenti come se fossero anche un po’
nostri figli. Il problema, ora, era solo uno: cosa diamo loro da mangiare? Per i primi giorni ci
pensava la stessa gallina, portava a spasso i pulcini, grattava un po’ per terra, scovava qualcosa e
indicava loro di mangiarselo. Ma quando diventarono più grandi ciò non bastava più. Venne così
fuori il sacco di mangime di cui parlavo prima e ci risolse il problema. Maiale, gallina, gallo e
pulcini erano un bell’impegno, soprattutto quando pensi alla fatica che ti costa in primo luogo
procurarteli, poi mantenerli. E c’è sempre il rischio che di notte te li rubino, oppure che deperiscano
per la fame. Così di notte, mentre dormi, ad ogni rumore sospetto ti svegli, cercando di capire se ti
hanno fottuto il maiale, oppure se è solo un gatto randagio di passaggio. E quando alle tre o alle
quattro del mattino senti il tuo gallo cantare lo strozzeresti volentieri per averti svegliato a quell’ora
indecente, ma almeno sei tranquillo perché sai che non te l’hanno rubato.
Insomma, alla fine questi pulcini crebbero abbastanza e quando raggiunsero una certa taglia... zac!
fuori uno, fuori due, eccetera. In realtà non è che fossero molto grandi, ma il mangime era quasi
finito e quindi non si poteva aspettare oltre. In effetti mi era venuto il dubbio che tutta questa fatica
di allevare animali fosse vantaggiosa e, dato il prezzo del mangime, non convenisse invece
comprare al prezzo di 25 pesos l’uno dei polli già allevati, pronti da mangiare.
Infatti quando decidemmo che dovevamo procurarci un agnello, per avere una riserva di carne nel
congelatore, lo comprammo già cresciuto. Ci arrivò la voce che un amico di un altro amico aveva
un agnello da vendere a seicento pesos. L’offerta ci parve interessante, anche se come sempre
corsero subito le voci che l’avevamo pagato caro, che se avessimo chiesto all’altro amico del tal
cugino l’avremmo pagato meno, eccetera. Chissà perché queste cose me le dicevano sempre dopo
che avevo già concluso un affare e non mi avvisavano prima. Dunque, costui aveva un agnello: non
so bene come lo avesse allevato, dato che viveva al terzo piano di un condominio. Inutile porsi
domande. Andammo una sera all’imbrunire a prendere questo animale. Fuori del palazzo, situato
sulla strada principale di Niquero, c’era un piccolo prato sul quale due grassi maiali riposavano
godendosi le ultime ore di luce, legati ad un albero con una corda. Evidentemente appartenevano a
qualcuno che abitava nel condominio e che tra poco sarebbe venuto a prenderli per portarli a
dormire. Improvvisamente sussultai, immaginando costui portando i due suini su per le scale e
facendoli accomodare nella vasca da bagno. Ma naturalmente era solo una mia fantasia. Invece il
tipo che dovevamo incontrare, l’agnello lo teneva in balcone. Ci aiutò a portarlo giù per le scale,
perché era un po’ restio. Da lì a casa, invece, fu abbastanza facile dato che lo tenevamo al
guinzaglio. Ormai mi ero abituato a cose ben più strane che portare un agnello al guinzaglio per il
centro di Niquero, quindi non feci caso alla gente che mi guardava.
Maribel decise che dovevamo macellarlo la sera stessa.
- “Ma è già buio” obiettai.
- “Sì, ma non possiamo aspettare fino a domani. Dove lo teniamo stanotte? E se ce lo rubano?”.
- “E chi lo fa questo lavoro? Io non sono capace”.
- “Chiediamo a Rogelio, lui è sempre disponibile”.
Rogelio era un nostro cugino che si era sempre prodigato per aiutarci in vari lavori.
- “Senti, Rogelio, avremmo un agnello da macellare. Puoi venire?”.
- “Va bene”.
Faccio da suo assistente. Gli porgo l’unico coltello da cucina che abbiamo, nemmeno tanto
affilato.
- “Dove lo mettiamo?” gli domando.
- “Dobbiamo appenderlo da qualche parte... andrebbe bene qui ad una trave del gazebo. Hai una
corda?”.
Cerco la corda. Trovo uno spago di nylon abbastanza spesso.
- “Può servire questo?”
- “Sì, va bene” risponde.
Intanto affila il coltello. Vedo Rogelio un po’ pensieroso, come se volesse prendere tempo o stesse
riflettendo su qualcosa di importante. Le altre volte che lo avevamo chiamato per macellare il
maiale era molto più deciso. Così mi viene spontanea una domanda:
- “Rogelio, ma tu sei capace a macellare un agnello?”
Mi guarda sogghignando:
- “Sì” risponde con enfasi.
- “Quanti ne hai macellati finora?”
- “Uno!”
Speriamo in bene.
- “Aiutami ad appenderlo” dice.
Gli lega lo spago di nylon attorno al collo, poi lo fa passare al di sopra di una trave di legno.
- “Adesso tu tira la corda” mi ordina “mentre io lo alzo da sotto”.
Il povero agnello rimase appeso, praticamente impiccato, senza un lamento. Diede qualche calcio,
poi Rogelio gli tagliò la gola e morì in pochi secondi. Chissà perché avevo la sensazione che non
avessimo seguito la procedura più corretta. Non me ne intendevo di macelleria, ma per il poco che
ne so gli agnelli non si impiccano. Il lavoro successivo, che portò via molto tempo, fu quello di
scuoiarlo e squartarlo. In tutto ci volle più di un’ora. Demmo a Rogelio la sua parte e il resto lo
mettemmo nel congelatore.
Il giorno dopo amici e parenti, quando gli raccontammo del come avevamo ammazzato l’agnello,
si rotolarono per terra dalle risate:
- “Avete impiccato un agnello? Ah, ah, ah!”.
- “Ma non si appende per il collo! Si appende per le gambe!.
- “Come avete fatto voi tutto il sangue gli è rimasto dentro”.
- “Poi per scuoiarlo bastava fargli un’incisione in un tallone e pompargli dentro l’aria con una
pompa della bicicletta. In modo da staccare più facilmente la pelle dalla carne. Vi sarebbero bastati
pochi minuti”.
Anche stavolta i consigli erano arrivati troppo tardi.
Nel pomeriggio incontro Rogelio:
- “Roque! Mi hanno spiegato cosa c’era che non andava ieri sera...” gli dico ridendo.
- “Sì anche a me!” dice ridendo anche lui.
- “Ma come! Mi avevi detto che avevi già macellato un agnello!”
- “Sì, quello di ieri!”.
Il Puerquito era diventato adulto. Non era grandissimo come i due fottuti maiali di Victoriano, ma
siccome rappresentava un pericolo per i pulcini eravamo costretti a tenerlo tutto il giorno chiuso
nella sua casa-palafitta. Credo che s’annoiasse parecchio. Così, di tanto in tanto, lo facevo uscire,
dopo aver messo al sicuro la signora Chioccia e famiglia. E lui si scatenava letteralmente:
cominciava a correre come un forsennato da un lato all’altro del cortile, facendo un percorso ad otto
attorno all’albero di avocado e quello di banane e a metà tragitto faceva una o più piroette su se
stesso. Roba da circo! Mai visto niente di simile. Secondo me lo faceva apposta per dimostrare di
avere un’intelligenza superiore alla media ed evitare così di finire arrostito. Un’altra volta lo vidi
fare il numero del “guanto di gomma”. Trovò per caso uno dei guanti di gomma che usavamo in
cucina per lavare i piatti, lo prese tra i denti dalla parte del polso e scuotendo la testa a destra e a
sinistra si schiaffeggiava da solo. Stupendo! Un vero clown. Ma purtroppo ciò non gli fu sufficiente
per eludere il suo destino, che per un maschio è doppiamente tragico perché qualche tempo prima di
essere ammazzato deve pure sottoporsi all’evirazione. Assistetti a questo triste evento ed, essendo
maschio anch’io, un brivido mi corse su per la schiena. Non è un bello spettacolo da vedere. E
credo anche che lui, vedendomi lì immobile e complice della situazione, cominciò a pensare che ero
un traditore.
Il giorno che fu ammazzato stetti in disparte; guardai da lontano e solo con la coda dell’occhio e
sentivo tutto il suo sguardo e il suo odio addosso a me, accentuati dagli strilli assordanti provocati
dalla pugnalata infertagli. Mangiai quelle bistecche solo perché non c’era altro da mettere sotto i
denti, ma erano le bistecche meno appetitose che avessi mai avuto occasione di assaggiare.
Con i maiali che avemmo successivamente evitai di “fare amicizia” allo stesso modo che feci con
il Puerquito; e comunque non sarebbe stato possibile perché tutti gli altri, al confronto, mi
sembravano abbastanza idioti.
Nonostante l’esperienza vissuta non mi passò nemmeno per la mente di diventare vegetariano,
semplicemente perché quando non puoi permetterti il lusso di scegliere cosa mangiare devi adattarti
alla situazione. Tentare di adattare la situazione ai propri desideri era praticamente impossibile e
oltretutto sarebbe stato anche folle.
E lì, a Cuba, in quel periodo, rivedere, analizzare, adattare, modificare, mettere in discussione i
propri principi era fondamentale per poter continuare.

CONTINUA......
beboroma
00venerdì 29 maggio 2009 10:33

Poi ripeto, io non capirò mai stà mania di vivere a "LO CUBANO":

riprendo questo passaggio del post del monoloco solo per dire che io ci vivrei a "Lo cubano" ma di quelli che conosco con tanto di mega case e di agiatezze meglio di come vivo io a Roma.

Colgo l'occasione riguardo al post relativo al tetto della casa visto che ci sono passato da poco, praticamente, rispetto al 1995, non e' cambiato un cazzo salvo l'aumento dei prezzi....per il resto o cosi' o pomi'.....a buon intenditor
aston villa
00venerdì 29 maggio 2009 12:42
Vicolo cieco

Ho lasciato un po’ indietro la storia del lavoro e della residenza, quindi è giunto il momento di
unire i fili. Eravamo rimasti al punto che per avere la residenza mi mancava un documento assai
importante come il certificato penale e al centro di calcolo non mi assumevano se non avevo la
residenza. Nel frattempo, però, stavo lavorando lì ugualmente da tre mesi. Gratis. Ero già stato a
Bayamo al comando di polizia per consegnare tutti i documenti richiesti, tranne il suddetto
certificato; mi avevano detto che si informavano per vedere se si poteva farne a meno. A fine marzo
decisi che non potevo continuare a lavorare gratis, senza contratto, senza nessuna prospettiva. Le
ore lavorate me le avrebbero pagate più avanti, ma in ogni caso avevo già accumulato tre mesi di
credito e mi sembravano più che sufficienti per decidere di fermare tutto. Così andai da Jorge, il
direttore, annunciandogli che fino a quando non avessi regolarizzato la mia posizione non avrei più
lavorato. Gli consegnai anche una lettera per la direzione di Bayamo, nella quale spiegavo le mie
motivazioni e soprattutto indicavo quali erano stati gli intoppi burocratici e la negligenza di diverse
persone, anche all’interno della loro azienda, che mi avevano portato in quella situazione di stallo.
Riportai a casa il mio computer, ma continuavo comunque a dare un aiuto a Maria Elena, mia
cognata, che lavorava anche lei al centro di calcolo e tutti i fine mese aveva bisogno di compilare
dei moduli contabili, fare dei calcoli e stamparli. In pratica casa nostra era diventata una succursale
del centro di calcolo, ma solo per utilizzi “familiari”, se così si può dire.
Avevo quindi più tempo libero per le mie attività personali; non è che ci fosse da fare chissà che
cosa, anche perché pur avendo tutta la buona volontà spesso la maggior parte delle cose che volessi
fare mi erano impedite dalla mancanza di risorse. Per esempio c’erano tutte le finestre della casa da
pitturare; se avessi dovuto andare a comprare la vernice probabilmente sarei dovuto andare sino a
L’Avana, ma io la vernice l’avevo già perché con lungimiranza me l’ero portata dall’Italia con
quell’immenso “scatolone” da 1100 chilogrammi di cui ho già parlato nel primo capitolo. Mi misi
di buona lena e mi ci volle un bel po’ di tempo per finire il lavoro. Le finestre cubane, infatti, non
sono proprio finestre ma persiane; le finestre vere e proprie, quelle coi vetri, ce l’hanno solo le
meastose ville neocoloniali e qualche altro fortunato possessore. Va già bene che a Cuba ci siano
case e finestre per tutti, considerando che nel resto del continente c’è gente che non ha né l’una né
l’altra. Le case della maggior parte della popolazione hanno queste maledette persiane, composte da
otto o nove assicelle orizzontali orientabili con una maniglia dall’interno della casa. Io le odiavo,
per diversi motivi. Il primo è che non ti permettono di affacciarti: puoi guardare fuori mettendo il
naso tra due assicelle, ma non puoi per esempio spalancarle per sbattere la tovaglia sulla testa del
vicino del piano di sotto. Il secondo è che non sono né a tenuta stagna né a tenuta di vento; se
pioveva un po’ forte ti ritrovavi il salotto bagnato e se tirava vento non faceva praticamente
differenza stare dentro o fuori casa. Il terzo motivo è che non erano nemmeno a tenuta acustica e
questo comportava il fatto che io sapevo molti fatti degli altri e gli altri, presumibilmente, sapevano
molti fatti miei, di quelli che normalmente dovrebbero rimanere tra le quattro mura domestiche; e
certe sere quando avrei voluto dormire in santa pace dovevo invece sorbirmi il televisore del vicino
che stava guardando un film americano di serie B in lingua originale con sottotitoli in spagnolo a
volume insopportabile. Per quale motivo dovesse tenere il volume così alto non si è mai capito. E
poi l’inglese nemmeno lo sapeva! Avrei voluto aprire la finestra e tirargli un soprammobile, ma ciò
non era possibile proprio perché non c’erano finestre ma solo persiane. Il quarto motivo è che per
pitturarle bisognava smontarle completamente e ciò richiedeva pazienza e soprattutto tempo. Una
volta che hai smontato una persiana devi rimontarla prima di sera, se no ti tocca restare con la casa
praticamente aperta. Ero deciso a fare un lavoro ben fatto quindi smontai le persiane una per una,
per pulirle meglio. Gli amici e i parenti che passavano da casa nostra e mi vedevano con una
persiana smontata mi credevano pazzo:
- Ale, ma non c’è mica bisogno di smontarla! Puoi pitturarla ugualmente.
- Sì, ma io voglio pulirla, devo togliere i residui della vernice vecchia...
- Ah, io gli do la vernice nuova sopra l’altra! Fa lo stesso!
Secondo me non faceva lo stesso e quindi smontai tutte le persiane, le pulii, le pitturai e le
rimontai. Poi contemplai il mio lavoro ed ero molto soddisfatto. L’unico inconveniente fu che,
siccome non avevo un piano d’appoggio per lavorare, dovetti passare parecchie ore accovacciato a
terra. Non è una bella posizione: anche se non hai mai sofferto di emorroidi ci sono buone
probabilità che quella diventi la prima volta. E infatti così fu. Per diversi giorni non potei più
sedermi comodamente su una sedia. In casa ridevano a crepapelle; io ridevo un po’ meno. Già è
odioso soffrire di emorroidi in Italia, figurarsi a Niquero dove in farmacia non si trova quasi niente
(va bene, qualcosa si trova, ma niente che di solito ti serva in quel momento). Qualche buona anima
mi procurò una strana crema puzzolente; la applicai un paio di volte ma aveva veramente un odore
orribile che era un’offesa per il mio deretano e quindi rinunciai. Alla fine guarii lo stesso, ma
successivamente evitai accuratamente di assumere posizioni “pericolose”.
Un giorno venne Jorge a casa mia per parlarmi: mi disse che aveva avuto da Bayamo la risposta
alla mia lettera e confermavano che senza residenza non potevo lavorare. Va bene, aspetteremo la
residenza. Ma ormai il fatto di poter lavorare al centro di calcolo non era più tra le cose più
importanti della mia vita.
Inoltre qualcosa cominciò a risvegliarsi nella mia coscienza; mi stavo convincendo che ormai
qualcosa era fallito nella mia idea di vivere a Cuba. Tante idee, tante speranze, troppo ottimismo e
troppi intoppi. E poi, anche se avessi ottenuto il posto di lavoro, con uno stipendio cubano cosa
potevo aspettarmi dal futuro? C’erano migliaia di cubani che cercavano una vita migliore all’estero
perché con quello stipendio oggettivamente era impossibile sopravvivere e io cosa facevo?
Pretendevo di dimostrare il contrario? E infatti spesso mi sentivo a disagio, quando al centro di
calcolo parlavo con qualche collega o mi presentavano a qualche loro amico:
- Ti presento Ale, un italiano che è venuto a vivere qui e lavorerà con noi.
- Dall’Italia viene a vivere a Cuba?? - rispondeva sbigottito l’interlocutore sorridendo
ironicamente, nel migliore dei casi. Altre volte invece non rispondevano nulla e semplicemente mi
rivolgevano uno sguardo accusatorio e sprezzante allo stesso tempo. E ci credo! Se mi mettevo nei
suoi panni capivo benissimo cosa volesse dire trovarsi di fronte a uno che viene da un paese “ricco”
e che gioca a fare il “povero”. In effetti tutti sapevano benissimo o supponevano con ragione che io
in tasca avessi qualche migliaio di dollari e quindi per me i problemi comuni erano parecchio meno
critici che per loro. Io cercavo di rendermi il più possibile invisibile, ma non era facile. Ovunque e
comunque io ero uno straniero venuto da un paese ricco e quindi la maggior parte delle persone
della strada pensava che io dovessi assolutamente e obbligatoriamente sostenere un certo stile di
vita molto elevato. Così anche se cercavo di vivere modestamente e di non compiere azioni che
sicuramente avrebbero potuto irritare il prossimo mi trovavo, mio malgrado, sempre in una
posizione alquanto scomoda e sottoposto a continue critiche. Per la gente dovevo vivere come un
ricco, non era concepibile che andassi al supermercato come tutti gli altri a fare la spesa o alla
bodega a comprare lo zucchero con la libreta. E dove dovevo andare a fare la spesa? In Italia?
Quando andavo al supermercato mi mettevo in coda come tutti gli altri e subito cominciavano a
squadrarmi dalla testa ai piedi come se avessero visto un marziano. Poi qualcuno, gentilmente, mi
diceva: passi, passi avanti, lei è straniero e ha la priorità. Non c’è problema, rispondevo, aspetto il
mio turno. E mi rendevo conto che avevo creato più scompiglio adottando un comportamento che io
ritenevo onesto, che se avessi accettato di passare davanti a tutti. Infatti a quel punto sapevo che
molti mi odiavano, perché se fossero stati al posto mio sarebbero volentieri passati avanti, per
risparmiarsi una buona mezz’ora di tempo, che avrebbero potuto impiegare più efficacemente a casa
a preparare il pranzo o ad accudire i figli. Invece il mio primo posto non potevo neanche barattarlo:
come avrei potuto? Con quale criterio avrei dovuto scegliere a chi cedere il mio posto? Così restavo
lì in coda come uno scemo cercando di ignorare lo sguardo dei presenti e pentendomi di non aver
accettato di passare avanti per sparire al più presto.
Secondo i pettegolezzi correnti io avevo in casa un televisore per ogni stanza, mangiavo carne
tutti i giorni e in Italia avevo delle aziende molto produttive che mi permettevano di vivere di
rendita. Invece in Italia non avevo più niente, a parte una vecchia moto parcheggiata nel garage di
mio cugino e pochi soldi su un conto corrente, e quando ero partito per trasferirmi a Cuba avevo
portato con me circa tremila dollari che mi dovevano bastare fino al prossimo viaggio in Italia che
avevo in programma per fine giugno. E dopo?
Intanto da Bayamo la polizia mi fece sapere che il certificato penale era essenziale per ottenere la
residenza quindi in un modo o nell’altro dovevo procurarmelo. Mia sorella dall’Italia mi confermò,
durante una telefonata, che mediante una delega avrebbe potuto farselo rilasciare dalla procura e
inviarmelo per posta, ma aveva bisogno di una fotocopia della mia carta d’identità (di questa
difficoltà ho già parlato nel primo capitolo). Alla fine riuscii a fare la fotocopia e gliela inviai.
Si avvicinava il mese di giugno: avevo in programma di andare in Italia a far visita a mia madre
e mia sorella, usando parte dei pochi soldi che ancora mi erano rimasti. Di quale fosse la difficoltà
per tentare di prenotare un volo per l’Italia ho già parlato nel capitolo 3, quindi non starò a ripetere i
motivi per cui dovetti alla fine decidere di andare direttamente a L’Avana per sbrigare questa
faccenda. Mi accompagnò Angel, un nostro cugino. Facemmo il viaggio in treno da Manzanillo
senza problemi, il che non era poca cosa considerando che di solito il treno si rompeva almeno una
volta durante il tragitto. A L’Avana riuscii a prenotare un volo per il 25 giugno e il resto della mia
breve permanenza nella capitale sarebbe stato tranquillo, senonché pareva che oramai qualsiasi cosa
io facessi dovesse essere accompagnata da qualche brutta sopresa.
Era domenica pomeriggio e io e Angel, che eravamo ospiti a casa di sua sorella a Bahía,
decidemmo di andare a fare un giro a L’Avana Vecchia. Prendemmo l’autobus e scendemmo nei
pressi del Paseo del Prado. Di lì proseguimmo a piedi per San Rafael in direzione Vedado. Ad un
certo punto incrociammo due poliziotti che ci chiesero i documenti: io avevo lasciato il passaporto a
casa e quindi mostrai la carta d’identità italiana senza nessun problema. Angel mostrò la sua e
siccome non era dell’Avana gli chiesero il motivo della sua presenza nella capitale; in più era anche
disoccupato (sulla carta d’identità cubana c’era scritto di tutto!) e queste due condizioni sembrava
che fossero sufficienti per approfondire il controllo. Ci portarono dai loro colleghi vicino ad un
camion militare sul quale c’era scritto “Tropas Especiales”, qualcosa di simile al nostro Reparto
Celere e questo significava che nulla di buono stava per accadere. Controllarono di nuovo i
documenti parlando per radio con la centrale; nei miei confronti non c’era apparentemente nessun
problema, poi dopo aver controllato il documento di Angel ci dissero di andare verso la parte
posteriore del camion. Un altro agente ci disse: “Salite!”. “Dove andiamo?” chiesi stizzito. “Salite.”
ripeté insistendo. Salimmo sul camion e scoprimmo di essere in compagnia di altri sfortunati, che
avevano l’aria di essere lì già da un bel pezzo perché alcuni si lamentavano a voce alta: “...che io
vorrei sapere se è giusto che ti devono prendere così senza motivo...” diceva uno sui cinquant’anni.
Un altro, visibilmente preoccupato, tentava di sciogliere l’empasse in cui ci trovavamo tutti quanti:
“Adesso io devo sapere... Sergente! Sergente! Senta, abbia pazienza, mia moglie e mio figlio mi
stanno aspettando lì ai giardini... non sanno che sono qui.. Sia gentile... mi faccia avvisare... Mi
stanno cercando... Non potete trattenermi qui...” Niente da fare, il sergente scosse la testa con aria
molto seria e, senza dire parola, con un movimento della mano fece cenno di sedersi. Un altro
ancora, più rassegnato, stava tranquillamente seduto al suo posto con aria sorniona dicendo:
“Amico, da qui non ci muoveremo finché non lo dicono loro, puoi startene tranquillo li seduto...”.
Io e Angel ci guardavamo e non sapevamo che dire; non restava che aspettare. Dopo un quarto
d’ora circa cominciarono a chiamarci uno per volta e ci invitarono a scendere; il mio nome, però,
non venne pronunciato, per il semplice motivo che non dovevo essere tra quelle persone; infatti
quello che sembrava essere il comandante della situazione si stupì del fatto che io fossi salito
insieme agli altri, quindi chiamò uno degli agenti per rimproverarlo, si scusò con me e ci lasciarono
andare. Non ci avevo capito molto, perché nulla ci fu spiegato. Ma io una spiegazione l’avevo. Tutti
quelli che avevano fermato e che erano sul camion avevano almeno una caratteristica in comune:
erano di pelle nera. E sono sicuro che l’altra caratteristica era di non essere residenti o originari
dell’Avana. Era uscita da poco una legge che regolamentava, limitandola, l’immigrazione interna
dalle provincie orientali verso la capitale e quasi sicuramente si stavano facendo dei controlli
casuali sulla popolazione. Tutto legittimo, non si può negare, ma perché non dare spiegazioni? Poi questa legge mi sembrava proprio una fesseria: come si poteva pensare di porre dei limiti al
movimento migratorio interno della popolazione? Forse chi era orientale non aveva diritto di
cercare lavoro altrove? Il governo diceva che L’Avana non poteva sopportare una immigrazione
incontrollata. Problemi logistici, dicevano; l’approvigionamento di acqua potabile, luce, viveri da
distribuire con la libreta poteva collassare. Secondo me motivi poco convincenti. Mi sembrava
piuttosto una misura protezionista contro una possibile “invasione” di orientali gradita a pochi
(tranne quando c’era da assumere migliaia di poliziotti in una volta sola oppure costituire uno di
quei contingenti di lavoratori edili per far fronte a delle necessità improvvise: lavori che a L’Avana
pochi ambivano a fare). Poi di che si potevano lamentare a L’Avana se di viveri con la libreta ne
ricevevano più di noi che stavamo a Oriente? E’ chiaro che se uno vive in un villaggio sperduto in
una provincia orientale in cui non c’è lavoro (e da mangiare ancora meno) prima o poi decide di
tentare l’avventura altrove, dove c’è più benessere. E a L’Avana di benessere ce n’era parecchio
rispetto al resto del paese.
Per esempio avevo creduto fino allora che la libreta garantisse un minimo uguale per tutti,
dappertutto. Non era così. Nella capitale si consegnavano quantità di piselli secchi esagerate, da far
venire la nausea. Infatti gli avaneri che conoscevo ne avevano delle scorte incredibili; non li
mangiavano nemmeno più perché erano stufi di minestra di piselli, piselli in umido, ecc. Stessa cosa
per quanto riguardava le patate. Quintali e quintali di patate rimanevano letteralmente a marcire nei
mercati statali, perché la gente ne era stufa. Noi a Niquero non vedevamo patate e piselli da mesi.
Non solo: si narrava di camion statali targati Habana che venivano a caricare cipolle da destinare al
mercato della capitale. Superfluo dire che noi non vedevamo cipolle. E un giorno sul quotidiano
Granma comparve un comunicato a mezza pagina del ministro della difesa Raul Castro, il quale si
rammaricava per la situazione dei mercati statali della capitale, dove quintali di patate marcivano
quotidianamente, e rimproverava i responsabili dell’accaduto; bene, pensavo, meno male che
qualcuno se ne è accorto. Peccato che lui avesse a cuore questa situazione solo perché centinaia di
militari dell’esercito erano stati impiegati nell’agricoltura per aumentare la produttività e ciò gettava
fango sull’immagine dell’esercito; del fatto, invece, che noi ad Oriente non ricevessimo quasi niente
non era cosa che lo scandalizzasse più di tanto. Ma evidentemente il mio punto di vista era diverso
dal suo.
Tornai a Niquero e dopo pochi giorni ricevetti una lettera da mia sorella dall’Italia con il mio
certificato penale. Finalmente potevo completare la pratica della residenza. Eravamo ormai ai primi
giorni di giugno ed erano passati sei mesi dal mio arrivo, durante i quali erano successe tante cose
che non avevo nemmeno lontanamente immaginato. Avevo la sensazione di essermi messo in un
vicolo cieco, per di più a senso unico: un muro davanti e nessuna possibilità di tornare indietro. Non
mi è mai piaciuto tornare indietro sui miei passi; se devo superare un ostacolo preferisco andare
avanti e tentare di tutto fino a superare anche l’ultima difficoltà. Ma questa volta sembrava
veramente che al di là del muro non ci fosse nulla. Allora che fare? Un giorno Maribel mi fece una
proposta: vivere tra l’Italia e Cuba. Conosceva una ragazza cubana sposata anche lei con un italiano
e vivevano sei mesi in Italia e sei mesi a Cuba. Come facessero sinceramente non lo so e mi
sembrava abbastanza complicato. Dovevo pensarci, non era una cosa facile. In che casa avremmo
abitato in Italia e come avremmo pagato l’affitto nei mesi in cui stavamo a Cuba? E di che lavoro ci
saremmo mantenuti?
Andai a Bayamo a consegnare il certificato penale per avere finalmente in cambio la carta
d’identità. Mentre attendevo in sala d’attesa mi misi a leggere degli avvisi nella bacheca; uno era
rivolto agli stranieri residenti permanenti (cioè la categoria alla quale sarei appartenuto di lì a pochi
minuti) e diceva pressappoco così:
“Gli stranieri residenti permanenti nel territorio cubano che debbano effettuare viaggi all’estero
saranno equiparati ai cittadini cubani, quindi dovranno richiedere presso questi uffici il Permesso
d’Uscita e corrispondere l’importo relativo di 150 dollari”.
Forse non avevo letto bene, anche perché l’inchiostro era un po’ sbiadito. Rilessi con calma ma
mi resi conto di non essermi sbagliato. Mi voltai verso gli uffici, stavo per prendere la rincorsa per
correre dietro al mio certificato penale e tutto il resto, avrei voluto gridare: “Fermaaaaaa!!!!” ma
proprio in quel momento comparve l’ufficiale con la mia carta d’identità in mano: “Ecco a lei.
Complimenti! Adesso è un residente permanente!”. Così nel vicolo cieco a senso unico in cui ero
finito si chiuse dietro di me anche una cancellata alta sei metri di cui non si sapeva chi avesse le
chiavi. Le settimane seguenti furono impiegate per trovare le “chiavi” della cancellata.
Mi recai agli uffici di immigrazione di Manzanillo per richiedere il Permesso d’Uscita. Di solito
il rilascio di questo documento richiedeva trenta giorni, quando andava bene. Io avevo il volo il
giorno 25 giugno e non ce l’avrei sicuramente fatta. Così dovetti pure telefonare a L’Avana
all’agenzia viaggi per spostare la prenotazione. Telefonare era un’impresa estenuante, perché non si
riusciva mai a prendere la linea. Il giorno 20 riuscii a parlare con qualcuno dell’agenzia e mi
confermarono che si poteva spostare la data ma avrei dovuto richiamare il giorno 24. Richiamai il
giorno stabilito ma rispose un’impiegata che non sapeva nulla del mio biglietto. Il giorno seguente,
quello della partenza, chiamai di nuovo senza speranza, perché pensavo di aver perso biglietto e
soldi, invece per fortuna si risolse tutto bene ed ottenni una nuova prenotazione per il 6 luglio.
Qualche giorno dopo un agente dell’ufficio di immigrazione venne a casa nostra a chiedermi il
passaporto, poiché a Bayamo si erano dimenticati di metterci un timbro. Ci mancava pure questa!
Non avevo nessuna voglia di darglielo perchè temevo che poi non me l’avrebbero restituito in
tempo. D’altra parte non avevo alternative e dovetti rassegnarmi a consegnarglielo. Così il mio
passaporto stava chissà in quale ufficio, il Permesso d’Uscita doveva essere rilasciato chissà da chi
e chissà quando e il mio volo partiva il 6 luglio. Inoltre dovevo ancora prenotare il pullman da
Niquero a Manzanillo e il treno da Manzanillo a L’Avana. Solo una straordinaria coincidenza
avrebbe potuto far sì che tutte queste cose andassero a buon fine nell’ordine esatto.
Intanto Maribel stava aspettando la mia risposta alla sua proposta di vivere tra Cuba e l’Italia.
Ora avevo le idee chiare. Non era facile avere le idee chiare in quella situazione, ma ad un certo
punto capii che per me vivere a Cuba non avrebbe mai funzionato, perlomeno non nel senso in cui
lo intendevo io fin dall’inizio. Forse il motivo fondamentale fu un mio errore di valutazione nel
pensare di poter vivere come un cubano. Non era possibile. Al massimo, se fossi stato molto ricco,
avrei potuto vivere di rendita e riuscire anche a stare alla larga dalle trappole burocratiche (sapevo
che c’erano alcuni stranieri che facevano così), ma tutto sommato non so nemmeno se mi sarebbe
piaciuto. Non era la vita che cercavo io in un paese povero e meno che mai a Cuba; pensavo di
riuscire a entrare a far parte di quel paese in cui il sogno socialista rende tutti uguali con stessi
doveri e stessi diritti per tutti, in cui tutti partecipano nella vita comune, in cui ci si sente uniti da
un’identità comune indipendente dalla propria nazionalità, sia essa cubana o italiana, ma invece mi
rendevo conto che se dalla mia parte c’era tutta la buona volontà dall’altra parte c’era un muro di
gomma. Avevo la sensazione (anzi, quasi la certezza) che per gli stranieri quel mondo fosse
proibito. Una voce lontana sembrava dirmi che per Cuba e per i cubani sarei stato molto più utile
lavorando nel mio paese, venendo qui solo per trascorrere le vacanze, piuttosto che lavorare nel
centro di calcolo di Niquero.
Oltre tutto i miei tremila dollari prima o poi sarebbero finiti e senza poter lavorare e accedere alle
novità tecnologiche del mondo informatico in continua e rapida evoluzione anche la mia
preparazione professionale sarebbe presto diventata obsoleta. Pensavo quindi che tornare a vivere e
lavorare in Italia fosse la decisione più saggia. Dovevo ammettere la mia sconfitta. Mi feci coraggio
e lo dissi a Maribel, un pomeriggio che andammo a fare il bagno al mare. Pianse e mi disse
rassegnata: “Lo immaginavo che sarebbe finita così.”. Decidemmo di trasferirci tutti e due in Italia:
non sapevamo se avrebbe funzionato, ma era l’unica alternativa che ci era rimasta per continuare a
vivere insieme.
Per prendere il treno Manzanillo-L’Avana ebbi un colpo di fortuna (o una raccomandazione,
dipende dai punti di vista): un nostro parente mi procurò un posto che normalmente era riservato ai
membri del Poder Popular di Niquero per i viaggi di lavoro: partenza il 3 luglio. Andai poi alla
stazione degli autobus di Niquero per prenotare un passaggio fino a Manzanillo, ma non c’era posto
per quel giorno. Dagli uffici di immigrazione di Manzanillo, nel frattempo, mi avvisarono che
potevo andare a Bayamo il 2 luglio a ritirare il Permesso d’Uscita. Il primo luglio tentai ancora alla
stazione di autobus di Niquero di trovare un posto, ma senza successo.
Il 2 luglio andai a Bayamo con la moto di Nestor. Ritirai il passaporto, pagai i 150 dollari e ritirai
il Permesso d’Uscita. A Niquero riuscii anche miracolosamente a trovare un posto sull’autobus per
il giorno seguente. Tutto a posto, quindi; le coincidenze erano avvenute tutte nel momento giusto.
Speravo comunque ardentemente che non ci fossero novità dell’ultimo minuto, perché sicuramente
non sarei riuscito a sopportare ulteriori sorprese. Ma mi sbagliavo.
L’autobus per Manzanillo mi lasciò davanti alla stazione del treno. Ero parecchio in anticipo,
perché la partenza era prevista in tarda serata. Quando arrivò il convoglio capii che c’erano dei
problemi abbastanza seri, poiché parecchia gente si stava agitando e chiedeva spiegazioni al
personale della stazione. Ci informarono che il giorno prima un vagone non era partito a causa di un
guasto e 86 persone erano rimaste a terra:
- Oggi la priorità è per gli 86 di ieri che non sono partiti. - annunciò l’altoparlante. - Tutti quelli
che hanno una prenotazione per missione ufficiale del Poder Popular, Partito e simili possono
andare a casa e tornare domani.
Tornare domani? E stasera chi mi riporta a Niquero? E se poi non parto nemmeno domani? No,
non potevo restare impotente. Andai negli uffici della direzione e cercai di far presente la mia
difficoltà, dicendo che avevo un volo per l’Italia per il giorno seguente. Era una balla, naturalmente,
perché il mio volo era due giorni dopo, ma ero ormai disposto a qualsiasi cosa pur di mettere fine a
questo stillicidio. Purtroppo non mi diedero molte speranze.
- Si metta a sedere in sala d’attesa, vedremo cosa possiamo fare.
Molti vennero mandati a casa. Gli altri cominciarono a salire sul treno già pronto sul binario di
partenza. Passò parecchio tempo e piano piano la sala d’attesa si svuotò. Rimanemmo solo io e un
altro ragazzo. Pensavo ai turisti italiani di Varadero, di Cayo Largo, di Guardalavaca, immersi nella
loro finta realtà in cui tutto è bello e possibile e a portata di mano, alle loro auto targate TUR
alimentate con tutta la benzina che desiderano e che possono comprare in qualsiasi distributore
CUPET tirando fuori una carta di credito, ai loro pullman e treni che non si rompono mai, al buffet
del loro hotel in cui non mancano mai uova e carne di qualità, ai ragazzi e ragazze cubane che
hanno conosciuto nei villaggi turistici e che li hanno fatti divertire da mattino a sera nelle discoteche
e nelle camere da letto con aria condizionata al riparo dalle orde di zanzare e dagli apagones, ai loro
amici in Italia ai quali racconteranno la loro vacanza a Cuba dicendo: “Bellissimo, stupendo, ci
andrei a vivere subito!”. E invece la nostra vita quotidiana, quasi invisibile allo sguardo dei turisti,
si svolgeva nella coda alla bodega o al mercato, in cucina a pulire il riso e ad accendere il fornello
con l’alcol e il kerosene, quando c’era, oppure con il carbone o con la legna, si svolgeva nelle notti
buie durante un apagon, in una coda per la strada aspettando un passaggio d’autobus che non si sa
se mai arriverà, in un locale notturno di periferia dove non si riusciva mai ad entrare perché
mancava la luce e quando c’era la luce mancava il rum, si svolgeva nelle serate del vicino davanti
alla tv guardando la telenovela, mentre nel tuo cortile i ladri approfittavano della tua assenza per
portarti via il maiale o i pantaloni stesi ad asciugare.
Si svolgeva anche in una remota e buia stazione del treno alle dieci e mezza di sera di fronte a un
altro sfortunato sperando, malignamente, che nel caso fosse rimasto solo più un posto sul treno
toccasse a lui la malasorte di restare a terra. Invece alla fine, per fortuna, ci chiamarono tutti e due e
ci fecero salire in tutta fretta sul convoglio che due minuti dopo partì portandoci lontano.

CONTINUA
el mono loco
00venerdì 29 maggio 2009 22:55
Re: Re: Re: Re: Re:
aston villa, 29/05/2009 8.06:



Tutto vero,la scelta anche a me e' parsa un po' avventata,15 anni fa d'altronde non c'erano le informazioni di cui possiamo disporre oggi anche grazie a forum come questo,oggi se devi fare un documento,chiedi qua' come e dove farlo e ti porti avanti col lavoro,allora era davvero un casino....






Infatti. Capisco la scarsa informazione, ragione in più per non fare questo passo.

Cmq oggi nonostate i forum, come dici giustamente te, c'è gente che ancora crede in sto mito ......... poi capisco come mai dei problemi nel mondo............mah
el mono loco
00venerdì 29 maggio 2009 22:58
Re:
beboroma, 29/05/2009 10.33:


Poi ripeto, io non capirò mai stà mania di vivere a "LO CUBANO":

riprendo questo passaggio del post del monoloco solo per dire che io ci vivrei a "Lo cubano" ma di quelli che conosco con tanto di mega case e di agiatezze meglio di come vivo io a Roma.

Colgo l'occasione riguardo al post relativo al tetto della casa visto che ci sono passato da poco, praticamente, rispetto al 1995, non e' cambiato un cazzo salvo l'aumento dei prezzi....per il resto o cosi' o pomi'.....a buon intenditor




Vostro Onore non altro da aggiungere [SM=x1543720]

Secondo me c'è gente che confonde Kuva con le Bahamas [SM=x1496801]
aston villa
00sabato 30 maggio 2009 23:16
Pepe, il marinaio[/

Il 6 luglio ho il volo per l’Italia con partenza da Varadero, anziché da L’Avana e ciò mi crea
delle scomodità perché l’aeroporto di Varadero non è a portata di mano. Frank mi aveva prenotato
alcune settimane fa un posto sul pullman di linea che collega L’Avana con Varadero (circa tre ore
di viaggio): il costo del biglietto è irrisorio (6 pesos) ma per procurarselo bisogna fare una coda
spaventosa tra gente che grida e spinge, e così il povero Frank che soffre di ulcera cronica,
lombaggine e artrite, per evitare tanta disumana ferocia aveva deciso di optare per una soluzione più
alla “cubana”, ovvero contattare la cassiera fuori dall’orario d’ufficio, pagarle un dollaro e chiederle
di emettere, con tutta tranquillità e quando ne avesse il tempo, un biglietto L’Avana-Varadero da
ritirare poi con comodo.
L’unico aspetto negativo, almeno per ora, è che il suddetto pullman parte alle 4 del mattino,
perché quello delle 7 è già tutto occupato: il 6 luglio, infatti, è un sabato e molti avaneri sono soliti
trascorrere il fine settimana a Varadero. Il mio aereo parte alle 17, quindi dovrò stare parecchio
tempo all’aeroporto, facendo cosa... non si sa.
Alle 4 del mattino i mezzi pubblici a L’Avana non circolano ancora, così sono dovuto uscire da
casa di Frank alle 11 della sera per recarmi alla stazione dei pullman interprovinciali e aspettare lì.
A Cuba si passa sempre molto tempo aspettando qualcosa o qualcuno: le prime volte uno s’incazza,
poi ci si fa l’abitudine e l’attesa diventa normale, anzi certe volte è proprio nell’attesa che
succedono altre cose; sembra quasi che vengano apposta per movimentare un po’ la monotonia e la
noia in cui uno inevitabilmente cade. Mi immagino i miei amici in Italia quando mi vedranno:
- Allora, come va? Cosa hai fatto in questi mesi a Cuba?
- Mah, aspettavo...
- Come sarebbe?
- Aspettavo della gente...che succedessero delle cose...Andavo a fare la spesa e aspettavo delle
mezze ore in coda, oppure quando dovevamo andare a Bayamo aspettavamo alcune ore qualche
mezzo di fortuna. L’altra sera hanno tolto la luce e abbiamo dovuto aspettare due ore prima che
tornasse...
- I tuoi documenti, come vanno?
- Sto aspettando che mi diano la residenza...
- E il telefono? Ve l’hanno installato?
- Non ancora, abbiamo fatto già la domanda sei mesi fa, stiamo aspettando che ce lo mettano...
Stavo dicendo che sono dovuto uscire da casa di Frank alle 11 di sera per poter prendere uno
degli ultimi autobus per il centro. Ci salutiamo e mi dà alcune lettere da consegnare a degli amici di
Torino e infine non dimentica di farmi un raccomandazione riguardo a dei sigari che mi ha
procurato tramite un suo amico:
- Se alla dogana ti dovessero chiedere qualcosa, dì loro che li hai comprati per la strada: non dire
che te li ha dati un amico, se no potremmo finire tutti nei guai perché c’è molto controllo rispetto al
commercio illegale dei sigari.
- D’accordo, non ti preoccupare.
Mi dirigo verso la fermata dell’autobus urbano che dista circa trecento metri da casa di Frank e
trovo già un bel po’ di gente. Chiedo chi è l’ultimo e poso a terra le mie due pesanti valigie. Passano
i minuti, la gente aumenta e gli autobus passano sempre più di rado: ovviamente quello che serve a
me, il 190, tarda ad arrivare. Si fanno le 11 e mezza, le 11 e 45, mezzanotte! Ormai ci sono già una
trentina di persone che aspettano quando ecco all’orizzonte arrivare un Camello: la gente tira un
sospiro di sollievo e si agita per potersi stipare dentro questo mezzo mandato da qualche divinità
superiore. Peccato che a me e a pochi altri sfortunati non serva.
Qualcuno va via con un taxi stracolmo, altri vengono raccolti da amici che casualmente
passavano di lì in macchina.
Dopo poco sbuca da una via laterale un altro autobus, aguzzo la vista per leggerne il numero ma
non è il 190: si porta via i pochi derelitti che stavano aspettando...meno uno, cioè io. E’ già
mezzanotte e mezza e sto disperando di potere vedere arrivare l’autobus che mi trarrà in salvo,
anche perché sto cominciando a temere per la mia incolumità: è vero che qui siamo in un quartiere
residenziale e quindi non c’è molta delinquenza notturna, però gironzolare di notte per zone poco
frequentate e con dei bagagli è sconsigliabile anche se ci si trova a L’Avana.
Un cagnolino impaurito e affamato mi si avvicina e trova riparo tra i miei bagagli: si aggomitola
e si addormenta lasciando che le sue pulci balzino agevolmente dal suo pelo verso le mie borse.
Poi un tipo si avvicina alla fermata:
- Stai aspettando il 190?
- Sì.
- Allora sono dopo di te. - dice sedendosi accanto a me. - Vai alla stazione dei pullman?
- Sì.- ripeto, cercando di troncare il dialogo.
E’ un uomo sui quarant’anni, snello ma dal fisico forte, la testa quasi pelata; quando parla mi
guarda solo per un istante, poi rifugge con lo sguardo verso un’altra direzione. Sono un po’ nervoso
perché immagino che si tratti del solito profittatore-rompiballe, di quelli che nelle zone centrali se
ne trovano ad ogni cento metri, e quando capiscono che sei un turista straniero non ti mollano più,
raccontandoti metà della loro vita, dicendoti che hanno una cugina sposata con un italiano, che la
vita a Cuba è difficile, che l’Italia è un bel paese, che conoscono Toto Cutugno e Albano e Romina,
i Ricchi e Poveri e Nicola di Bari, che se vuoi comprare dei sigari loro ne hanno a poco prezzo; altri
invece vanno direttamente al sodo chiedendoti in regalo un dollaro o un capo d’abbigliamento.
Questo, invece, che tipo sarà da trovarsi a quest’ora in una desolata fermata d’autobus?
- E’ da molto che aspetti? - mi chiede.
- Più di un’ora.
- A quest’ora è difficile.... Anch’io vado alla stazione dei pullman, vado a prendere mio fratello
che deve arrivare da Matanzas. Di dove sei? Cileno?
- No, italiano.
- Ah, italiano...parli così bene spagnolo che credevo fossi sudamericano.
Si avvicina un barbone con una lattina di birra in mano (e cinque o sei nello stomaco),
barcollando farfuglia qualcosa che non si capisce, ci offre da bere, ma cortesemente rifiutiamo;
allora chiede dei soldi e il mio vicino, per liberarsene, gli dà qualche spicciolo poi lo saluta per far
sì che se ne vada.
- Certa gente si rovina la vita con l’alcol. - mi dice - Io bevo pochissimo e non fumo: bere troppo
e fumare fa male alla salute. Così tu sei italiano... Io mi chiamo Pepe - e mi dà la mano
presentandosi.
- Alessandro. - rispondo.
- Ci sono stato una volta in Italia, a Genova. Faccio il marinaio su una nave mercantile... ho
girato parecchio. L’Italia deve essere bella. Francia e Spagna le conosco di più, ci sono stato un
sacco di volte, abbiamo toccato parecchi porti.
- Sì, viaggiare è una bella cosa, si vedono cose nuove, si conosce molta gente.
- Sei in vacanza qui a Cuba?
- No, vivo qui. Mi sono sposato con una ragazza cubana e mi sono trasferito qui.
- E adesso vai da lei?
- No, sto partendo per l’Italia: ho il volo da Varadero domani. Vado a trovare i miei.
- Ah, stai partendo! Credevo fossi arrivato ora. Però, Alessandro, non dovresti girare da solo a
quest’ora: è pericoloso, c’è brutta gente in giro, ti possono derubare delle borse. Comunque adesso
ti aiuto io, anch’io devo andare alla stazione dei pullman, andiamo insieme così in due non c’è
pericolo.
Non ho ancora capito chi è in realtà questo Pepe: a vederlo così sembra sincero, però meglio
tenere gli occhi aperti e non fidarsi troppo. E’ brutto essere diffidenti verso chi offre la propria
disponibilità, ma in questo momento sono in condizione di netta inferiorità strategica, quindi mi
sembra opportuno stare all’erta. E poi con il mio fisico mingherlino non posso certo competere con
un marinaio!
La fermata comincia a popolarsi di nuovo di gente quando ecco giungere un altro autobus,
guardo il numero e...190! Finalmente! E’ l’una meno venti quando saliamo. Nel frattempo si era
fatta un po’ di coda, ma noi siamo i primi: Pepe prende la borsa più grande ed io l’altra più lo
zainetto.
- Sono poche fermate, poi bisogna fare un pezzo a piedi. Non ti preoccupare, ti avviso io,
conosco bene la strada. Vedi Alessandro, bisogna stare attenti perché adesso qui sull’autobus va
tutto bene, ma in strada è pericoloso, non bisogna mai girare soli di sera tantomeno con delle
borse...
Nel suo parlare a raffica ripete due o tre volte le stesse cose, probabilmente senza rendersene
conto.
- Comunque di me ti puoi fidare, te l’ho già detto, puoi considerarmi un amico. Guarda, se non
credi a ciò che ti ho detto... - estrae dalle tasche il portafogli e mi mostra il tesserino di marinaio -
...vedi? Lavoro nella marina mercantile.
In effetti sembra tutto regolare e mi ha quasi convinto della sua lealtà disinteressata. Scendiamo
dall’autobus e percorriamo un tratto di strada semideserta e buia.
- Vieni! Da questa parte! Dobbiamo fare il giro di là e siamo arrivati. Vedi Alessandro, se dovevi
venire da solo qui magari incontravi qualche malintenzionato...- Si ferma un istante per raccogliere
un bastone di legno - Con questo però non c’è pericolo, meglio essere preparati.
Comincio ad essere preoccupato di essere caduto in una trappola: magari adesso aspetta il
momento opportuno, mi tira una sventola con il bastone e mi deruba di tutto. E io cosa faccio? Odio
la violenza fisica, specialmente quando viene esercitata su di me! Ma no non può essere così facile
come in un film: calma, stiamo calmi. Per il momento mi tengo a debita distanza e lascio che sia lui
a fare strada. Dobbiamo scendere per una strada che fa un’ampia curva costeggiando un boschetto
prima di arrivare alla meta finale, la stazione dei pullman, che da qui non si vede ancora.
- Vieni, tagliamo per di qua - propone Pepe imboccando il boschetto dove lo sguardo si perde nel
buio. E qui l’adrenalina mi sale fino al cervello: dalla parte opposta stanno salendo due individui,
forse suoi complici! Magari adesso mi aggrediscono tutti e tre! Cosa faccio? Pepe continua a
camminare con la mia borsa in mano, non si è accorto che non lo sto seguendo ma mi sono bloccato
alcuni metri dietro di lui. La mia borsa! penso disperato. Poi Pepe rapidamente si volta, torna
indietro e dice:
- Meglio cambiare strada. Perché rischiare proprio adesso? Meglio allungare un po’ il cammino
che mettersi in quest’oscurità. E’ fino adesso che ti sto mettendo in guardia sui pericoli e stavo per
commettere io un’imprudenza!
Arriviamo finalmente alla stazione dei pullman che, però, è ancora chiusa perché apre alle due di
notte. Fuori c’è parecchia gente che aspetta:
- Dobbiamo aspettare un po’ qui, sediamoci intanto. Ormai non c’è più pericolo - dice. Povero
Pepe: l’avevo proprio giudicato male.
Chiaccheriamo un po’ lì fuori, mi dice che sta facendo qualche settimana di vacanza, poi partirà
di nuovo, sempre verso paesi stranieri, starà via qualche mese. Quando non è in viaggio è ospite a
casa di sua zia in Centro Avana: mi dà anche il suo numero di telefono e mi dice di chiamarlo la
prossima volta che passerò di qui. Gli chiedo se è sposato e mi dice che lo è stato, ma poi lei lo ha
lasciato. Mi chiede se abbiamo figli e gli rispondo di no. Neanche lui ne ha: dice che se un genitore
non può dedicare il proprio tempo per allevare i figli è meglio non averne. E lui, con il suo lavoro,
di tempo non ne ha proprio.
Si aprono i cancelli della stazione e ci avviamo verso l’ingresso:
- Adesso devi fare il check-in dei bagagli, poi devi passare in sala d’attesa e aspettare fino a
quando annunciano la partenza. Vieni, ti aiuto io.
- Ci sarà una caffetteria? Ti offro qualcosa da bere...
- Sì, ci deve essere, ma prima fai il controllo del biglietto e dei bagagli.
Effettuato il check-in come all’aeroporto ci dirigiamo verso la sala d’attesa:
- Ecco, siediti qui e aspettami - mi ordina.
Poco dopo arriva con un caffé:
- Non è molto caldo, ma è l’unica cosa che avevano.
-.Ma tu cosa prendi?
- No, non ti preoccupare. Non voglio nulla. Beh, Alessandro, ti devo salutare: vado dall’altra
parte, mio fratello starà per arrivare. Adesso ti puoi riposare un paio d’ore: fai buon viaggio e se
passi da L’Avana chiamami. Stammi bene.
Mi stringe forte la mano e si allontana a passo deciso, fiero di avermi accudito fino lì, come un
padre che il primo giorno di scuola accompagna il proprio bambino fino all’ingresso, assicurandosi
che tutto sia a posto. Per alcuni minuti non riesco nemmeno ad alzarmi dalla sedia, quasi temendo
che Pepe possa ricomparire sgridandomi per avere contravvenuto alle sue raccomandazioni. Poi,
però, mi rendo conto che con ogni probabilità non lo rivedrò mai più e mi sento un po’ colpevole
per averlo trattato inizialmente con tanta freddezza.
Mi alzo e vado a sedermi da un’altra parte, cerco una posizione un po’ più comoda e alla fine mi
addormento.

CONTINUA...
aston villa
00martedì 2 giugno 2009 09:43
Intrigo internazionale
Alle quattro del mattino comincia ad esserci un po’ di movimento nella stazione dei pullman
dell’Avana. Finalmente si apre l’accesso ai pullman e si parte. Non riesco a dormire, ma le
poltroncine sono abbastanza comode.
Poco dopo sorge il sole e il cielo è già chiaro quando ci fermiamo alla stazione di Matanzas,
ridente località che sorge in una deliziosa baia. Approfitto della sosta per ricordare al conduttore di
farmi scendere all’aeroporto di Varadero: Frank mi aveva assicurato che c’era una fermata
obbligatoria, ma meglio assicurarsi preventivamente. Meno male, infatti, che mi è venuto in mente
di farlo, perché quando giungiamo al bivio dell’aeroporto, alle sette circa, sono l’unico a scendere,
sotto lo sguardo stupito degli altri passeggeri e dell’autista. Poi il pullman riparte e si allontana
rapidamente su questa autostrada semideserta.
Mi guardo intorno e mi sembra di essere Cary Grant nel film “Intrigo internazionale” in quella
scena in cui si trova da solo in mezzo alla strada nel deserto quando viene attaccato da un piccolo
aereo da turismo e allora per sfuggire agli spari comincia a correre e si nasconde in un campo di
mais. Spero che non succeda anche a me la stessa cosa, perché qui vicino non vedo campi di mais.
Dal bivio parte una stradina secondaria che si inerpica su per una collina e scompare dietro ad
essa subito dopo: oltre non si vede più nulla e così metto a frutto la mia immaginazione per capire
dove sarà l’aeroporto. Il mistero è subito svelato quando l’occhio mi cade su un cartello che dice:
“Aeropuerto 6 km”.
Dopo alcuni istanti di sgomento mi riprendo e mi metto ad aspettare che passi qualcuno per
chiedere un passaggio. Purtroppo, però, in questa zona sembra che nessuno faccia particolarmente
caso ad un povero turista solitario pieno di borse, dato che le poche auto che svoltano da questa
parte per poco non mi portano via la mano che sto agitando. Per non parlare dei pullman
granturismo che trasportano tonnellate di turisti organizzati del tipo “tutto-compreso”.
Arrivano a piedi alcune donne e uomini con l’uniforme blu (devono essere i dipendenti
dell’aeroporto) e anche loro si fermano lì vicino con l’intenzione di chiedere un passaggio. Mi sento
un po’ meglio, se non altro perché sono il primo della lista d’attesa. Ma mi rendo subito conto che
nella mia lista d’attesa ci sono solo io: infatti le auto che passano di qui si fermano, caricano i
passeggeri e ripartono ignorandomi completamente. Mi pare di capire che c’è una convenzione
locale della quale non faccio parte.
La stessa cosa si ripete un paio di volte e quindi capisco definitivamente che anche se rimango lì
tre giorni nessuno mi darà mai un passaggio. Così alle otto circa raccolgo le mie borse e mi metto in
cammino: anche fermandomi più volte per riposare, in due o tre ore dovrei arrivare all’aeroporto, e
siccome il volo è previsto per le 17 posso andare con tutta tranquillità.
La strada è in leggera salita, ma non è faticosa: un rettilineo lunghissimo che arriva in cima ad
una collina. Ogni tanto sento il rombo di un’auto che arriva da dietro, ma ormai non ci faccio più
caso. E invece ecco che una si ferma:
- Salga, le do un passaggio! - mi dice il tipo a bordo di una piccola jeep scassata.
Non posso crederci, forse sto sognando. Comunque salgo, la macchina si muove effettivamente e
quindi deduco che non è un miraggio.
- L’aeroporto è lontano. Non aveva mica intenzione di farsela tutta a piedi?
- Beh, non avevo scelta...piano piano ci sarei arrivato.
Il tipo è cordiale e amichevole (meno male: una nota felice in una mattinata tanto difficile).
- E’ venuto in vacanza a Cuba?
- Sì - tralascio di raccontargli tutta la mia storia perché sarebbe troppo lungo, così gli lascio
credere di essere un normale turista. - Dovevo partire da L’Avana ma non c’era posto. E lei?
Lavora all’aeroporto?
- Sì, nella zona carico merci.
In cinque minuti arriviamo a destinazione.
- Buon viaggio! Magari ci si rivede dentro l’aeroporto...
- Sì! Grazie del passaggio, senza di lei non so come avrei fatto.
Mi incammino verso la sala d’aspetto e cerco una soluzione al problema più grande che mi resta
ora da affrontare: far passare il tempo. Per il momento la prima cosa che mi viene in mente è
sempre la solita: sedermi ed aspettare (anche perché in una sala d’aspetto, come dice il nome, non è
che si possa fare altro).
Intanto osservo il via vai di turisti: pullman che arrivano, aerei che partono... Sono l’unico essere
umano che non è coinvolto in nessuno di quei branchi.
Rifletto un po’ sugli ultimi mesi trascorsi, all’entusiasmo che avevo quando ero partito dall’Italia
e alle cose successe qui. Insomma, mica me l’ero inventato io di essere assunto nel centro di
calcolo, mi avevano chiamato loro! Poi si scopre che a causa di varie trappole burocratiche non
posso essere assunto subito; lavoro pure gratis, volontariamente, ma non ho diritti come gli altri; la
direzione tergiversa ed evita accuratamente di entrate in contatto con me. A tutto ciò si aggiungono
la difficoltà di movimento, di comunicazione e infine anche quella di rendere compatibile lo status
di residente cubano con quello di cittadino italiano: per uscire da Cuba e tornare per qualche
settimana nel mio paese devo chiedere il permesso alla polizia locale, pagare dei quattrini e
attendere settimane! Semplicemente pazzesco. Mi sembra di essere l’agrimensore K. nel romanzo
“Il castello” di Kafka: spero di non fare la stessa drammatica fine. Lasciamo perdere: l’importante è
che, dopo tanto correre di qua e di là per fare e disfare documenti, ora sono qui all’aeroporto, pronto
a partire. Non può succedere più nulla di angosciante: al massimo l’aereo potrebbe essere in ritardo
o potrebbero annullare il volo o potrebbe esserci qualche problema di overbooking, ma sono cose
che succedono normalmente negli aeroporti e penso di esserci psicologicamente preparato. Quando
arriverò in Italia dovrò fare i documenti per Maribel: bisognerà correre ancora per vari uffici, ma
sarà sicuramente meno stressante che qua.
Ad un certo punto di fronte a me si siedono due donne sui cinquant’anni, presumibilmente delle
dipendenti dell’aeroporto. Chiaccherano tra loro e dopo un po’ una si alza e se ne va mentre l’altra
attacca bottone con me:
- Hai l’ora per favore? - mi chiede.
- E’ quasi mezzogiorno.
- Sei argentino?
Negli ultimi tempi mi hanno scambiato per cileno, spagnolo, argentino, meno che per italiano:
segno che mi sono mimetizzato abbastanza bene...
- No, sono italiano.
- Ah, italiano. Però parli bene lo spagnolo! - (come se per rispondere che ora è bisognasse avere
la laurea in letteratura ispano-americana!).
- E’ che mia moglie è cubana. - spiego.
Così cominciamo un dialogo abbastanza amichevole, nel quale racconto un po’ della mia storia.
La tipa si dimostra sorpresa e allo stesso tempo entusiasta di sentire le mie parole, anche perché mi
dice di essere stata una combattente durante la guerra di liberazione e quando le dico che anche mio
suocero lo è stato va in estasi. Quando la sua collega ritorna le fa un riassunto di tutto quello che le
ho raccontato:
- Sai, questo ragazzo è italiano, vive qui a Cuba, è sposato con una compañera e suo suocero si
chiama Luis, è un ex-combattente di Niquero...
L’amica non è da meno in quanto ad affabilità. Si va avanti un po’ a chiaccherare, poi, siccome
ho fame, chiedo se sanno dove si può mangiare qualcosa.
- No, qui non c’è quasi niente, solo il bar ma è in dollari. - dice dispiaciuta. - Ma aspetta, vado a
vedere ché magari riesco a farmi dare qualcosa dalla mensa dove mangiamo noi...
Cosa non si fa per aiutare un compañero! Comunque non avrei avuto problemi a spendere
qualche dollaro per mangiare, ma mi sembrava scortese rifiutare la sua offerta.
Purtroppo però torna a mani vuote, scusandosi perché non è riuscita a trovare niente dato che in
mensa non c’è nessuno.
Poco dopo si congedano, ci salutiamo e mi fanno tanti auguri.
Il tempo continua a trascorrere lentamente, molto lentamente: le ore sono interminabili e mi
sembra che la sera non arrivi mai.
Vado nell’unico bar a mangiare un panino e scambio qualche parola col barista. Esco in strada
dove ci sono alcuni chioschetti che vendono souvenir, libri e giornali: compro qualcosa da leggere,
un genere leggero... come il testo della recente “Legge sugli investimenti stranieri”... che divoro in
pochi minuti e apprendo così che se fossi stato miliardario avrei potuto aprire un’attività in proprio,
assumere dipendenti locali pagandoli quasi niente e portarmi via gli utili di esercizio Ma siccome io
non sono miliardario ora capisco perché la mia presenza in questo paese è abbastanza indifferente
per lo stato cubano. Ritorno nel salone d’attesa e mi accorgo che la mia borsa non ha il talloncino
con il mio nome e cognome, così ne prendo uno dallo stand di una compagnia aerea canadese, lo
compilo e lo applico.
Finalmente si apre il check-in per il mio volo. Mi metto in coda. Gli altri viaggiatori sono tutti
italiani: alcuni in bermuda, altri in tenuta sportiva, tutti abbronzati come dei peperoni, faccia
standard con sorriso a sessantaquattro denti, borse cariche di “souvenir” come sigari e rum. Certi
gruppi si intrattengono fino all’ultimo con il coordinatore cubano del loro villaggio turistico, dove
hanno trascorso gran parte della loro vacanza immersi nel paradiso dei cinque sensi. I discorsi che
sento sono tutti uguali: raccontano di mare, spiaggie, donne, treccine, danze, vestiti, regali,
discoteche, soldi, auto, tiendas, cene; sembra che abbiano visto e fatto un sacco di cose, ma
analizzando i loro racconti mi accorgo che manca qualcosa: oltre al loro accompagnatore, infatti,
sembra che non abbiano conosciuto e visto nessun altro essere umano cubano. Allora mi guardo e
mi chiedo se non ho per caso sbagliato aeroporto: sto veramente a Cuba?
Giunge il mio turno e sono l’ultimo della mia fila. Ma mentre consegno passaporto, biglietto e
borsa alla ragazza del banco il mio sesto senso mi indica che sulla destra due occhi mi stanno
osservando da una distanza compresa tra tre e quattro metri. Mi giro con indifferenza (fischiettare,
in questi casi, è sempre un’ottima precauzione!) e scopro un agente della dogana, appoggiato con
fare indifferente al banco, che mi guarda celando malamente un sorrisetto che sa di sfida, del tipo:
“Adesso che passi nella zona doganale vedremo un po’ cosa trasporti nel tuo bagaglio a mano...”.
Il mio sguardo, invece, celava malamente un’espressione del tipo: “Beh? Che cazzo guardi?” e sono
sicuro che non l’ha capita perché ho evitato accuratamente di fargliela in lingua spagnola.
Passo dunque nella coda successiva, che è quella del controllo passaporti. Dopo circa mezz’ora,
durante la quale mi devo ancora una volta sorbire i discorsi noiosi dei turisti italiani all-inclusive,
arriva il mio turno. Consegno i documenti. Tutto bene: l’agente, che deduce dal mio passaporto che
sono un residente, mi chiede dove abito.
- Niquero. - gli dico.
- Ah, io sono di Manzanillo! - e gli si illuminano gli occhi come se avesse reincontrato un suo
lontano parente. Mi saluta con un sorriso fraterno, come se ci conoscessimo da tanti anni, mi augura
buon viaggio e passo avanti.
Ora resta solo più da fare la radiografia del bagaglio a mano e poi ho finito. Praticamente sono
già sull’aereo. Metto lo zainetto e la borsa fotografica sui rulli e li recupero subito dopo. Ma mentre
mi sto voltando per andare via una voce mi chiama:
- Signore! Può passare da questa parte, per favore?
E’ un agente della dogana che tiene in mano una borsa nera, quasi come la mia....Ma.. È LA
MIA!!! E lui...è...è il tipo di prima, quello che stava nel salone del check-in!
- Questa è la sua borsa? - mi chiede.
- Sì - rispondo, con la poca voce che mi è rimasta dopo lo choc. Ma come avrà fatto ad
impossessarsi della mia borsa? Magia, telecinesi o trasposizione della materia? Deduco, quindi, che
da parecchio tempo ero sotto osservazione: chissà dove stavano le telecamere che mi riprendevano
da stamattina? O forse avevano delle “talpe”? Per esempio, chi era veramente il tipo che mi ha dato
il passaggio in auto? E le due donne? Erano forse delle agenti segrete? E il barista? Mistero.
- Venga da questa parte. Non si preoccupi: è un semplice controllo formale.
Ecco le solite parole: un Semplice Controllo Formale. Se mi avessero detto: “Venga da questa
parte. Non si preoccupi: la sodomizzeremo con una mazza da baseball, le estrarremo due molari a
caso senza anestesia e la obbligheremo a vedere un film di Zeffirelli.” mi sarei agitato di meno.
Invece, il Semplice Controllo Formale ha sempre qualcosa di angoscioso: mi vedo già come
Alberto Sordi in “Detenuto in attesa di giudizio”, con Maribel che supplica le autorità di liberarmi:
- Vi prego, liberatelo! È vero, si mette le dita nel naso e bestemmia in endecasillabi, ma è un
bravo ragazzo e non farebbe male a una mosca!
Seguo quindi l’agente e il suo collega che mi portano in uno stanzino, quello che si vede sempre
nei film di spionaggio, e lì comincia quello che definirlo un Semplice Controllo Formale sarebbe un
eufemismo.
- Può aprire la borsa, per favore?
Apro e resto a guardare. Ma anche loro restano a guardare, così uno dei due rompe il ghiaccio:
- Bisogna tirare fuori tutta la roba...- dice in modo da invitarmi a farlo. L’altro, intanto, si siede e
mi controlla il passaporto:
- Lei è residente qui a Cuba?
- Sì.
- E come mai?
- Beh, sono sposato con una cubana.
- E dov’è adesso sua moglie?
- È rimasta a casa.
- Lei parte per l’Italia e sua moglie non viene all’aeroporto per salutarla? - dice con tono
fortemente dubitativo.
- Sì, ma noi abitiamo a Niquero... (caspita! Speriamo che sappia dove si trova Niquero!) ... e il
viaggio è problematico...sapete, vero?
- Sì, però sarebbe potuta venire con Lei, no? - accentua il tono inquisitorio.
Incredibile! Sembra che le mie risposte non gli piacciano.
- Guardi, il biglietto del treno costa caro ed era inutile che mia moglie venisse qui a perdere
tempo e denaro.
Forse questa volta ho risposto esattamente. E infatti si passa alla prossima domanda:
- E Lei che cosa fa qui a Cuba?
- Ehm, io...sono analista e programmatore informatico e... lavoro nel Centro di Calcolo di
Niquero - bluffo tremendamente, dato che in realtà al Centro di Calcolo non mi hanno mai assunto,
ma confido nel fatto che tanto lui non potrà mai verificarlo in un tempo ragionevole, diciamo...
considerando lo stato delle linee telefoniche... entro due o tre ore. Ed io, per allora, starò già
sorvolando l’Atlantico. Spero.
- Quanto guadagna? - domanda-chiave per vedere se mento.
- Duecentocinquanta pesos.
La risposta pare soddisfarlo.
- Sua moglie come si chiama?
- Maria Isabel Polanco Peregrino.
- E dove lavora? - mentre mi fa le domande prende nota di tutto su un foglio.
- All’Assessorato alla Cultura. È Responsabile del Personale.
Fa una pausa, poi riprende:
- E dov’è adesso?
Un’altra volta? Ma se ho già risposto esattamente poco fa!
- Gliel’ho già detto. A casa.
- Di solito le mogli accompagnano i mariti in viaggio, o perlomeno fino all’aeroporto...
- Be’, la mia no.
Nel frattempo l’altro sta esaminando minuziosamente tutto il mio bagaglio, compresi il tubetto
del dentifricio e gli indumenti sporchi.
- Quando è entrato a Cuba?
- Nove mesi fa.
- Ma qui sul biglietto c’è scritto che è arrivato solo tre settimane fa.
- Sì, perché venni con un volo di sola andata. Nel biglietto che Lei ha in mano, e che hanno
emesso poche settimane fa, hanno indicato una data fittizia... Non mi chieda perché... Forse per
questioni amministrative...
Intanto mi innervosivo sempre di più, perché del mio bagaglio avrei potuto giustificare qualsiasi
cosa, tranne:
a) 100 sigari comprati al mercato nero da un amico di Frank;
b) alcune decine di dischetti per computer contenenti programmi che avevo portato dall’Italia,
pensando che sarebbero serviti al Centro di Calcolo.
Avendo ormai capito di che pasta erano fatti i due agenti e dato che si stava avvicinando il
momento X, il mio sistema nervoso cominciava ad alterarsi e questa cosa fu notata:
- Si sente nervoso?
-Chi? Io? Suvvia, ma che dice... Be’, solo un po’... sa... non sono cose che capitano tutti i
giorni... farsi perquisire... - ma la pozzanghera di sudore ai miei piedi dimostrava proprio il
contrario.
- Non c’è motivo di essere nervosi - dice, ma in realtà voleva dire qualcosa come “Tanto adesso
arriviamo al doppio fondo della borsa dove tieni i cinque chili di cocaina che vorresti esportare in
Europa!” oppure “Lo so che nascondi dei microfilm di importanza strategico-militare dentro gli
obiettivi della macchina fotografica!”
- E questo cos’è? - dice sorpreso, maneggiando una scatola nera con dei fili che fuoriuscivano.
- È l’alimentatore di un registratore.
- E il registratore dov’è?
- In Italia.
- E perché ha portato a Cuba l’alimentatore e ha lasciato il registratore in Italia? - in effetti la sua
domanda, stavolta, è legittima. Ma che ci posso fare io se il registratore non ci stava più nella
valigia?
I due si consultano, poi uno esce con il mio alimentatore.
- Ma... Cosa ne fate? Il mio registratore non può funzionare senza l’alimentatore!
- Non si preoccupi: glielo restituiamo subito. Il mio collega va solo a verificarlo con i raggi X.
Poco dopo il collega ritorna:
- Ok. Tutto a posto. - e mi restituisce il prezioso e innocente apparecchio.
L’ispezione continua:
- Cosa c’è in questa busta? - Era una busta che mi aveva dato un mio amico italiano, studente
all’Università dell’Avana, da consegnare ad una sua amica in Italia.
- Ci sono dei ritagli di giornale e una musicassetta, ma non sono miei, sono di un mio amico.
- Cosa c’è registrato nella cassetta?
- Musica, suppongo. Ma come le ripeto è roba di un mio amico...
Il tipo che conduceva l’interrogatorio... pardon!... volevo dire: il tipo che conduceva il Semplice
Controllo Formale a questo punto si consulta con il collega:
- Che facciamo?
- Mah, non so. Bisognerebbe ascoltarne un pezzo... per vedere cosa contiene...
- Abbiamo un registratore?
- Prova ad andare lì nel duty free shop, chiedi se ti prestano un momento l’impianto di diffusione
sonora.
- Sì ma poi si sente in tutto l’aeroporto!
- Ma no! Abbassi il volume... E poi devi sentirne solo un pezzo....
Il collega esce con la cassetta, mentre l’altro controlla i ritagli di giornale e una lettera che gli
capita tra le mani:
- Questa lettera?
- È sempre del mio amico. Devo consegnarla in Italia...
- Non lo sa che non è permesso portare con se la corrispondenza? Per queste cose bisogna usare
il Servizio Postale. - mi ammonisce.
- Sì, se funzionasse... - rispondo.
- Come, scusi?
- Volevo dire che il servizio internazionale è molto lento... Poi a volte le lettere si perdono.
Ritorna il collega:
- Va bene. C’è solo registrata della musica.
Riprende ad estrarre effetti personali dalla mia borsa e la cosa pare ora interessarli molto, forse
perché non avevano mai visto così tante categorie merceologiche contenute in un solo bagaglio:
- Sigari? Dove li ha comprati?
- Per la strada - (questa risposta fu un ottimo suggerimento dello stesso Frank, e ha funzionato
benissimo).
- Quanto li ha pagati?
- Venti dollari.
I due agenti si guardano per qualche istante in maniera interrogativa, poi annuiscono. Meno
male! Anche i sigari sono in salvo.
Poi appare magicamente un sacchetto di plastica dove tenevo dei ricordi, come delle foto che
avevo fatto in Nicaragua e Salvador anni fa, più alcune cartoline di amici che avevo conservato e
che mi piaceva guardare di tanto in tanto.
- Ah, ma Lei si porta dietro un sacco di corrispondenza! - esclama sorpreso.
- Veramente è corrispondenza che è già arrivata a destinazione... Vede? Ci sono i timbri postali.
- E queste foto, dove le ha fatte?
Che rispondo adesso? Cosa mi invento? Decido di continuare sulla linea della “Verità a tutti
costi”:
- In Centroamerica... Ho partecipato a dei campi di lavoro... di solidarietà con i sandinisti... e il
Fronte Farabundo Martì... È parecchio tempo che collaboro... cioè... con associazioni
internazionaliste... io sono un internazionalista... - farfuglio un po’, perché farmi pubblicità da solo
non mi viene bene.
Pausa lunga. Poi uno dei due agenti improvvisamente mi chiede:
- Lei è comunista?
Se sono comunista? Mi sarei aspettato domande di qualsiasi genere, includendo anche “Quante
volte al giorno si masturba?”, ma a questa proprio non ci sarei arrivato. E poi il maccartismo non è
finito già da un bel pezzo?! Quale sarebbe poi lo scopo di questa domanda? Una statistica per
sapere quanti turisti stranieri sono comunisti e quanti no? Oppure semplice curiosità per invitarmi
poi ai festeggiamenti del 26 luglio? Non ho molto tempo per rispondere. Cosa gli dico? Gli dico la
verità, cioè “Sì”, sperando quindi che il Semplice Controllo Formale si avvii a rapida conclusione?
O gli dico: “E a voi che ve ne frega?” (naturalmente usando una versione più diplomatica). Già, ma
nelle loro grinfie hanno ancora più della metà del mio bagaglio, compresi i dischetti del computer.
Meglio non farli innervosire. Magari gli rispondo di no, tanto se dico di sì non mi crederanno mai.
Però come mi giustifico con quello che ho detto prima riguardo alle foto? No, no...meglio
continuare ancora sulla linea della verità:
- Sì, sono comunista. - Non mi era mai capitato di dover rispondere ad una domanda simile, così
senza preavviso. E infatti mi sento a disagio. Loro apparentemente non fanno una piega ma, chissà
perché, ho la netta sensazione che si stiano trattenendo a stento dallo scoppiare in una fragorosa
risata. Un leggero sorrisino sarcastico compare sulla bocca dell’agente che mi aveva posto la
domanda. Forse crede che di comunisti non ce ne siano più, al di fuori di Cuba. O forse non ce ne
sono più nemmeno a Cuba e il fatto di essersi trovato di fronte ad uno dei pochi esemplari rimasti
sulla Terra lo diverte. Spero che non mi chiedano di esibire la tessera del Partito, perché non sono
mai stato iscritto a nessun partito. Anche questa è un’anomalia difficile da giustificare: come glielo
vai a spiegare a un agente della dogana di Cuba che in Italia si può essere comunisti anche senza
essere iscritti al Partito?
Altra pausa. Le pause sono estenuanti, perché la loro durata è direttamente proporzionale
all’assurdità della domanda che ti sta per essere posta:
- È mai stato in Canada?
- In Canada? Perché sarei dovuto andare in Canada?
- Allora come mai sulla sua borsa c’è l’etichetta di una compagnia canadese?
- Ma...veramente...l’ho presa qui fuori...io...cioè...non vedo cosa ci sia di strano...
Pausa breve.
- Queste scatole cosa contengono?
- Ci sono dischetti per computer.
- E che tipo di programmi si sta portando via?
- Veramente non li sto portando via, li ho portati qui dall’Italia...per il Centro di Calcolo di
Niquero dove lavoro - dico.
Sono soddisfatti anche di questa risposta e perciò i dischetti sono salvi. Ciò che non so se si
salverà è il mio sistema nervoso centrale.
Il contenuto della borsa nera si è finalmente esaurito. Passiamo ora al bagaglio a mano. Vengono
estratti dei pezzi di giornale che mi ero portato da usare come carta igienica se per caso nel treno ne
avessi avuto bisogno. Il caso volle che quelle pagine contenessero un lungo discorso del
Comandante, ma giuro che non l’avevo fatto con nessuna intenzione oltraggiosa...
Pausa lunga.
- Cosa se ne fa di tutti questi ritagli di giornale?
- Ah, quelli? Mi servono se per caso devo andare al gabinetto...
Li guardano con aria dubbiosa.
- Voi invece con cosa vi pulite, di solito? - avrei voluto chiedere. Non vorranno mica farmi
credere che riescono a trovare la carta igienica in pieno periodo especial! E poi quella è la fine
naturale dei giornali cubani. Non c’è famiglia che nel proprio bagno non abbia i suoi bei fogli di
quotidiano appesi con un chiodo al muro. A volte alcuni parenti un po’ scaltri, quando sono in visita
a casa tua e vanno al bagno, te li rubano pure.
Intanto uno degli agenti ha trovato la busta nella quale tenevo i soldi, sia dollari che pesos.
- I pesos cubani non si possono esportare. - mi ammonisce.
- Ma mi servono per il ritorno, per pagare il treno.
- Voi stranieri dovreste pagare in dollari. I servizi pagabili in pesos sono solo per i cubani.
- Sì, ma io vivo qui! E le tariffe in dollari sono altissime...dobbiamo anche risparmiare, no?
L’agente che prendeva nota di tutto si annota anche la somma di denaro trovata.
L’ispezione del bagaglio sta per finire: un’occhiata a un flacone di Colonia, che avevo comprato
per fare un regalo a mia madre, e agli astucci della macchina fotografica. Tutto a posto.
Di solito, però, un’ispezione che si rispetti non può concludersi senza una perquisizione
personale (anche perché finora non hanno trovato niente di compromettente, ma sotto la t-shirt
potrei anche nascondere qualcosa come, per esempio, un lanciamissili terra-aria o un satellite-spia
gonfiabile).
- Ha qualcosa nelle tasche?
- Il portafoglio - rispondo.
- Vediamo.
Tirano fuori tutto, compresi altri soldi e alcuni biglietti da visita:
- Chi è questo Frank Puerto?
- Un mio amico de L’Avana.
- Va bene. Può rimettere tutto a posto.
La perquisizione finisce qui. Per loro sembra tutto in regola (o forse, semplicemente, ho risposto
esattamente a tutte le loro domande) così mi lasciano andare. Riassetto i bagagli e uno dei due
agenti si riprende la mia borsa nera e la riporta dove l’aveva presa, al check-in.
Esco dallo stanzino e mi sento abbastanza frustrato. Ormai qualsiasi altra cosa dovesse succedere
non mi farebbe più nessun effetto: il mio cervello si è scollegato, non pensa più a niente. Sono solo
un corpo che cammina e non vede l’ora di salire su quel benedetto aereo.
La sala d’aspetto è piena di gente, c’è un brusio incredibile che contrasta con il silenzio di poco
fa, c’è un trio musicale che intrattiene i turisti cantando “Guantanamera” e “Arrivederci Roma” (mi
sfugge il nesso...sarà che la maggior parte dei turisti in partenza sono italiani... Allora se erano
svizzeri che cosa gli cantavano, “Lugano addio”? ).
Vado verso il bar, con l’intenzione di ordinare qualcosa di veramente forte, per tentare
dimenticare ciò che è accaduto nell’ultima mezz’ora. Cosa c’è di meglio che affogare tutto in un
buon bicchiere d’alcol? Guardo gli scaffali dove c’è di tutto: whisky scozzese e bourbon, rum,
tequila, cointreau e porto. Ho solo l’imbarazzo della scelta. Si avvicina il cameriere e mi chiede:
- Desidera, signore?
Esito un momento, poi sommessamente dico:
- Una birra. Piccola.
L’arrivo in Italia dopo nove mesi è impressionante. Quando salgo sul pullman che dall’aeroporto
mi porta alla stazione del treno mi sembra di essere entrato in un’astronave e l’autostrada somiglia
ad un videogame. Nove mesi a volte sembrano nove anni.
Arrivo a casa dove mia mia madre mi sta aspettando ansiosa:
- Ciao, mamma. Sono tornato!
- Oh, tesoro, come stai? Guarda come sei magro!
- Veramente sono sempre uguale...
- Eh no, ti vedo io che sei più pallido... Ma mangiavi là?
- Senti, volevo dirti... che io e Maribel abbiamo deciso di venire a vivere qui in Italia.
- Oh, davvero? Come sono contenta!
- Ah, dimenticavo. Ti ho portato un regalino.
Vado ad aprire la borsa per prendere il flacone di Colonia e... non c’è più!
- Me l’hanno fottuto! Incredibile! Me l’hanno fottuto! Che stronzi! - esclamo arrabbiato.
- Cosa? Chi?
- Mi dispiace: ti avevo portato un flacone di Colonia ma qualcuno me l’ha rubato dalla borsa!
- Va be’, non ti preoccupare, fa lo stesso. Cosa ti preparo da mangiare? Sarai affamato!
Successivamente mi sono messo a riflettere su questa simpatica esperienza appena raccontata.
Avrei voluto trovare la risposta a molte domande, ma sinceramente non ci sono risucito. In
compenso ho potuto trarre alcuni insegnamenti. In realtà sarebbero parecchi, quindi mi limiterò a
enunciare solo i tre più importanti:
1) non giungete mai all’aeroporto con un anticipo superiore alle otto ore, in quanto potreste dare
nell’occhio. All’uopo ricordate anche che chi non viaggia in un gruppo numeroso (dove per
numeroso si intende due o più persone) farebbe bene a fingere di far parte di uno di essi, per
esempio aggregandosi ad una conversazione o chiamando qualcuno ad alta voce;
2) non date troppa confidenza agli estranei che incontrate nei dintorni dell’aeroporto; un
semplice barista o un’innocente donna delle pulizie potrebbero nascondere in realtà il capo dei
servizi segreti in uno dei suoi migliori travestimenti;
3) se volete fare un regalo a vostra madre non pensate ad una Colonia o a qualcosa del genere,
poiché potreste “perderla” durante il viaggio; meglio scegliere dei buoni sigari, magari comprati al
mercato nero, e sarete sicuri che arriveranno a destinazione.
el mono loco
00martedì 2 giugno 2009 10:17
E' un tipo molto ironico e sarcastico.

Invidio la sua titanica pazienza x sopportare tutto ciò.

Se deciderà di dare un titola a questa sua esperienza, gli consiglio "L'Odissea" [SM=x1465775]
aston villa
00martedì 2 giugno 2009 11:34
Re:
el mono loco, 02/06/2009 10.17:

E' un tipo molto ironico e sarcastico.

Invidio la sua titanica pazienza x sopportare tutto ciò.

Se deciderà di dare un titola a questa sua esperienza, gli consiglio "L'Odissea" [SM=x1465775]



Oggi le cose sono un pelino piu' semplici,all'epoca eravamo noi yumas una sorta di marziani sconosciuti...


aston villa
00martedì 2 giugno 2009 23:42
Niquero-Manzanillo-Bayamo-Manzanillo-Bayamo-Habana-Manzanillo-Niquero-Manzanillo-
Bayamo…


Quel mese di agosto in cui rimasi in Italia in “vacanza” dovetti fare un giro al Consolato di Cuba
a Milano per prorogare il mio permesso di viaggio; cioè, siccome ero residente a Cuba mi avevano
gentilmente concesso 30 giorni per stare in Italia e se intendevo prolungare il soggiorno dovevo
prorogare il permesso, dietro pagamento di 57 mila lire per ogni mese in più. In altre parole, per
qualche oscuro motivo dovevo pagare al governo cubano un pedaggio per stare a casa mia nel mio
paese. Mi rassegnai a questo fatto, tanto non c’era alternativa. Mi consolai del fatto che almeno
sarei riuscito a fare tutto in una giornata prendendo un treno di solito abbastanza puntuale, mentre
per fare la stessa cosa a Cuba avrei dovuto alzarmi alle 4 del mattino e probabilmente viaggiare su
un camion.
Al Consolato c’era il solito genere di clientela: ragazzi italiani che invitavano le fidanzate
cubane, ragazze cubane che rinnovavano il passaporto, altri cubani che chiedevano il permesso di
poter tornare temporaneamente nel loro paese per fare visita ai familiari dopo essere stati privati di
tale diritto per avere infranto le regole dell’emigrazione. Io credo di essere stato l’unico essere
umano che, invece, era lì per una richiesta completamente diversa e forse mai avanzata prima d’ora.
E infatti, dopo avere consegnato il mio passaporto, la segretaria di turno si recò nella stanza
adiacente e quando tornò da me disse:
- Prego, passa da questa parte: il Console ti vuole ricevere.
Il Console di Cuba a Milano vuole ricevere me? E perché mai, pensai.
- Buongiorno, Alessandro, come stai? - disse come se mi conoscesse da tempo. Si alzò e mi
strinse la mano.
- Bene grazie.
Cosa significa tutta questa confidenza? Avevo già visto alcune volte il Console in fotografia e
non mi era mai stato simpatico; e ora, vedendolo di persona, ebbi un’ulteriore conferma della mia
sensazione. Era un bianco di statura piuttosto alta e corporatura robusta, dallo sguardo severo che
mal si accompagnava col sorriso forzato, usato probabilmente per fingere una cordialità che non
possedeva.
- Così tu vivi a Cuba, Alessandro?
- Già.
- E sei sposato?
- Sì, con una cubana.
- E che cosa fai a Cuba? Lavori?
- Sì, lavoro al Centro di Calcolo di Niquero. - (in realtà non era vero, ma non era mica così pazzo
da andargli a raccontare tutta la mia storia!)
- Ah, interessante. E come va? Ti trovi bene?
- Sì, abbastanza bene.
- Quindi adesso sei venuto qui in vacanza...
- Eh sì, mi fermo un mese e mezzo, poi torno là - (e non gli andavo certo a dire che in realtà
avevamo già deciso di emigrare e venire a stabilirci qui in Italia!)
- Va bene, Alessandro - disse sedendosi per firmare la proroga sul mio passaporto - Fai buon
viaggio!
- Grazie. - dissi e me ne andai.
Non so se lui si avesse creduto alle mie risposte e pensai comunque che in realtà sapesse di me
più di quanto mi facesse credere. Ma l’importante era avere ottenuto la proroga del soggiorno.
I quarantacinque giorni in Italia trascorsero tranquilli e sereni. Riuscii anche a lavorare per
qualche settimana e a guadagnare un po’ di soldi. Una sera uscii con degli amici e andai a vedere
uno straordinario concerto di “John Lurie and The Lounge Lizards”, preceduto da Vinicio
Capossela: due fuoriclasse in un colpo solo e al prezzo di uno. Mica male.
L’unico turbamento fu quello di farmi mandare da Cuba via fax la fotocopia del passaporto di
Maribel: me l’ero dimenticata e serviva per preparare i documenti per farla venire in Italia. Ci
riuscii solo dopo tre giornate di tentativi: il primo giorno il fax del Museo di Niquero dove lei si era
recata non funzionava perché c’era un apagón. Ci demmo appuntamento qualche giorno dopo, ma
dopo diverse chiamate fatte da me non riuscivamo a trasmettere nulla: prima il fax non partiva, poi
la linea cadeva. Riprovammo alcuni giorni dopo, questa volta però stabilimmo che doveva essere lei
a chiamare (a carico del destinatario, ovviamente, perché da Cuba non era possibile fare
diversamente): ci vollero ben sei chiamate perché cadeva sempre la comunicazione, ma alla fine
riuscii ad ottenere dei fogli leggibili, a parte la fotografia che era completamente nera... Tutto
questo lavoro mi venne fatturato dall’azienda telefonica per la “modica” cifra di 400.000 lire, Iva
inclusa. Praticamente mi sarebbe costato meno e avrebbe fatto più in fretta un corriere espresso
internazionale... se solo i corrieri espressi internazionali sapessero dove si trova Niquero.
Alla fine di agosto ero nuovamente a Cuba. C’erano ulteriori formalità da sbrigare prima del
nostro viaggio per l’Italia che avevamo pianificato per novembre. Mancavano quindi ancora tre
mesi circa e sembravano abbondanti, ma non lo erano affatto, perché bastava un piccolo intoppo per
farci perdere una settimana in spostamenti non preventivati tra Niquero, Manzanillo, Bayamo e
anche L’Avana.
A Manzanillo, la cittadina più importante nel raggio di sessanta chilometri, c’era l’”Ufficio
Stranieri e Immigrazione”. Anche a Niquero c’era l’”Ufficio Stranieri e Immigrazione” ma di fatto
non serviva a niente dato che di stranieri residenti non ce n’erano molti, così era sempre chiuso;
solo saltuariamente mandavano da Manzanillo un agente di polizia a presidiare l’ufficio, ma non si
poteva sbrigare nessun tipo di pratica. Per queste cose bisognava andare almeno fino a Manzanillo e
a volte nemmeno lì avevano l’autorità per certe cose, così in quei casi occorreva andare sessanta
chilometri oltre, fino a Bayamo, il capoluogo della provincia Granma.
L’attività di sbrigare pratiche burocratiche sarebbe molto remunerativa, se qualcuno decidesse di
pagarti per questo. Invece di solito il denaro io lo perdevo in marche da bollo e biglietti
dell’autobus, anzi del camion, dato che di pullman tra Niquero e Manzanillo non ce n’era nemmeno
l’ombra e quindi dovevamo prendere un passaggio con los amarillos, quegli agenti del traffico
vestiti con la caratteristica uniforme di colore giallo ocra. Questi sostavano in alcuni punti strategici
e fermavano i mezzi statali (di solito camion, appunto) e vi facevano salire un certo numero di
persone che erano in coda da ore: era un modo come un altro per surrogare la mancanza di mezzi di
trasporto pubblici. Solo che ogni volta che salivo sul cassone di un camion mi veniva un po’ di
angoscia al pensare cosa sarebbe successo, in caso di incidente, a tutti quelli che eravamo lì sopra:
avrei voluto essere credente, per poter recitare una preghiera ogni volta. Un po’ di spirito
d’avventura ci vuole, è vero, ma vorresti anche un po’ di tempo per prepararti psicologicamente.
Insomma, puoi anche decidere di andare in cima all’Everest senza bombole d’ossigeno, oppure di
attraversare il circolo polare artico a piedi, ci puoi anche riuscire e scopri anche che ti è piaciuto un
sacco, se ti sei preparato prima. Ma quando sei alla fermata dell’autobus e aspetti un veicolo con
una cabina, con dei sedili su cui sederti comodamente all’ombra e dei finestrini dai quali entra una
brezza tropicale, ma comunque rinfrescante, e arriva invece un camion sul quale viaggerai in piedi
per due ore, sotto il sole tropicale d’agosto, respirando polvere e monossido di carbonio, ti viene
voglia di piangere.
Perdevo parecchi soldi in burocrazia, ma non solo: perdevo anche molto tempo e salute, se si
considera lo stress causato da snervanti attese e informazioni incomplete, errate o mendaci che ci
venivano date certe volte. Come quella volta, alcuni mesi addietro…
Dovemmo andare a Manzanillo per presentare la mia richiesta del permesso di uscita per
andare in vacanza in Italia. Naturalmente, quando qualche giorno prima avevamo telefonato per
sapere cosa serviva, avevano trascurato un sottile dettaglio e cioè che dovevo portare due foto
tessera. Tutto sommato meglio così: era più facile (relativamente!) trovare un fotografo a
Manzanillo piuttosto che a Niquero.
Camminavamo, io e Maribel, per le strade della città alla ricerca di un fotografo e non fu
difficile trovare dopo pochi isolati un negozio di quelli statali che fornivano, in dollari, la
possibilità di fare delle foto tessera immediate, oltre a vendere e sviluppare i rullini. L’aspetto
esteriore dei negozi che lavoravano con la valuta straniera si notvaa subito per la particolare cura
della vetrina, corredata di scritte luminose e varie pubblicità di note marche di fama mondiale. E
quando vi si entrava anche l’impatto interiore non era da meno: scaffali e vetrinette di tipo
moderno esponevano prodotti che non si vendevano da nessun’altra parte. Tutto questo dava al
potenziale cliente un’impressione rassicurante sul fatto che la qualità e l’efficienza del servizio non
avrebbero tardato a farsi sentire. Peccato, però, che (come spesso accadeva) ci fosse sempre una
persona sbagliata nel posto giusto a capovolgere il senso delle cose. Entrammo quindi nel negozio.
C’era un cliente che aveva appena terminato e stava uscendo. Dall’altra parte del banco stava un
commesso, seduto, sistemando nella cassa i soldi che gli aveva dato il cliente. Io attesi il mio turno,
cioè intendo dire che attesi che lui sollevasse gli occhi per guardarmi in faccia e mi chiedesse cosa
desideravo. Invece il tizio continuava tranquillamente a farsi gli affari suoi e a chiacchierare con
un altro nullafacente seduto al suo lato. Così dovetti “disturbare” il loro lavoro per farmi
ascoltare:
- Scusi! Senta! Fate le foto tessera? – dissi.
Il tizio alzò lo sguardo da idiota, come se fosse stupito che un cliente fosse entrato nel negozio.
- Sì. – rispose laconicamente. Poi si voltò verso l’amico e continuò a parlare con lui.
- E quanto costano? – (dovevo tirargli fuori le parole di bocca?)
- Un dollaro l’una.
- Quanto tempo ci vuole? – domandai, per sapere se nel frattempo potevamo andare a
mangiare un panino e bere una birra.
- Due giorni.
- Due giorni?!?! Ma non sono a sviluppo istantaneo?!? – dissi sbigottito.
- No, le facciamo adesso, poi venga a ritirarle dopodomani. – disse con estrema naturalezza.
Mi girai verso Maribel irritato e uscimmo da quel luogo inutile.
- Due giorni! – ripetevo tra me – Figurati dove trovo un altro posto che faccia le foto in meno
di due giorni!
Sul marciapiedi appena fuori dal negozio trovammo il cliente che poco prima avevamo visto
all’interno e che aveva sentito i nostri dialoghi.
- Guardi, questi tipi qui sono impossibili! – disse quasi sottovoce, per non farsi sentire – Non
servono a niente! Lei cosa deve fare? – mi chiese.
- Delle foto tessera.
Pensò un momento, poi mi disse, sempre a mezza voce, come se mi stesse confidando un grande
segreto e temesse di essere ascoltato da qualcuno:
- Qui, dietro questa via, c’è un fotografo privato. Non costa molto e lavora bene. Provi da
lui!
- Va bene! Grazie!
Andammo nella direzione da lui indicata e trovammo, al piano terreno di una casa coi muri
scrostati, la sede di un fotografo privato.
- Buongiorno – dissi – Abita qui il fotografo?
- Sì sono io – rispose il tizio che ci venne incontro – Cosa desidera? – disse con tono
cordiale.
- Devo fare delle foto tessera, però mi servono entro stamattina.
- Sì, non c’è problema. Però mi ci vuole una mezz’ora, quarantacinque minuti – disse
rammaricato, come per scusarsi del fatto che non poteva fare più veloce.
- Va bene, va benissimo! – dissi sorpreso.
Finalmente avevamo trovato il tipo giusto. Lo studio fotografico era ricavato nell’abitazione, o
meglio, era l’abitazione stessa che serviva da sala di posa. Nel salotto, infatti, una parete (scrostata
come quella all’esterno della casa) era usata come fondale; uno sgabello veniva usato per far
accomodare i soggetti e su un tavolo c’erano la macchina fotografica, il flash e altri accessori.
Intanto lui stava preparando la macchina. Poi andò nella stanza adiacente e poco dopo tornò:
- Ecco la giacca. Dovrebbe essere della sua misura. – disse porgendomi l’indumento.
La giacca? Rimasi alquanto stupito. Non gliela avevo mica chiesta.
- No, non c’è bisogno. – dissi, rifiutandola gentilmente. (Odio le foto formali.)
- No, non si possono fare le foto senza giacca e senza cravatta! – mi ammonì – Gliele
rifiuterebbero!
Pure la cravatta?!?! Roba da pazzi! In un paese dove non c’è un solo abitante maschio che
indossi la giacca e la cravatta oltre il giorno del suo matrimonio, dove nei luoghi di lavoro, nei
luoghi di culto e nelle feste anche molto importanti il massimo dell’eleganza è indossare un
camiciotto sopra i pantaloni, dove anche i ministri della repubblica compaiono in pubblico con
abbigliamento informale, mi fanno fare la foto tessera con giacca e cravatta? Ma sarei
irriconoscibile!
Per non urtare troppo la gentilezza del fotografo mi rassegnai; presi la cravatta e me la annodai
al collo (meno male che quel giorno non indossavo la T-shirt…), poi presi anche la giacca, che era
di due taglie più piccola della mia, e la indossai.
- Venga da questa parte. C’è lo specchio. – mi disse.
Mi guardai e, a parte le maniche alle quali mancavano almeno cinque centimetri, devo dire che
non ero così male come pensavo.
Mi fece tre foto, dopodiché uscimmo a fare un giro. Quando tornammo le foto erano pronte:
pagammo 15 pesos, ringraziai calorosamente il fotografo che ci salutò felice di averci aiutato e
tornammo all’Ufficio Stranieri per consegnarle.
A Manzanillo ci recammo nuovamente qualche tempo dopo, per presentare la mia richiesta di
rinuncia alla residenza. Ci eravamo dovuti alzare, come al solito, molto presto, intorno alle cinque,
per avere qualche probabilità di trovare un mezzo di trasporto. Ci incamminammo a piedi verso la
terminal degli autobus di Niquero; era ancora buio e per la strada principale non c’era quasi
nessuno, esattamente come la sera dopo le nove nei giorni in cui in TV c’è la novela. Anche alla
terminal non c’era nessuno, solo un’impiegata con il compito di distribuire dei bigliettini numerati,
per evitare che i viaggiatori creassero dei tafferugli nel momento in cui fosse arrivato un mezzo di
trasporto. A noi diede il numero uno. Non passò molto tempo e arrivò altra gente. Dopo nemmeno
un’ora eravamo già una ventina di persone, ma io e Maribel non avevamo di che preoccuparci, con
il numero uno in mano. Così stavamo tranquillamente seduti sulle poltroncine. Anche gli altri,
ognuno col proprio numero, stavano tranquillamente seduti poiché non c’era motivo di stare in piedi
a fare la fila. Fantastico, pensai, finalmente non devo litigare affinché i soliti furbi non mi passino
davanti e non devo nemmeno farmi comprimere come una sardina tra queste due grassone con i
pantaloni di lycra sedute qui dietro. Ma quando da una porticina comparve un tizio dicendo “Per
Manzanillo da questa parte!” tutti si alzarono di corsa e si precipitarono verso di lui gridando
“Permesso! Permesso!”, “Compañera, non spinga!”, “Senta, io ero prima di lei!”. Anche Maribel,
d’istinto, si alzò e corse verso la folla:
- Dài, sbrigati! - mi disse.
- Ma scusa, che fretta c’è? Abbiamo i bigliettini numerati!
Ma ormai capii che per riuscire a varcare la soglia della porticina dovevo anche questa volta
farmi comprimere tra le due grassone con la lycra.
- Scusi, lei che numero ha? - chiesi ad una signora che spingeva più degli altri.
- Ventitré.
- E allora perché non si sposta e non lascia passare gli altri?
A colpi di “Permesso!” riuscii ad arrivare alla porta, dove un’altra donna ci impediva il
passaggio:
- Permesso! Scusi, dobbiamo passare! - le dissi.
- Sì, ma io ho il numero sei! - rispose lei con tono deciso.
- Embé? Io ho il numero uno
Rimase stupita del fatto straordinario che prima del numero sei ci fosse un altro numero. Non
vidi la faccia che fece quando scoprì che anche quelli con i numeri due, tre, quattro e cinque
avevano diritto a passarle davanti. Probabilmente svenne.
Alla fine, strisciando come delle anguille, potemmo oltrepassare la porticina, proprio quando il
tizio annunciò “Passino i numeri dall’uno al venti!” e salimmo su un autobus che aveva visto tempi
migliori.
Giunti all’Ufficio Stranieri di Manzanillo facemmo una breve coda, consegnammo i documenti e
tornammo a casa. In pratica, impiegammo diverse ore per una questione di pochi minuti.
Una sera decidemmo, io e Maribel, di uscire per andare al “Nocturno”, una sorta di “night”, un
locale per innamorati dove mettevano musica mielosa, dove le luci erano cosi fioche che non
riuscivi nemmeno a vederti le mani e dove il condizionatore d’aria era bloccato sulla posizione
massima probabilmente da un quinquennio, a giudicare dalla temperatura che trovavi e che
rischiava di farti venire una polmonite appena entrato. Non era un locale da ballo: c’erano solo
tavoli da quattro persone ciascuno e il bar, dove servivano rum o birra e, se era la serata fortunata,
qualche salatino. Almeno questo era ciò che ricordavo di avere visto quel paio di volte che ero
riuscito ad entrarvi. Quella sera, infatti, non potemmo accedervi:
- Buonasera – dissi al tipo che presidiava l’ingresso – Possiamo entrare?
- No, mi spiace. Stasera non apriamo. Abbiamo il frigorifero rotto. Non serviamo niente.
Io e Maribel ci guardammo delusi e tornammo a casa. Ci sedemmo sulle sedie a dondolo nel
porticato di casa a chiacchierare e ammazzare zanzare.
Qualche settimana dopo andammo di nuovo all’ufficio di Inmigración di Manzanillo per
consegnare i documenti per l’espatrio di Maribel, cioè la cosiddetta Carta de Invitación e il visto
dell’ambasciata italiana, che avevamo fatto qualche giorno prima a L’Avana.
Era il primo ottobre. Arrivati a Manzanillo consegnammo i documenti di Maribel e ci sentimmo
dire dall’agente dell’Inmigración che mancava il certificato di matrimonio:
- Scusate, ma per telefono non ce l’avevate detto che serviva anche il certificato di matrimonio! –
replicammo.
- Mi spiace, ma dovete portare una copia del certificato di matrimonio - ripeté l’agente. - Tornate
domani.
Alzarsi alle cinque del mattino e fare sessanta chilometri con dei mezzi di fortuna per sentirsi
dire da qualcuno “Tornate domani” ti fa venire improvvisamente voglia di fare cose strane e
inconsuete, tipo usare il ventilatore per disperdere nel vento tutti i documenti dell’ufficio o
rovesciargli la scrivania sulla testa. Non facemmo, invece, niente di tutto questo e decidemmo di
tornare a casa. Prima però l’agente mi disse:
- Mi devi dare anche il tuo passaporto.
- Perché? – chiesi stupito.
- Avevi fatto domanda di annullamento della residenza vero?
- Sì.
- E anche richiesta di Regreso Definitivo, giusto?
- Sì.
- Dobbiamo applicarci sopra il Permesso di Uscita. Appena sarà pronto te lo consegneremo a
casa.
Lasciare il mio passaporto a Manzanillo per un tempo indeterminato in un ufficio come quello,
che cambiava gli impiegati e gli orari d’apertura in continuazione, mi faceva preoccupare parecchio.
Comunque non avevo scelta e obbedii. Sul fatto che me lo avrebbero consegnato a casa non ci avrei
scommesso una lira e misi in preventivo l’ennesimo viaggio fino qua per venire a prenderlo.
Camminando sotto il sole delle undici del mattino giungemmo fino al bivio per Niquero, dove
era situata la fermata dei pullman; non era una vera e propria terminal (in questo caso ci sarebbe
stata una biglietteria), era solo un sito all’aria aperta con delle panchine che qualche anima pia
aveva deciso di sistemare all’ombra di alcuni alberi e non c’erano nemmeno gli amarillos a gestire
il traffico. Bisognava arrangiarsi da soli. Quella strada portava solo verso Campechuela, Medialuna
e Niquero, con una deviazione verso Pilón, una sessantina di chilometri in tutto e poi basta: oltre
non c’era più niente e proprio per questo motivo era molto difficile che qualche mezzo di trasporto
decidesse di praticare quella strada. C’era parecchia gente che aspettava da chissà quanto tempo e
chissà quanto avremmo dovuto aspettare ancora. Un tale vendeva granizado aromatizzato alla
frutta: era quello che ci voleva per dissetarsi. Con una raspa d’acciaio che non aveva mai visto il
sapone grattava un blocco di ghiaccio delle dimensioni di una mortadella, faceva scivolare la
“limatura” in un cartoccio di carta e ci colava sopra lo sciroppo del gusto che avevi scelto.
Evidentemente i batteri della raspa, del ghiaccio-mortadella e quelli del cartoccio appartenevano a
razze antagoniste che si eliminavano a vicenda, giacché il granizado era veramente buono e non ci
diede mai nessun problema gastrointestinale.
Ogni tanto si fermava un automezzo, che poteva essere un autobus o un pick-up statale,
dichiarava la propria destinazione e caricava qualcuno. Peccato che nessuno si inoltrasse fino a
Niquero: si fermavano tutti prima e Maribel mi disse che non conveniva prenderli perché sennò
saremmo rimasti abbandonati in mezzo a qualche minuscolo peasino e sarebbe stato ancora più
difficile trovare un mezzo di trasporto per arrivare a casa.
Ci sedemmo sulle panchine e, nella noia e nella calura generale, assistemmo passivi alla scena di
due loschi figuri che, praticando il vecchio “gioco delle tre carte”, fregarono venti pesos ad un
povero viandante con la promessa di fargliene guadagnare altri venti se avesse indovinato dove si
trovava l’asso di cuori. Il viandante ci rimase alquanto male quando scoprì di essere stato
imbrogliato, protestava e avrebbe voluto ottenere giustizia, ma i due tipi si allontanarono
indisturbati e con calma raggiunsero il ciglio della strada dove nel frattempo un agente della polizia
si era fermato con la propria auto e si intrattenne a conversare amichevolmente con loro.
Poi, finalmente, arrivò un camion diretto a Medialuna; salimmo assieme ad altre trenta persone e
dopo un’ora circa di sole, aria e polvere arrivammo in quella cittadina, che di famoso non aveva
nulla tranne che essere la città natale di Celia Sanchez Manduley, un’eroina della rivoluzione
cubana che da queste parti tutti conoscevano e ammiravano. Quindi, giunti alla terminal di
Medialuna, cambiammo facilmente automezzo ed in meno di mezz’ora arrivammo a casa.
Il giorno dopo, 2 ottobre, tornammo dunque a Manzanillo per consegnare il certificato di
matrimonio. Solita levataccia mattutina, solito viaggio stancante:
- Va bene, ora è tutto a posto – disse l’agente di polizia – Adesso dovete aspettare l’arrivo
della carta blanca con la quale vi recherete a Bayamo per pagare i 150 dollari del permesso d’uscita
dal paese, poi tornerete qui con la ricevuta. Tu sei anche iscritta alla Federación de Mujeres
Cubanas, Juventud Comunista, Milicias, ecc…? – chiese rivolto a Maribel.
- Sì – rispose lei.
- Allora mi devi anche portare i certificati di dimissione da questi organismi.
Avevamo capito che la trafila non era ancora terminata. Come se non bastasse circa una
settimana più tardi venne a casa nostra un agente:
- C’è un avviso di comparizione per te – disse a Maribel che era andata ad aprirgli la porta.
- COSA?! Un avviso di comparizione?! E per quale faccenda? – chiese stupita.
- Non saprei. Non mi hanno detto nulla. Me l’hanno dato ieri dicendomi di consegnarvelo.
Figuratevi che io vengo da Pilón e sono partito da laggiù apposta per questo.
Maribel lesse nervosamente il foglio che ordinava, appunto, di presentarsi il giorno dopo 8
ottobre all’ufficio di polizia di Manzanillo per comunicazioni importanti. Un avviso di
comparizione è una cosa piuttosto seria e di solito significa essere implicati in qualche caso
giudiziario. Andammo a casa di un nostro parente che aveva il telefono e provammo a chiamare
l’ufficio di Manzanillo per chiedere spiegazioni, ma le condizioni delle linee telefoniche da queste
parti permettevano di utilizzare il telefono in maniera accettabile solo se chiamavi un vicino di casa
(e sarebbe bastato quindi anche solo un interfono); se pensavi di fare una chiamata intercomunale
dovevi aspettare una giornata soleggiata, senza vento e senza pioggia. Siccome, invece, quel giorno
tirava un vento forte non si riusciva a prendere la linea con Manzanillo, nemmeno dopo ripetuti
tentativi.
Così il giorno dopo ci toccò di nuovo, in meno di una settimana, un faticoso viaggio di sessanta
chilometri. Io ne avrei anche fatto a meno, ma visto com’era nervosa Maribel accettai di
accompagnarla. All’ufficio di Manzanillo un agente ci illuminò sul motivo dell’avviso:
- Ti abbiamo convocata perché dobbiamo darti questo documento da consegnare all’ufficio di
polizia di Niquero.
- E ci avete fatto venire fin qua solo per questo? Non potevate mandarlo voi direttamente là?
- Mi spiace, è la prassi. E’ un documento che deve portare Maribel personalmente.
Mi pentii di non aver usato il ventilatore la volta prima per sparare in aria tutti i documenti
dell’ufficio. Se uno si mettesse ad analizzare fatti di questo tipo o diventerebbe pazzo o
diventerebbe pregiudicato, dato che risulterebbe piuttosto difficile resistere alla tentazione di
proferire parole alquanto oltraggianti a chi si era inventato tutta questa complicazione dell’avviso di
comparizione: avevano mobilitato un agente di Pilón per andare a Manzanillo a prendere un avviso
da consegnare a Niquero a Maribel che doveva andare a Manzanillo a prendere un documento da
portare a Niquero. Cos’era? La versione caraibica di “Giochi Senza Frontiere”?
Un sabato sera, dopo cena, ci preparammo per andare al “Nocturno” a bere qualcosa. Siccome lì
si pagava in moneta nazionale, anziché in dollari, era più conveniente che comprare birra o rum al
supermercato. Non avevo entrate e ogni spesa, anche la più piccola, andava misurata oculatamente,
tanto più che qualche imprevisto saltava sempre fuori: viaggi a Manzanillo o a Bayamo, marche da
bollo, ecc…
Come noto le donne ci mettono sempre parecchio tempo per vestirsi e truccarsi, così nel
frattempo stavo seduto sulla sedia a dondolo nel porticato, respirando aria fresca e ammazzando le
zanzare che volavano intorno alla mia testa. Dalle finestre delle case filtrava la luce dei neon che si
rifletteva sui marciapiedi: unica fonte di illuminazione in una notte buia e in una via dove
l’illuminazione pubblica era assente da anni. Si poteva persino sentire l’audio dei televisori
provenire dalle case dei vicini, i quali erano tutti sintonizzati sullo stesso canale, e si aveva quindi
l’impressione che provenisse in realtà dal cielo o da un impianto di diffusione sonora di dimensioni
colossali.
Finalmente, dopo circa venti minuti, Maribel mi raggiunse:
- Andiamo – disse.
Salutammo sua madre che restava a casa a guardare la televisione con sua sorella e la nipote.
Camminavamo lungo la strada principale di Niquero e passando di casa in casa era possibile seguire
comodamente i dialoghi del film che stavano dando in TV. Come ogni sera non c’erano molti
passanti: qualcuno si soffermava sulla porta della casa di un amico e dava un’occhiata alla
televisione; altri andavano in bicicletta senza luci; qualche massaia in ciabatte e bigodini rientrava
in casa col figlioletto in braccio che si era addormentato.
Dopo qualche isolato giungemmo nel quartiere dove c’era il “Nocturno”. L’oscurità era più
accentuata che dieci metri più indietro e intuimmo che quella sera proprio lì c’era un apagón:
- Buonasera – dissi al tipo che presidiava l’ingresso – Possiamo entrare?
- No, mi spiace. Stasera non apriamo. C’è l’apagón. Non serviamo niente.
Io e Maribel ci guardammo delusi e tornammo a casa ripercorrendo la stessa strada dell’andata.
Ci mettemmo abiti più comodi e ci sedemmo sulle sedie a dondolo nel porticato a chiacchierare e ad
ammazzare zanzare.
Passavano i giorni e temevamo sempre che qualche pessima novità comparisse sulla soglia di
casa nostra nelle vesti di un agente di polizia venuto dallo spazio e che ci ordinasse di andare su
Marte a ritirare importanti documenti…
Circa quindici giorni più tardi venne a casa nostra uno degli agenti che ormai conoscevamo,
quello che assomigliava al sergente Garcia della serie di telefilm “Zorro”: questa volta portava una
notizia buona e una cattiva. Quella buona era che il mio passaporto era pronto e (incredibile!) me lo
aveva portato con le sue mani. Me lo consegnò e gli restituii (a dire il vero con un pizzico di
malinconia) la mia carta d’identità cubana. La notizia cattiva era che nella cartolina che consegnò a
Maribel per presentarsi a Bayamo a pagare i 150 dollari del permesso d’uscita c’era anche scritto, in
una minuscola nota sul retro, che avrebbe dovuto sottoporsi ad una visita medica obbligatoria del
costo di 400 dollari. Nei quindici minuti che seguirono rischiai di fratturarmi una mano quando, in
preda all’ira, tirai un violento cazzotto contro la porta d’ingresso. Quattrocento dollari da buttare in
una nuova e inattesa tassa? Mi ci vollero un paio di giorni per rassegnarmi a quest’idea e avremmo
dovuto ridurre ulteriormente le spese per poter arrivare al 19 novembre, data della partenza per
l’Italia, sperando sempre che non venisse fuori qualche altra novità.
Un mattino ci recammo a Bayamo, con i soliti mezzi di trasporto improvvisati. Siccome là
viveva Andy, una sorella di Maribel, decidemmo di prendere il viaggio con calma e di fermarci a
Bayamo due giorni.
La prima cosa che facemmo fu di recarci all’ufficio di polizia per chiedere informazioni sulla
visita medica. Per fortuna ci dissero che non era richiesta nessuna visita medica e che non
bisognava pagare quei 400 dollari: quella nota sul retro della cartolina era riferita solo ai cubani che
emigravano per gli Stati Uniti. Meno male! Avevamo risparmiato 400 dollari. Era assurdo
constatare come l’unico modo per ricevere delle buone notizie era che ti annullassero delle cattive
notizie. Il giorno dopo andammo in banca a pagare i 150 dollari e tornammo a Niquero. Ora
avevamo tutti i documenti di Maribel pronti da consegnare a Manzanillo, ultima tappa prima di
ricevere il tanto agognato permesso di uscita.
Una sera ci preparammo per andare al “Nocturno”. Avevo appena finito di ammazzare una
ventina di zanzare, Maribel aveva finalmente scelto cosa mettersi e in televisione stavano dando un
film noioso. Salutammo i soliti familiari che si trovavano a casa nostra il sabato sera (una dozzina di
persone circa) e ci incamminammo.
Un tizio che conosceva Maribel e che era al corrente di tutta l’organizzazione logistica dei locali
di Niquero (non è che fossero poi molti) ci aveva informati nel pomeriggio che al “Nocturno”
sicuramente quella sera avrebbero servito birra in bottiglia. Un fatto piuttosto raro.
- Buonasera – dissi al tipo che presidiava l’ingresso – Possiamo entrare?
- Sì, certo – rispose.
- Avete birra? – chiesi per precauzione.
- No, stasera solo rum.
- Ma ci avevano detto che stasera sicuramente c’era la birra – intervenne Maribel con
decisione.
- Sì, ma siccome al “Tropical” c’è lo show abbiamo dovuto mandare le nostre scorte là.
Il “Tropical” era l’altro cabaret del paese, quello un po’ più importante, dove si davano spettacoli
veri e propri con tanto di corpo di ballo, orchestra musicale, cantanti di musica leggera e comici in
erba. Ma quella sera non avevo voglia di vedere ballerine con le calze a rete smagliate e sentire
battute che non avrei capito e non avevo nemmeno voglia di bere rum, che mi avrebbe fatto venire
ancora più sete di quella che avevo. Anche Maribel era della stessa idea, cosi decidemmo di tornare
a casa.
Il 5 novembre andammo a Manzanillo a portare tutti i documenti richiesti: passaporto, ricevuta
del pagamento dei 150 dollari, dimissioni da Federazione delle Donne Cubane, Milizia, CDR,
Gioventù Comunista e libreta (la tessera per gli alimenti). Non fu un grande giorno per Maribel
dover rinunciare, contro la propria volontà e non si sa bene per quale motivo, all’affiliazione a
questi organismi nei quali aveva sempre creduto e militato con passione. In pratica l’obbligarono a
rendersi uguale a molti altri compatrioti che, anch’essi emigrati all’estero, di appartenere a questi
organismi invece non gliene era mai fregato niente. Come se non bastasse le chiesero anche di
restituire, inaspettatamente, la carta d’identità cubana:
- Non ti serve più; all’estero ti basta il passaporto - le disse l’agente. – Vieni a ritirarlo la
prossima settimana.
Nessuno ci aveva mai informato di questo fatto della restituzione della carta d’identità; poi in
Italia scoprimmo che praticamente tutti i cubani che vivevano là questa cosa la sapevano molto
bene, tanto che prima di uscire da Cuba si facevano fare un duplicato della carta d’identità
(fingendo di averla smarrita) e consegnavano quella vecchia. In tal modo quando tornavano a Cuba
per le vacanze potevano simulare facilmente di essere ancora residenti cubani e godere di alcuni
vantaggi, come per esempio viaggiare su treni, pullman e farsi fare certificati all’anagrafe pagando
in moneta nazionale anziché in dollari. Maribel, invece, la sua “carta d’identità” l’aveva ormai
irrimediabilmente “persa”… e non solo quella; forse aveva perso anche la sua “identità”. Come
dire: dare tutto per la rivoluzione e non ricevere in cambio nemmeno un “Grazie per essere stata con
noi tutti questi anni”.
Una sera volli provare ancora un’ultima volta l’entrata al “Nocturno”. Chissà quale sarà il
motivo dell’impedimento questa sera? pensai.
Arrivammo davanti all’ingresso, bussammo alla porta ma nessuno apriva. Guardammo in alto (il
locale era situato al primo piano), si scorgevano le leggere luci accese, si poteva anche sentire la
musica, piuttosto ovattata, segno che il locale era aperto e stava funzionando. Ma forse erano solo
fantasmi, dato che ci stancammo di bussare senza che nessuno venisse ad aprire. Attendemmo
alcuni minuti, sperando che qualche cliente uscisse, invano. Alla fine capimmo che al “Nocturno”
non saremmo entrati forse mai più.
Tornammo indietro ma prima di arrivare a casa decidemmo di provare un altro locale. L’unico
che poteva ancora essere aperto dopo le nove di sera era il “Bodegón”, una bettola sulla strada
principale, all’angolo con la Plaza del Pueblo, dove il primo maggio di ogni anno si radunava la
popolazione per assistere al comizio di qualche funzionario di partito. Il “Bodegón” era
normalmente frequentato da pochi avventori solitari: bevitori accaniti e fumatori di “Popular”. Ci
sedemmo ad uno dei tavolini, quello più illuminato dalla debole luce dell’unica lampadina esistente.
Altri tavolini erano situati nell’ombra, occupati da qualche cliente. Quella sera per fortuna c’era
birra e ne ordinammo due, finalmente. Chiacchierammo un po’, io terminai rapidamente la mia birra
e ne ordinai un’altra. Uno dei clienti sputò per terra, su un pavimento che non mostrava differenze
particolari tra prima e dopo lo sputo. Ogni tanto entrava un nuovo cliente e si soffermava in piedi al
banco per comprare le sigarette oppure per bere rapidamente un bicchierino di rum. Nessuno faceva
caso a noi, nemmeno il barista. Non rimanemmo lì più di una mezz’ora, poi andammo a casa.
L’ultima volta che andammo a Manzanillo fu per ritirare il passaporto di Maribel. Era tutto a
posto, avevano applicato il permesso di uscita ed eravamo giunti al termine della lunga maratona
preparatoria per l’espatrio. Mancava una settimana alla partenza; sarebbe potuto andare anche
peggio, considerando che nessuna vera catastrofe si era ancora abbattuta su di noi fino ad ora.
Maribel alternava periodi di euforia con altri di malinconia. Ci credo, dovendo andare incontro
ad un nuovo futuro che non si sapeva ancora cosa ci avrebbe riservato. Ma ormai eravamo in ballo e
bisognava ballare… anche se a me, a dire il vero, ballare non è mai piaciuto.

CONTINUA....
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