Tratto da CUBALIBRO

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aston villa
00mercoledì 20 maggio 2009 14:39
Sinceramente, non ho apprezzato Santiago come dovevo e potevo fare. Gli amici ce la mettevano tutta per farmi divertire, ma io continuavo a vedere un puntino bianco che si alzava e abbassava sulle onde fino a scomparire dietro l’orizzonte. Era la mia vela che si allontanava ogni giorno di più dalla riva, nel mare delle mie speranze.
Josè, el pintore rasta, fu il mio primo amico. Mi aveva colpito la sua somiglianza con Mirko, uno dei ragazzi che doveva partire con me, da cui lo distinguevano la pelle scura e una corporatura esile, quasi minuta. Aveva lo stesso naso sottile, le labbra ben disegnate e occhi profondi, sensuali; un bel ragazzo. Ad aumentarne la somiglianza, José Indossava sempre un paio di Levi’s neri e una camicia nera di jeans aperta su una T-shirt, nera anche quella. Mi sentivo un po’ a casa quando uscivo con lui.
Aveva la passione di dipingere il Che in soggetti fantasiosi e stravaganti, anche se il suo primo lavoro era quello di strappare i biglietti ai turisti nella Valle della Preistoria, vicino a Playa Daiquiri, e il secondo quello di agitare un paio di maracas alla Casa della Trova di Santiago. José aveva voluto regalarmi una sua opera su Bob Marley e ritrarmi a cera, ma mi dipinse spento e insoddisfatto, l’esatto contrario di come sono dentro e fuori. Il ritratto non mi assomigliava affatto. Pensai che avesse dipinto sé stesso con la mia faccia, forse spinto dall’assillante desiderio di evadere dalla realtà in cui era costretto. La sua era una vera ossessione.
Josè ripeteva convinto che, in Italia, la sua arte avrebbe sfondato. Pensava, giustamente credo, che nessuno avrebbe saputo esprimere il Che con il suo stile e cercava costantemente in me, e attraverso le assicurazioni che lo avrei aiutato nelle sue ambizioni, la benzina per fare divampare i suoi sogni.
Era difficile per me, che nemmeno possiedo una sensibilità artistica e so per esperienza diretta quanta forza ci vuole per riuscire a realizzare i propri sogni e quanto siano brutte le cadute nella realtà, disilluderlo. Ma era stata la gelosia di Josè verso ogni altro mio amico, prima ancora del suo ego smisurato, ad annoiarmi.
Insieme, improvvisammo un paio di feste. Una chitarra, due maracas e una bottiglia di ron bastarono per divertirci anche se ci si trovava soltanto tra uomini. Una sera mi offrì del vino, una rarità a Cuba: era una prelibatezza esclusivamente d'importazione e costava moltissimo. La bottiglia, polverosa, si trovava da chissà quanti anni nella cantina da dove José l'aveva recuperata. Aveva lo stesso colore di un rubino prezioso. Quelli che lo assaggiarono prima di me, se lo ripassarono deliziati sul palato.
“Bueno. Muy bueno!” avevano pronunciato, annuendo soddisfatti nella mia direzione. Aspettai trepidante il mio turno e finalmente sorseggiai quel liquido.
Avevo dovuto sputarlo immediatamente: era aceto. Puro aceto. Mi chiedo ancora se non stessero soltanto fingendo di essere deliziati. Capivo che non conoscessero il vero vino, ma non l’aceto che usavano quotidianamente. Forse avevano apprezzato davvero quel gusto acido e aspro che proveniva da tanto lontano, adorarono a prima vista quel colore splendido che, inaspettatamente, avevo squalificato. Erano sinceramente sorpresi quando rivelai loro che il vino doveva avere tutto un altro sapore.

La prima sera in cui ero uscito nella notte di Santiago, lo avevo fatto con l’aspettativa di una serata eccitante. I miei passi mi avevano portato fino al Boulevard, una piccola piazza, dove si era già concluso il rito della passeggiata.
Comprai una birra in un bar di turismo, ma evitai di sedermi ad uno dei tavoli dove chiassosi e vecchi turisti italiani, canadesi e tedeschi erano circondati dalle uniche ragazze che vedevo in giro, preferendo una delle panchine del Boulevard. Seduti di fronte a me, a non più di cinque metri, si trovavano alcuni ragazzi. Cominciarono a sorridere.
Il modo con cui si davano di gomito tra di loro, mi aveva fatto sospettare di essere proprio io la causa della loro ilarità. Io guardavo con curiosità tutta nuova ogni particolarità ma, da osservatore, divenivo facilmente l’oggetto dell’interesse altrui. La gente mi studiava di continuo, ovunque andassi, ma non era un osservarmi fisso e fastidioso, ma quasi sempre piacevole e divertente, come stava appunto succedendo.
Dovevano pensare che fossi matto, o qualcosa del genere. Così, incuriosito dal loro candore, domandai schiettamente se ero io che li facevo sorridere con tanto gusto.
“Ti es loco!” aveva risposto Reynaldo che non aveva ancora visto un turista comportarsi come me.  Era difficile vedere un turista mischiarsi ai cubani nei loro luoghi, normalmente succedeva il contrario. 
“No loco, yo soy cubano!” avevo replicato d’istinto, provocando un sonoro scroscio di risate.
Le persone che mi osservavano, sorridevano non appena i miei occhi incontravano i loro. I sorrisi nascevano dalla bocca, luminosissimi per il contrasto con la pelle sempre scura o abbronzata, e poi si diffondevano agli occhi, accendendo i loro volti. Sembrava che ogni muscolo spingesse l’altro con entusiasmo sempre più contagioso, finché le braccia non si alzavano in un saluto, o il movimento dei busti e delle gambe non li facevano avvicinare un po’, in attesa di qualcosa di più. Erano sorrisi dati con tutto il corpo. Dati.
E’ importante questa precisazione.
I sorrisi e le risate della gente sono le cose che porterò per sempre nella mente e nel cuore: erano presenti in ogni momento della mia giornata, da quando mi svegliavo fino a quando andavo a dormire. Erano favolosi, fini a sé stessi, speciali. Avevano il candore di una innocenza mai smarrita, era meraviglioso sapere che erano soltanto per me. 
Un sorriso, un saluto, mi dimostravano in continuazione che non ero mai solo, che non ero soltanto un corpo che portava a spasso dei vestiti, che occupava un volume temporaneo. Ero un individuo che tutti vedevano e salutavano. Mi facevano sentire una persona viva!
A Cuba ci si salutava sempre. Non era importante conoscersi. Si rimediava in un baleno quando c’era la volontà di farlo, e comunque due chiacchiere non si negavano mai a nessuno. Il saluto tra uomini si effettuava puntando un indice oppure accennando un bacio con la bocca, cosa a cui non mi abituai mai. Io alzavo una mano e dicevo “Ehi!” oppure “Holà!”, anche se quasi sempre mi limitavo a strizzare un occhio, rispondendo con un aperto sorriso. Magari tra qualche anno si saluteranno tutti alla mia maniera. Erano in molti a trovarla simpatica.
Trascorsi in mezzo alla gente di Cuba tutto il mio tempo, con le uniche eccezioni di quando avevo voluto godere in pace ore di abbronzatura nelle spiagge turistiche davanti agli alberghi, dove il cubano veniva respinto per motivi di sicurezza.

Reynaldo era un cubano bianco dagli atteggiamenti complici mentre il suo amico Leo, di colore, era timido e un po’ pavido. Sono stati i miei migliori amici di Santiago e di tutto il viaggio. Dopo il primo incontro sul Boulevard, ci siamo trovati spesso insieme e altrettanto spesso avevo dato dimostrazioni delle mie attitudini da cubano. Se la prima volta li avevo fatti ridere con la mia affermazione, dopo due giorni non ridevano già più. Ero a Cuba da molto tempo, sapevo perfettamente come muovermi nella loro realtà per spendere meno e divertirmi di più. Era un gioco prima ancora che una necessità.
Mi divertivo tantissimo nel coinvolgere Reynaldo e Leo in quelle che subito battezzai cubanades, che si susseguivano scandendo i tempi delle nostre serate. Partendo sempre dal Boulevard., ormai il nostro punto di ritrovo, folleggiavamo sull’onda di pochi pesos. Era stupendo sorprendere Reynaldo. I suoi occhi sgranati quando mi vedeva in azione, o gli raccontavo dove ero stato quel giorno e come ci ero arrivato, diedero un sapore tutto nuovo al mio viaggio. Erano un riconoscimento speciale, l’unico trofeo che mi sentivo di esibire, anche al prezzo di un’etichetta da vanaglorioso. Grazie a Reynaldo e Leo ho scoperto una cosa e un posto fantastico di Santiago: la chanchanchara.
Era un cocktail di rhum e miele, servito in un capiente guscio di noce di cocco al prezzo di un peso cubano, un dollaro e mezzo per il turista, nell'omonimo locale adiacente al Parque Cespedes. Il gusto del rhum cubano fermentato nel miele era vigoroso ma dolce e scendeva nello stomaco con dolci ondate di calore.
La sorseggiavo a piccole dosi. In pochi secondi, gli effetti della chanchanchara mi salivano alle orecchie, al naso e agli occhi, aumentando notevolmente le mie percezioni. Al primo giro diventavo leggermente allegro. La seconda, abbondante, coppa di chanchanchara mi avviluppava il cervello e già toccavo con mano la fine sabbia corallina dei cayos e la fresca pelle di belle ragazze. La terza rapiva l’anima, mi elevava ad un benessere altrimenti irraggiungibile.
Eravamo un bel trio io, Leo e Reynaldo, molto caratteristico anche, non appena ci avventuravamo barcollando fuori dal locale, dopo che avevo gettato sul tavolo gli otto o nove pesos del conto, ignorando beatamente che era in dollari. Leo e Reynaldo ondeggiavano più di me, parevano affrontare con spensierata beatitudine un mare forza sette, senza aggrapparsi a nulla. La loro cena di grandi porzioni di arrojo e verdure cotte non apportava proteine e dal loro stomaco salivano continui brontolii che parevano sommessi ruggiti.
Una sera, eravamo entrati in un bar di turismo vicino al Boulevard. Nella confusione, nessuno aveva fatto caso a noi che avevamo una bottiglia di rhum e diverse lattine di Coca Cola. In breve, avevamo radunato un discreto numero di persone attorno al tavolo. Una ragazza si era seduta a fianco di Reynaldo, con la chiara intenzione di corteggiarlo. Lo pizzicava insistentemente ad un braccio, ignorando la sua irritazione. Il suo gesto fu inaspettato e fulmineo.
Un violento manrovescio in pieno volto la sollevò quasi dalla sedia e io fissai Reynaldo, pensando che fosse impazzito. Rimasi prima sorpreso e poi divertito, nel vedere la faccia della ragazza. Un sottile rivolo di sangue le colava lentamente dall’angolo della bocca, dove era stata colpita, ma gli occhi che fissavano Reynaldo non erano furiosi, né risentiti. La testa era inclinata leggermente da un lato, l’atteggiamento sognante, lei guardava Reynaldo con occhi adoranti e colmi di ammirazione mentre lui la ignorava, continuando a parlare come se nulla fosse successo.

La temperatura rovente dell’aria calò di molti gradi mentre salivo alla Gran Piedra. Era un luogo da non perdere assolutamente, un punto panoramico fantastico a 1250 metri di altitudine e venticinque chilometri a nord-est di Santiago. Una vera terrazza sui Caraibi. Desideravo arrivarci in bicicletta, ma avevo sfiatato grossi sospiri di sollievo allo scampato pericolo mentre l’auto a noleggio arrancava su ripidi tornanti, devastati da crolli e buche. Il mio modo di arrivarci era stato, al solito, spartano.
Stanco di attendere la gua-gua, nel caso specifico un trattore della forestale adibito al trasporto di legname che nessuno di coloro che attendevano con me sotto l’ombra dei cespugli sapeva bene quando sarebbe passata, era stato un vecchio matto di francese a regalarmi un passaggio sulla sua auto. Rideva sguaiatamente per ogni sciocchezza, faceva strani versi e le boccacce gli deformavano il volto. Addirittura si spanciava dalle risa, nel vedere la faccia nera della sua chica impallidire ogni volta che lasciava il volante dell’auto a metà di curva, o fingeva di gettarsi da uno strapiombo. Poi la ragazza cominciò a cantare. Quella voce, piena, profonda e triste come le canzoni che intonava, mi fece venire i brividi lungo la schiena. Anche il vecchio pazzo ascoltava in silenzio, rapito.
L’enorme masso di granito che sembrava essere stato deposto da mani divine sulla sommità di una delle cime più alte della Sierra Maestra, teneva fede al suo nome. Erano circa trecento i gradini che salivano sulla sommità della Grande Pietra. Dall’alto di quel masso, mi riuscì di seguire ogni contorno e caletta della costa che avevo imparato a conoscere così bene nel pedalarla nei giorni precedenti. Playa Siboney, Playa Daiquiri, il Bucanero, fino alla lontana Playa Cazonal, che risaltava come una perla bianca e azzurra nella rigogliosa vegetazione del Parque Baconao. Una leggera foschia mi aveva impedito di vedere la Giamaica al di là di uno stretto braccio di mare di sessanta miglia marine ma, a sud di Santiago e tanto vicine da poterle toccare con un dito, si stagliavano le vecchie mura del castello che dominava lo stretto ingresso alla baia della città.
Fin qui la parte gradevole dell’escursione, poi mi toccò attendere per due ore il vecchio matto e la sua chica che si erano attardati per il pranzo. Non avevo altro modo di tornare, a parte le mie gambe o la stessa gua-gua che avevo vanamente aspettato al mattino. Mi irritò aspettare, l’umore non migliorò quando vidi il francese comporsi male con la ragazza.
Il sorriso tornò soltanto quando scesi dall’auto, in fondo alla lunga discesa: la gente che aspettava la gua-gua insieme a me quel mattino era ancora sotto i cespugli dopo sei ore di attesa. Mi incamminai fischiettando verso il servizio regolare di camion che serviva la litoranea.

Spesi una intera giornata per vedere tutta la parte a sud di Santiago, seguendo la baia fino al Castillo del Morro, la cui vista mi aveva colpito. Nelle immediate vicinanze del castello, il Cabaret di Santiago replicava ogni sera uno spettacolo del tutto simile al famoso Tropicana di L’Avana, entrambi degni del Lido di Parigi, detto da chi se ne intendeva. Io avevo esigenze più semplici. Un paio di vecchi sassi e la vista del mare cobalto furono sufficienti per farmi volare con la fantasia.
Le mura del Castillo spagnolo del XVI secolo erano ben conservate, tre secoli non sembravano avere minimamente scalfito la loro massiccia imponenza. Il castello ospitava uno scalcinato ma simpatico Museo della Pirateria con pochi cimeli: la lettera di marca del corsaro Francis Drake, la sciabola del conquistador Cortès, qualche anonimo archibugio e i relativi pallettoni, diversi capi di abbigliamento.
Alcuni cartelloni narravano gli eventi più importanti di una avvincente Storia della Pirateria. Imprese romantiche e sanguinose, le storie confuse delle lettere di marca che di fatto separavano i malfamati pirati dai più nobili corsari che agivano contro i vascelli nemici con la benedizione dei loro monarchi, fortezze espugnate con l’astuzia o il tradimento, mi fecero compagnia per due ore.
Complici le vecchie mura, il buio, l’odore umido e salmastro che impregnava ogni cosa, mi ero sentito trasportato in un altro secolo e fuori, sulla vecchia piazza d’armi, avevo continuato ad assaporare il gusto di anni ormai svaniti nell’oblio. Seduto sulla sommità di romantici torrioni merlettati, mi deliziai di panorami deliziosi sulla baia e sul Mare dei Caraibi che si stendevano ai piedi dell’impervio promontorio, respirai l’odore greve del continente tropicale e l’aria frizzante del mare. Assaporai sulla pelle tutto il senso della potenza che infondevano quelle solide mura, il timore che dovevano incutere in coloro che erano costretti a transitare, laggiù, sotto le minacciose bocche dei cannoni.





Una volta che mi decisi a riporre nel cassetto il sogno di navigare a vela, le uniche mie preoccupazioni si ridussero a quelle di ogni normale vacanza: abbronzatura e divertimento. Sulle spiagge, con il biglietto d’aereo in tasca, i miei pensieri si spostarono a migliaia di chilometri di distanza, fino a sfiorare i volti di persone amate, il tipo di lavoro che avrei ripreso a fare, le prime azioni di quando sarei sbarcato tra le mura della mia solita vita. Ero sereno. Ci sarebbero state altre occasioni per inseguire i miei sogni.
Trascorsi gli ultimi giorni di mare nella mia spiaggia preferita. Anche se mi occorrevano dalle tre alle quattro ore e una serie di avventurose gua-gua per raggiungerla, Playa Cazonal mi ha sempre ripagato del fastidio con la sua fine sabbia bianca e il suo piccolo scoglio corallino.
Un giorno, era stata una vecchia ma fiammante auto americana rossa a fermarsi alla mia richiesta di passaggio verso la spiaggia. Dietro ai vetri specchiati, era comparso un gruppo di coloratissimi ragazzi cubani che replicavano i coetanei americani degli spensierati anni sessanta con giubbotti di pelle su candide T-shirt, jeans blu, rossi o bianchi e ciuffi lucidi di brillantina penzolanti sulle fronti. Si passavano una bottiglia di rhum invecchiato di sette anni come fosse acqua, le canzoni di Elvis Presley esplodevano a tutto volume dal mangianastri. Sedendomi tra decine di altre bottiglie e scatole di sigari, immaginai che andassero fino a Playa Cazonal per affari.
Guidava un ragazzo dal ciuffo biondo, così poco prudente da farsi sorprendere in eccesso di velocità dalla Policìa. Il poliziotto non approfondì l’ispezione fin dietro a vetri specchiati e non vide me e soprattutto tutta la mercanzia tra la quale mi trovavo, altrimenti sarebbe stata molto più amara dei cinquanta pesos della multa per quel gruppo colorato. Successivamente, salì sull’auto un giovane ragazzo di colore.
“Turista fai da te, no Alpitour?” aveva detto in uno splendido italiano non appena mi aveva visto, seminascosto in fondo al superbo macchinone. La frase suonò sorprendente e molto carina, altre risate si aggiunsero alla mia, sovrastando le note di Elvis.
Nonostante fossi ormai alla fine del viaggio, trovavo ancora strana tutta la curiosità che accendevo ovunque andassi e qualunque cosa facessi, come mi successe quando mi venne la voglia di un gelato quella sera, dopo che ero sceso dalla gua-gua giallo-nera dei trabajadores. Nella tienda, guardai interrogativo la coppa senza cucchiaino. Il ragazzo che mi aveva servito mimò come avrei dovuto usare il coperchio della confezione per mangiare il gelato. Scossi la testa. Desideravo una vera paletta da gelato. Due ragazzi si erano interessati al problema e si offrirono di darmi un esempio pratico.
“Oh no! Il gelato con le dita!” esclamai disgustato. Scossi ancora di più la testa. Il ragazzo della tienda sparì e ricomparve con un cucchiaio grande come quelli che si usano per condire l’insalata. Mi sbellicai dalle risa quando verificai che appena la punta del cucchiaio entrava nella coppa. Decisi di restituire la coppa e di farmi ridare i miei dollari. La folla discreta che si era radunata mi osservò perplessa. Tutti si sarebbero ricordati la scenetta per un bel pezzo. 
Nel mio ultimo giorno di mare raggiunsi Playa Cazonal con un pulmino turistico della Cubatour, la stessa che mi aveva rapinato il mio giorno di arrivo, a Varadero. L’autista arrotondava la sua paga e con un solo peso cubano, il prezzo per un normale servizio urbano di gua-gua, ottenni la mia rivincita sull’esborso iniziale.

“Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.”
Non mi sono mai sentito un diavolo a Cuba, però mi sarei fatto una risata se qualcuno mi avesse predetto che a Santiago non avrei trovato una ragazza con la quale dividere una notte e un po’ di stelle. Kenya, la ragazza bianca che avevo conosciuto in Playa Daiquiri nei primi giorni di Santiago, non si era fatta vedere all’appuntamento. Ci rimasi molto male perché ero sicuro di esserle piaciuto e, quando si diventa troppo sicuri di sé e del proprio fascino, le cadute sono sempre dolorose. Quella lo fu in maniera particolare.
Inevitabilmente tornai ad essere un bravo ragazzo. Era una parte che conoscevo bene, ma diventai tanto bravo che, fatalmente, si sparse la voce che fossi omosessuale, non con la stessa velocità con cui la notizia di una retata della Policìa corre di calle in calle, ma quasi. Frequentavo gli stessi luoghi, il Cespedes o il Boulevard, e vedevo più o meno gli stessi ragazzi che bazzicavano nelle vicinanze. Non era naturale vedere un turista sempre e soltanto in compagnia di uomini. Facile immaginare cosa si pensasse della mia cerchia di amicizie.
Se il sesso era un argomento normale a Cuba, l’omosessualità era considerata una delle sue sfaccettature. Essere attirati da persone dello stesso sesso non era una vera diversità e non causava l’emarginazione e i problemi come in ogni altro paese. Jesus di Playa Giron viveva la sua omosessualità in modo allegro, quasi scanzonato, l’esatto opposto di Armando, un ragazzo dolcissimo che avevo conosciuto in una delle mie passeggiate a Santiago. Non sorrideva mai, mostrava tutti i sintomi della vita infelice che viveva mentre tentava di scivolare inosservato tra la gente.
Ogni volta che una chica mi faceva un’avance, al mio rifiuto seguivano reazioni esagerate di sorpresa perché, se nessuno rifiuta nessuna a Cuba, a Santiago l’imperativo era esasperato dal calore della sua gente.
“Te gusta el chico!” mimavano le ragazze strisciando tra loro i pugni, nel gesto che si compierebbe nel lavarsi le mani, senza concedere il minimo spazio al fatto che non mi piacessero.
Mi vidi rivolgere quel gesto decine di volte sulle gua-gua, mentre passeggiavo o chiacchieravo con i miei amici. Anche se i modi e le intenzioni non erano mai offensivi come il significato supporrebbe, era sempre più difficile sopportarlo con il sorriso sulle labbra. Cominciò a diventare stressante. Capivo Armando: la sua, era la storia di un gay tanto assediato dal sesso opposto da desiderare l'invisibilità. Seppure per motivi opposti, immaginavo l’omosessualità come un grosso problema per chi era dotato di animo fragile e sensibile.
La più insistente nei gesti e nelle parole, fu una chica che frequentava sempre il Parque Cespedes. Di statura più bassa della media, le sue lucide treccine parevano danzare sotto la luce dei lampioni mentre si avvicinava, ancheggiando su lucidi stivali di plastica alti fino al ginocchio. La minigonna bianca scendeva appena sotto al punto in cui le gambe snelle e diritte si univano. Avevo inquadrato il tipo di ragazza ancora prima che aprisse la bocca.
“Holà, come ti chiami? Da dove vieni? In quale albergo stai?” erano state le domande che sparò una dietro l’altra dopo la richiesta di una sigaretta. Nei suoi occhi dardeggiava un messaggio: Approfittane, sembrava incitare.
“Holà. Claudio. Italliano. Cuarto particular” avevo risposto automaticamente, un riflesso incondizionato innescato dall’approccio simile a centinaia che lo avevano preceduto. Mi balenò nella mente la sensazione che i miei gesti e le mie parole si sarebbero ripetuti all’infinito. Mi pesava la loro sostanza, più che il loro replicarsi. Erano sempre parole vuote, frasi che non lasciavano spazio alla più piccola scintilla d’emozione.
“Claudio, mi porti in camera tua?” Finalmente una variante alla solita routine. 
“E perché?” avevo risposto, divertito, “Non mi piaci e poi, quando una ragazza mi piace, voglio essere io a conoscere lei. Non sarai una puta, vero?”
“Ma cosa pensi! E' soltanto che ho un bambino piccolo. Perché non mi prendi con te per qualche giorno?”
Le treccine si muovevano nervosamente da un lato all’altro della testa, mentre cercava nel buio della piazza la presenza pericolosa di un poliziotto. L’avevo guardata meglio e, del tutto obiettivamente, avevo concluso che non era il caso.
“Non mi piaci. Non mi piacciono le ragazze che mi chiedono di portarle in camera, tu meno delle altre.”
“Dammi un solo dollaro, farò quello che vuoi.”
Ad un nuovo rifiuto si era decisa a mostrarmi il gesto che conoscevo a memoria. Diverse sere più tardi, non avevo fatto in tempo a cambiare marciapiede, che lei si era avvicinata, decisa. Invano cercai nei dintorni qualcuno o qualcosa che mi potesse trarre in salvo da quella situazione.
“Perché non mi prendi?” disse sbrigativa. I turisti dovevano essere una merce un po’ scarsa in quei giorni.
“Non posso. Non mi piaci.”
“Mi serve un dollaro per il mio bambino. Portami nella tua camera!”
“Se ti regalo un dollaro, mi prometti che te ne vai?”
Dovevo essere impazzito. Pagavo una chica affinché se ne andasse, l’esatto opposto dell’acqua che scorre, degli oggetti che cadono, del tempo che avanza, ma a quel punto temevo una sceneggiata.
“Ma perché non mi prendi?” aveva ripetuto fissando la banconota nella mia mano.
“Ti piacciono gli uomini” concluse, allontanandosi dopo avere preso i soldi.
Rimasi ipnotizzato a guardarla: il tempo sembrò rallentare fino a fermarsi mentre mimava il solito gesto. Quel fotogramma si stampò nella memoria: era soltanto l’ennesima stilettata ad un orgoglio che ormai cominciava a sanguinare, oppure stavo cominciando ad essere influenzato dal significato di quel gesto?
Fortuna che non la rividi più.
Alcune ragazze furono aggressive al limite della violenza fisica, ma in genere fu sempre un gioco a cui partecipai volentieri, quello di scambiare mimiche e insulti con il sorriso sulle labbra. Ebbi però tutto il tempo per rimpiangere di non essere rimasto a S.Lucia qualche giorno in più e di non essermi fermato qualche giorno da Yarelin, a Camaguey.
Nessuno mi impediva di tornare indietro dopo avere concluso che Santiago era troppo calda, assillante e caotica però, dove in molti si sarebbero fatti condizionare da quel tipo di lusinghe, non lo feci. Soltanto un sentimento forte, che mi prende il cuore, è capace di farmi tornare sui miei passi. Non è sufficiente un semplice desiderio fisico a decidere per me, anche se mi tormenta giorno e notte. Anche sapendo che la scelta mi causerà forti rimpianti.
Così, le vie centrali di Santiago continuarono ad essere il teatro di lunghe passeggiate solitarie nel fresco della sera, quando non mi vedevano in compagnia degli amici. Passeggiavo sorridendo, ma era un’allegria malinconica. Ero la caricatura di un comico triste.
Come una cometa folgorante, Kenya era apparsa soltanto per scomparire immediatamente dalla storia del mio viaggio emozionante. Nel susseguirsi di splendide notti stellate, la sua immagine sbiadì nei miei ricordi fino a confondersi con gli invisibili contorni delle costellazioni. Stentavo a credere di avere vissuto un simile incontro. Se Kenya esisteva, se l’avevo davvero conosciuta, perché non mi riusciva di incontrarla di nuovo?
Perché non compariva lei, soltanto lei, al posto delle decine di ragazze che replicavano ormai automaticamente lo stesso gesto ogni volta che le incrociavo?
Nessuna di loro reggeva il confronto con la bellezza bionda che ballava la salsa alla velocità della luce, con i suoi sorrisi dolci e insieme sbarazzini. Nessuna poteva mitigare quel tipo di solitudine e nemmeno lo desideravo. Volevo Kenya.

Ero andato a casa di José. Era l’ultima sera che trascorrevo a Santiago e non portavo con rhum né sigarette, ma una sporta piena di indumenti da regare. Salutai così el pintore e il vecchio Osvaldo, la copia anziana di Guillermo, che ospitava nella sua grande casa tre ragazzi orfani. Era stato lui, con sorrisi vivaci e toni canzonatori, a parlarmi della santeria.
Leo e Reynaldo avrebbero ricevuto tutto quello che era sopravvissuto ad una lunga scia di magliette e pantaloncini che avevo seminato lungo il mio itinerario di Cuba, donandoli ai più simpatici. Di quello con cui ero partito, avevo rimasto i vestiti che indossavo, qualche libro, la muta e il coltello da sommozzatore, il walkman. Avevo fissato la valigia quasi vuota con particolare soddisfazione: avrei potuto sollevarla con un dito, ora.
Mi sentivo bene quando andai a passeggiare con Reynaldo, sostenendo con complicità le sue cubanades. Dopo essermi sgravato da ogni pena per quello che poteva essere e invece non era stato, il sole era tornato a splendere su ogni momento del mio viaggio. Avrei avuto altre occasioni e consideravo quella lunga avventura ormai agli sgoccioli come un inizio, un gustoso hors d’ouvre ai tanti che lo avrebbero seguito.
Dalla panchina del Boulevard, notai una bella ragazza entrare frettolosamente nella cafèteria che occupava un edificio d’angolo della piazza. Incuriosito, mi ero avvicinato ed ero poi entrato fingendo di cercare qualcuno. L’ennesima delusione. Bruscamente, mi ero girato per uscire in fretta da quel locale, dove non ero bene accetto a causa dei miei comportamenti da cubano, ed ero finito addosso alla ragazza che era entrata subito dietro di me. Addosso a lei, il volto vicinissimo al suo, non riuscivo più a fare un passo indietro, fulminato in quella posizione dalla sorpresa.
Ero incapace di intendere e di volere, persino di aprire la bocca per salutarla. Kenya era finalmente tornata a risplendere nel mio cielo. Era davvero speciale.
Nel locale leggermente in penombra, avvolta da luci deboli e da decine di candele come dal cielo stellato di certe notti cubane, luccicava come un gioiello sopra a un morbido panno di velluto nero. I capelli biondissimi erano raccolti in uno chignon, gli occhi leggermente allungati erano inchiodati ai miei. Riflettevano la luce come due perle. L’abito da sera argentato l’avvolgeva come la carta di una caramella dolcissima che avrei voluto scartare immediatamente.
Non potevo credere che il destino si fosse dato la pena di tenerci lontani per tre settimane, soltanto per farci incontrare quando mancavano poche ore alla mia partenza, ma ero contento. Ero davvero grato alla mia buona stella per avermi fatto avvicinare ed entrare nella cafèteria in quel preciso istante.
“Sembra una puta!”
Questo pensiero attraversò la mia mente, fuggevole come l’ombra di un uccello. Non ero preoccupato di non essere stato riconosciuto: i suoi occhi non mi lasciavano un momento, la sua paralisi diceva che era sconvolta dalle mie stesse emozioni. Avevamo la stessa espressione sorpresa e felice.
Insieme, avevamo aperto la bocca per parlare e poi ci eravamo fermati. Insieme avevamo ricominciato, prima di ridere, abbracciandoci. Avevamo migliaia di cose da dirci e non riuscivamo nemmeno a cominciare.
La portai fuori dalla cafèteria e presentai Reynaldo alle due inseparabili amiche di Kenya, che l’attendevano chiedendosi che fine avesse fatto. Andammo tutti alla Casa della Trova. Seduti ad un tavolino di ferro battuto, avevamo finalmente proseguito la conoscenza iniziata sulla sabbia rovente di Playa Daiquiri, poi interrotta dalla sua impossibilità di rientrare in tempo dalla spiaggia per il nostro appuntamento. Non c’erano gua-gua regolari, purtroppo.
Kenya era una vera ballerina. Arrossii frequentemente ai suoi assoli ma poi mi trovai a mio agio nell’estrema sensualità e scioltezza dei suoi movimenti mentre ballavamo la salsa alla maniera cubana.
“Perché ti chiami Kenya? Non è un nome cubano, da dove deriva?” le domandai stupidamente. Lei rispose divertita, svelandomi le origini africane del suo ‘strano’ nome. Ero talmente infatuato che sarei stato capace di chiederle perché i gatti miagolano.
Mi ricomposi per dirle che era la mia ultima notte a Cuba. Abbandonai Reynaldo in buona compagnia e camminai incontro a quello che il destino aveva programmato in maniera tanto tortuosa. Una brezza calda e sensuale alitava delicata contro la mia pelle nuda. Sopra le linee delle case, il cielo brillava di stelle e mi sembrò mille volte più bello e speciale di quello che avevo visto in tutte le altre notti di Cuba.
Immersi nella magia di Santiago, nel suo particolare odore e calore, ci donammo totalmente e incondizionatamente. I nostri corpi avevano saputo in ogni momento che cosa dovevano fare, quasi che si conoscessero da decenni e non da poche ore soltanto. Avrei conservato nella mia mente ogni più piccolo particolare di quella lunga notte, di cui non andò sprecato nemmeno un istante. Ricordi di infinite emozioni, ma anche di grandi rimpianti per quello che avrei presto lasciato.

“Mi segua in camerino, per favore” mi disse il militare davanti alla dogana dell’aeroporto di Santiago. Qualcosa aveva eccitato i raggi X che controllavano i bagagli a mano.
“Sono esemplari rari” mi spiegò poi, fingendo paterna comprensione, dopo avermi fatto aprire la scatola di cartone che conteneva tutte le mie conchiglie. Avrei voluto ribattere che conoscevo benissimo l'uso che facevano a Cuba di quel mollusco, lasciato morire e marcire all'aria aperta a milioni di esemplari e poi, insieme al guscio, sbriciolato per venire utilizzato come fertilizzante nei campi, ma scelsi di tacere. Avrei evitato l’imprevisto se avessi messo le conchiglie nella valigia semivuota, come si dovrebbe fare con ogni oggetto in bilico tra legalità e illegalità, ma avevo voluto prevenire ogni rischio di smarrimento. Mi diedi dello sciocco un paio di volte. Il soldato continuò a fissarmi, sorridente.
Mi dispiaceva abbandonare nelle sue mani le conchiglie, i miei splendidi ricordi di S.Lucia, ma non avevo nessuna intenzione di pagare una qualsiasi mancia. Non ero arrivato fino a quel punto, senza cedere di fronte all’arroganza di certi funzionari, o davanti alla scomodità di certe situazioni, soltanto per arrendermi sull’ultimo ostacolo. Un grande sorriso rimpiazzò la mia evidente delusione quando il doganiere mi lasciò passare con le conchiglie.
Cominciai a pregustare la sorpresa che entro ventiquattro ore avrebbe animato il viso di tutti i miei familiari ma quando entrai nella sala di attesa dell’aeroporto, la mia contentezza si dissolse nell’aria come uno sbuffo di fumo. Mi ero trovato circondato da una folla di decine, centinaia di italiani, tutti insieme.
Non avevo considerato la popolazione a cui appartengo quando immaginavo con gioia il mio ritorno a casa e, senza nemmeno un secondo per assuefarmi all’idea, mi trovai in mezzo a evidenti limiti di insofferenza verso un’ora di ritardo dell'aereo, a incomprensibili ribrezzi per la sporcizia e compassione per le miserie osservate durante la vacanza. Il buon senso mi diceva che erano persone felici e riposate, magari colme di inevitabile malinconia perché abbandonavano il sole, il mare e il caldo per rientrare nella realtà di ogni giorno. Non mi spiegai quello che stavo udendo. Rimasi scioccato.
Non avevo mai provato nostalgia per quello che avevo lasciato a casa, fatalmente avevo finito per dimenticare che la mia vita degli ultimi mesi non era la mia vera vita. Che cosa dovevo aspettarmi dalla realtà di ogni giorno, dove sarei atterrato dopo tredici ore?
Non la ricordavo più e non fu soltanto l’aria condizionata che a gelarmi il collo e la schiena. Mi sollevai un po’ pensando che stavo vivendo una situazione molto simile a quelle che avevano caratterizzato tutto il mio viaggio.
Una miscela di rimpianti affollava i primi momenti dei miei trasferimenti da un luogo all’altro, ma poi tutto si stemperava non appena osservavo nuovi paesaggi scorrere ai lati delle gua-gua, nell’eccitazione per le nuove avventure che avrei presto vissuto. Anelavo a quello che sarebbe comparso dietro l’orizzonte, quando sarei stato di nuovo fermo pur sapendo che nulla sarebbe stato come lo immaginavo. Era persino un timore piacevole pensare ai mezzi avrei usato.
L’unica prospettiva che contava era il presente che vivevo. Sicuro che a casa le cose sarebbero state soltanto belle, mi tranquillizzai proprio mentre entravano i passeggeri provenienti da Varadero. Coloro che si sarebbero uniti a noi sul volo charter diretto a Milano, si stringevano tutti nei loro cappotti e giacche a vento dopo essere fuggiti dalla tempesta di neve e ghiaccio che stava flagellando tutta la costa atlantica di Cuba.

Nel tornare ad usare la mia lingua, mi resi subito conto che continuavo ad utilizzare i verbi spagnoli gustare e tenere in luogo degli italiani ‘piacere’ ed ‘avere’. Con poca partecipazione, ascoltai le innumerevoli imprese da Guiness dei Primati di due vitelloni italiani: dovevano avere visitato una immensa casa per appuntamenti invece di un paese bellissimo come la sua gente.
Ragazzi e uomini con la testa persa nella chica erano spettacoli quotidiani, quasi normali a Cuba. Non avevo più prestato molta attenzione a certi visi paonazzi che mi capitava di vedere ovunque in spiaggia, sulle auto, negli angoli delle vie o fuori dai ristoranti dopo che, a Varadero, avevo visto un amico italiano fare l'amore in acqua con una ragazza conosciuta appena cinque minuti prima, senza preoccuparsi affatto della presenza di virus grandi come moscerini.
Mi dispiaceva vedere bellissime ragazze in compagnia di vecchi grinzosi ma danarosi e sorridevo comprensivo ai ragazzi che giravano con tre o anche quattro ragazze per volta sottobraccio. Il mondo sembrava capovolto, ma cercavo di non farci caso.
“La chica giovane ringiovanisce lo spirito anche se puoi godere soltanto della sua compagnia” aveva filosofeggiato uno dei ragazzi di Empoli che avevo incontrato a Playa Daiquiri, replicando ad un commento pepato che mi era sfuggito a proposito. Aveva ragione, naturalmente. Chi può dire come sarò o cosa farò io tra trent'anni? 
Però, non mi aveva sorpreso la risposta dei due amici vitelloni quando avevo domandato quali erano i posti più belli che avevano visto. La loro pelle, che aveva ancora il colore delle lampade che avevano fatto prima di partire, ormai sbiadito da giornate passate al chiuso di una camera, mi aveva già detto a sufficienza che avevano visto ben poco di Cuba. In effetti, uno soltanto di coloro con i quali chiacchierai per ingannare il ritardo dell’aereo sapeva cos’era un Centro Cultural, pochissimi avevano visto una vera banconota di pesos cubani che non fosse quella che ritraeva il Che, e assolutamente nessuno era salito su una gua-gua.
Cominciai così una serie di meditazioni su come si sarebbe sviluppato il mio viaggio se non avessi perseverato nell’attesa , per salire sulla gua-gua in quel giorno, ormai lontanissimo, a Matanzas. Tutti avevano varcato in due ore di aereo la distanza Varadero-Santiago che io avevo percorso perdendo numerose giornate, ma non era soltanto una banale differenza di mezzi, di tempi: tra la mia e la loro vacanza esisteva un abisso.
Loro si erano illusi di avere viaggiato perché l’avevano soltanto sorvolata, nello spazio e nel tempo, perdendo un’occasione di vivere e di sentire sulla pelle il calore di una realtà che noi abbiamo ormai dimenticato. In realtà, sapevano ben poco di Cuba.
Al loro cospetto, mi resi conto per la prima volta che le persone che viaggiano come me sognano. Io mi spostavo lentamente, in ogni momento mi aspettavo che succedesse qualche cosa di nuovo, di speciale: una nuova conoscenza, una risposta ad una domanda che mi incuriosiva, un paesaggio particolare, una notizia meravigliosa o, purtroppo, penosa. Avevo tutto il tempo di immaginare, pregustare e indorare quello che avrei visto, le mie percezioni erano costantemente vivide, luminose e attente come se avessi fato uso di droghe. Era la mia curiosità. Io viaggiavo.

Come si capisce se una persona ha l’animo del viaggiatore?
E’ facile riconoscere chi non lo ha: chi non è curioso, chi non cerca il ‘suo’ posto, accontentandosi di quelli che ci vengono proposti, chi non si emoziona davanti a realtà diverse, chi le confronta con quelle della sua vita di tutti i giorni, chi va di fretta e non ama fermarsi a pensare.
Per esempio, io penso ancora con emozione alla festa nel varrio di Varadero, al bacio affettuoso di Juanita, ai primi acquisti con il peso cubano, forse sciocchezze per altri ma fulgide gemme del mio viaggio per me. Non sono privilegi che toccano soltanto a chi dispone di molto tempo per viaggiare, si può vivere intensamente un paese diverso dal nostro anche in pochi giorni, se non si sceglie di passare tutto il tempo in faticosi trasferimenti, tra orari compressi in fredde cifre d’orologio. Tracciare un itinerario in rapporto al tempo che si ha a disposizione è la regola prima di chi vuole davvero viaggiare. Si può sempre ritornare una seconda volta per approfondire la conoscenza di un paese che ci ha colpito molto.
Viaggiare è soprattutto vivere in modo diverso. Pochi orari, cibi diversi dal solito e fare quello che non penseresti mai di fare nella vita di tutti i giorni: una passeggiata nel buio della spiaggia, il bagno senza costume, guardare tutto a velocità rallentata per assorbirne odori e colori. Se si vuole conoscere un paese, soprattutto se dal lato umano è bello come Cuba, si devono evitare i giri proposti dai tour operator che mostrano spesso realtà precostituite e ammaestrate, non vere.
Si può diventare viaggiatori nel breve spazio di un pomeriggio. Nella solitudine di una strada isolata e nel gustare senza prima chiedere cosa c’è dentro una stranezza culinaria che si scopre da soli, si trovano le radici di uno che viaggia. Occhi e mentalità aperta, una fantasia che ricama volentieri su ogni nuova scoperta, migliaia di domande sempre in cerca di una risposta: ecco chi è il cittadino del mondo.
Io mi muovo sempre in maniera disordinatamente organizzata, seguendo le mie voglie. Passo molto tempo sulle cartine, lungo la strada riesco sempre a inserire una tappa che mi incuriosisce o affascina perché sono flessibile. Mi adatto facilmente a situazioni inaspettate, a ritardi imprevisti, a errori di calcolo dei tempi. Quando viaggio attraverso itinerari sconosciuti, ho una guida più che sicura nel mio ‘istinto’. Forse sono un privilegiato.
Me ne accorsi al primo viaggio fuori dai confini nazionali. Avevo finito da poco le scuole superiori e stavo guidando l’auto da Parigi, diretto a Monaco di Baviera, dopo essere passato per una notte folle e avere camminato tutto il giorno. Dieci chilometri prima del confine con la Germania avevo affidato ad altri la guida. Ero piombato in un sonno pesante non appena avevo potuto chiudere gli occhi. Avrei dormito per due giorni di fila e invece ero stato destato da una strana ansia. Dentro di me, sentivo che qualcosa che non stava andando nel verso giusto. Infatti, i miei compagni di viaggio avevano abbandonato la via diritta dell’autostrada per avventurarsi in una strada piena di curve. Eravamo in mezzo alle Ardenne. Dapprima ero rimasto sorpreso dalla loro stoltezza, poi credo di avere urlato qualcosa di osceno. Non avevamo nemmeno attraversato il confine.
Forse, osservare i cambiamenti, piccoli e grandi che avvenivano intorno a me nel tentativo di annullare o almeno di limitare lo svantaggio di un udito sempre meno affidabile, mi ha aiutato ad imparare. Crescendo, ho affinato la vista, la sensibilità, la concentrazione. Quelle stesse sensazioni che guidano un uomo nelle situazioni incerte, anche pericolose, mi fanno allontanare, oppure proseguire quando penso di potercela fare.
Naturalmente, mi capita spesso di sbagliarmi ma poi, analizzando con attenzione ogni mio errore, scopro quasi sempre scoperto che l’ho inconsciamente voluto, oppure che non era una vera mancanza.

Sul volo charter mi addormentai dopo avere consumato una frugale cena: non mi ero reso conto di quanto fossi stanco e affamato fino a quel momento. Dormii come un ghiro e quando mi svegliai mancava appena un’ora di volo a Milano. I vicini di posto mi sorrisero dandomi il buongiorno, una espressione immensamente felice si era stampata sul mio viso nel vedere il vassoio della prima colazione davanti a me. Mi tuffai nel latte e nei dolci dopo avere ricambiato i sorrisi e avere mentalmente ringraziato il pensiero di una hostess gentile.
Quando scesi dall’aereo, il sole non c’era più perché era nascosto dietro ad uno spesso strato di nuvole ma non fu la sola mancanza. Lo stesso freddo che mi aveva assalito quando avevo messo piede nell’aeroporto di Santiago, riprese ad insinuarsi dentro di me mentre vedevo i sorrisi un po’ più spenti. Lentamente e inesorabilmente, atterrai nella realtà e presto si offuscarono del tutto. La vacanza era finita.
Sapevo bene di non essere più a Cuba ma accettai con serenità l’idea di essere di nuovo in un paese dove il divertimento, la felicità e il calore umano si trovano soltanto all’incrocio di eventi momentanei. Difficilmente li avrei trovati in contemporanea ma, se a Cuba erano stati gli altri ad inondarmi di gioia di vivere, che avevo potuto sentire e respirare in ogni momento della giornata, da quando la signora che mi ospitava mi portava la colazione fino a quando bevevo un cubalibre con gli amici osservando il rito della passeggiata, era arrivato il momento di restituire tutto quello che avevo ricevuto. 
Con lo sguardo sognante e il sorriso perennemente esposto come la pubblicità di un dentifricio, assecondai tutta la mia voglia di essere e di parlare ridendo di ogni piccola cosa, raccontando quello che avevo visto e combinato a Cuba. Portai ventate di entusiasmo ovunque mi recavo. Era importante avere sempre un semplice, ingenuo il sorriso sulle labbra: aiuta a vivere con gli altri nel modo giusto. Mi piaceva la persona nuova che ero diventato, molto sicura di sé e sempre di buon umore. Viaggiando, avevo ritrovato parti di me che si erano perse nelle mille sfaccettature di una vita che non mi apparteneva più, limato strati di timidezza, scoperto in me risorse insospettate e una fantasia istintiva per cavarmela in ogni situazione e, forse il cambiamento che apprezzavo di più, avevo imparato la pazienza.
Dovetti essere apparso molto cambiato a coloro che mi conoscevano meglio, perché mi fissavano con gli occhi di chi si trova di fronte a una persona che non capivano, ad una scheggia impazzita nel panorama delle solite convenzioni. Mi disinteressai degli amici che volevano la persona accomodante che ero prima di partire, facevo soltanto quello che mi rendeva felice, che mi appagava. Chi mi voleva bene doveva accettarmi per come ero, anche se ero cambiato. Le cose dovevano succedere con naturalezza, non per obbligo, né con il ricatto dei sentimenti e dello scambio.
Feci nuove amicizie con animo diverso. Un sorriso per un sorriso era il mio metro di cambio e, con pazienza, attesi i giorni in cui avrei dato a tutti il meglio di me.

Non è facile assorbire l’impatto con la realtà di tutti i giorni che avevo facilmente dimenticato, e diventa ogni giorno più difficile mantenere il sorriso. Mi sembra debole come una piccola fiammella in balia di un vento capriccioso, di fronte a centinaia di persone che diffidano e si lamentano. Abituato ad una vita semplice, trovo inconcepibile e mi riempie di rabbia impotente vedere come i bravi italiani si pestino i piedi a vicenda, o si insultino con pretesti spesso inesistenti. Non comprendo i motivi per i quali le persone che si trovano una coda sbuffino di irritazione, o suonano il clacson con l’impazienza tipica prodotta dallo stress. Censuro con un sorriso gli egoismi con cui chiunque cita stupidi problemi, ingigantendoli al livello di questioni vitali, infischiandosene dei disagi procurati ad altri, ma cerco sempre di richiamare chi conosco al fatto che la sua libertà finisce dove inizia quella di un altro.
Purtroppo sono tutti sordi, quelli veri intendo, perché ascoltano solo le voci tuonanti dei loro egoismi. La vita, quella stessa vita che è un dono sufficiente grande per essere felici, è tutta una grande ipocrisia. 
Quando sorrido al lattaio, a chi mi tratta con toni e atteggiamenti maleducati, alle persone che conosco appena, alla ragazza carina per la semplice gioia che mi dà vedere una bella persona, ma anche quando sorrido senza uno scopo preciso, mostro uno stato d’animo che continua a vivere dentro di me, nonostante tutto. Dono sinceramente ed ingenuamente una parte di me, un piccolo, tenero, importante sorriso a tutti. Lo salvaguardo come una specie in via di estinzione, e riuscirei a reggere a lungo il confronto con la gente se non fosse per le ragazze. Non è facile, occupano un posto consistente nella mia vita.
E’ stata la prima cosa che ho fatto, quella di tornare con i piedi per terra nei rapporti con loro. Non mi riferisco assolutamente al sesso facile in sé. Le espressioni sempre diffidenti con cui mi fissano quando le saluto, o semplicemente sorrido loro, mi colpiscono sempre come schiaffi in piena faccia.
“Cosa vuole questo qui da me?” è l’inquietante interrogativo che si agita in quelle menti complicate, mentre lineamenti delicati e dolci si trasformano in espressioni tese, addirittura terrorizzate quando poi mi prendo gioco del loro stupore. Ma, contrariamente alla facciata strafottente, non posso mentire a me stesso: quelle reazioni mi sconvolgono, mi intimidiscono. Mi sento prigioniero quando non posso più ridere, scherzare, esprimermi come facevo a Cuba, dove le tentazioni erano all'ordine del giorno, dove non era passata nemmeno un’ora senza che una chica non mi abbordasse in spiaggia, nella calle o sopra la gua-gua.
Sospiriamo davanti ai film, pensiamo a quanto sarebbe bello se la passione che sconvolge i protagonisti capitasse a noi, eppure con la persona, nella sera, e nell’atmosfera dei nostri sogni, puntuali, ci colgono i dubbi. Il fuoco brucia.
Io penso ai miei innamoramenti di Cuba, brevi ma intensi. Non sono state ore di sesso meccanico, ma rapporti speciali, coinvolgenti e anche divertenti con persone che mi piacevano, che mi hanno lasciato qualcosa. Sono stati come tanti film: passioni che mi hanno fatto stare bene.
Per le ragazze cubane l'amore è un gioco che conoscono molto bene, per la gioia del ragazzo cubano, che non ne frequenta mai meno di due alla volta, come per quella del maschio latino, frustrato da tante manovre con le donne mediterranee. Eppure, gli amici cubani non mi credevano quando, semplificando, raccontavo le difficoltà cui vado incontro per combinare una semplice serata con una interessante e interessata ragazza italiana, ma si stupivano, i sorridenti chicos, quando notavano che alla turista italiana piace molto parlare.
“Non vogliono fare altro che parlare per ore ed ore” era la frase alla quale sorridevo con infinita comprensione.

“Se fossimo a Cuba questa benedetta ragazza non si comporterebbe così” mi sono ripetuto sempre più spesso quando uscivo e, alla ennesima espressione ombrosa, piena di una crudeltà che soltanto chi ingenuamente si propone e si apre agli altri può arrivare a capire, mi sono deciso di scrivere tutte queste sensazioni.
All’inizio l’avevo considerata una temerarietà. Il foglio bianco mi spaventava moltissimo ma gli indirizzai contro tutta la rabbia sottile che mi montava dentro ad ogni barriera con cui mi scontravo quotidianamente. Ad un certo punto, è stato come aprire una valvola. I fogli sono diventati una lunga spiaggia candida su cui spandere le onde dei ricordi più belli del mio viaggio, i colori, gli odori, le emozioni, tutto quello che mi era rimasto impresso.
Avevo lasciato da parte i ricordi più eccitanti, ma era evidente che non avrei raccontato Cuba senza descrivere le sue donne, il loro modo di vivere e di fare l'amore, l’eccitazione per come ballano la salsa, la loro gelosia martellante, la naturalezza con cui si avvicinano, il calore che sanno indurre con uno sguardo profondo. Stavo mutilando uno splendido sorriso di una parte importante, per questo ho scritto anche le mie emozioni più intime. Sono cose strane, le emozioni.
Il sesso e l’innamoramento sono indispensabili per stare bene, per la maggioranza della gente è il senso della vita se incontrano la persona che li incarna entrambi. La ricerca dell’anima gemella consuma fette generose dell’adolescenza e della giovinezza, e sarebbe assai più leggera e gratificante se le persone fossero spontanee e sincere, meno alterate da atteggiamenti che non gli appartengono, complicati dal fatto che nessuna sembra possedere più un dono fondamentale: la semplicità. Ma questa è solo la mia opinione.
Le carezze valgono certamente più di ore di parole, ma noi abbiamo persino paura di sfiorarci. Lasciamo annegare tra i flutti della sfiducia contatti delicati e sinceri di mani amiche, il bene inestimabile di uno sguardo che dovremmo invece apprezzare senza esitazioni perché è quello che desideriamo, il fuggevole sorriso di una persona sconosciuta e una parola data senza riserve che ci fa sentire che esistiamo.
Non voglio che paragoni improponibili mi impediscano di godere dei cambiamenti che sono rimasti profondamente dentro di me, ma mi mancano i sorrisi di Cuba e non posso impedirmi di pensare a Cuba ogni volta che bevo un cubalibre. E’ un sapore che mi è entrato nel sangue, come il calore di quel bellissimo paese.
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