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00mercoledì 6 luglio 2005 15:05
Ratzinger e il protestantesimo
Un articolo da Sodalitium

10/5/2005 - Ratzinger protestante? Al 99 %
di: di don Francesco Ricossa dal sito: www.sodalitium.it

SODALITIUM n. 33 (Aprile 1993...) Sarebbe passato inosservato, tranne che per gli addetti ai lavori, se il mensile “30 Giorni” ed il settimanale “Il Sabato”, legati a Comunione e Liberazione, non gli avessero dato risalto. Un risalto meritato. Intendo parlare dell'intervento che il “Cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede” Joseph Ratzinger ha tenuto a Roma il 29 gennaio 1993 presso il Centro evangelico di cultura della locale comunità valdese. Il testo integrale dell'intervento di Ratzinger e quello del prof. Paolo Ricca, valdese, si può leggere nella rivista “30 Giorni” n. 2 Febbraio 1993, pagg. 66-73, pubblicato sotto il titolo redazionale (ma significativo) di “Ratzinger, il prefetto ecumenico”. Questa lettura dev’essere completata con l'intervista accordata dal teologo luterano Oscar Cullmann a “Il Sabato” n. 8, 20 febbraio 1993 pagg. 61-63, pubblicata sotto il titolo redazionale (ed altrettanto significativo) di: “Il figlio di Lutero e sua eminenza”. Per i lettori di “Sodalitium” presento un riassunto delle idee del “Card.” Ratzinger (che ha fatto a Mons. Guérard des Lauriers l'onore di “scomunicarlo”) sulla Chiesa e l'ecumenismo. Chiunque può verificare le fonti sulle riviste citate. E constatare se Ratzinger è ancora cattolico oppure, come palesemente appare, non lo è più.

Cullmann parla per bocca di Ratzinger Quando Papa S. Leone Magno, tramite i suoi legati, intervenne al concilio di Calcedonia, i Padri del Concilio disser “Pietro parla per bocca di Leone”. Leggendo l’intervento di Ratzinger presso i Valdesi e l’intervista di Cullmann si può dire che questi parla per bocca di Ratzinger. Le parole sono di Ratzinger, le idee di Cullmann. Per cui non c’è da stupirsi che i Valdesi “siano d’accordo al 99%, per non dire al 100%” (Ricca, “30 Giorni”, pag. 69).

Ma chi è Cullmann? Cullmann nacque nel 1902 a Strasburgo, patria del riformatore protestante Bucer al quale egli volentieri si richiama (“Il Sabato”, pag. 61). Alsaziano, egli vede in questo un “fatto provvidenziale” in quanto la sua popolazione è, in quel luogo, metà cattolica e metà protestante. Studiò teologia “sotto la guida di Loisy a Parigi” (Ardusso. Ferretti. Pastore. Perone. La Teologia contemporanea. Ma_riet_ti 1980, pag. 108). L’esegeta modernista e scomunicato non fu certo buon maestro. Ancor meno lo fu il Bultmann, “il grande demitizzatore dei Vangeli” (“Il Sabato”, pag. 63), col quale presentò la tesi di laurea sulla “Form_geschichte”. “Bultmann disse che era la miglior presentazione della sua Form_geschichte” (Pag. 63). In seguito si separò “radicalmente” da Bultmann, poiché costui mediava la lettura della Bibbia tramite la filosofia (esistenzialista) mentre Cullmann non accettava nessuna mediazione. Con ciò Cullmann non abbandona affatto l’approccio protestante alla Scrittura, e neppure “il metodo della storia delle forme” (Form_geschichte methode) di Bultmann, secondo il quale “compito dell’esegeta è scoprire il nucleo essenziale della Bibbia: Cullmann lo trova nella storia della salvezza” (Ardusso, op. cit. pag. 110). Insegnò tra l’altro alla libera facoltà di teologia protestante di Parigi (1948-72) ed alla facoltà Teologica Valdese a Roma. Partecipò al Concilio Vaticano II come osservatore e Paolo VI lo definì “uno dei miei migliori amici” (“Il Sabato”, pag. 62). “Durante il Vaticano II Cullmann, ospite personale del Segretariato per l’unità dei cristiani, contribuiva a determinare l’orientamento biblico, cristocentrico e storico della teologia conciliare (...) più recentemente Cullmann ha proposto un modello di ‘comunità di Chiese’ nel suo libro ‘Unità attraverso la diversità’ (Brescia 1988), modello apprezzato pure dal cardinale Ratzinger nel suo intervento alla chiesa valdese di Roma il 29 gennaio scorso” (pag. 62). Conobbe Ratzinger durante il Concilio, stimandolo “il miglior teologo tra i cosiddetti periti, gli esperti... Con una reputazione di progressista spinto” (pag. 63). Da allora i due sono in corrispondenza, dapprima su problemi esegetici; in seguito - dichiara Cullmann - « il carteggio si è ingrandito, specialmente in relazione alla proposta del mio modello di “unità mediante la diversità”, una proposta che, come abbiamo già detto, il Cardinale ha apprezzato in privato e in pubblico » (pag. 63). Cullmann si rallegra particolarmente di una lettera nella quale Ratzinger gli scrive “di aver sempre imparato” dai suoi studi, “anche quando non era d’accordo”. E Cullmann commenta: “Uniti nella diversità” (pag. 63). “L’opera di Cullmann (…) è da annoverarsi tra quelle che maggiormente hanno contribuito al dialogo tra cattolici e protestanti” (Ardusso, op. cit., pag.112) pur restando egli fermamente attaccato all’eresia, negando esplicitamente l’infallibilità della Chiesa Cattolica, e il primato di giurisdizione di Pietro e dei suoi successori (cf. Ar_dusso, op. cit., pag. 112; “Il Sabato”, pag. 62). Un ponte quindi tra cattolici e protestanti. Per far diventare protestanti i cattolici (facendo loro credere, per di più, di restare cattolici: “uniti” sì, ma… “nella diversità”!).

La Conferenza ai valdesi Già docente a Roma nella facoltà valdese di teologia, Oscar Cullmann conosce bene i valdesi insediati a Roma. È forse lui che li ha proposti al suo “discepolo” Ratzinger come un buon uditorio per esporre e lanciare le loro idee comuni. Il tema dell’incontro del 29 gennaio tra Ratzinger ed il prof. Ricca (protestante valdese) era duplice. Innanzitutto quello dell’ecumenismo in generale e del Papato, in seguito, quello della testimonianza. Più precisamente: che soluzione ecumenica dare alla questione del Papato; come rilanciare l’ecumenismo in crisi; come dare una testimonianza comune. Mi sembra di non tradire il pensiero di Ratzinger riassumendolo nei punti seguenti, salvo commentarli più diffusamente in seguito; 1) L’ecumenismo è necessario, fondamentale, indiscutibile. 2) Il Papato ne è il problema. 3) L’ecumenismo ha un fine ultimo “L’unità delle chiese nella Chiesa”. 4) Questo fine ultimo si realizzerà in forme a noi ancora sconosciute. 5) L’ecumenismo ha anche un fine prossimo, “una tappa intermedia” il cui modello è “l’unità nella diversità” di Cullmann. 6) Questa tappa intermedia si realizza mediante un continuo “ritorno all’essenziale”… 7) … favorito da una reciproca purificazione tra le chiese.

L’Ecumenismo “L’ecumenismo è irreversibile”, ama ripetere Karol Wojtyla. Joseph Ratzinger va oltre: “Dio è il primo agente della causa ecumenica” e “l’ecumenismo è innanzitutto un atteggiamento fondamentale, un modo di vivere il cristianesimo. Non è un settore particolare, accanto ad altri settori. Il desiderio dell’unità, l’impegno per l’unità appartiene alla struttura dello stesso atto di fede perché Cristo è venuto per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (“30 Giorni”, pag. 68). “L’ecumenismo” (o “riunione dei cristiani”. Pio XI) non è concepito come “ritorno dei dissidenti all’unica vera Chiesa di Cristo, dalla quale, precisamente, un giorno ebbero l’infelice idea di staccarsi” (Pio XI, Lett. Enc. Mortalium Animos, del 6/1/1928), non è neppure un metodo, o una iniziativa, tra le altre, dell’attività della Chiesa. Esso è fondamento della vita cristiana ed elemento costitutivo dell’atto di fede. Non si può essere fedele senza essere ecumenista (per Ratzinger); non si può essere fedele se si è ecumenisti (per Pio XI): “Chi dunque tien mano a cotesti tentativi ed ha di queste idee, con ciò stesso, per conseguenza manifesta, si allontana dalla religione rivelata da Dio” (Pio XI, Mortalium Animos). Lucidamente, il valdese Ricca espone il problema (senza che Ratzinger lo contraddica): “La crisi dell’ecumenismo sostanzialmente è dovuta al fatto che le chiese non sono cambiate abbastanza a motivo dell’ecumenismo. (…) Perché l’ecumenismo certo esige, con la pazienza di cui parlava il cardinale Ratzinger, dei cambiamenti profondi. A un certo punto, o cambia la chiesa o l’ecumenismo entra in crisi. (…) Si capisce che questo discorso vale per tutte le chiese” (“30 Giorni”, pag. 71). Insomma: o perisce la Chiesa, e vive l’ecumenismo; o vive la Chiesa e perisce l’ecumenismo (poiché mutare sostanzialmente, per la Chiesa, è perire). Ora l’ecumenismo è irreversibile: quindi la “Chiesa” (com’è ora, com’era soprattutto prima del Concilio) deve perire. Di qui la questione del Papato, che deve cambiare con la Chiesa, o perire. Il Papato “l’ostacolo maggiore per l’ecumenismo” Paolo VI dixit. Lo ricorda con compiacimento, l’eretico Ricca: “Il Papato, si sa, è un nodo cruciale della questione ecumenica, perché da un lato fonda l’unità cattolica e dall’altro, per esprimermi un po’ brutalmente impedisce l’unità cristiana [leggi: l’ecumenismo n.d.a.]. Questo lo ha riconosciuto molto coraggiosamente, devo dire, il papa Paolo VI in un discorso del 1967, in cui, appunto, ha detto (credo che sia l’unico Papa che l’abbia detto) che il Papato è l’ostacolo maggiore per l’ecumenismo. Un nobilissimo discorso [lo dice un eretico! n.d.a.] fra l’altro non soltanto per questa affermazione, ma per tutto l’insieme. Qui ci troviamo dunque, con il Papato, davanti a una vera e propria empasse” (“30 Giorni”, pag. 70). Dunque, se un dogma di Fede (solo il Ricca ricorda che si tratta di un dogma) che, per giunta, “è il fondamento dell’unità cattolica” è un’ostacolo, anzi è l’ostacolo per l’ecumenismo, Paolo VI, Ratzinger e tutti noi dovremmo concludere che l’ecumenismo deve perire. Perché è impossibile che una verità rivelata da Cristo per fondare l’unità voluta da Cristo possa essere l’ostacolo… all’unità! [Infatti il Papato, non è ostacolo, ma è l’unico mezzo per aver parte all’unità dell’unica Chiesa: “Nessuno sta in questa sola Chiesa di Cristo, nessuno ci persevera se non riconosca ed accetti l’autorità e la potestà di Pietro e dei suoi legittimi successori” (Pio XI, Mortalium Animos)]. Ratzinger lo sa e non può parlare liberamente come il suo “collega” (come egli chiama il Ricca). All’inizio, pertanto, scantona: «Io penso che il Papato sia senza dubbio il sintomo più palpabile dei nostri problemi, ma è ben interpretato solo se viene inquadrato in un contesto più ampio. Perciò penso che, affrontato immediatamente [com’era anche nella “scaletta” dell’incontro n.d.a.] non conceda facilmente una via d’uscita (“30 Giorni”, pag. 66)». Insomma: se si parla del Vaticano I, _l’utopia ecumenica muore sul nascere, gli equivoci si dissipano, Cullmann stesso non sarebbe più d’accordo, i veri cattolici mangerebbero la foglia. Quindi, si mena il can per l’aia e si lancia la formula di Cullmann: “Unità nella diversità” (ci ritorneremo). Alla fine però deve pur arrivare al problema del Papato. E cosa propone? Non certo il primato di giurisdizione che la Fede attribuisce al Papa. “Secondo la nostra Fede” spiega Rat_zinger “il ministero dell’unità è affidato a Pietro e ai suoi successori” (“30 Giorni”, pag. 68). Ma in cosa consiste questo “ministero dell’unità?” Ratzinger non lo dice. Per la Chiesa consiste nel primato di giurisdizione (autorità) del Papa su tutti i singoli fedeli. Per Cullmann consisterebbe al massimo (bontà sua!) in un primato di onore (il che è un’eresia: DS 2593): “Considero il servizio petrino un carisma della Chiesa cattolica, dal quale anche noi protestanti dovremmo imparare” - dichiara a “Il Sabato” - ma poi prosegue: «Il Papa è vescovo di Roma e in quanto tale gli si potrebbe concedere una presidenza in quella “comunità delle chiese” da me prospettata. Personalmente vedrei un suo ruolo come garante dell’unità. Lo si potrebbe accettare se non avesse la giurisdizione su tutta la cristianità ma un primato di onore» (“30 Giorni”, pag. 62). Per Ricca, ci sono tre possibilità: “O il Papato resta e resterà (...) più o meno quello che è oggi (...) e allora dobbiamo pensare che, appunto, l’unità sarà un dono finale che ci sarà dato quando Cristo tornerà [cioè: “Noi sotto il Papa? Mai e poi mai!” n.d.a.]. Seconda possibilità è che il Papato cambi. Cambi in una sorta di riconversione ecumenica del Papato. (...) Finora sono stato al servizio dell’unità cattolica; da ora in avanti mi metto al servizio dell’unità cristiana (...) [Papa = presidente di una nuova chiesa ecumenista n.d.a.]. La terza ipotesi invece è che il Papa resti quello che è, ma non si proponga come centro e fulcro dell’unità cristiana, ma semplicemente come centro dell’unità cattolica. (...) Le chiese potrebbero (...) riconoscersi reciprocamente come chiese di Gesù Cristo, realmente unite tra loro e realmente diverse tra loro, dandosi un appuntamento periodico in un Concilio veramente universale (...) [Papa = capo di una chiesa cristiana tra le altre unite in un consiglio ecumenico n.d.a.] (“30 Giorni”, pagg. 70-71). Per Ratzinger in cosa consiste il ruolo del Papa? L’ho dett egli tace, o meglio non ribadisce la fede cattolica (prima ipotesi di Ricca) e lascia intravvedere la terza ipotesi come tappa intermedia e la seconda come meta finale. Per l’intanto, ricorda come “le chiese ortodosse” (eretiche e scismatiche n.d.a.) “non dovrebbero cambiare nel loro interno molto, quasi niente, nel caso di una unità con Roma” (“30 Giorni”, pag. 68) “e che nella sostanza”, questo “vale non solo per le chiese ortodosse, ma anche per quelle nate nella Riforma” (“30 Giorni”, pag. 69) al punto che egli studiò, con amici luterani, vari modelli possibili di una “Ecclesia catholica confessionis augustanæ” (“Chiesa Cattolica di confessione augustana”, che segue cioè le eresie protestanti della “Confessione augustana”, sorta di “credo” protestante presentato dall’eresiarca Melan_tone a Carlo V) (cf. “30 Giorni”, pag. 68). Tutto ciò non assomiglia alle proposte (eretiche) di Cullmann e di Ricca (versione seconda)? Avremmo una Chiesa presieduta dal “Papa”, con un ramo “ortodosso” che resta “ortodosso” ed un ramo protestante che resta protestante. D’altra parte, per Ratzinger, gli “ortodossi” (e, mutatis mutandis, i protestanti) “hanno un modo diverso di garantire l’unità e la stabilità nella comune fede, diverso da come lo abbiamo noi nella Chiesa cattolica dell’Occidente” (cioè, per gli “ortodossi”, liturgia e monachesimo) (“30 Giorni”, pag. 68). Ora, chi non vede che liturgia e monachesimo presso gli ”Ortodossi” (come la Bibbia presso i protestanti) non sono affatto sufficienti a garantire l’unità e la Fede? Difatti, malgrado la liturgia, il monachesimo e la Bibbia essi sono scismatici (senza unità) ed eretici (senza fede)! Voler ridurre i dogmi di fede e l’azione per preservarli con la condanna dell’errore (da noi istituzionalizzata nel S. Uffizio di cui è Prefetto il Papa) a delle caratteristiche peculiari non della Chiesa Cattolica = universale, ma di un suo ramo occidentale (e romano), è aberrante! E non sono certo le citazioni del teologo “ortodosso” Meyendorff (che critica l’universalismo nella sua forma romana, ma critica anche, come dice, il regionalismo come si è formato nella storia delle chiese ortodosse”. Ratzinger in “30 Giorni” pag. 68) che danno al “prefetto ecumenico” una patente di cattolicità. Meyendorff, in fondo, ripropone l’aberrazione di Ricca: le chiese, tutte le chiese, anche la Cattolica, devono cambiare profondamente per assicurare l’ecumenismo. Insomma, Pio XI aveva messo il dito nella piaga quando scrisse (si direbbe che parlava di Cullmann): “Alcuni ammettono e concedono che il Protestantesimo, per esempio, troppo precipitosamente si disfece di certi capi di fede e di alcuni riti del culto esterno che, al contrario, la Chiesa Romana ritiene ancora. Ma subito aggiungono che questa pure però ha fatto cose che sono venute a corrompere la religione antica, aggiungendo e proponendo a credere dottrine non solo aliene dal Vangelo ma contrarie ad esse, come, si affrettano a dire, il Primato di giurisdizione attribuito a San Pietro ed ai suoi successori nella fede di Roma. C’è pure chi si lascerebbe andare a concedere al Pontefice Romano un primato d’onore, o fin una certa giurisdizione o certo potere: non son molti però; soltanto esigono si dica che ciò avviene per consenso dei fedeli e non per diritto divino. Non manca chi addirittura ha il pio desiderio di vedere a capo di questi congressi, diciamo così, variopinti, lo stesso Papa! D’altronde, di acattolici che si riempiono la bocca con queste prediche di unione fraterna, ne trovi molti; a nessuno però passa per il capo di sottomettersi ed obbedire all’insegnamento, al comando del Vicario di Cristo” (Pio XI, Mortalium animos). Come si vede, dal 1928 ad oggi, i Protestanti non hanno fatto un solo passo avanti, mentre abbiamo dovuto vedere ben altro che la presenza del “Papa” ai “variopinti congressi” degli acattolici.

Fine ultimo l'unità della Chiesa Ma torniamo a Ratzinger. Per non abbordare il problema del Papato, inizia il discorso dall'ecumenismo. In esso “la finalità ultima è, ovviamente, l’unità delle chiese nella Chiesa unica” (“30 Giorni”, pag. 66). È “l’unità della Chiesa di Dio alla quale tendiamo” (“30 Giorni”, pag. 67). Il fine verso cui Ratzinger ci vuole indirizzare, è falso in partenza. Se la “Chiesa è unica”, che ci stanno a fare “le chiese”? Questa “unica Chiesa” è, o non è, la Chiesa Cattolica? O la Chiesa Cattolica è una delle “chiese” che devono, in un futuro, unirsi (sempre più) nella “Chiesa unica”? Nel primo caso (Chiesa unica = Chiesa Cattolica): il fine è già raggiunto, la Chiesa è già “una”, l’ecumenismo non ha scopo se non quello dell’abiura, da parte degli eretici e scismatici, dai loro errori, e le “chiese” sono solo sette e conventicole che non devono unirsi ma sparire. Nel secondo caso (Chiesa unica = unione più o meno stretta di “chiese” più o meno diverse) Ratzinger ci propina l’errore condannato da Pio XI in “Mortalium Animos”: “A questo punto val la pena d’individuare e toglier di mezzo l’errore, in cui si fonda la questione e da cui partono le idee e le iniziative molteplici degli acattolici, relative all’unione delle Chiese cristiane. I fautori di essa hanno per vezzo di tirar fuori ogni tanto Gesù che dice: “Tutti sìano una cosa sola… si farà un ovile ed un pastore” (Giov. XVII, 21; X, 16); quasi che in queste parole il desiderio e la preghiera di Gesù sian restati senza effetto. Pensano che l’unità di fede e di regime - note distintive della Chiesa - non sia in fondo mai esistita prima di ora, e non esista oggi; la si può ben desiderare e forse pure raggiungere con un poco di buon volere comune, ma intanto, così come stanno le cose, è un’idea e non altro. Ag_giun_gon la Chiesa per sè, cioè di natura sua, è divisa in parti, vale a dire consta di più chiese o comunità particolari, le quali, disgiunte come sono, son d’accordo soltanto in qualche capo di dottrina, ma nel resto divariano e ciascuna ha i suoi diritti” (cf. Encicliche proibite, Marini ed. Roma 1972, pag. 81-82). Il “prefetto ecumenico” può spiegarsi? Per lui l'unica Chiesa di Cristo esiste già, ed è la Chiesa Cattolica, o no?

Come sarà la Chiesa del futuro? Purtroppo, temo che si sia già spiegato. Il fine ultimo (l’unione nella Chiesa delle chiese) è nel futuro, un futuro lontano e… sconosciuto. “Questo quindi lo scopo, la finalità di ogni lavoro ecumenic arrivare alla unità reale della Chiesa [che ora non esiste? Che è solo apparente? Irreale? N.d.a.], la quale implica pluriformità in forme che non possiamo ancora definire” (“30 Giorni”, pag. 66). E altrove: “Io non oserei per il momento suggerire per il futuro realizzazioni concrete, possibili e pensabili” (“30 Giorni”, pag. 68). Ricca ha, protestanticamente, molto apprezzato queste espressioni di Ratzinger. Perché coincidono col suo pensiero. Dopo aver ricordato gli otto secoli di lotte tra valdesi e cattolici, Ricca aggiunge: allora, “perché siamo insieme? Siamo insieme perché, se è vero che sappiamo bene chi siamo, e abbastanza bene chi siamo stati, non sappiamo invece ancora chi saremo. E la stessa riservatezza del cardinale nel non proporre modelli, cioè, appunto, nel non sapere, è proprio quell’atteggiamento che, in fondo, ci lega” (“30 Giorni”, pag. 69). Uniti, valdesi e seguaci del Vaticano II, nel non sapere come sarà la Chiesa! (Perché, come spiega Ricca, o le chiese cambiano o l’ecumenismo muore). Che un protestante si riconosca nell’idea di una futura Chiesa sconosciuta, passi. Ma un cattolico? Come si concilia tutto ciò con l’indefettibilità della Chiesa? Quale altro modello di Chiesa si può proporre ai protestanti se non quello voluto da Cristo e fondato su Pietro? Come può un “cardinale” non sapere come deve essere la Chiesa, quando Cristo l’ha fondata da duemila anni? Si direbbe che Ratzinger ha della Chiesa la concezione che Teilhard ha di Di la Chiesa non esiste… ancora; è in evoluzione… verso il suo punto Omega, la meta finale dell’ecumenismo.

L’unità nella diversità La Chiesa quindi sarà una (nella pluriformità). Nel futuro. Dio solo sa quando. E nel frattempo? Nel frattempo c’è “un tempo intermedio” (“30 Giorni”, pag. 66): “unità nella diversità”. «Questo modello - spiega Ratzinger - si potrebbe secondo me esprimere con la formula ben conosciuta della “diversità riconciliata”, e su questo punto mi sento molto vicino alle idee formulate dal caro collega Oscar Cullmann» (“30 Giorni”, pag. 67). Quale sia il modello-Cullmann lo abbiamo già visto. Come lo proponga Ratzinger lo vedremo qui di seguito. Basti dire che Ricca ha capito al vol “Desidero anzitutto dichiarare - ha replicato - che, rispetto a quello che ha detto ora il Cardinale Ratzinger, sono d’accordo al 99% per non dire al 100%. Anzi, mi rallegro e mi compiaccio. Su questa base si può costruire: lo stesso concetto di diversità riconciliata, come sapete, è di matrice luterana” (“30 Giorni”, pag. 69). Ratzinger pertanto ci vuol condurre ad una sconosciuta chiesa plurimorfa partendo da un fondamento di matrice luterana.

Ritorno all’essenziale Ma come si realizza, concretamente, questa “diversità riconciliata”? Non si tratta, ammonisce Ratzinger, di “essere contenti della situazione che abbiamo”, di rassegnarsi statisticamente ad essere diversi (pag. 68). Occorre invece, dinamicamente, perseverare “nell’andare insieme, nell’umiltà che rispetta l’altro, anche dove la compatibilità in dottrina o prassi della chiesa non è ancora ottenuta; consiste nella disponibilità ad imparare dall’altro e a lasciarsi correggere dall’altro, nella gioia e gratitudine per le ricchezze spirituali dell’altro, in una permanente essenzializzazione della propria fede, dottrina e prassi, sempre di nuovo da purificare e da nutrire alla Scrittura, tenendo lo sguardo fisso al Signore...” (“30 Giorni”, pag. 68). Quanti controsensi in poche righe!

Come si può “andare assieme” se si pensa e si agisce in modo diverso? Come può la “Cattedra della Verità”, la Chiesa di Cristo, imparare (qualche cosa che già non conoscerebbe) e addirittura farsi correggere dagli eretici? Come si può “rispettare” l’eresia e lo scisma, cioè il peccato? poiché è in quanto eretiche e scismatiche che le sètte protestanti o “ortodosse” si distinguono da noi. Ed infine, cosa significa “essenzializzare” (permanentemente!) la fede? L’idea è al centro del pensiero di Ratzinger (e non solo): “la ricerca del wesen, dell’essenza del cristianesimo, è una ricerca tipica della teologia tedesca da oltre un secolo a questa parte. Basti pensare alle opere di L. Feuberbach (1841), di A. Harnack (1900), di K. Adam (1924), di R. Guardini (1939), di M. Schmans (1947), e alla recente proposta di K. Rahner circa una formulazione sintetica del messaggio cristiano. Analogamente ai tentativi sopra ricordati, la ricerca di Ratzinger sull’essenza del cristianesimo porta chiaramente l’impronta del tempo nel quale è nata, quel tempo che è ormai da più parti designato come “l’età post-cristiana della fede”, caratterizzata non tanto dalla negazione di questa o di quell’altra verità di fede, quanto piuttosto dal fatto che la fede nel suo complesso sembra aver perduto il suo mordente, la sua capacità di interpretare il mondo, di fronte ad altre visioni che paiono dotate se non altro di maggior efficacia operativa” (Ardusso, op. cit., pag. 457). In realtà, ogni tentativo di “essenzializzare” la fede rischia di distruggere la Fede stessa. Contro gli ecumenisti, già scriveva Pio XI: “Inoltre, per ciò che spetta alle verità da credere, non è lecito affatto introdurre quella distinzione che dicono tra punti fondamentali e non fondamentali; gli uni da credersi assolutamente, gli altri liberi e che si possono permettere all’assenso dei fedeli. La virtù soprannaturale della fede ha per causa formale l’autorità del rivelatore, Iddio; e questa causa non ammette distinzioni di quella sorta. Tutti i veri cristiani, quindi con la stessa fede con cui credono il dogma della SS. Trinità, credono il dogma dell’Im_macolata Concezione; e come all’Incar_nazione del Signore, così pure all’infallibile magistero del Romano Pon_tefice, in quel senso, s’intende, in cui è stato definito dal Concilio Ecumenico Vaticano. Per il fatto che queste verità sono state dalla Chiesa sancite e definite solennemente in età diverse, ed alcune in epoca recente, non possono perciò stesso dirsi men certe e meno da credersi: non le ha tutte rivelate Iddio?” (Mortalium animos). Ratzinger non spiega chiaramente quale sarebbe l’essenziale della fede, e cosa invece è “sovrastruttura” (in Ardusso op. cit. pag. 458, sarebbe essenziale “presentarsi come la chiesa della fede al totale servizio degli uomini liberandosi da sovrastrutture che ne offuscano la genuinità del volto”). Nella sua replica conclusiva precisa però che il suo “pensiero coincide con quello del Professor Ricca” (“30 Giorni”, pag. 72) sulla «parola “essenzializzazione”. Dobbiamo realmente ritornare al centro, all’essenziale, o, con altre parole: il problema del nostro tempo è l’assenza di Dio e perciò il dovere prioritario dei Cristiani [assieme: cattolici e acattolici, n.d.a.] è testimoniare il Dio vivente» (“30 Giorni”, pag. 73). Certo, così i cristiani di tutti i generi (o quasi!) saranno d’accordo su quel minimo che è l’esistenza di Dio, “la realtà del giudizio e della vita eterna” (pag. 73); e questo “imperativo”, per forza, “unisce”, perché “tutti i cristiani sono uniti nella fede di questo Dio che si è rivelato, incarnato in Gesù Cristo” (“30 Giorni”, pag. 73). (Per la condanna di questa idea di una comune testimonianza si veda sempre Mortalium Animos).

Reciproca purificazione Ma come avviene, praticamente, la continua “essenzializzazione” (che Congar - ricorda Ricca - chiamava “ressourcement”)? Per Ratzinger questo processo, positivo, viene dalle altre “chiese”. La Chiesa Cat_tolica sarebbe così continuamente purificata... dalle sètte eretiche. Per cui, in attesa dell’unità (pluriforme), è bene che ci sia la diversità (riconciliata). «“Oportet et haereses esse” dice San Paolo. Forse non siamo ancora tutti maturi per l’unità ed abbiamo bisogno della spina nella carne, che è l’altro nella sua alterità, per risvegliarci da un cristianesimo dimezzato, riduttivo. Forse è il nostro dovere l’essere spina l’uno per l’altro. Ed esiste un dovere di lasciarsi purificare ed arricchire dall’altro. (...) Anche nel momento storico nel quale Dio non ci dà l’unità perfetta, riconosciamo l’altro, il fratello cristiano, riconosciamo le chiese sorelle, amiamo la comunità del_l’altro, ci vediamo insieme in un processo di educazione divina nella quale il Signore usa le diverse comunità una per l’altra, per farci capaci e degni dell’unità definitiva” (“30 Giorni”, pag. 68). Quindi, secondo Ratzinger Dio vorrebbe le “eresie” (mentre solo le permette, come permette il male); anzi, Dio vuole, provvisoriamente, le divisioni, le diverse comunità, perché una perfezioni l’altra. La Chiesa Cattolica sarebbe quindi “risvegliata” “purificata”, “arricchita” e non più “dimezzata” grazie alle sètte eretiche di cui si serve il Signore. E viceversa, la Chiesa Cattolica svolgerebbe lo stesso ruolo nei confronti delle altre chiese. Tutte, dialetticamente, in marcia verso l’indefinita unità futura di una Chiesa sconosciuta che risulterà da questo processo. Modello, ma solo modello, di questa Chiesa futura è la Chiesa primitiva, la quale era unita “nei tre elementi fondamentali: Sacra Scrittura, regula fidei, struttura sacramentale della Chiesa” (“30 Giorni”, pag. 66) e, per il resto, era diversissima. Non era unita anche sotto il magistero ed il governo del Papa? E, pur nelle diversità locali, non aveva la stessa fede, cosa che non avviene con i protestanti e gli ortodossi? Ratzinger ci chiede di aderire ad una chiesa futura sconosciuta modellata su di una chiesa antica falsata per abbandonare, in realtà, la Chiesa eterna ed immutabile di Cristo.

Conclusione: Pio XI giudica Ratzinger Se Ratzinger non sa verso quale modello futuro vadano queste chiese “spina-nella-carne” che si “essenzializzano” le une con le altre, glielo dirà Pio XI. Il Papa si pronunciò in quell’enciclica che Ratzinger stesso osò dichiarare conforme al Vaticano II (!), “Mortalium animos”. La teoria ecumenista, o pancristiana come si diceva allora, “spiana la via al naturalismo e all’ateismo” (pag. 79) prepara “una pretesa religione cristiana che è lontana le mille miglia dalla sola Chiesa di Cristo” “è la via alla negligenza della religione o indifferentismo, e al modernismo” “è una sciocchezza e una bestialità”. Ma non gettiamo su Ratzinger tutta la colpa. Egli non è che il fedele interprete del Vaticano II, come d’altra parte Karol Wojtyla. È quello il corpo estraneo che bisogna espellere e che le forze sane della Chiesa, sposa di Cristo, indubitabilmente rigetteranno. Quanto a noi, vogliamo appartenere alla Chiesa Cattolica e non alle elucubrazioni eterodosse di Oscar Cullmann e del suo discepolo (diversamente unito e unitamente diverso) Joseph Ratzinger. © Tutti i Diritti Riservati Sodalitium
Ratzigirl
00mercoledì 6 luglio 2005 15:32
Mmm
Articolo critico e interessante...
Quelli però che mi vengono da porre come quesiti sono:

Ratzinger non sa qualesarà il futuro della Chiesa....e non è forse questo l'atteggiamento più consono per un vero cristiano? L'umiltà di dire "Non so cosa sarà, ma sarà la volontà di Dio..."....credo che nessuno, anche se Principe della Chiesa possa prevedere il futuro...


Si parla delle contraddizioni che ci sono attualmente nella società (le varie manifestazioni del male): spesso, però per apprezzare davvero le cose belle, si deve pur conoscere l'esatto opposto. La conoscenza che l'uomo tanto brama, e che all'origine lo fece perdere, comporta anche questo: dover sperimentare il brutto, per poter apprezzare appieno il bello...

....spero di essere stata coerente con il tuo articolo Sonia...[SM=g27819] [SM=g27819]

Sihaya.b16247
00mercoledì 6 luglio 2005 22:58
Re:

Scritto da: RATZGIRL 05/07/2005 20.07
Bellissimo,questo articolo.Grazie di cuore Raffaella per averlo postato.[SM=g27824] [SM=g27822]



GRAZIE RAFFAELLA!!!!!!!!!!!!!!!1
Sihaya.b16247
00giovedì 7 luglio 2005 03:06
L’intervento del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede In occasione del centenario della costituzione della Pontificia Commissione biblica
«La fede esige il realismo dell’accadimento»

«L’opinione che la fede come tale non conosca assolutamente niente dei fatti storici e debba lasciare tutto questo agli storici è gnosticismo». L’intervento del cardinale Joseph Ratzinger. prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. in occasione del centenario della costituzione della Pontificia Commissione biblica


di Joseph Ratzinger
Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede






Joseph Ratzinger



Non ho scelto il tema della mia relazione solo perché fa parte delle questioni che di diritto appartengono a una retrospettiva sui cento anni della Pontificia Commissione biblica, ma perché rientra, per così dire, anche nei problemi della mia biografia: da più di mezzo secolo il mio percorso teologico personale si muove entro l’ambito determinato da questo tema.
Nel decreto della Congregazione concistoriale del 29 giugno 1912 De quibusdam commentariis non admittendis si incontrano due nomi, che hanno incrociato la mia vita. Vi viene infatti condannata l’Introduzione al Vecchio Testamento del professore di Frisinga, Karl Holzhey; egli era già morto quando nel gennaio 1946 cominciai i miei studi di teologia sul colle della cattedrale di Frisinga, ma su di lui circolavano ancora aneddoti eloquenti. Doveva essere un uomo piuttosto pieno di sé e ombroso. Mi è più familiare il secondo nome citato, quello di Fritz Tillmann, il curatore di un Commentario del Nuovo Testamento definito inaccettabile. In tale opera, autore del commento ai sinottici era Friedrich Wilhelm Maier, un amico di Tillmann, allora libero docente a Strasburgo. Il decreto della Congregazione concistoriale stabiliva che questi commenti expungenda omnino esse ab institutione clericorum. Il Commentario, del quale avevo trovato un esemplare dimenticato quando ero studente al Seminario minore di Traunstein, doveva essere bandito e ritirato dal commercio poiché Maier vi sosteneva, per la questione sinottica, la cosiddetta teoria delle due fonti, che oggi è accettata pressoché da tutti. Questo, sul momento, determinò anche la fine della carriera scientifica di Tillmann e di Maier. A entrambi veniva però concesso di cambiare disciplina teologica. Tillmann approfittò di questa possibilità diventando poi un teologo morale tedesco di punta. Insieme con Theodor Steinbüchel e Theodor Müncker curò un manuale di teologia morale d’avanguardia, che trattava in maniera nuova questa importante disciplina e la presentava secondo l’idea di fondo dell’imitazione di Cristo. Maier non volle approfittare della possibilità di cambiare disciplina; era infatti dedito anima e corpo al lavoro sul Nuovo Testamento. Così diventò cappellano militare e come tale partecipò alla Prima guerra mondiale; in seguito lavorò come cappellano nelle carceri fino al 1924, quando, con il nulla osta dell’arcivescovo di Breslau (oggi Wroclaw), cardinale Bertram, in un clima ora più disteso, venne chiamato alla cattedra di Nuovo Testamento presso la facoltà teologica del luogo. Nel 1945, quando quella facoltà fu soppressa, insieme ad altri colleghi, giunse a Monaco, dove lo ebbi come insegnante.
La ferita del 1912 non si rimarginò in lui mai del tutto, nonostante egli ora potesse insegnare la sua materia praticamente senza problemi e fosse sostenuto dall’entusiasmo dei suoi studenti, ai quali riusciva a trasmettere la sua passione per il Nuovo Testamento e una corretta interpretazione di esso. Di tanto in tanto, nelle sue lezioni si affacciavano ricordi del passato. Mi è rimasta impressa soprattutto un’espressione che egli pronunciò nel 1948 o nel 1949. Disse che ormai poteva seguire liberamente la sua coscienza di storico, ma che non si era ancora arrivati a quella completa libertà dell’esegesi che egli sognava. Disse inoltre che lui probabilmente non sarebbe arrivato a vedere questo, ma che desiderava almeno, come Mosè dal monte Nebo, di poter gettare lo sguardo sulla Terra Promessa di un’esegesi liberata da ogni controllo e condizionamento del Magistero. Avvertivamo che sull’animo di quest’uomo dotto, che conduceva una vita sacerdotale esemplare, fondata sulla fede della Chiesa, pesava non soltanto quel decreto della Congregazione concistoriale, ma che anche i vari decreti della Commissione biblica – sulla autenticità mosaica del Pentateuco (1906), sul carattere storico dei primi tre capitoli del Genesi (1909), sugli autori e sull’epoca di composizione dei Salmi (1910), su Marco e Luca (1912), sulla questione sinottica (1912), e così via – ostacolavano il suo lavoro di esegeta con ceppi che egli riteneva indebiti. Persisteva ancora l’impressione che gli esegeti cattolici, per via di tali decisioni magisteriali, fossero impediti dallo svolgere un lavoro scientifico senza costrizioni, e che così l’esegesi cattolica, rispetto a quella protestante, non potesse mai essere del tutto all’altezza dei tempi e la sua serietà scientifica venisse, in qualche modo a ragione, messa in dubbio dai protestanti. Naturalmente influiva anche la convinzione che un lavoro rigorosamente storico fosse in grado di accertare in maniera attendibile i dati di fatto oggettivi della storia, anzi, che questa fosse l’unica via possibile per capire nel loro senso proprio i libri biblici, i quali, appunto, sono libri storici. Era scontata per lui l’attendibilità e l’inequivocabilità del metodo storico; non lo sfiorava neppure l’idea che anche in tale metodo entrassero in gioco dei presupposti filosofici e che potesse diventare necessaria una riflessione sulle implicazioni filosofiche del metodo storico. A lui, come a molti suoi colleghi, la filosofia sembrava un elemento di disturbo, qualcosa che poteva solo inquinare la pura oggettività del lavoro storico. Non gli si prospettava la questione ermeneutica, cioè non si chiedeva in che misura l’orizzonte di chi domanda determini l’accesso al testo, rendendo necessario chiarire, anzitutto, qual sia il modo giusto di domandare e in qual modo sia possibile purificare il proprio domandare. Proprio per questo il monte Nebo gli avrebbe sicuramente riservato qualche sorpresa totalmente al di fuori del suo orizzonte.
Adesso vorrei tentare di salire, per così dire, insieme con lui sul monte Nebo per osservare, a partire dalla prospettiva di allora, la terra che abbiamo attraversato negli ultimi cinquant’anni. A tale riguardo, potrebbe rivelarsi utile ricordare l’esperienza di Mosè. Il capitolo 34 del Deuteronomio descrive come sul monte Nebo viene concesso a Mosè di gettare uno sguardo sulla Terra Promessa, che egli vede in tutta la sua estensione. È, per così dire, uno sguardo puramente geografico, non storico, quello che gli viene concesso.Tuttavia si potrebbe dire che il capitolo 28 dello stesso libro presenti uno sguardo non sulla geografia ma sulla storia futura nella e con la terra, e che quel capitolo offra una prospettiva ben diversa, molto meno consolante: «Il Signore ti disperderà tra tutti i popoli, da un’estremità fino all’altra [...]. Fra quelle nazioni non troverai sollievo e non vi sarà luogo di riposo per la pianta dei tuoi piedi» (Dt 28, 64s). Ciò che Mosè vedeva in questa visione interiore si potrebbe riassumere così: la libertà può distruggere se stessa; quando perde il suo intrinseco criterio si autosopprime.

La costituzione conciliare Dei Verbum del 1965 sulla divina Rivelazione aprì di fatto un nuovo capitolo nel rapporto fra Magistero ed esegesi scientifica. Non c’è bisogno di sottolineare qui l’importanza di questo testo fondamentale. Esso, innanzitutto, definisce il concetto di Rivelazione, che non si identifica affatto con la sua testimonianza scritta che è la Bibbia, e apre così il vasto orizzonte, storico e insieme teologico, nel quale si muove l’interpretazione della Bibbia, un’interpretazione che vede nelle Scritture non solo dei libri umani, ma la testimonianza di un parlare divino


Che cosa potrebbe percepire uno sguardo storico gettato dal Nebo sulla terra dell’esegesi degli ultimi cinquant’anni? Anzitutto molte cose che sarebbero state di consolazione per Maier, la realizzazione del suo sogno, per così dire. Già l’enciclica Divino afflante Spiritu del 1943 introdusse un nuovo modo di intendere il rapporto fra il Magistero e le esigenze scientifiche della lettura storica della Bibbia. In seguito, gli anni Sessanta rappresentarono l’ingresso nella Terra Promessa della libertà dell’esegesi, per conservare quest’immagine metaforica. Troviamo dapprima l’istruzione della Commissione biblica del 21 aprile 1964 sulla verità storica dei Vangeli, ma poi, soprattutto, la costituzione conciliare Dei Verbum del 1965 sulla divina Rivelazione, con la quale si aprì di fatto un nuovo capitolo nel rapporto fra Magistero ed esegesi scientifica. Non c’è bisogno di sottolineare qui l’importanza di questo testo fondamentale. Esso, innanzitutto, definisce il concetto di Rivelazione, che non si identifica affatto con la sua testimonianza scritta che è la Bibbia, e apre così il vasto orizzonte, storico e insieme teologico, nel quale si muove l’interpretazione della Bibbia, un’interpretazione che vede nelle Scritture non solo dei libri umani, ma la testimonianza di un parlare divino. Diviene così possibile determinare il concetto di Tradizione, che va anch’esso oltre la Scrittura, pur avendo in essa il suo centro, dal momento che la Scrittura è anzitutto e per natura “tradizione”. Questo conduce al terzo capitolo della Costituzione, dedicato all’interpretazione della Scrittura; in esso emerge, in modo convincente, l’assoluta necessità del metodo storico come parte indispensabile dello sforzo esegetico, ma appare poi anche la dimensione propriamente teologica dell’interpretazione, che – come già detto – è essenziale se quel libro è più che parola umana.
Proseguiamo nella nostra indagine dal monte Nebo: Maier, dal suo posto d’osservazione, avrebbe potuto rallegrarsi specialmente di quanto avvenne nel giugno 1971. Con il motu proprio Sedula cura, Paolo VI ristrutturò completamente la Commissione biblica in modo che non fosse più un organo del Magistero, ma un luogo di incontro tra Magistero ed esegeti, un luogo di dialogo nel quale potessero incontrarsi rappresentanti del Magistero e qualificati esegeti per trovare insieme, per così dire, gli intrinseci criteri della libertà che le impediscano di autodistruggersi, elevandola così al livello di una libertà vera. Maier avrebbe potuto gioire anche del fatto che uno dei suoi allievi migliori, Rudolf Schnackenburg, era entrato a far parte non proprio della Commissione biblica, ma della non meno importante Commissione teologica internazionale, così che ora, egli stesso, per così dire, si trovava quasi in quella Commissione che gli aveva procurato tante preoccupazioni. Ricordiamo un’altra data importante che, dal nostro Nebo immaginario, avrebbe potuto apparire in lontananza: il documento della Commissione biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa del 1993, nel quale non è più il Magistero che dall’alto impone norme agli esegeti, ma sono loro stessi che cercano di determinare i criteri che devono indicare la strada per una interpretazione adeguata di questo libro speciale, il quale, visto solo dall’esterno, costituisce in fondo nient’altro che una raccolta letteraria di scritti la cui composizione si estende per un intero millennio. Solo il soggetto dal quale questa letteratura è nata – il popolo di Dio pellegrinante – fa di questa raccolta letteraria, con tutta la sua varietà e i suoi apparenti contrasti, un unico libro. Questo popolo però sa che non parla né agisce da sé, ma è debitore a Colui che fa di esso un popolo: lo stesso Dio vivente che gli parla attraverso gli autori dei singoli libri.
Il sogno dunque si è avverato? I secondi cinquant’anni della Commissione biblica hanno cancellato e messo da parte come illegittimo quello che i primi cinquant’anni avevano prodotto? Alla prima domanda risponderei che il sogno è stato tradotto in realtà e che simultaneamente è stato anche corretto. La mera oggettività del metodo storico non esiste. È semplicemente impossibile escludere del tutto la filosofia, ovvero la precomprensione ermeneutica. Questo si evidenziava già, ancora vivente Maier, per esempio, nel Commento a Giovanni di Bultmann , dove la filosofia heideggeriana non serviva solo per rendere presente ciò che storicamente era lontano agendo, per così dire, come mezzo di trasporto che trasferisce il passato nel nostro oggi, ma anche come pontile che porta il lettore dentro il testo. Ora, questo tentativo è fallito, ma è diventato evidente che il puro metodo storico – come del resto anche nel caso della letteratura profana – non esiste. È senz’altro comprensibile che i teologi cattolici, all’epoca in cui le decisioni della Commissione biblica di allora impedivano una pura applicazione del metodo storico-critico, guardassero con invidia ai teologi evangelici, i quali, nel frattempo, con la serietà della loro ricerca, erano in grado di presentare risultati e acquisizioni nuove sul come questa letteratura, che noi chiamiamo Bibbia, sia nata e cresciuta lungo il cammino del popolo di Dio. Con ciò però si prendeva troppo poco in considerazione il fatto che nella teologia protestante c’era il problema opposto. È quanto si vede chiaramente, per esempio, nella conferenza tenuta nel 1936 dal grande allievo di Bultmann, più tardi convertitosi al cattolicesimo, Heinrich Schlier, sulla responsabilità ecclesiale dello studente di teologia. In quei tempi, la cristianità evangelica in Germania era impegnata in una battaglia per la sopravvivenza: lo scontro fra i cosiddetti Cristiani tedeschi (“deutsche Christen”), che, sottomettendo il cristianesimo all’ideologia del nazionalsocialismo, lo falsificarono nelle sue radici, e la Chiesa confessante (“bekennende Kirche”). In questo contesto Schlier rivolse agli studenti di teologia queste parole: «...Riflettete un attimo su che cosa sia meglio: che la Chiesa, in modo legittimo e dopo attenta riflessione, tolga l’insegnamento a un teologo per una dottrina eterodossa, oppure che il singolo in modo gratuito tacci l’uno o l’altro insegnante di eterodossia e metta in guardia da lui? Non si deve pensare che il giudicare finisca quando si lascia che ciascuno giudichi ad libitum. Qui la visione liberale è coerente nell’affermare che non può esistere nessuna decisione sulla verità di un insegnamento, che perciò ogni insegnamento ha qualcosa di vero e che quindi nella Chiesa devono essere ammessi tutti gli insegnamenti. Ma noi non condividiamo questa visione. Essa nega infatti che Dio abbia veramente preso una decisione in mezzo a noi…». Chi si ricorda che allora gran parte delle Facoltà protestanti di teologia era quasi esclusivamente nelle mani dei Cristiani tedeschi e che Schlier per affermazioni come quella appena citata dovette lasciare l’insegnamento accademico, può rendersi conto anche dell’altra faccia di questa problematica.
Veniamo così alla seconda e conclusiva questione: come dobbiamo valutare, oggi, i primi cinquant’anni della Commissione biblica? Tutto fu soltanto, per così dire, un tragico condizionamento della libertà della teologia, un insieme di errori dai quali ci dovevamo liberare nei secondi cinquant’anni della Commissione, o dobbiamo invece considerare questo difficile processo in modo più articolato? Che le cose non siano così semplici, come sembrò nei primi entusiasmi all’inizio del Concilio, risulta forse già da quanto abbiamo appena detto. Rimane vero che il Magistero, con le decisioni citate, ha allargato troppo l’ambito delle certezze che la fede può garantire; per questo resta vero che è stata con ciò diminuita la credibilità del Magistero e ristretto in modo eccessivo lo spazio necessario alle ricerche e agli interrogativi esegetici. Ma resta altresì vero che, per quanto concerne l’interpretazione della Scrittura, la fede ha da dire una sua parola e che quindi anche i pastori sono chiamati a correggere quando si perde di vista la particolare natura di questo libro e una oggettività, che è pura solo in apparenza, fa sparire quel che la Sacra Scrittura ha di suo proprio e di specifico. È stata dunque indispensabile una faticosa ricerca, perché la Bibbia avesse la sua giusta ermeneutica e l’esegesi storico-critica il suo giusto posto.



Mi sembra che del problema, allora e tuttora in questione, si possano distinguere due livelli. A un primo livello ci si deve domandare fin dove si estenda la dimensione puramente storica della Bibbia e dove cominci la sua specificità che sfugge alla mera razionalità storica. Si potrebbe anche formulare come un problema interno allo stesso metodo storico: che cosa esso può fare in realtà e quali sono i suoi limiti intrinseci? Quali altre modalità di comprensione sono necessarie per un testo di questo genere? La faticosa ricerca da intraprendere si può paragonare, in un certo senso, alla fatica che ha richiesto il caso Galileo. Fino a quel momento sembrava che la visione geocentrica del mondo fosse legata in modo inestricabile a quanto era rivelato dalla Bibbia; sembrava che chi era in favore della visione eliocentrica del mondo disgregasse il nocciolo della Rivelazione. Il rapporto tra l’apparenza esterna e il vero e proprio messaggio dell’insieme doveva essere rivisto a fondo, e solo lentamente si sarebbero potuti elaborare i criteri che avrebbero permesso di mettere in un giusto rapporto fra loro la razionalità scientifica e il messaggio specifico della Bibbia. Certo, la tensione non si può mai dire del tutto risolta, in quanto la fede testimoniata dalla Bibbia include anche il mondo materiale, asserisce qualcosa anche su di esso, sulla sua origine e su quella dell’uomo in particolare. Ridurre tutta la realtà così come ci viene incontro a pure cause materiali, confinare lo Spirito creatore nella sfera della mera soggettività è inconciliabile con il messaggio fondamentale della Bibbia. Questo comporta però un dibattito intorno alla natura stessa della vera razionalità; poiché, se si presenta una spiegazione puramente materialistica della realtà come unica possibile espressione della razionalità, allora la razionalità stessa è falsamente intesa. Qualcosa di analogo si deve affermare per quanto riguarda la storia. In un primo momento sembrava indispensabile, per l’attendibilità della Scrittura e dunque per la fede fondata su di essa, che il Pentateuco dovesse essere attribuito indiscutibilmente a Mosè o che gli autori dei singoli Vangeli dovessero essere veramente quelli nominati dalla Tradizione. Anche qui bisognava, per così dire, ridefinire lentamente gli ambiti; il fondamentale rapporto tra fede e storia andava ripensato. Una simile chiarificazione non era impresa che si potesse fare dall’oggi al domani. Anche qui ci sarà sempre spazio per la discussione. L’opinione che la fede come tale non conosca assolutamente niente dei fatti storici e debba lasciare tutto questo agli storici, è gnosticismo: tale opinione disincarna la fede e la riduce a pura idea. Per la fede che si basa sulla Bibbia, è invece esigenza costitutiva proprio il realismo dell’accadimento. Un Dio che non può intervenire nella storia e mostrarsi in essa non è il Dio della Bibbia. Per cui, la realtà della nascita di Gesù dalla Vergine Maria, l’effettiva istituzione dell’Eucarestia da parte di Gesù nell’ultima cena, la sua risurrezione corporale dai morti – è questo il significato del sepolcro vuoto – sono elementi della fede in quanto tale, che essa può e deve difendere contro una solo presunta miglior conoscenza storica. Che Gesù – in tutto ciò che è essenziale – sia stato effettivamente quello che ci mostrano i Vangeli non è affatto una congettura storica, ma un dato di fede. Obiezioni che vogliono convincerci del contrario non sono espressione di una effettiva conoscenza scientifica, ma sono un’arbitraria sopravvalutazione del metodo. Che, peraltro, molte questioni nei loro particolari debbano rimanere aperte ed essere affidate a una interpretazione conscia delle sue responsabilità è quanto nel frattempo abbiamo imparato.
Con ciò appare ormai il secondo livello del problema: non si tratta semplicemente di fare un elenco di elementi storici indispensabili alla fede. Si tratta di vedere cosa può la ragione e perché la fede possa essere ragionevole e la ragione aperta alla fede. Frattanto non sono state corrette soltanto le decisioni della Commissione biblica che erano entrate troppo nell’ambito delle questioni meramente storiche; abbiamo anche imparato qualcosa di nuovo sulle modalità e i limiti della conoscenza storica. Werner Heisenberg, nell’ambito delle scienze naturali, ha appurato con il suo “principio di indeterminazione” che il nostro conoscere non rispecchia mai soltanto ciò che è oggettivo, ma è sempre determinato anche dalla partecipazione del soggetto, dalla prospettiva in cui pone le domande e dalla sua capacità di percezione. Tutto ciò, naturalmente, vale in misura senza paragone più grande laddove entra in gioco l’uomo stesso o laddove si fa percepibile il mistero di Dio. Fede e scienza, Magistero ed esegesi pertanto, non si contrappongono più come mondi chiusi in se stessi. La fede è essa stessa un modo di conoscere. Volerla accantonare non produce la mera oggettività, ma costituisce la scelta di una angolazione che esclude una determinata prospettiva e non vuole più tener conto delle condizioni casuali della angolazione scelta. Se però ci si rende conto che le Sacre Scritture provengono da Dio attraverso un soggetto che vive tuttora – il popolo di Dio pellegrinante – allora anche razionalmente risulta chiaro che questo soggetto ha qualcosa da dire sulla comprensione del libro.
La Terra Promessa della libertà è più affascinante e multiforme di quello che poteva immaginare l’esegeta del 1948. Le intrinseche condizioni della libertà sono diventate evidenti. Essa presuppone ascolto attento, conoscenza dei limiti delle varie vie, piena serietà della ratio, ma anche prontezza a limitarsi e a superarsi nel pensare e nel vivere assieme al soggetto che ci garantisce i diversi scritti della Antica e Nuova Alleanza come un’unica opera, la Sacra Scrittura. Siamo profondamente grati per le aperture che, come frutto di una lunga fatica di ricerca, ci ha donato il Concilio Vaticano II. Ma non condanniamo neanche con leggerezza il passato, bensì lo vediamo come parte necessaria di un processo di conoscenza che, considerata la grandezza della Parola rivelata e i limiti delle nostre capacità, ci porrà sempre davanti a nuove sfide. Ma proprio in questo sta il bello. E così, a cento anni dalla costituzione della Commissione biblica, nonostante tutti i problemi sorti in questo lasso di tempo, possiamo ancora guardare, grati e pieni di speranza, alla strada che si apre davanti a noi.
L’intervento del cardinale Ratzinger è stato tenuto all’Augustinianum il 29 aprile 2003



Sihaya.b16247
00giovedì 7 luglio 2005 03:08
«La teologizzazione della politica diventerebbe ideologizzazione della fede»
«La teologizzazione della politica diventerebbe ideologizzazione della fede»

L’intervento del cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede al convegno “L’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, promosso dalla Pontificia Università della Santa Croce, a Roma, il 9 aprile 2003


del cardinale Joseph Ratzinger







Il cardinale Joseph Ratzinger



Resisto alla tentazione grande di rispondere alle interessanti osservazioni e riflessioni del senatore Francesco Cossiga, e mi limito ad introdurre la “Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, per indicare qual è la posizione di fondo di questo documento che immediatamente parla ai cattolici – perché solo questi hanno una relazione di fede con la Santa Sede – ma che vuol far pensare naturalmente tutti. Secondo Paul Ricoeur far pensare è la cosa più nobile che la filosofia può ottenere, e quindi vogliamo far pensare senza imporre qualcosa. In ogni caso la posizione descritta nel nostro documento si potrebbe riassumere così: per noi, e cioè per la convinzione della Chiesa cattolica di tutti i tempi, la politica appartiene alla sfera della ragione, la ragione comune a tutti, la ragione naturale. La politica quindi è un lavoro che implica l’uso della ragione e va governata dalle virtù naturali, così ben descritte dall’antichità greca, le quattro virtù cardinali: la prudenza, la temperanza, la giustizia, la fortezza.
La convinzione che il campo della politica è il campo della ragione comune, che deve svolgersi nella reciproca comprensione e che deve comportare anche l’illuminazione della ragione, implica l’esclusione di due posizioni.
Esclude innanzitutto la teologizzazione della politica, che diventerebbe ideologizzazione della fede. La politica infatti non si desume dalla fede, ma dalla ragione, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene proprio alla tradizione centrale del cristianesimo: la troviamo nella parola di Cristo «Date all’imperatore quanto è dell’imperatore, a Dio quanto è di Dio». In questo senso lo Stato è uno Stato laico, profano, nel senso positivo. Mi vengono in mente per esempio le belle parole di san Bernardo di Chiaravalle al Papa di quel tempo: «Non pensare che tu sia il successore di Costantino; non sei il successore di Costantino, ma di Pietro. Il tuo libro fondamentale non è il Codice di Giustiniano, ma è la Sacra Scrittura».

La politica non si desume dalla fede, ma dalla ragione, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene proprio alla tradizione centrale del cristianesimo: la troviamo nella parola di Cristo «Date all’imperatore quanto è dell’imperatore, a Dio quanto è di Dio». In questo senso lo Stato è uno Stato laico, profano, nel senso positivo


Questa, diciamo, giusta profanità, o anche laicità della politica, che esclude quindi l’idea di una teocrazia, di una politica determinata dal dettato della fede, esclude, d’altra parte, anche un positivismo ed empirismo che è una mutilazione della ragione. Secondo questa posizione la ragione sarebbe capace di percepire solo le cose materiali, empiriche, verificabili o falsificabili con metodi empirici. Quindi la ragione sarebbe cieca per quanto riguarda i valori morali e non potrebbe giudicarli, perché rientrerebbero nella sfera della soggettività, e non in quella dell’oggettività di una ragione limitata al verificabile, all’empirico, e positivista. Una tale mutilazione della ragione che si limita al constatabile, all’empirico, al verificabile e al falsificabile secondo metodi materiali, distrugge la politica e, come aveva detto il senatore Cossiga, la riduce ad un’azione puramente tecnica, che dovrebbe seguire semplicemente le correnti più forti del momento, sottomettendosi quindi al transitorio ed anche ad un dettato irrazionale. E questo è l’altro impegno del nostro documento: mentre da un lato escludiamo una concezione teocratica ed insistiamo sulla razionalità della politica, dall’altro escludiamo anche un positivismo per cui la ragione sarebbe cieca per i valori morali, e siamo convinti che la ragione ha la capacità di conoscere i grandi imperativi morali, i grandi valori che devono determinare tutte le decisioni concrete.
E in questo senso mi sembra che subentri anche un certo legame tra fede e politica: la fede cioè può illuminare la ragione, può sanare, guarire una ragione ammalata. Non nel senso che questo influsso della fede trasferisce il campo della politica dalla ragione alla fede, ma nel senso che restituisce la ragione a se stessa, aiuta la ragione ad essere se stessa, senza alienarla.
Le indicazioni che appaiono nella nostra Nota ai politici cattolici, riguardo ai valori che sono da difendere anche contro maggioranze di un momento, non vogliono essere una intromissione nella politica da parte della gerarchia. Ma vogliono essere un necessario aiuto alla ragione in modo che soprattutto i politici credenti possano nella discussione politica aiutare ad una evidenza comune e così ad una presenza reale e concreta dei valori che devono governare ognuno nella politica. Grazie.


Sihaya.b16247
00giovedì 7 luglio 2005 03:10
Dio si impietosì
Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sulla predicazione del profeta Giona nella città di Ninive
Dio si impietosì

Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sulla predicazione del profeta Giona nella città di Ninive


del cardinale Joseph Ratzinger


Meditare la Parola
Il libro di Giona non narra avvenimenti che si sono avverati in un lontano passato; è una parabola. Nello specchio di questo racconto parabolico appare il futuro e nello stesso tempo viene sempre di nuovo spiegato alle diverse generazioni il presente, che solo nella luce del futuro – in ultima analisi in quella luce che proviene da Dio – può essere capito e rettamente vissuto. Perciò questa parabola è profezia: essa getta la luce di Dio sul tempo e con ciò ci chiarisce la direzione in cui dobbiamo muoverci perché il presente si apra sul futuro e non vada in rovina. In questa parabola profetica si possono distinguere tre cerchi.



Il testo annuncia a Israele incredulo la salvezza per i pagani, anzi, che i pagani precederanno Israele nella fede. L’ingresso dei pagani nella fede nell’unico Dio, che si è rivelato a Israele sul Sinai e oltre, risulta chiaramente in due passi del piccolo libro.
I marinai (cfr. Gn 1,4-16), che normalmente venivano considerati come crudeli e lontani da Dio, si convertono quando assistono al placarsi della tempesta. Riconoscono che la descrizione che Giona ha dato del suo Dio è vera: è il Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra. Riconoscono questo Dio del cielo come l’unico vero Dio che tiene in mano l’universo. E sanno che il riconoscimento deve diventare un atto: già sulla nave fanno un sacrificio e promettono nuove azioni di grazie non appena saranno giunti a destinazione. Importante è che Gerusalemme non appare più come l’unico luogo in cui si può sacrificare a Dio – il suo tempio è ovunque. Ancora un altro elemento è importante in questo racconto: i marinai si erano mostrati pieni di compassione e rispetto di fronte alla vita umana e solo su insistenza di Giona avevano osato gettarlo in mare, nello stesso tempo però implorando perdono per questo sacrilegio. In questa loro umanità si può vedere, per così dire, una disposizione alla grazia, che rendeva loro possibile l’accesso alla fede.
La seconda profezia (cfr. Gn 3,1-10) davvero centrale per la salvezza dei pagani si trova nella storia di Ninive. Gli assiri, la cui capitale era Ninive, erano il popolo guerriero più brutale dell’antico Oriente; Ninive è indicata nel capitolo terzo di Naum come città sanguinaria. Ci viene data così un’idea della sua "malizia" la cui fama è "salita fino" a Dio (Gn1,2). La città è simbolo per eccellenza dell’infamia del peccato umano, quello che si accumula negli agglomerati delle grandi città. Essa è "paganesimo" nella sua forma più compatta. L’incredibile accade: la città crede al profeta e crede che c’è un Dio, il Dio per eccellenza, e non solo i suoi dei. Crede che c’è un giudizio e fa penitenza. La contrapposizione all’Israele sicuro di sé si fa qui estremamente chiara. Il capitolo 36 di Geremia ci racconta come Geremia abbia fatto leggere al re Ioiakìm il rotolo con l’annuncio delle punizioni. Il re resta seduto sul trono e taglia pezzo per pezzo il rotolo, che alla fine diventa per intero preda delle fiamme. Il re della malvagia città di Ninive invece si alza dal trono, si spoglia di tutte le insegne regali e si mette a sedere come penitente sulla cenere. Il suo potere regale egli lo usa ora soltanto per imporre a tutti – uomini e animali – un digiuno completo, per richiamare alla penitenza, allo scendere dai loro seggi nella cenere. Chi è sceso è colui che sale a Dio: Dio si impietosisce e salva. La salvezza dei pagani è la salvezza di quelli che accettano la discesa di Dio e scendono da se stessi. La salvezza è fondata sulla penitenza. Chi è pieno di sé si preclude la salvezza.
Vediamo trasparire qui l’intero Vangelo di Cristo. Nel libro di Giona si compenetrano Antico e Nuovo Testamento e si mostrano come una sola cosa.

2) Il libro di Giona ci annuncia l’avvenimento di Gesù Cristo – Giona è una prefigurazione della venuta di Gesù. Il Signore stesso ci dice questo nel Vangelo del tutto chiaramente. Richiesto dai giudei di dar loro un segno che lo riveli apertamente come il Messia, risponde, secondo Matteo: "Nessun segno sarà dato a questa generazione se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra" (Mt12,39s). La versione di Luca delle parole di Gesù è più semplice: "Questa generazione [...] cerca un segno ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione" (Lc 11,29s). Vediamo due elementi in entrambi i testi: lo stesso Figlio dell’uomo, Cristo, l’inviato di Dio, è il segno. Il mistero pasquale indica Gesù come il Figlio dell’uomo, egli è il segno in e attraverso il mistero pasquale.
Nel racconto veterotestamentario proprio questo mistero di Gesù traspare del tutto chiaramente. Nel primo capitolo del libro di Giona si parla di una triplice discesa del profeta: egli scende al porto di Giaffa; scende nella nave; e nella nave egli si mette nel luogo più riposto. Nel suo caso, però, questa triplice discesa è una tentata fuga davanti a Dio. Gesù è colui che scende per amore, non per fuggire, ma per giungere nella Ninive del mondo: scende dalla sua divinità nella povertà della carne, dell’essere creatura con tutte le sue miserie e sofferenze; scende nella semplicità del figlio del carpentiere, e scende nella notte della croce, infine persino nella notte dello Sheòl, il mondo dei morti. Così facendo egli ci precede sulla strada della discesa, lontano dalla nostra falsa gloria da re; la via della penitenza, che è via verso la nostra stessa verità: via della conversione, via che ci allontana dall’orgoglio di Adamo, dal volere essere Dio, verso l’umiltà di Gesù che è Dio e per noi si spoglia della sua gloria (Fil 2,1-10). Come Giona, Gesú dorme nella barca mentre la tempesta infuria. In un certo senso nell’esperienza della croce egli si lascia gettare in mare e così placa la tempesta. I rabbini hanno interpretato la parola di Giona "Gettatemi in mare" come offerta di sé del profeta che voleva con questo salvare Israele: egli aveva timore davanti alla conversione dei pagani e al rifiuto della fede da parte di Israele, e per questo – così dicono – voleva farsi gettare in mare. Il profeta salva in quanto egli si mette al posto degli altri. Il sacrificio salva. Questa esegesi rabbinica è diventata verità in Gesù.

3) Giona rappresenta Gesù ma rappresenta anche Israele nella sua resistenza alla misericordia universale di Dio. Il nome di Giona significa colomba. In Osea 7,11, Efraim è indicato come colomba "ingenua, priva di intelligenza". Giona, in cui da una parte traspare il mistero di Gesù, è, dall'altra, una incarnazione dell’Israele testardo che ha timore della salvezza dei pagani e fa resistenza di fronte a questa salvezza, che insiste sulla unicità della sua predilezione che non vorrebbe dividere con nessuno. Mentre Elia era turbato dal suo insuccesso e per questo voleva fuggire da Dio e morire, Giona ha paura del successo: fin dall’inizio egli teme che alla fine non sarà emesso il giudizio. Egli conosce Dio e sa che alla fine in lui la grazia prevale sempre sul giudizio. Egli però augura ai malvagi abitanti di Ninive il giudizio e non la grazia. Si augura che la sua predicazione si manifesti come vera attraverso il giudizio e non che la misericordia di Dio, per così dire, possa farla apparire superflua. Egli somiglia in questo al fratello maggiore della parabola di Gesù del figliol prodigo, che in realtà è la parabola dei due fratelli. Se il prodigo non viene punito e non sprofonda nel fango allora la mia fedeltà, pensa il fratello maggiore, risulta inutile, poiché la dissolutezza sarebbe meglio della fedeltà: così gli sembra. Una concezione simile si trova in Giona, si trova nella resistenza di Israele contro l’ingresso dei pagani nella promessa "senza l’opera della legge".
Ci dobbiamo domandare nel passo successivo che cosa questo significa per noi.


La Parola illumina la nostra via e la interpella
1) Nella storia il paragone tra i pagani diventati credenti e l’Israele infedele è diventato presto causa di malintesi che dobbiamo constatare e combattere in ogni generazione, poiché adesso nella Chiesa siamo diventati "Israele" e corriamo lo stesso rischio di Israele: il rischio "dell’egoismo della salvezza", il rischio di guardare Israele dall'alto in basso e considerarci automaticamente giusti. Già Paolo, invece, diceva nella Lettera ai Romani: "Essi sono stati tagliati a causa dell’infedeltà mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia ma temi!... Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti, bontà di Dio invece verso di te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai reciso" (11,20ss). Troviamo qui due parole chiave: "credere" e "restare nella bontà di Dio". Crediamo veramente? Non soltanto in teoria, ma in modo tale che la fede diventi fondamento della nostra vita, in modo tale che lasciamo la nostra vita nelle mani di Dio? E rimanere in Dio significa rimanere nella sua bontà: questo è il nocciolo del credere. Non temere la sua bontà – non temere che egli potrebbe essere troppo buono con gli altri cosicché la mia fede non avrebbe valore; rimanere nella sua bontà, averne parte: questo è il segno della fede. Noi cadiamo sempre nella tentazione del fratello maggiore o dell’operaio della prima ora: crediamo che la fede abbia valore solo se gli altri hanno di meno. Ma pensiamo che sia più bello vivere nell’infedeltà e nella sua apparenza di verità piuttosto che stare nella casa del Padre? La fede è per noi un peso che continuiamo a portare ma di cui in fondo vorremmo sbarazzarci o riconosciamo che la libertà apparente della infedeltà lascia vuota la vita, riconosciamo che è bello stare con Dio? Noi crediamo davvero solo se troviamo gioia in Dio e nella compagnia con lui e se, in forza di questa gioia, vogliamo trasmettere la sua bontà.


Il ritorno del figliol prodigo, Rembrandt, acquaforte, Pierpont Morgan Library, New York




2) Se questi pensieri della universalità della misericordia divina e del sempre nuovo volgersi di Dio verso i pagani sono concepiti in modo superficiale, possono diventare pretesto per il relativismo e per l’indifferenza. La salvezza è comunque grazia, possiamo non meritarla, potremmo dire; è la stessa cosa essere pagani e essere cristiani, anzi forse meglio essere pagani, poiché i pagani non sono penetrati dalla giustizia che viene dalle opere e dalla presunzione, e possono così ricevere più facilmente la grazia come grazia. Allora non avrebbe neanche senso predicare il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo. Lasciamo che i pagani rimangono pagani, Dio avrà senz’altro misericordia di loro: così si potrebbe dire. E così ci si sente naturalmente incoraggiati a essere pagani: se io pecco sono più vicino alla grazia, ci si dice; non cadrò così facilmente nella trappola dell'essere pieno di me. Uno sguardo al testo di Giona come all’intera Bibbia, in specie al Nuovo Testamento, mostra come tutto questo sia falso e superficiale. C’è anche un essere pieno di sé dei pagani, uno star bene col peccato. Finisce che il cuore diventa cieco, che non vuole più Dio, non vuole più la grazia, non conosce più alcun pentimento. Però ciò che è cattivo rimane cattivo. La malvagità era giunta fino a Dio, ci dice il libro di Giona, e Dio decide di intervenire, ciò che è malvagio deve essere superato. I misfatti di Hitler, di Stalin, di Pol Pot, di tanti altri, così come dei loro complici e simpatizzanti, sono misfatti che rovinano il mondo e precludono la strada verso Dio. No, il duplice invito a Giona "alzati", non era una finzione, ma un comando impellente il cui adempimento Dio imponeva a dispetto della resistenza del profeta. E Cristo non è venuto perché tutto è già buono e sta sotto il regime della grazia ma perché l’appello alla bontà e al pentimento è assolutamente necessario. Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria è la più decisa negazione del relativismo e dell’indifferenza che si possa immaginare. Anche per i cristiani di oggi vale "Alzati... e annunzia quanto ti dirò" (Gn 3,2). Anche oggi deve essere annunciato l’unico Dio, il Dio che ha fatto il cielo, la terra e il mare, e regna sulla storia. Anche oggi è necessario agli uomini Cristo, il vero Giona. Anche oggi deve esserci pentimento perché ci sia salvezza. E come la strada di Giona fu per lui stesso una strada di penitenza, e la sua credibilità veniva dal fatto che egli era segnato dalla notte delle sofferenze, così anche oggi noi cristiani dobbiamo innanzitutto essere per primi sulla strada della penitenza per essere credibili.

3) Le parole chiave del nostro testo sono valide anche oggi e soprattutto per noi: conversione ("ognuno si converta", Gn 3,8) e penitenza. Di per sé questa parola non è usata espressamente, ma l’annuncio "quaranta giorni e Ninive sarà distrutta" (Gn 3,4) contiene il simbolismo dei quaranta giorni che indica il peregrinare di Israele nel deserto e dà con questo una concreta immagine del tema della penitenza. Traspare qui il messaggio chiave del Nuovo Testamento, che Gesù esprime con le parole "Convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15). Ciascuno di noi deve riflettere cosa per lui significhi "conversione". L’esperienza dei grandi convertiti, nella storia della Chiesa, fu che il sì a Cristo e alla sua Chiesa, il battesimo, innanzitutto comportò un inizio completamente nuovo, cambiò dal fondo la loro vita. Ma se avevano pensato che a quel punto tutto era fatto e nuovo per sempre, dovevano sperimentare che la strada della conversione andava quotidianamente ripresa e di nuovo percorsa. Proprio questa è la differenza fra la sicurezza di Israele della sua predilezione e la Chiesa ex gentibus: la conversione non è bella e fatta, non è mai finita. L’immagine di Dio in te deve formarsi lentamente, lentamente deve accadere la trasformazione in Cristo, il "rivestirsi di Cristo". Giorno per giorno io devo combattere contro la mia pigrizia, contro abitudini che mi asservono; contro i pregiudizi nei confronti del prossimo, contro simpatie e antipatie, dalle quali mi lascio trascinare, contro la ricerca del potere e l’autocompiacimento, contro l’avvilimento e la rassegnazione; contro la vigliaccheria e il conformismo come contro l’aggressività e la prepotenza. Giorno per giorno io devo scendere dal trono e cercare di imparare la strada di Gesù. Giorno per giorno devo spogliarmi delle mie sicurezze, superare nella fede i miei pregiudizi; non decidere da me cosa significa essere cristiano, ma imparare dalla Chiesa e lasciarmi condurre da essa. Giorno per giorno devo sopportare gli altri, come essi mi sopportano, visto che Dio sopporta tutti noi...

4) Il libro di Giona è un libro teocentrico. Il vero attore è Dio. Sì, Dio agisce – non si è tirato fuori dalla storia (cfr. Gv 5,17). E Dio ama la creazione. Si occupa degli uomini e degli animali. È un Dio che combatte ciò che è cattivo e per questo deve anche punire come giudice per fare giustizia. L’aspetto del giudizio, della punizione, della "collera" di Dio non deve sparire dalla nostra fede. Un Dio che accetta tutto non è il Dio della Bibbia, ma un’immagine sognata. Gesù si mostra come Figlio di Dio proprio perché può prendere la frusta e irato cacciare dal tempio i venditori. Proprio il fatto che Dio non è indifferente davanti a ciò che è cattivo ci dà fiducia. Ma rimane valido che la misericordia di Dio è senza confini. Dobbiamo sempre combattere contro il peccato e non perdere il coraggio di farlo, soprattutto oggi. Non aiuta la strada dell’imbonimento, ma soltanto attraverso il coraggio della verità, che sa anche dire di no, noi serviamo il bene. Questo coraggio si nutre della consapevolezza della misericordia di Dio, del fatto che egli ama le sue creature, ci ama. Nella lotta contro il male in noi e attorno a noi non possiamo demordere; ma conduciamo questa battaglia nella coscienza che Dio sempre "è più grande del nostro cuore" (1Gv 3,20). Noi conduciamo la battaglia con una infinita fiducia e per amore, poiché vogliamo essere vicini a colui che amiamo e che ci ha amati per primo (1Gv 4,19). Più impariamo a conoscere Dio più possiamo dire con la saggezza veterotestamentaria: "La gioia di Dio è la nostra forza" (Ne 8,10).

La lectio divina è stata tenuta
dal cardinale Joseph Ratzinger nella chiesa romana
di Santa Maria in Traspontina il 24 gennaio 2003.

Traduzione di Silvia Kritzenberger
e Lorenzo Cappelletti
Sihaya.b16247
00giovedì 7 luglio 2005 03:11
Re: Dio si impietosì
Il nostro Redentore vive, ha un volto e un nome: Gesù Cristo

L’omelia che il decano del Sacro Collegio ha pronunciato durante la santa messa in suffragio dei defunti pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo I, nella Basilica di San Pietro il 28 settembre 2004


del cardinale Joseph Ratzinger



Cari fratelli e sorelle!
La liturgia ci offre nell’orazione della colletta e nell’orazione dopo la comunione un’interpretazione del ministero petrino, che appare anche come ritratto spirituale dei due papi Paolo VI e Giovanni Paolo I, per la cui commemorazione celebriamo questa messa. La colletta dice che i papi hanno «nell’amore di Cristo… presieduto la tua Chiesa» e l’orazione dopo la comunione prega il Signore di concedere ai sommi pontefici, i suoi servi, «di entrare… nel pieno possesso della verità, nella quale, con coraggio apostolico, confermarono i loro fratelli». Amore e verità appaiono così come i due poli della missione affidata ai successori di san Pietro.
Presiedere la Chiesa nell’amore di Cristo: chi non penserebbe nel contesto di queste parole alla lettera di sant’Ignazio alla Chiesa di Roma, alla quale il santo martire, che venne da Antiochia, prima sede di san Pietro, riconosce la «presidenza nell’amore»; la sua lettera continua dicendo che la Chiesa di Roma «sta nella legge di Cristo»; qui accenna alle parole di san Paolo nella Lettera ai Galati: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (6,2). Presiedere nella carità è innanzitutto precedere «nell’amore di Cristo». Ricordiamoci a questo punto il fatto che il conferimento definitivo del primato a Pietro dopo la Risurrezione è legato alla domanda tre volte ripetuta dal Signore: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?» (Gv 21,15ss). Pascere il gregge di Cristo e amare il Signore sono la stessa cosa. È l’amore di Cristo che guida le pecore sulla retta strada e costruisce la Chiesa. A questo punto non possiamo non pensare al grande discorso col quale Paolo VI ha inaugurato la seconda sessione del Concilio Vaticano II. «Te, Christe, solum novimus» furono le parole determinanti di questo sermone. Il Papa parlò del mosaico di San Paolo fuori le Mura, con la grandiosa figura del Pantocratore e, prostrato dinanzi ai suoi piedi, il papa Onorio III, piccolo di statura e quasi insignificante davanti alla grandezza di Cristo. Il Papa continuò: questa scena si ripete qui in piena realtà nella nostra adunanza. Questa fu la sua visione del Concilio, la sua visione anche del primato: noi tutti ai piedi di Cristo, per essere servi di Cristo, per servire il Vangelo. L’essenza del cristianesimo è Cristo – non una dottrina, ma una persona – ed evangelizzare è guidare all’amicizia con Cristo, alla comunione d’amore col Signore, che è la vera luce della nostra vita.


Cristo in trono, particolare del mosaico absidale della Basilica di San Paolo fuori le Mura



Presiedere nella carità significa – ripetiamolo – precedere nell’amore di Cristo. Ma l’amore di Cristo implica la conoscenza di Cristo – la fede – e implica partecipazione all’amore di Cristo: portare i pesi gli uni degli altri, come dice san Paolo. Il primato nella sua intima essenza non è un esercizio di potere, ma è «portare il peso degli altri», è responsabilità dell’amore. L’amore è proprio il contrario dell’indifferenza nei confronti dell’altro, non può ammettere che nell’altro si spenga l’amore di Cristo, che l’amicizia e la conoscenza del Signore si attenuino, che «la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffochino la parola» (Mt 13,22). E finalmente: l’amore di Cristo è amore per i poveri, per i sofferenti. Sappiamo bene come i nostri papi erano impegnati con forza contro l’ingiustizia, per i diritti degli oppressi, quelli senza potere: l’amore di Cristo non è una cosa individualistica, soltanto spirituale; concerne la carne, concerne il mondo e deve trasformare il mondo.
Presiedere nella carità concerne finalmente l’eucaristia, che è la presenza reale dell’amore incarnato, presenza del corpo di Cristo offerto per noi. L’eucaristia crea la Chiesa, crea questa grande rete di comunione, che è il Corpo di Cristo, e crea così la carità. In questo spirito celebriamo con i vivi e i defunti la santa messa, il sacrificio di Cristo, dal quale scaturisce il dono della carità.
L’amore sarebbe cieco senza la verità. E perciò colui che deve precedere nell’amore, riceve dal Signore la promessa: «Simone, Simone.. io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede» (Lc 22,32). Il Signore vede che satana cerca «per vagliarvi come il grano» (Lc 22,31). Mentre questa prova concerne tutti i discepoli, Cristo prega in modo speciale «per te», per la fede di Pietro, e su questa preghiera è basata la missione: «conferma i tuoi fratelli». La fede di Pietro non viene dalle sue proprie forze; l’indefettibilità della fede di Pietro è basata sulla preghiera di Gesù, il Figlio di Dio: «Ho pregato per te, che non venga meno la tua fede». Questa preghiera di Gesù è il fondamento sicuro della funzione di Pietro per tutti i secoli, e l’orazione dopo la comunione può giustamente dire che i sommi pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo I hanno «con coraggio apostolico» confermato i loro fratelli: in un tempo dove vediamo come Satana «vaglia come il grano» i discepoli di Cristo, la fede imperturbabile dei papi fu visibilmente la roccia sulla quale sta la Chiesa.
«Io so che il mio Redentore è vivo», dice nella prima lettura della nostra liturgia il testo di Giobbe; lo dice in un momento di una estrema prova; lo dice mentre Dio si nasconde e sembra essere il suo avversario. Coperto dal velo della sofferenza, senza conoscere il suo nome e il suo volto, Giobbe “sa” che il suo Redentore vive, e questa certezza è la sua grande consolazione nelle tenebre della prova. Gesù Cristo ha tolto il velo che copriva per Giobbe il volto di Dio: sì, il nostro Redentore vive, «e noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine», dice san Paolo (2Cor 3,18). Il nostro Redentore vive, ha un volto e un nome: Gesù Cristo. I nostri «occhi lo contempleranno». Questa certezza ci danno i nostri papi defunti e così ci guidano «verso il pieno possesso della verità», confermandoci nella fede nel nostro Redentore. Amen.

Sihaya.b16247
00giovedì 7 luglio 2005 03:18
«Un avvenimento che precedeva il loro pensare e volere»
«Un avvenimento che precedeva il loro pensare e volere»

L’introduzione del prefetto della Congregazione per la dotttrina della fede alla nuova edizione del piccolo libro di Heinrich Schlier sulla risurrezione di Gesù Cristo. Il libro, che 30Giorni ha curato insieme alla Morcelliana, sarà allegato alla rivista dopo l’estate


del cardinale Joseph Ratzinger



Mi rallegro che 30Giorni renda accessibile al pubblico italiano in una nuova traduzione il piccolo libro sulla risurrezione di Gesù che Heinrich Schlier pubblicò presso la Johannes Verlag, casa editrice fondata e diretta da Hans Urs von Balthasar nel 1968, in un momento in cui teorie, che da diverso tempo e con diverse varianti circolavano in ambito protestante, venivano presentate nella teologia cattolica come qualcosa di nuovo e come sicura acquisizione scientifica appena raggiunta. Teorie per le quali Gesù sarebbe risorto «all’interno del kerygma» (secondo la formula di Bultmann) ovvero la risurrezione non significherebbe altro che il riconoscimento da parte dei discepoli che «la causa di Gesù continua» (secondo Willi Marxsen). Schlier era un allievo di spicco di Rudolf Bultmann. Nel 1953, destando lo stupore del Maestro, si convertì alla Chiesa cattolica e disse che questa sua conversione era avvenuta secondo una modalità del tutto protestante e cioè attraverso il suo rapporto con la Scrittura. Per tutta la vita Schlier è stato riconoscente a Bultmann per tutto quel che aveva imparato da lui sul modo di accostarsi ai testi biblici, e per tutta la vita è rimasto anche legato strettamente al pensiero filosofico di Martin Heidegger. Dunque ascoltiamo un maestro di esegesi che non ha conosciuto i problemi della modernità soltanto dall’esterno, ma che in essi è cresciuto e che ha trovato la sua strada nel continuo confronto con essi.
Potrebbe rivelarsi utile al lettore odierno cominciare la lettura del libro dalle ultime due pagine, nelle quali la consapevolezza metodica dell’autore emerge in modo molto conciso ma proprio per questo anche in modo molto preciso. Schlier si rendeva perfettamente conto che la risurrezione di Gesù dai morti rappresenta un problema-limite per l’esegesi; ma in esso diventa particolarmente chiaro che l’interpretazione del Nuovo Testamento, se vuole arrivare al cuore della questione, ha sempre a che fare con problemi-limite. La fede nella risurrezione degli Scritti neotestamentari pone l’esegeta davanti ad un’alternativa che esige da lui una decisione. L’esegeta può certo condividere l’opinione (diventata visione del mondo in storiografia) dell’omogeneità di tutta la storia, secondo la quale può essere accaduto realmente solo ciò che potrebbe accadere sempre. Ma allora è costretto a negare la risurrezione come evento e deve cercare di chiarire che cosa ci sia dietro, come possano nascere idee del genere. Oppure può farsi travolgere dall’evidenza di un fenomeno che interrompe la serie concatenata degli eventi per poi cercare di capire che cosa esso significhi. Il piccolo libro di Schlier, in fin dei conti, mostra semplicemente questo: che i discepoli si lasciarono travolgere da un fenomeno che si palesava loro, da una realtà inaspettata, inizialmente pure incomprensibile, e che la fede nella risurrezione è scaturita da questo travolgimento e cioè da un avvenimento che precedeva il loro pensare e volere, che anzi lo rovesciava.

Chiunque leggerà il libro di Schlier vedrà che l’autore ha fatto la stessa esperienza dei discepoli: egli stesso è uno travolto «dall’evidenza di un fenomeno che da se stesso si è palesato con naturalezza», e cioè un credente, ma un credente che crede ragionevolmente. Tutta la sua vita è stata un lasciarsi travolgere dal Signore che lo guidava. Schlier non riduce banalmente il fenomeno della risurrezione all’ordinarietà di un fatto qualunque. L’originalità di questo avvenimento, che si rispecchia nei rapporti così singolari instaurati dal Risorto, emerge chiaramente nel suo libro. Non è un evento come tutti gli altri, ma un fuoriuscire da quel che ordinariamente accade come storia. Da qui nasce la difficoltà di una interpretazione obiettiva; da qui si capisce anche la tentazione di annullare l’evento come evento per reinterpretarlo come fatto mentale, esistenziale o psicologico. Nonostante Schlier lasci intatto nella sua particolarità – come abbiamo già detto – ciò che la risurrezione ha di singolare, e cioè in ultima analisi di incomprensibile per noi, ha comunque fermamente mantenuto – fedele alla testimonianza dei testi e all’evidenza di quell’inizio – «l’irreversibilità e l’irriducibilità della sequenza “apparizione del Risorto” – “kerygma” – “fede”»; che con risurrezione si intende «un evento, cioè un concreto avvenimento storico»; o, detto in altro modo, che «la parola di coloro che vedono il Risorto è la parola di un evento che supera i testimoni».
Siccome le tentazioni del 1968 sono oggi non meno attuali di allora, anche oggi questo è un libro che risulta assai utile e spero che abbia molti lettori.

(Traduzione di Lorenzo Cappelletti e di Silvia Kritzenberger)

Sihaya.b16247
00giovedì 7 luglio 2005 03:23
Versus Deum per Iesum Christum
Versus Deum per Iesum Christum

«La direzione ultima dell’azione liturgica, mai totalmente espressa nelle forme esterne, è la stessa per il sacerdote e il popolo: verso il Signore». L’introduzione del decano del Sacro Collegio al libro di Uwe Michael Lang


del cardinale Joseph Ratzinger


Al cattolico praticante normale due appaiono i risultati più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano II: la scomparsa della lingua latina e l’altare orientato verso il popolo. Chi legge i testi conciliari potrà constatare con stupore che né l’una né l’altra cosa si trovano in essi in questa forma.
Certo, alla lingua volgare si sarebbe dovuto dare spazio, secondo le intenzioni del Concilio (cfr. Sacrosanctum Concilium 36,2) – soprattutto nell’ambito della liturgia della Parola – ma, nel testo conciliare, la norma generale immediatamente precedente recita: «L’uso della lingua latina, salvo un diritto particolare, sia conservato nei riti latini» (Sacrosanctum Concilium 36,1).
Dell’orientamento dell’altare verso il popolo non si fa parola nel testo conciliare. Se ne fa parola in istruzioni postconciliari. La più importante di esse è la Institutio generalis Missalis Romani, l’Introduzione generale al nuovo Messale romano del 1969, dove al numero 262 si legge: «L’altare maggiore deve essere costruito staccato dal muro, in modo che si possa facilmente girare intorno ad esso e celebrare, su di esso, verso il popolo [versus populum]». L’introduzione alla nuova edizione del Messale romano del 2002 ha ripreso questo testo alla lettera, ma alla fine ha fatto la seguente aggiunta: «è auspicabile laddove è possibile». Questa aggiunta è stata letta da molte parti come un irrigidimento del testo del 1969, nel senso che adesso ci sarebbe un obbligo generale di costruire – «laddove possibile» – gli altari rivolti verso il popolo. Questa interpretazione, però, era stata respinta dalla competente Congregazione per il Culto divino già in data 25 settembre 2000, quando spiegò che la parola «expedit» [è auspicabile] non esprime un obbligo ma una raccomandazione. L’orientamento fisico dovrebbe – così dice la Congregazione – essere distinto da quello spirituale. Quando il sacerdote celebra versus populum, il suo orientamento spirituale dovrebbe essere comunque sempre versus Deum per Iesum Christum [verso Dio attraverso Gesù Cristo]. Siccome riti, segni, simboli e parole non possono mai esaurire la realtà ultima del mistero della salvezza, si devono evitare posizioni unilaterali e assolutizzanti al riguardo.
Un chiarimento importante, questo, perché mette in luce il carattere relativo delle forme simboliche esterne, opponendosi così ai fanatismi che purtroppo negli ultimi quarant’anni non sono stati infrequenti nel dibattito attorno alla liturgia. Ma allo stesso tempo illumina anche la direzione ultima dell’azione liturgica, mai totalmente espressa nelle forme esterne e che è la stessa per sacerdote e popolo (verso il Signore: verso il Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo). La risposta della Congregazione dovrebbe perciò creare anche un clima più disteso per la discussione; un clima nel quale si possano cercare i modi migliori per la pratica attuazione del mistero della salvezza, senza reciproche condanne, nell’ascolto attento degli altri, ma soprattutto nel­l’ascolto delle indicazioni ultime della stessa liturgia. Bollare frettolosamente certe posizioni come “preconciliari”, “reazionarie”, “conservatrici”, oppure “progressiste” o “estranee alla fede”, non dovrebbe più essere ammesso nel confronto, che dovrebbe piuttosto lasciare spazio ad un nuovo sincero comune impegno di compiere la volontà di Cristo nel miglior modo possibile.
Questo piccolo libro di Uwe Michael Lang, oratoriano residente in Inghilterra, analizza la questione dell’orientamento della preghiera liturgica dal punto di vista storico, teologico e pastorale. Ciò facendo, riaccende in un momento opportuno – mi sembra – un dibattito che, nonostante le apparenze, anche dopo il Concilio non è mai veramente cessato.
Il liturgista di Innsbruck Josef Andreas Jungmann, che fu uno degli architetti della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Vaticano II, si era opposto fermamente fin dall’inizio al polemico luogo comune secondo il quale il sacerdote, fino ad allora, avrebbe celebrato “voltando le spalle al popolo”. Jungmann aveva invece sottolineato che non si trattava di un voltare le spalle al popolo, ma di assumere il medesimo orientamento del popolo. La liturgia della Parola ha carattere di proclamazione e di dialogo: è rivolgere la parola e rispondere, e deve essere, di conseguenza, il reciproco rivolgersi di chi proclama verso chi ascolta e viceversa. La preghiera eucaristica, invece, è la preghiera nella quale il sacerdote funge da guida, ma è orientato, assieme al popolo e come il popolo, verso il Signore. Per questo – secondo Jungmann – la medesima direzione di sacerdote e popolo appartiene all’essenza dell’azione liturgica. Più tardi Louis Bouyer – anch’egli uno dei principali liturgisti del Concilio – e Klaus Gamber, ognuno a suo modo, ripresero la questione. Nonostante la loro grande autorità, ebbero fin dall’inizio qualche problema nel farsi ascoltare, così forte era la tendenza a mettere in risalto l’elemento comunitario della celebrazione liturgica e a considerare perciò sacerdote e popolo reciprocamente rivolti l’uno verso l’altro.
Soltanto recentemente il clima si è fatto più disteso e così, su chi pone domande come quelle di Jungmann, di Bouyer e di Gamber, non scatta più il sospetto che nutra sentimenti “anticonciliari”. I progressi della ricerca storica hanno reso il dibattito più oggettivo, e i fedeli sempre più intuiscono la discutibilità di una soluzione in cui si avverte a malapena l’apertura della liturgia verso ciò che l’attende e verso ciò che la trascende. In questa situazione, il libro di Uwe Michael Lang, così piacevolmente oggettivo e niente affatto polemico, può rivelarsi un aiuto prezioso. Senza la pretesa di presentare nuove scoperte, offre i risultati delle ricerche degli ultimi decenni con grande cura, fornendo le informazioni necessarie per poter giungere a un giudizio obiettivo. Molto apprezzabile è il fatto che viene evidenziato, a tale riguardo, non solo il contributo, poco conosciuto in Germania, della Chiesa d’Inghilterra, ma anche il relativo dibattito, interno al Movimento di Oxford nell’Ottocento, nel cui contesto maturò la conversione di John Henry Newman. È su questa base che vengono sviluppate poi le risposte teologiche.
Spero che questo libro di un giovane studioso possa rivelarsi un aiuto nello sforzo – necessario per ogni generazione – di comprendere correttamente e di celebrare degnamente la liturgia. Il mio augurio è che possa trovare tanti attenti lettori.



IL Libro
Il testo del cardinale Joseph Ratzinger pubblicato in queste pagine, inedito in Italia, è la prefazione che il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha scritto al libro di Uwe Michael Lang Conversi ad Dominum. Zu Geschichte und Theologie der christlichen Gebetsrichtung, edito lo scorso anno in Svizzera dalla Johannes Verlag di Einsiedeln. Del volume sta uscendo la versione in lingua inglese (Turning towards the Lord: Orientation in Liturgical Prayer) per la casa editrice Ignatius Press di San Francisco (Usa), che detiene il copyright dell’opera.
Uwe Michael Lang è membro dell’oratorio di San Filippo Neri a Londra, ha studiato teologia a Vienna e Oxford, e ha pubblicato numerosi testi su argomenti patristici.

Gianni Cardinale
Sihaya.b16247
00giovedì 7 luglio 2005 03:25
La vittoria che fa l’uomo contento
La vittoria che fa l’uomo contento

Festa della gratitudine per il trionfo di Cristo sulla morte. Questo è il Corpus Domini


del cardinale Joseph Ratzinger


Che significa per me il Corpus Domini? Anzitutto il ricordo di un giorno di festa, nel quale era presa assolutamente alla lettera l’espressione che Tommaso d’Aquino ha coniato in uno dei suoi inni per il Corpus Domini: «Quantum potes, tantum aude», devi osare tutto ciò che puoi per tributargli la lode dovuta... Questi versi richiamano d’altra parte alla memoria una frase che aveva formulato il martire Giustino già nel secondo secolo. Nella sua presentazione della liturgia cristiana egli scrive che chi la presiede, cioè il sacerdote, nella celebrazione eucaristica deve elevare al cielo preghiere e rendimenti di grazie «con tutta la forza di cui dispone»1. Nel Corpus Domini tutta la comunità si sente chiamata a questo compito: si deve osare tutto ciò che si può. Sento ancora il profumo che emanava dai tappeti di fiori e dalle betulle verdeggianti; appartengono a questi ricordi anche gli ornamenti presenti in tutte le case, le bandiere, i canti; sento ancora gli strumenti a fiato della banda locale, che in questo giorno osavano talvolta più di quanto potessero; sento lo scoppio dei mortaretti con cui i ragazzi esprimevano la loro prorompente gioia di vivere, ma con cui nelle vie del villaggio proprio in questo modo salutavano Cristo come un capo di Stato, anzi come il capo supremo, come il Signore del mondo. L’indefettibile presenza di Cristo veniva celebrata in questo giorno come una visita di Stato che non trascura, si potrebbe dire, nemmeno il più piccolo villaggio.
Il Corpus Domini ci rinvia anche alle questioni sollevate dal rinnovamento liturgico, con le sue prospettive teologiche. È giusto – ci chiedevamo – celebrare una volta all’anno l’Eucaristia come una visita di Stato fatta dal Signore del mondo, con tutte le manifestazioni tipiche di una gioia trionfale? Ci veniva poi ricordato che l’Eucaristia fu istituita nella sala dell’Ultima Cena e che è da lì che prende i connotati permanenti della sua celebrazione. I segni del pane e del vino, scelti dal Signore per questo mistero, richiamano l’attenzione sul gesto del ricevere. Il modo corretto di ringraziare per l’istituzione dell’Eucaristia è perciò la stessa celebrazione eucaristica, nella quale celebriamo la sua morte e la sua resurrezione e da lui siamo edificati in Chiesa vivente. Tutto il resto sembrava un vero e proprio fraintendimento dell’Eucaristia. Vi si aggiunse anche l’allarmata resistenza a tutto ciò che aveva sapore di trionfalismo, che non sembrava conciliabile con la coscienza cristiana del peccato e con la tragica situazione del mondo. E così la celebrazione del Corpus Domini divenne imbarazzante. Un influente manuale di liturgia, apparso in due volumi negli anni 1963-65, nella sua presentazione dell’anno liturgico non menziona nemmeno il Corpus Domini. Timidamente dedica solo una pagina all’argomento in un capitolo dal titolo: “Devozioni eucaristiche”; e tenta di superare il suo imbarazzo con la proposta, piuttosto astrusa, che si dovrebbe concludere la processione del Corpus Domini con la comunione agli infermi, perché proprio questa sarebbe l’unica circostanza in cui una processione, un percorso con l’Ostia, avrebbe un significato funzionale2.
Il Concilio di Trento era stato in questo molto meno chiuso. Aveva detto che il Corpus Domini aveva lo scopo di suscitare la gratitudine e di tenere desta in tutti la memoria del Signore3. Poche parole che fanno emergere ben tre motivi. Il Corpus Domini deve reagire alla smemoratezza dell’uomo, deve suscitare in lui sentimenti di riconoscenza e ha a che fare con la comunione, la forza unificante che proviene dallo sguardo rivolto all’unico Signore. Ci sarebbe molto da dire in proposito. Non siamo forse divenuti atrocemente incapaci di pensare e di far memoria proprio nell’era dei computer, delle assemblee e delle agende, usate perfino dai bambini delle elementari?
Gli psicologi ci dicono che la nostra razionalità cosciente è soltanto la superficie di tutta l’anima. Ma noi siamo così sollecitati da questo primo livello che il profondo non riesce più a farsi sentire. Questo fatto mina in definitiva la salute dell’uomo, perché egli non sente più ciò che è autentico, non è più lui stesso a vivere, ma è vissuto da ciò che è casuale e superficiale. In stretta connessione con questo sta il nostro rapporto col tempo. Il nostro rapporto col tempo è la dimenticanza. Noi viviamo sul momento. Vogliamo addirittura dimenticare, perché non ammettiamo la vecchiaia e la morte. Ma questa volontà di oblio è in realtà una menzogna che si trasforma in un grido aggressivo verso il futuro, un grido che vuole infrangere il tempo. Ma anche questa romantica del futuro, per cui non si vuole essere più soggetti al tempo, è una menzogna che distrugge l’uomo e il mondo. L’unico modo per dominare veramente il tempo è il perdono e la riconoscenza, che accetta il tempo come un dono e lo trasforma in gratitudine.
Ma ritorniamo al Concilio di Trento, dove viene fatta senza alcuna remora l’affermazione che nel Corpus Domini si celebra la vittoria di Cristo, il suo trionfo sulla morte. Così come la nostra tradizione bavarese onorava Cristo quale insigne “ospite di Stato”, qui ci si rifà all’antico uso romano di onorare con un corteo trionfale il condottiero vittorioso che ritorna in patria. La sua campagna militare era diretta contro la morte, che divora il tempo e ci costringe così alla menzogna che vuole dimenticare o distruggere il tempo. Ora, soltanto se c’è una risposta alla morte, l’uomo può essere veramente contento. Ma, se esiste questa risposta, allora è essa l’effettiva e valida autorizzazione alla gioia, ciò che può veramente costituire il fondamento di una festa. L’Eucaristia è, nella sua essenza, la risposta al problema della morte, l’incontro con l’amore, che è più forte della morte. Il Corpus Domini è risposta a questo nucleo del mistero eucaristico. Una volta all’anno esso pone ben al centro la gioia trionfale per questa vittoria e accompagna il vincitore nel corteo trionfale attraverso le vie. La solennità del Corpus Domini non viola perciò il primato del ricevere, che trova espressione nell’offerta del pane e del vino. Al contrario, essa non fa altro che mettere bene in luce cosa significa veramente accogliere: significa tributare al Signore l’accoglienza che spetta al vincitore. Accoglierlo significa adorarlo; accoglierlo significa appunto «Quantum potes tantum aude»: si deve osare tutto quello che si può.

Il Concilio di Trento conclude la sua esposizione sul Corpus Domini con una proposizione che suona offesa ai nostri orecchi ecumenici e che certamente ha contribuito in maniera non irrilevante a far sì che quella festa cadesse in discredito presso i nostri fratelli evangelici. Se però si depurano queste formulazioni dalle passioni del secolo XVI, viene sorprendentemente a galla qualche cosa di positivo e di grande. Ma ascoltiamo anzitutto semplicemente ciò che dice il testo. Nel testo conciliare si legge che il Corpus Domini deve rappresentare il trionfo della verità «in modo tale che, al cospetto di siffatto splendore e di una tale esultanza di tutta la Chiesa, i suoi avversari... o ne restino del tutto confusi oppure alla fine rinsaviscano scossi dalla vergogna»4. Se sfrondiamo questo testo dalla polemica, esso significa che la forza con la quale la verità si fa strada dev’essere la gioia con cui essa si manifesta. L’unità non si afferma con la polemica e nemmeno con teorie accademiche, ma con l’irradiazione della gioia pasquale; essa conduce al cuore della professione di fede: “Cristo è risorto”. Essa conduce al cuore dell’esistenza umana, che attende questa gioia con ogni sua fibra. Così la gioia pasquale si caratterizza come l’elemento essenziale dell’ecumenismo e della missionarietà; per essa i cristiani dovrebbero gareggiare fra loro e per essa farsi riconoscere nel mondo. Il Corpus Domini esiste per questo. E questo è il più profondo significato del distico, «Quantum potes, tantum aude»: sfrutta tutto lo splendore del bello, se si tratta di esprimere la gioia delle gioie. L’amore è più forte della morte; in Gesù Cristo Dio è in mezzo a noi.


Note
1 Giustino, Apologia I, 67,5.
2 A. G. Martimort (a cura di), Handbuch der Liturgiewissenschaft, I, Frei­burg 1963, p. 489, nota 15; tr. it. La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, Desclée, Roma-Parigi-Tournai-New York 21966, p. 520, nota 6.
3 «Aequissimum est enim sacros aliquos statutos esse dies, cum christiani omnes singulari ac rara quadam significatione gratos et memores testentur ani­mos erga communem Dominum et Redemptorem pro tam ineffabili et plane divino beneficio, quo mortis eius victoria et triumphus repraesentatur». Decretum de sanctissimo eucharistiae sacramento (Sessio XIII, 11.10.1551), cap. V; DS 1644.
4 « ... Ut eius adversarii in conspectu tanti splendoris et in tanta universae Ecclesiae laetitia positi vel debilitati et fracti tabescant vel pudore affecti et confusi aliquando resipiscant» (ibidem).

Sihaya.b16247
00giovedì 7 luglio 2005 03:27
Re: La vittoria che fa l’uomo contento
Il primo incontro all’ex Sant’Uffizio

Il salesiano Angelo Amato, segretario della Congregazione per la dottrina della fede, racconta come il dicastero ha festeggiato il suo Papa. E saluta il nuovo prefetto, l’arcivescovo William Joseph Levada


di Gianni Cardinale








Monsignor Angelo Amato accoglie Benedetto XVI in visita all’ex Sant’Uffizio, il 20 aprile 2005


Nella tarda mattinata di mercoledì 20 aprile, il giorno dopo la sua elezione, papa Benedetto XVI è tornato nel Palazzo del Sant’Uffizio, negli uffici che lo avevano visto lavorare come cardinale. Di quella che può essere definita come la prima visita del nuovo Papa a un dicastero vaticano, 30Giorni ha parlato con l’arcivescovo Angelo Amato, salesiano, dal dicembre 2002 segretario della Congregazione per la dottrina della fede e quindi il più stretto collaboratore dell’allora cardinale Ratzinger.
L’arcivescovo Amato, per ovvi motivi, è stato il primo ecclesiastico a essere ricevuto in udienza privata dal nuovo Papa, il 25 aprile. «C’era un mucchio di lavoro arretrato» racconta l’arcivescovo, «ma prima di cominciare il Papa mi ha detto: “Scambiamo qualche parola in modo che i fotografi possano fare bene il loro lavoro…”». Il segretario dell’ex Sant’Uffizio è stato poi ricevuto in udienza anche il 29 aprile e il 6 maggio. Non solo, ma ha avuto modo di incontrare il Papa fortuitamente anche un altro paio di volte nel Palazzo che si affaccia su piazza della Città Leonina. «Quando il Papa è tornato nel suo vecchio appartamento» dice, «ho avuto modo di incrociarlo, visto che anch’io abito lì. Devo dire che in quei giorni per noi, suoi ex coinquilini, la vita è stata rallegrata dalla folla, che sostava per delle ore per inneggiare al nuovo Papa, accolto con simpatia e grande affetto».

Eccellenza, veniamo alla visita di Benedetto XVI del 20 aprile nei vostri uffici. Ve l’aspettavate?
ANGELO AMATO: No, è stata una grande sorpresa. Per quella mattina avevamo programmato una messa di ringraziamento e invece sul presto ci arriva una telefonata del segretario particolare, monsignor Georg Gänswein, il quale ci comunica che alla fine della mattinata il Santo Padre ci avrebbe fatto una visita. Questa notizia ci ha riempito di grande gioia e subito ci siamo attivati per fare in modo che tutti fossero presenti e che l’accoglienza al nuovo Papa fosse la migliore possibile. Per prima cosa abbiamo pensato a cosa donare al Pontefice.
E che cosa avete deciso?
AMATO: Il sabato prima, 16 aprile, era stato il suo compleanno e anche allora preparammo un indirizzo di auguri in Congregazione e come regalo gli donammo una composizione floreale di bellissime orchidee. In quell’occasione poi mi sono permesso di accompagnare il classico ad multos annos con la citazione di un antico apocrifo di san Giuseppe, in cui si afferma che il padre putativo di Gesù visse oltre cento anni. L’allora cardinale apprezzò molto e mi chiese il testo di quell’apocrifo che lui non conosceva.
Quindi questa volta niente fiori.
AMATO: In effetti non sarebbe stato molto originale… Allora abbiamo pensato a un dolce. E così ho dato subito disposizioni per comprare una bella torta mimosa.
Si può immaginare che siano stati in tanti a voler partecipare a questo incontro così importante e inatteso.
AMATO: In effetti la voce si è diffusa in modo sorprendente. E hanno cominciato a chiamare in molti per chiedere se potevano partecipare all’accoglienza. Ovviamente abbiamo accolto le richieste in tal senso del cardinal Tarcisio Bertone, di padre Gianfranco Girotti, degli arcivescovi Luigi De Magistris e Jozef Zlatnansky, che in passato avevano lavorato nella nostra Congregazione. A un certo punto volevano venire tutti gli inquilini del Palazzo del Sant’Uffizio, ma purtroppo non c’era spazio sufficiente.
Anche perché il Papa non è venuto da solo.
AMATO: Il Papa era accompagnato, oltre che da monsignor Gänswein anche dal cardinale segretario di Stato Angelo Sodano, dal sostituto Leonardo Sandri, dal segretario dei Rapporti con gli Stati Giovanni Lajolo, dal prefetto della Casa pontificia James Michael Harvey e dal reggente monsignor Paolo De Nicolò. Le poche sedie che avevamo preparato non sono bastate e molti sono rimasti in piedi.
Come avete accolto Benedetto XVI?
AMATO: L’amore del Papa per la musica non è un segreto. E già per il suo compleanno avevamo inaugurato l’attività del nostro coro – che abbiamo battezzato “Piano” in onore di san Pio V – dedicando al cardinale Ratzinger una bellissima Ave Maria musicata dal grande Wolfgang Amadeus Mozart, un canto a più voci con delle fughette molto interessanti. Purtroppo in quattro giorni non abbiamo potuto ampliare il nostro repertorio e così anche a Benedetto XVI abbiamo cantato la stessa Ave Maria del compositore austriaco…
Poi è toccato a lei prendere la parola…
AMATO: Sì, ho pronunciato un breve discorso di benvenuto ampiamente ripreso dal bravo Giampaolo Mattei sull’Osservatore Romano del giorno dopo. Ho cominciato con un saluto che mi sembrava più che appropriato: Benedictus qui venit in nomine Domini. Quindi ho espresso tutta la nostra gioia. E poi mi sono permesso di dire che la sua elezione a Papa era stata un po’ la smentita del detto che chi entra papa in conclave ne esce cardinale… Infine, dopo aver accennato alla lunga serie di papi con questo nome e anche ai tanti secoli passati dall’ultimo tedesco eletto papa, ho chiesto il preciso perché della scelta del nome Benedetto, visto che in quel momento non l’aveva ancora spiegata pubblicamente.
E il Papa cosa ha risposto?
AMATO: Ha ricordato la figura di Benedetto XV che fece molto per la pace esterna, nel mondo insanguinato dalla guerra mondiale, e per la pace interna, nella Chiesa, che aveva vissuto la crisi modernista. E poi ha detto di essere contento che quella fosse la sua prima visita da Papa. A quel punto mi è tornato in mente che nella visita del compleanno, il 16 aprile, ci aveva confidato di sperare che il nuovo papa gli avrebbe concesso la possibilità di rientrare nel suo ufficio per potervi rimanere alcuni mesi, giusto il tempo per un tranquillo passaggio di consegne al successore. Il Signore ha provveduto altrimenti…
A questo punto è venuto il momento del dolce…
AMATO: È stato il cardinale Sodano a ricordarcelo. Allora ho preso la torta mimosa e l’ho consegnata al Papa. Con tanto di foto che è stata pubblicata da vari quotidiani. Ma il momento più bello secondo me è venuto dopo.


Benedetto XVI tra i suoi ex collaboratori della Congregazione per la dottrina della fede



Cioè?
AMATO: Il Papa stava per lasciare il Palazzo. Eravamo nell’ascensore. Il cardinale Sodano ha chiesto: «Quanti siete, una ventina?». «Circa quaranta», ho risposto. A quel punto è intervenuto il Papa, che ha aggiunto: «È una bella famigliola». Mi sono commosso. È proprio vero che alla Congregazione per la dottrina della fede lui si sentiva veramente in famiglia. Noi non vedevamo in lui solo il grande intellettuale, il teologo famoso, il pastore sapiente, ma anche un paterfamilias, il padre di questa bella famigliola cui tutti si potevano rivolgere in qualunque momento. Un padre, però, che aveva, che ha, un grande rispetto e una grande delicatezza. E questo si evince anche da un particolare che vorrei raccontare.
Prego.
AMATO: Quando il papa muore, tutti i capidicastero cessano dall’ufficio in attesa dell’eventuale riconferma da parte del nuovo pontefice. Ebbene, la mattina prima della riunione generale dei cardinali in preparazione al conclave, sono arrivato in Congregazione e mi sono accorto della presenza del cardinale Ratzinger nell’anticamera del suo studio. Allora sono corso a salutarlo, e lui con una umiltà ammirevole mi ha chiesto il permesso di entrare nel suo ufficio. Nei giorni successivi ho fatto in modo di farmi trovare all’ingresso, in modo tale da accompagnarlo all’interno dei locali della Congregazione senza che dovesse di nuovo chiedermi il permesso…
Eccellenza, con la nomina del nuovo Papa la vostra Congregazione non ha perso solo il prefetto…
AMATO: Infatti. Con lui abbiamo perso anche un valido collaboratore come monsignor Gänswein e ho paura – per così dire – che anche la nostra bravissima collaboratrice Birgit Wansing, che per tanti anni ha lavorato nella segreteria particolare del cardinale Ratzinger, sia destinata a cambiare Palazzo…
Eccellenza, intanto il 13 maggio è stata annunciata la nomina del nuovo prefetto, nella persona dell’arcivescovo di San Francisco William Joseph Levada…
AMATO: In Congregazione abbiamo accolto con gioia questa scelta di papa Benedetto XVI. L’arcivescovo Levada conosce bene il nostro dicastero perché ne è membro e perché vi ha lavorato come officiale per sei anni. Poi conosce bene il nostro Paese, visto che ha studiato a Roma. Oltre a essere un uomo di grande competenza teologica, ha anche notevole esperienza amministrativa e pastorale, visto che è vescovo da più di vent’anni. Lo conosciamo bene, è di casa.


Paparatzifan
00sabato 9 luglio 2005 00:01
Da "Il Manifesto" sugli attentati a Londra


Articolo sul giornale di oggi:

La «gaffe» papale: «Atti anticristiani»
Benedetto XVI invia un telegramma di cordoglio al cardinale di Londra Murphy O'Connor. La prima versione del testo, diffusa dalle agenzie di stampa, definisce gli attentati «antiumani e anticristiani». Poi la versione ufficiale della sala stampa vaticana corregge il tiro. Ma il giallo rimane
MIMMO DE CILLIS*
All'indomani degli attentati di Londra, nei palazzi vaticani è violenta bufera. Da anni non si ricordava una gaffe così clamorosa come quella in cui è incappato ieri l'establishment della sala stampa della Santa sede, nelle tragiche ore successive alle esplosioni. Un infortunio che ha lasciato basiti gli osservatori di cose vaticane per la leggerezza con cui si è consumato e per le nefaste conseguenze che potrebbe avere. Ecco i termini della vicenda che ha agitato le stanze di via della Conciliazione in un pomeriggio infuocato: alle 13,45 l'agenzia Ansa, e di seguito altre agenzie di informazione, battevano il testo virgolettato [...]


Nessuno è perfetto. Nemmeno voi, signori del Manifesto che sembra che siete più papisti del Papa. Anticristiano o non, l’atto compiuto non è altro che un crimine barbarico!!!
Ratzigirl
00sabato 9 luglio 2005 02:18
Infatti...
In più....sarà anche una gaffe, ma anticristiano...non è mica una parolaccia....in più se si considera che Cristo inneggiava alla pace, e l'atto terrosristico è un atto di violenza...no vedo perchè dire "anticristiano" possa essere inteso con la lieve sfumatura intollerante e discriminatoria verso le altre religioni!!!
Insomma, tu Sonia DICI : essere più papisti del Papa, io dico essere più realisti del RE!!( .....MA LA SOSTANZA è LA STESSA!!!)[SM=g27812] [SM=g27812] [SM=g27812] [SM=g27812] [SM=g27812]

[Modificato da Ratzigirl 09/07/2005 2.18]

.samantha.
00sabato 9 luglio 2005 10:29
Anticristiano
Se anche il testo del telegramma recasse il termine "anticristiano" non ci sarebbe nulla di male, anzi, non vedo in quale altro modo descrivere atti tanto efferati.
Anticristiano non è antislamico ma è aggettivo che definisce un atto contro la vita, la morale, le radici della cultura mondiale.
L'islam, vero, non è terrorismo e questo lo sanno tutti gli uomini di buona volontà. Ma se poi il Manifesto vuole montare il solito caso...
Sihaya.b16247
00sabato 9 luglio 2005 15:59
Re: Anticristiano

Scritto da: .samantha. 09/07/2005 10.29
Se anche il testo del telegramma recasse il termine "anticristiano" non ci sarebbe nulla di male, anzi, non vedo in quale altro modo descrivere atti tanto efferati.
Anticristiano non è antislamico ma è aggettivo che definisce un atto contro la vita, la morale, le radici della cultura mondiale.
L'islam, vero, non è terrorismo e questo lo sanno tutti gli uomini di buona volontà. Ma se poi il Manifesto vuole montare il solito caso...



Quoto. Ma perchè, quello che è avvenuto è filocristiano?
Ad ogni modo, anche Quasimodo, nella poesia Uomo del mio tempo scrive "senza amore, senza Cristo", ad indicare Cristo come simbolo di amore universale. Io non ci vedrei nè gaffe nè polemica, ma il momento è critico e qualunque cosa si scriva può essere interpretato in modo "ideologico".
Ratzigirl
00domenica 10 luglio 2005 16:52
Uno spazio anche per la rivista di ispirazione cattolica più diffusa in italia...e soprattutto che diffonde le immagini bellissime del nostro Papa!!!

Inizio con un articolo uscito questa settimana riguardo ai matrimoni omosessuali




UNIONI OMOSESSUALI:
IL MATRIMONIO È BEN ALTRO




La nuova legge, in Spagna, autorizza il matrimonio tra persone omosessuali, lo mette sullo stesso piano del matrimonio eterosessuale, e consente l’adozione.

«Posso capire», ha dichiarato il capo del Governo spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero, «che la Chiesa cattolica sia dispiaciuta, ma occorre rispettare la competenza dello Stato laico e la maggioranza parlamentare».

Ma laicità vuol forse dire che lo Stato può confondere le cose? Che il matrimonio sia quello che è, cioè l’unione di un uomo e di una donna, non è una questione di Chiesa cattolica. La cultura occidentale (ma non solo) denomina matrimonio, che fonda la famiglia, solo l’unione dell’uomo e della donna; e, come tale, si differenzia radicalmente da qualsiasi altro tipo di unione.

Lo Stato laico è autonomo dalla morale cattolica, ma non dalla morale umana o dai valori umani comuni. Il pluralismo etico (o delle etiche) delle nostre società occidentali non impedisce di individuarli e, tra questi, sicuramente c’è la famiglia fondata sul matrimonio. Che a maggioranza parlamentare si decida che è matrimonio anche quello tra omosessuali, non vuol dire che la decisione sia giusta. Ciò che è legale non s’identifica sempre e automaticamente con ciò che è giusto, buono e vero.

La legge spagnola non è giusta ed è antipedagogica non per ragioni religiose, ma per ragioni laiche, razionali. La prima grande ragione riguarda l’insostenibile equiparazione tra matrimonio omosessuale ed eterosessuale. Il minimo che si esige dal legislatore è che non confonda il matrimonio e la famiglia con altre realtà che non lo sono né lo possono essere. Non giova a nessuno, nemmeno alle persone omosessuali, chiamare con lo stesso nome ed equiparare realtà profondamente diverse e trasferire diritti-doveri da una all’altra.

La seconda ragione che rende ingiusta la legge è il diritto delle coppie omosessuali all’adozione.

Tale riconoscimento è in contrasto con il criterio fondamentale dell’adozione, del resto universalmente riconosciuto: al centro vanno messi il bene e l’interesse globale del minore e non quello dell’adulto. La coppia omosessuale, al di là delle intenzioni, non garantisce oggettivamente un adeguato ambiente formativo, al quale il bambino ha diritto. Non si vuol dire che la coppia eterosessuale sia, per sé stessa, buona educatrice. Purtroppo, e di frequente, la realtà smentisce tale visione positiva.

Si vuol dire, invece, che la coppia omosessuale cancella, per principio, l’insostituibile apporto educativo che discende dalla presenza del padre e della madre. Ci sono già tante situazioni difficili, non è proprio il caso di istituirne altre per legge.

Non è superfluo precisare che, in tutto questo, non sono in questione la persona omosessuale, la sua dignità, i suoi diritti, e la doverosa denuncia di ogni forma, passata e presente, di discriminazione ed emarginazione nella società, nel lavoro, nella scuola e anche nella famiglia. È, invece, in questione il legislatore nel suo grave compito di tutela del matrimonio, quale risorsa insostituibile e bene di tutti, credenti e non credenti.

Il legislatore diventa semplicemente arbitrario, e anche ignorante, quando considera il matrimonio eterosessuale come uno dei tanti modelli possibili; e quando lo equipara ad altre forme di convivenza civile (dette anche unioni libere o unioni di fatto). L’inevitabile risultato che ne deriva sono la relativizzazione e il deprezzamento del concetto stesso di matrimonio, con grave danno della società che ha in quella istituzione uno dei pilastri fondamentali. Il legislatore, cioè la società, può permetterlo?

In rapporto al fenomeno crescente delle cosiddette unioni libere o "unioni di fatto", il legislatore potrebbe considerare l’opportunità di una qualche regolamentazione allo scopo di garantire certi diritti civili delle persone singole che sono coinvolte, come la pensione di reversibilità, la successione ereditaria, l’assistenza sanitaria.

Nikki72
00giovedì 14 luglio 2005 11:29
Re: Re: Anticristiano
Ragazze, su "Sette" del Corriere della Sera di oggi c'è in copertina don "Cioccio" e all'interno tante foto e curiosità su Ratzi! [SM=x40790] [SM=x40790]
Nikki72
00giovedì 14 luglio 2005 11:30
Re: Re: Re: Anticristiano
Ooop, non si chiama più Sette, ora si chiama Magazine, va bé avete capito... [SM=g27828]
Ratzigirl
00giovedì 14 luglio 2005 12:07
Corriere della Sera - Magazine (segnalato da Nikki)
Corriere della sera - Magazine 14 Luglio

Il segreto di Georg e gli altri uomini-chiave: uno solo è stato nominato (Levada) e tre riconfermati (Sodano, Szoka, Kasper). Ma per capire gli orientamenti futuri l'appuntamento è a Colonia




Un papa meno creativo e più riflessivo, che a tre mesi dall’elezione non ha ancora scelto i «suoi» uomini – tranne il proprio successore alla Dottrina della fede – e che forse non mira a sceglierne: si direbbe che Benedetto XVI si attribuisca un ruolo di pausa nella vicenda del papato che aveva vissuto, negli ultimi decenni, tante accelerazioni. Quanto agli uomini, abbiamo la nomina dell’arcivescovo americano Levada a prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il ruolo che il cardinale Ratzinger aveva impersonato per 23 anni; l’invio a Cracovia dell’arcivescovo Stanislaw Dziwisz, che era stato quarant’anni a fianco di Karol Wojtyla e l’apparizione sulla scena del segretario personale don Georg. Forse don Georg Gaenswein, bella faccia, sportivo, cordiale, docente di diritto all’Università della Santa Croce, è l’unica vera novità intervenuta sulla scena vaticana dopo l’elezione del papa tedesco.


Da due anni era il segretario personale del cardinale Ratzinger e probabilmente si aspettava di compiere una tranquilla carriera curiale quando il suo «capo» fosse andato in pensione. Ma l’elezione a papa ha fatto dimenticare al cardinale bavarese il sogno del ritorno in patria e ha catapultato don Georg su una scena vasta quanto il mondo. Don Georg sta a don Stanislaw come il papa teologo che è Ratzinger sta al papa gestuale che era Wojtyla. Avremo un papa meno presente sulla scena e un segretario più defilato. Egli è severo in dottrina (dicono sia più rigido del maestro) e simpatico nel tratto, ma la curiosità dell’opinione pubblica sarà costretta ad accontentarsi di vederlo accanto al papa, che gli passa i fogli e gli occhiali, gli aggiusta il microfono, gli dice qualcosa all’orecchio. Probabilmente non sentiremo mai la sua voce. William Joseph Levada, da dieci anni arcivescovo di San Francisco, rifiuta l’etichetta di «conservatore», dice che un vescovo deve essere sciolto da ogni appartenenza politica e d’opinione. Papa Ratzinger l’ha scelto a proprio successore nell’ufficio di custode della dottrina perché l’ha ben conosciuto come collaboratore in tanti anni e in particolare nella preparazione del Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992. Una nomina, dunque, nell’ordine delle previsioni, preannunciata dai media. Come del resto la promozione di don Stanislaw ad arcivescovo di Cracovia: tutti la davano per ovvia, a essa mirava il cardinale uscente di Cracovia Macharski e il papa l’ha accontentato. Lo stesso segno – di adeguamento a un’attesa diffusa – è riscontrabile nella decisione di avviare subito la causa di beatificazione di papa Wojtyla. Forse papa Ratzinger non ne era così convinto, dal momento che quand’era cardinale aveva parlato di un «eccesso» di beatificazioni e canonizzazioni, ma ha voluto rispondere all’attesa popolare e degli stessi cardinali che l’hanno eletto.



Qui tocchiamo un nervo del pontificato che si va inaugurando: Benedetto XVI viene dalla Curia ed è stato eletto per l’iniziativa, in primis, dei colleghi di Curia. Egli dunque è quantomeno tentato di fare sue le aspettative dell’ambiente che l’ha proposto. Non è detto che poi le segua, ma le prende in considerazione. Forse va cercata qui la ragione delle mancate nomine di nuovi collaboratori: ha confermato tutti, anche i cardinali – come il segretario di Stato Angelo Sodano e il governatore della Città del Vaticano Edmund Szoka – che da tempo hanno superato l’età pensionabile dei 75 anni. È verosimile che il nuovo papa viaggerà di meno del predecessore e in modo più sobrio, come ha fatto andando a Bari il 29 maggio: è arrivato in elicottero, ha celebrato ed è ripartito. Viaggerà dunque come papa Montini e non come papa Wojtyla. È anche probabile che pubblichi meno documenti e si faccia vedere di meno per televisione. Forse non avremo quei video che raccontavano la giornata di papa Wojtyla in montagna. È sicuro che si concentrerà sulla «dottrina della fede», senza trascurare l’ecumenismo e il dialogo interreligioso. Da cardinale era il braccio destro di papa Wojtyla, che ne aveva anche uno sinistro che era il cardinale Walter Kasper, responsabile dell’ecumenismo, anch’egli tedesco e teologo. Ratzinger e Kasper discutevano e si dividevano, ma ora papa Ratzinger dà piena fiducia a Kasper, che ha confermato e del quale ha lo stesso bisogno che ne aveva Wojtyla. Per avere qualche lume sugli orientamenti del papa tedesco occorre attendere agosto e settembre. In agosto andrà a Colonia per la Giornata mondiale della gioventù: vedremo come reagirà all’abbraccio della patria, come parlerà ai giovani. In ottobre si terrà il Sinodo sull’Eucarestia, occasione per verificare se Benedetto nutre propositi riformatori in materia di governo della Chiesa.



[N.d.R] Grazie a Nikki per la segnalazione!!![SM=g27827] [SM=g27827] [SM=g27827]
Sihaya.b16247
00giovedì 14 luglio 2005 23:50
Re: Time (USA)

Scritto da: Ratzigirl 08/06/2005 14.43

La rivista di maggio tratta al suo interno che tipo di Papa sarà Benedetto XVI, come si è arrivati alla sua elezione e un'attento sguardo alla sua vita...ma che foto splendida!!!





HO COMPRATO QUESTO GIORNALE!!!
La copertina è bellissima, ma all'interno il servizio è scarso e ci sono pochissime foto...Pensavo meglio!

[Modificato da Sihaya.b16247 14/07/2005 23.51]

Sihaya.b16247
00giovedì 14 luglio 2005 23:54
Re: Corriere della Sera - Magazine (segnalato da Nikki)
Sfogliare la rivista mi ha fatto...ubriacare!
FOTO BELLISSIME E TANTE CUSIOSITA'!!! Dove il Papa compra i vestiti, il tipo di orologio, il crocifissio...ANCHE GLI OCCHIALI DA SOLE DEL PAPA, CHE SONO SERENGETI...COME I MIEI!!! Eeeeeeeeeeeeeeeehhhhhhhhh!!! [SM=g27824] [SM=g27824] [SM=g27824]
RATZGIRL
00venerdì 15 luglio 2005 00:29
NOOOOOOOO
Me lo sono perso!![SM=g27813] [SM=g27813] [SM=g27813]
Mò mi sparo![SM=g27825]
Sihaya.b16247
00venerdì 15 luglio 2005 22:15
Re: NOOOOOOOO
Per chi ha perso il MAGAZINE.
Io ho scansito tutte le pagine: fatemi sapere se volete che ve le mandi.
RATZGIRL
00sabato 16 luglio 2005 00:22
KRAZIE!
Si,io lo vorrei tanto.Me l'avevi già spedito per caso,perché non ho ricevuto nulla...[SM=g27813] [SM=g27813] [SM=g27813]
Ratzigirl
00giovedì 21 luglio 2005 13:36
^_^
Su "La Stampa" di oggi da pagina 8 articoli su Benedetto XVI e su Georg Gaenswein. L'articolo si intitola "Ad Agosto, Benedetto XVI"!!!

Devo andare subito a comprarlo immediatamente!!!!![SM=g27823] [SM=g27823] [SM=g27823] [SM=g27823] [SM=g27823]
RATZGIRL
00giovedì 21 luglio 2005 20:04
WOW!!
Ci racconti cosa c'era scritto??[SM=g27821] [SM=g27822] [SM=x40791]
Ratzigirl
00giovedì 21 luglio 2005 20:06
Articolo della Stampa
Ci sono delle dichiarazioni del Papa che condanna il terrorismo internazionale e soprattutto raccomanda preghiere, che pensa siano l'unico sistema per la risoluzione di problemi come questo.
Sul fondo dell'articolo poi c'è un'interessante commento sull'importanza che avrà a Colonia la sua visita alla sinagoga ebraica. L'articolo dice infatti che non avrà la stessa valenza che ebbe la prima volta che un Papa entrava in una sinagoga (cioè Giovanni Paolo II), ma addirittura avrà una valenza maggiore proprio per la nazionalità dell'attuale pontefice, insomma, fa capire velatamenteche il nazismo, se ancora albergasse nel cuore di qualcuno, è definitivamente morto nel momento in cui, un uomo, obbligato a portarne le insegne da gioane renderà omaggio a coloro che ne senon stati le principali vittimie.

Se riesco, più tardi vi trascrivo le dichiarazioni[SM=g27822] [SM=g27822]

[Modificato da Ratzigirl 21/07/2005 20.12]

Paparatzifan
00venerdì 22 luglio 2005 23:23
Re: Re: Corriere della Sera - Magazine (segnalato da Nikki)

Scritto da: Sihaya.b16247 14/07/2005 23.54
Sfogliare la rivista mi ha fatto...ubriacare!
FOTO BELLISSIME E TANTE CUSIOSITA'!!! Dove il Papa compra i vestiti, il tipo di orologio, il crocifissio...ANCHE GLI OCCHIALI DA SOLE DEL PAPA, CHE SONO SERENGETI...COME I MIEI!!! Eeeeeeeeeeeeeeeehhhhhhhhh!!! [SM=g27824] [SM=g27824] [SM=g27824]


Sono riuscita a comprarmi il Magazine quasi per caso, grazie a Dio!!!
Ratzigirl
00sabato 23 luglio 2005 01:42
Articolo della Stampa
Pagina 3 C'e il trafiletto che racconta la gita turistica in funivia di Benedetto XVI, in mezzo a tutti gli altri turisti!!!
Grande Papa!!!![SM=g27822] [SM=g27822] [SM=g27822]

Ecco qua:

Cappellino con visiera, bianco come la giacca a vento, la veste e i calzettoni da montagna, scarponcini da trekking, sorridente e lievemente abbronzato, il Papa siede sulla funivia che lo porta al Monte Bianco, con accanto il segretario Georg Gaenswein. Poco dopo, sulla terrazza naturale della vetta più alta d'Europa, a punta Helbronner, contempla il Dente del Gigante, rimane appena un pò appartato rispetto a un gruppo di turisti di tutte le età che lo guardano con curiosità, qualcuno gli scatta anche una foto.

E' il Monte Bianco la meta che Benedetto XVI ha scelto per oggi, lasciando il suo chalet tra i boschi di Les Combes intorno alle 9,30, per la prima volta al mattino da quando ha cominciato le vacanze in Valle d'Aosta.

Ha preso le tre tratte di funivia che portano in cima e durante la salita da una tratta all'altra, al pavillon del Mont Frety, ha sentito un gruppo della parrocchia di Entreves che, come ogni giovedì mattina, celebrava con il parroco Renzo Montruchio la messa in una grotta-santuario.

Ultimata la salita, ha fatto colazione e si è trattenuto a contemplare il panorama, in una giornata particolarmente limpida e assolata.

Tornato a valle, ha trovato un gruppo di persone che lo aspettavano per salutarlo, compresi i parrocchiani di Entreves, e ha voluto salutare tutti i presenti. "Abbiamo celebrato la messa lassù", gli ha detto don Renzo. "Ho visto - ha risposto il Papa - e vi ho anche sentito". Sulla strada del ritorno, poco prima delle 13, papa Ratzinger ha fatto fermare la macchina all'ultima curva prima del posto di blocco, dove si erano radunate un centinaio di persone, è sceso ed è andato incontro a quanti lo aspettavano dietro le transenne. Ha stretto molte mani e salutato molti ragazzi e bambini. "Siete tutti armati", ha detto scherzando di fronte a un gruppo di giornalisti attrezzati con taccuini, microfoni e telecamere, ma il suo segretario ha poggiato la mano su un microfono per evitare qualsiasi domanda.

Secondo i suoi collaboratori non sembra comunque che papa Ratzinger abbia avuto a che ridire per l'intervista improvvisata che aveva concesso ieri pomeriggio, in una situazione del tutto analoga.

Nella sosta alla curva il Papa appariva di ottimo umore e molto cordiale, tanto che ha persino firmato un autografo a una signora che gli porgeva un blocchetto: "Benedetto XVI", ha scritto con la sua calligrafia minuta. Ha vergato anche qualche parola su un libro portogli da una ragazza.

Nel pomeriggio invece, non è uscito per alcuna escursione e si è dedicato al lavoro tra i molti testi, appunti e dossier che ha portato da Roma. Non si sa quando sia stato informato delle esplosioni a Londra della tarda mattinata, ma nelle stesse ore l'Osservatore romano è uscito con in prima pagina le parole contro il terrorismo pronunciate ieri da Benedetto XVI.

Il portavoce ha confermato che in questo periodo il Papa sta scrivendo un libro, ma ha escluso che tratti della spiritualità di san Benedetto, come aveva ipotizzato l'arcivescovo di Genova Tarcisio Bertone dopo la sua visita a Les Combes della settimana scorsa.

Gli osservatori notano che la gita sul Bianco fino a 3500 metri di altitudine indica che papa Ratzinger è in buone condizioni fisiche e che la sua pressione può sopportare una prova di questo tipo. Infine le due escursioni pubbliche, ieri e oggi dopo dieci giorni di non visibilità, stanno mostrando un Papa cordiale, molto disponibile ad incontrare tutti coloro che vogliono avvicinarlo, e a dialogare con loro. E il suo stile comincia a conquistare. Chi si sarebbe aspettato che colui che veniva dipinto come il "Panzerkardinal" rilasciasse autografi e prendesse amabilmente in giro i giornalisti?

[Modificato da Ratzigirl 23/07/2005 15.43]

Paparatzifan
00sabato 23 luglio 2005 22:46
Che bello questo articolo!

Sono veramente felice di sapere che il nostro Papa si rilassa e si diverte! [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799]
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