Omelia su san Gregorio Barbarigo vescovo

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Caterina63
00giovedì 3 settembre 2009 08:00
Omelia di padre Tomas Tyn O.P.

su san Gregorio Barbarigo
Vescovo del XVII secolo
31 maggio
Rapporto fra Fede, Cultura e Carità.
Ministero episcopale e Sacerdotale. Scuole Cattoliche.


Questa festa è stata estesa a tutta la Chiesa dal Papa di felice memoria Giovanni XXIII nel 1962 nel messale dell’antico rito. Essa però è stata tolta dal calendario delle celebrazioni dei Santi secondo il rito riformato. Tuttavia non è proibito a noi, che veniamo chiamati "nostalgici", continuare a ricordare questo Santo. La nostalgia non è un difetto, anzi è una parola bella, significa il desiderio del ritorno. E che cosa è questa nostra vita cristiana se non la nostalgia del paradiso terrestre, che Gesù ci ha riaperto con la sua beata Passione?

Vi confesso che non conoscevo la vita di questo santo e, per preparare questa omelia, ho consultato la Bibliotheca sanctorum cercando di approfondire l’argomento.

Anzitutto è cosa molto commovente notare che l’educazione e la formazione religiosa di Gregorio, quando era bambino, fu interamente affidata a suo padre. Rimase orfano di madre in tenerissima età. Il libro della Sapienza dice che la gloria dei padri è la sapienza dei figli. Ciò vuol dire che questo figlio, che poi sarebbe divenuto santo, ebbe un ottimo maestro di vita in suo padre. Cari fratelli, questo ci fa riflettere sulla necessità di rivalutare il dono della famiglia e di rivalutare anche il ruolo della paternità: povera patria potestas, com’è malmessa!

Le nostre leggi positive tentano di eludere la lex naturalis Dei, cioè quei vincoli profondi che legano i familiari tra loro, soprattutto i figli ai genitori. I genitori danno ai figli la vita umana, dono preziosissimo, in cui essi collaborano intimamente con Dio, creatore di anime. I genitori non possono generare le anime, poiché l’anima non è generabile, ma solo creabile. Pensate, cari fratelli, all’eccelsa dignità dei genitori che danno vita a un altro essere umano, e con la vita biologica danno anche vita all’anima sua. Dio crea l’anima, però i genitori hanno il cómpito di educare quell’anima ad aprirsi alla luce del Vangelo, allo splendore della legge del Signore, alla conoscenza del cammino che Dio ha tracciato per ogni uomo e che deve essere percorso con perseveranza e fortezza. È edificante constatare il ruolo che il padre di Gregorio Barbarigo ebbe nella vita del figlio, occupandosi della sua educazione sia umana che religiosa.

Gregorio fece ottimi studi umanistici. Era un grande conoscitore delle lingue classiche (latino e greco). Nel Seminario di Padova fondò una stamperia, che ben presto divenne una celebre tipografia: l’editrice Gregoriana. Come primo libro fece stampare una grammatica greca. La Chiesa è sempre amica delle scienze e dell’approfondimento intellettuale. Purtroppo al giorno di oggi c’è una forte ricaduta nella barbarie. Perciò la Chiesa, che è mater et magistra, ha il cómpito di illuminare le genti, perché est lumen ad illuminationem gentium, come ben profetò Simeone, quando portò nelle sue braccia Gesù bambino per offrirlo a Dio onnipotente ed eterno, dicendo: " I miei occhi hanno visto la tua salvezza, o Signore, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele " (Lc 2, 30-32).

Il santo festeggiato oggi, san Gregorio Barbarigo, si dedicò molto all’approfondimento intellettuale e culturale non solo per sé, ma anche per gli alunni dei seminari di Bergamo e di Padova, che egli riformò. Pregava con grande devozione l’ufficio della Beata Vergine. Questo è un distintivo della spiritualità cattolica, ovvero cristiana. Chi è cristiano è cattolico: i due termini s’equivalgono. Il segno distintivo della spiritualità cattolica (e perciò autenticamente cristiana) è la devozione alla Madre gloriosa del Signore.

A 18 anni Gregorio fu considerato maturo per poter essere iniziato ai segreti della diplomazia veneziana e fu aggregato all’ambasciatore Alvise Contarini, inviato della Serenissima a Münster, per discutere la pace di Westfalia. A Münster incontrò il nunzio Fabio Chigi, il futuro Alessandro VII. Purtroppo è andata perduta l’ampia corrispondenza epistolare tra il Chigi e il Barbarigo. Conosciamo solo quel poco che l’Angelini, un biografo settecentesco del santo, ci ha tramandato, sufficiente tuttavia a mostrarci quali tesori di sapienza e di grazia ci fossero in quelle due anime. Fu merito del Chigi guidare San Gregorio negli anni dell’adolescenza verso la meta cui il Signore lo chiamava e metterlo a contatto con una sorgente di spiritualità (San Francesco di Sales) che accanto a San Carlo Borromeo costituì, in grande equilibrio di dolcezza e di gravità, di bontà e severità, di confidenza in Dio e di forte azione umana, la particolare caratteristica dell’animo del nostro santo. Si racconta che il Chigi e il Barbarigo stringessero amicizia, perché entrambi avevano l’abitudine di recitare con intensa devozione l’ufficio della Madonna. Prima che si dividessero per tornare l’uno a Roma, l’altro a Venezia, il Chigi gli consegnò la Filotea di San Francesco di Sales dicendogli: " Ecco una fonte dalla quale potrai attingere stimoli e incendi per la volontà e per il cuore ". Diventato poi vescovo di Bergamo, il Barbarigo la fece tradurre in italiano e distribuire ai suoi preti, perché dal pio e dotto vescovo di Ginevra imparassero la via della santità.

Cari fratelli, vi raccomando la lettura degli scritti di San Francesco di Sales, uno dei santi più pratici e più concreti, che seppe unire l’austerità alla dolcezza. Un buon maestro della dottrina cristiana dovrebbe sempre avere austerità nella verità e dolcezza nel modo di proporla. Ebbene Francesco di Sales fu un eccelso maestro di dottrina ascetica, per il rigore della sua pedagogia cristiana e per la mitezza dei suoi modi.

Nel 1655, quando aveva trent’anni, ricevé la veste talare e gli ordini minori dalle mani del patriarca di Venezia Gianfranco Morosini. Il 25 settembre di quello stesso anno si laureò in utroque iure, nel dicembre fu consacrato sacerdote e il giorno seguente celebrò la sua prima Messa nella chiesa di San Giovanni Evangelista. Andò poi a Roma (1656-1657), dove frattanto il suo amico e protettore card. Chigi era stato eletto papa, e fu nominato Referendario delle due segnature. Oltre a svolgere i compiti propri del suo ufficio a Roma, continuò i suoi studi di teologia: pensava infatti che un prete non dovesse mai dire basta con lo studio. Cercò la conversazione dei dotti e fece della sua casa, corredata di una ricca biblioteca, un centro di convegni culturali. In una lettera al padre scrisse che nella sua stanza amava molti libri e una mensa sobria. Vedete quale nutrimento giovava a lui, un nutrimento sobrio per il corpo e un nutrimento molto intenso per l’anima: i libri! Amava leggere e meditare. Si dedicava alla lettura così come la praticavano i medioevali. È vero che nel Seicento c’era un altro clima, ma, come si vede in questo caso, i Santi hanno sempre mantenuto il gusto della lettura, una lettura certo non superficiale (come quando si legge una notizia del giorno), ma una lettura meditata, approfondita, continuamente riproposta.

Al giorno d’oggi c’è una deprecabile moda, diciamocelo con franchezza, c’è un fumo mondano di estrazione diabolica, che entra ahimè anche nella Chiesa: un populismo a oltranza, un populismo falso. Solo una persona istruita e spiritualmente profonda può far del bene anche al popolo. Invece oggi si dice: è necessario che tutti si facciano ignoranti, che tutti rinuncino a qualsiasi approfondimento culturale. Addirittura si propone capziosamente: " Bisogna togliere di mezzo il latino, perché la gente non lo capisce ". Una persona, se sa una parola di latino, quasi dovrebbe arrossire di vergogna per il suo scarso egualitarismo. Sono affermazioni terribili, affatto perverse, queste cose ed altre ancora peggiori si trovano negli scritti di Jean-Jacqes Rousseau. L’egualitarismo è una grave piaga. Guai se entra nella Chiesa, nel corpo mistico di Cristo! Ma se dovesse entrarvi, sarebbe sempre un corpo estraneo, destinato a essere espulso a suo tempo.

San Gregorio Barbarigo a Roma non smise di studiare e di consolidare la sua dottrina, ma nel contempo assisteva gli appestati di Trastevere, tanto che fu messo a capo di quel popolare rione. Si preoccupò di fare un censimento dei poveri e degli ammalati, di dividere in zone il rione per rendere più capillare ed efficiente la carità, e si prodigò con zelo e intelligenza nel portare sollievo ai colpiti dal morbo.

continua..............

Caterina63
00giovedì 3 settembre 2009 08:00
Dopo una così confortante prova, il Santo Padre lo inviò a reggere la diocesi di Bergamo (1657). Sua prima preoccupazione, appena egli fu arrivato nel territorio bergamasco, fu quella di dedicarsi alla formazione del clero. Era un vescovo severo, severissimo. Ma anche buono nel contempo. Si rese ovviamente inviso ai suoi chierici. Purtroppo spesso succede che, quando si fanno riforme salutari, non si riscuote una grande simpatia. Tuttavia Gregorio Barbarigo capì di essere a servizio del Signore, non degli uomini, come scrisse san Paolo: " Si adhuc hominibus placerem, Christi servus non essem ", [= se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo (Gal 1, 10)]. Invece al giorno d’oggi prevale su tutto la captatio benevolentiae. Gregorio invece sosteneva (poco democraticamente, per la verità) che la responsabilità maggiore del malcostume e del lassismo l’hanno i capi e le guide spirituali del popolo. Chi ha più responsabilità deve avere anche più santità e soprattutto più dottrina, dottrina ortodossa, dottrina provetta. Diceva nel suo bel latino: " Secularium mores languescentes fierent, ubi clericorum vita non splendesceret " [= se la vita dei chierici non splendesse, i costumi dei laici languirebbero]: frase molto significativa. Quindi i costumi del clero devono splendere intemerati, perché la vita del popolo non languisca.

Come prima misura, fece periodicamente esaminare i confessori, sospendendo i non adatti da questo ministero così delicato. Voi sapete, cari fratelli, quanto sia importante la confessione. Non mi dilungo su questo. È sufficiente che vi dica — non vi rivelo nessun segreto — che al giorno d’oggi ahimè vale l’adagio quot capita, tot sententiae. Uno va in un confessionale e sente una dottrina, poi va in un altro e ne sente un’altra. Dov’è la morale cattolica? Dov’è il diritto canonico?

Inoltre Gregorio fu rigoroso nella scelta dei candidati alle ordinazioni sacerdotali. Arrivò a escluderne 54 dai 60 che gli erano stati presentati, e la cosa, dati i costumi di quei tempi, non deve meravigliarci. Si dedicò al potenziamento del seminario, anticipando in questo l’affermazione di san Pio X, che considerava il seminario "la pupilla del suo occhio". Una delle più gravi tentazioni della Chiesa di oggi è questa: avendo noi poche vocazioni, prendiamo su tutto. No! Se abbiamo poche vocazioni, chiediamo al padrone della messe che invii degli operai, ma che siano operai buoni!

Nel 1660 la sua opera fu riconosciuta e ricompensata dalla Santa Sede con l’elevazione alla porpora cardinalizia: aveva 35 anni e ne erano trascorsi appena 5 da quando aveva indossato l’abito sacro. Qualche anno dopo (1664) fu trasferito nell’importante diocesi di Padova. E lì, salvo un breve soggiorno romano (1676-1680), rimase fino alla morte (1697).

Nella nuova sede patavina rivelò sùbito un grande zelo per le anime e, soprattutto, per la formazione dei parroci. Lui, che tanto amava i libri e la cultura, diceva che per i parrocchiani l’unico libro da leggere era il parroco. Il popolo doveva trovare nel suo parroco un esempio di vita orientata a concretare quotidianamente il vangelo e a rispettare la legge del Signore.

Nel 1690 rinnovò con la Ratio studiorum seminarii Patavini il curriculum di studi del seminario a cui aveva chiamato valenti maestri. Se la regola del seminario ci sorprende per la novità dei concetti, ancor più restiamo meravigliati per la grandiosa concezione del piano di studi, ispirato dalle istituzioni della Compagnia di Gesù. Il suo programma era tale da far venire i brividi ai nostri svirilizzati buonisti. "Io devo preparare i miei chierici per armarli contro l’impero di Satana, perché siano soldati capaci di svellere la zizzania e le spine con le parole e le opere". Il sacerdote deve essere un valoroso combattente nella terribile battaglia contro il potere e le insidie di Satana. San Gregorio tenne sempre nel dovuto amore la dottrina. Al contrario di certi teologi di oggi che vorrebbero risolvere la dottrina nella pastorale, egli, secondo la migliore tradizione della Chiesa, non ammetteva altra pastorale che non fosse dottrinale.

Da qui vediamo gli errori di coloro i quali–lo ha detto lo stesso cardinale Ratzinger- fanno del recente concilio, prevalentemente pastorale, un superdogma. Allo stesso modo, dopo la rivoluzione del 1968, si è diffusa nella Chiesa l’idea che ogni presa di posizione della Chiesa debba essere solo ed esclusivamente pastorale. Invece i Santi dicono il contrario: "Non c’è pastorale che non sia fondata sulla dottrina".

Studio del latino anzitutto. Anche durante le ricreazioni veniva imposto di parlare in latino emendate et castigate, due avverbi che ricordano Cicerone e Quintiliano, e ciò non solo per abituare i suoi chierici a una maggiore comprensione della lingua della Chiesa, ma anche perché era convinto del senso di misura che tale studio avrebbe donato. E poi del greco, per intendere meglio il Nuovo Testamento. Accanto a quello del latino e del greco volle lo studio dell’ebraico, la lingua dell’Antico Testamento, e del turco, arabo, persiano e siriaco, naturalmente non tutto per tutti, allo scopo di far capire la mentalità orientale ai suoi chierici e avere sempre pronti sacerdoti da inviare nel vicino oriente per le conversioni degli ortodossi e dei musulmani. San Gregorio Barbarigo aveva certamente intuito la funzione di ponte che Venezia — la sua città natale — esercitava tra Occidente e Oriente. Né trascurò la formazione scientifica ("matematica" come si diceva allora: si pensi che la specola astronomica del seminario di Padova precedette quella dell’Università) e giuridica (veniva studiato anche il diritto civile). Ma tutto questo doveva essere come un preambolo alle scienze sacre. " Le Scole maggiori da ogni lezione cavino qualche argomento per amare Dio ". Filosofia aristotelica emendata e nei testi originali, tomismo, teologia dogmatica e morale, liturgia, pastorale ed eloquenza costituirono i fondamenti della cultura del clero patavino.

Scrisse al Marziale: " A me preme fra tutte la vostra scuola di retorica. Da essa dipende il bene di tutta la diocesi, perché se mi fate i vostri scolari buoni retorici, questi diventati parrochi sapranno predicare e insegnare ai popoli, con frutto delle loro anime e del servizio di Dio ". A esse volle aggiungere la Storia ecclesiastica, che faceva consistere soprattutto nello studio appassionato dei concilii (" in cui — scriveva — sta veramente tutta la storia e la teologia ") e attorno ai quali aveva raccolto molto materiale inedito per farlo pubblicare. Sognava anche per i suoi sacerdoti una specie di Enciclopedia ecclesiastica dove tutte le obiezioni e tutte le eresie avrebbero avuto la loro inequivocabile risposta dalla voce dei Padri, dei concilii e degli scrittori ecclesiastici. Il grande libro doveva però restare il Crocifisso. " Il libro che voi, miei carissimi, dovete studiare sempre è il Crocifisso. Oh se i miei preti fossero studiosi di questo santo libro e leggessero in esso almeno un’ora al giorno! ". Solo dopo di esso gli altri. Per i libri egli aveva sempre avuto una grande passione e arricchì perciò il seminario di una buona biblioteca e di un "torcoletto" [= piccolo torchio] per la stampa che ben presto divenne la celeberrima tipografia "Gregoriana". A giustificarne la gloria basterebbero il Lexicon totius Latinitatis e l’Onomasticon del Forcellini.

Tanto amò il suo seminario, in cui aveva riposto — come attesta il suo antico biografo — " la parte più tenera del suo affetto, la più acuta della sua intelligenza, la più penetrante del suo sapere, la più ragguardevole della sua magnificenza ", da lasciarlo poi in morte erede universale dei suoi beni.

Per il perfezionamento ascetico e culturale del suo clero istituì anche una Congregazione degli Oblati, preti sempre pronti a disposizione del loro vescovo. Curò in modo particolare le riunioni per i casi di coscienza e celebrò con grande solennità due sinodi nel 1667 e nel 1683. Poteva ben dire ai suoi preti, perché per primo ne aveva dato l’esempio: " Questo credo, figlioli miei, che sia uno dei segni maggiori della nostra vocazione: quel mai stancarci, quel mai dire basta... quel pensare continuamente a promuovere la gloria di Dio ".

Accanto alla formazione del clero stimò importantissima l’educazione cristiana della gioventù. Le scuole della dottrina cristiana esistevano già a Padova da quasi un secolo, istituite dal vescovo Ormaneto, che era stato segretario di san Carlo Borromeo; ma la cacciata dei Padri Gesuiti, la peste e la malattia di alcuni vescovi avevano contribuito a renderle quasi inoperose. Gregorio Barbarigo s’impegnò a riorganizzarle. Alla sua morte ne esistevano ben 314 su 320 parrocchie. Aveva diviso la città in zone. Per ogni zona c’era un "pescatore" incaricato con altri collaboratori di incrementare e controllare la frequenza dei ragazzi. Ogni classe non doveva comprendere più di una decina di scolari e doveva essere provvista di calamai, carte, penne e orologio. Aveva insistito in modo particolare perché si facesse imparare il significato e non solo i termini delle formule catechistiche. Preghiere e canti dovevano intervallare la lezione e una disputa pubblica concluderla. Esistevano anche degl’infermieri che dovevano preoccuparsi della salute fisica e delle condizioni economiche degli allievi. I maestri (circa un migliaio per la sola città) erano reclutati in tutte le classi sociali: artigiani, operai e anche professori dello Studio. Poiché anche gli adulti avevano bisogno di istruzione religiosa, egli non solo incrementò per loro la spiegazione del catechismo, ma nel 1666 fondò la Congregazione degli Adulti, intensificò la predicazione chiamando gli oratori più famosi e lanciò — un anno prima della sua morte — una geniale iniziativa: un corso di filosofia cristiana da tenersi nel duomo di Padova per la durata di tre anni (circa 150 conferenze in tutto) per le persone colte. A fare ciò fu spinto dalla constatazione che nello Studio patavino persistevano pericolosi residui di aristotelismo materialista, ateo e negatore dell’immortalità dell’anima. Ai frequentatori del corso diceva: " Noi qui lavoriamo ai rami, mentre quelli tagliano le radici ". Non poteva essere più chiaro e limpido nell’analizzare la situazione di allora. La Chiesa d’oggi potrebbe far sua questa affermazione del Barbarigo e dire: " Noi cattolici lavoriamo ai rami, mentre i laicisti, i marxisti e gli atei tagliano le radici ". È alla radice, cari fratelli, che bisogna combattere.

I nostri famigerati 163 — non oso nemmeno chiamarli "teologi"; abbiano pazienza questi pseudocultori di scienze che non sono più religiose, ma bisogna considerarli così — vogliono (capite, cari fratelli, l’insidia!) accreditare il fatto che non c’è altra dottrina che non sia pastorale. Invece i santi pensavano esattamente il contrario, cioè che non c’è altra pastorale, che non sia dottrinale. Capite la differenza? Ecco il motivo (non sono parole mie; io non oserei mai esprimermi in proposito; sono parole del prefetto della sacra congregazione per la dottrina della fede, il card. Joseph Ratzinger, in un discorso da lui rivolto ai vescovi cileni), ecco il motivo per cui essi fanno dell’ultimo concilio un superdogma. Perché? Proprio per convalidare quello che si diceva in quegli anni (1968 e ss.), anni di sconvolgimenti rivoluzionari, malattie infantili del comunismo. Allora si diceva: " È proibito proibire ". Questa era la mentalità. I Santi dicono: " Non c’è pastorale, che non sia un insegnamento di dottrina! ". Splendido è l’esempio di Gregorio, inattuale e proprio per questo obbiettivamente attuale. Nelle sue visite pastorali, egli affidava ai suoi collaboratori quasi tutte le altre questioni, tranne una che riservava sempre a sé: la revisione della dottrina che veniva insegnata nelle scuole da lui fondate. Altro che i nostri 163 sedicenti teologi che non hanno ricevuto una formazione dottrinale, o ne hanno ricevuta una molto blanda! I pastori della Chiesa dovrebbero essere preoccupati anzitutto della santità della dottrina.

Per i poveri ebbe una lodevole iniziativa: come ogni buon cristiano egli amava i miseri, ma non con quella demagogia pauperistica che oggi è di moda, bensì con la convinzione che bisognasse non solo sfamare i loro corpi, ma anzitutto condurli a Cristo. Allora nel cortile del vescovado introdusse la catechesi. Si insegnava il catechismo una volta alla settimana; i poveri si sfamavano e ricevevano la parola del Signore.

Inoltre Gregorio Barbarigo prese posizione contro quelli che chiamava "falsi contemplativi". Erano i "fideisti", una setta protestante proveniente dal nord. Ebbero una certa diffusione, anche tra i cattolici affetti da lassismo religioso e poco fervorosi. Invece i fideisti erano fervorosissimi nei loro vaneggiamenti di falso misticismo, convinti com’erano che solo la fede — strumento di conoscenza superiore alla ragione e da essa indipendente — consentisse di conoscere le supreme verità. Il vescovo Barbarigo, così dedito alla preghiera e così amante della vita mistica, chiamò i gruppi di fideisti " conventicole di falsi contemplativi ". Non era molto ecumenico!

Così anche al giorno d’oggi dobbiamo imitare l’esempio di questo santo vescovo, cioè dobbiamo onorare la dottrina. Paradossalmente quello che il Concilio Vaticano II ha auspicato ma che poi non si è realizzato, proprio noi, che amiamo la tradizione, non possiamo far altro che realizzarlo: l’apostolato dei laici. La Chiesa non gode di buona salute, quando delega tutto ai laici. Però dobbiamo pensare che questa "investitura" purificherà la Chiesa di Cristo. Data la desistenza delle autorità competenti, la responsabilità torna a noi. Cerchiamo, cari fratelli, di tenere alta la parola di Dio, di tenere viva, soprattutto, la dottrina cattolica, la dottrina che non può subire dei mutamenti. Manteniamo pura la parola del Signore, che poi sosterrà anche noi nel giorno del giudizio e così sia.


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