Conferenze, discorsi, scritti e interviste del Cardinal Ratzinger

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Ratzigirl
00mercoledì 11 maggio 2005 19:28
Ecco qui un'intervista all'allora cardinale Ratzinger riguardo le sue posizioni nei confronti delle pratiche magiche e dell'occultismo:

La magia, parodia del divino

Eminenza, cosa è la magia ?

E' l'uso di forze apparentemente misteriose per avere un dominio sulla realtà fisica e anche psicologica. Il tentativo, cioè, di strumentalizzare le potenze soprannaturali per il proprio uso. Con la magia si esce dal campo della razionalità e dell'utilizzo delle forze fisiche insegnate dalla scienza. Si cerca - e a volte anche si trova - un modo di impadronirsi della realtà con forze sconosciute. Può essere in molti casi una truffa, ma può anche darsi che con elementi che si sottraggono alla razionalità si possa entrare in un certo dominio della realtà.

Sia il Nuovo che l'Antico Testamento condannano in modo ferreo ogni pratica magica, così come il ricorso all'occultismo in tutte le sue forme. Come commenta questo dal punto di vista teologico?

Vediamo intanto l'origine più profonda delle superstizioni, della magia e dell'occultismo per capire meglio la condanna nei loro confronti. Direi che ci sono due elementi : da una parte nell'uomo, creato ad immagine di Dio, esiste la sete del divino. L'uomo non può limitarsi al finito, all'empirico: avrà sempre il desiderio di allargare la prospettiva del suo essere e di entrare nella sfera divina, di uscire dalla pura realtà fisica e toccare una realtà più profonda, Questo desiderio, di per sé innato nell'uomo - immagine di Dio - è smarrito perché sembra troppo difficile andare realmente alla ricerca di Dio, elevarsi e lasciarsi elevare dall'Amore Divino e arrivare così ad un vero incontro del Dio personale che mi ha creato e mi ama. Allora accade un po' come nel mondo umano: le avventure passeggere sono più facili di un amore profondo, di una vita. E così come in questa vita umana un amore fedele, un vero amore, che va fino alle profondità del nostro essere, esige un impegno ben diverso dalle facili avventure, così anche le realtà spirituali esigono un impegno profondo, una fedeltà, una disciplina interiore, l'umiltà di impostare la propria vita alla sequela di Dio. Allora l'uomo cerca le cose più facili, un esperimento immediato della profondità dell' essere.

Possiamo anche dire che qui si verifica una dottrina fondamentale della Chiesa, cioè che nell'uomo da una parte troviamo la natura creata da Dio, dall'altra anche questa tendenza opposta: lo smarrimento e il peccato originale che lo deviano dalla sua origine e trasformano in una caricatura il suo desiderio innato di amare Dio e di entrare nella unione con Lui. Ecco, questa seconda tendenza si realizza nel cercare un cammino più facile, un contatto più immediato e soprattutto un modo per non sottomettersi all'amore e al potere divino. Allora l'uomo comincia a farsi dominatore della realtà sfruttando questa presunta possibilità del suo essere. E ciò mi pare una profonda inversione e perversione della relazione più profonda del nostro essere: invece di adorare Dio, di sottomettersi a Dio, l'uomo intende farsi dominatore della realtà usando queste potenze occulte, e si sente il vero dominatore.

E' la tendenza che troviamo nel capitolo 3 della Genesi: io stesso divento Dio e ho il potere divino e non mi sottometto alla realtà. "Ma il serpente disse alla donna: "Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio conoscendo il bene e il male. Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture." (Gen 3,4-7)

Quali sono dunque i pericoli per chi ha a che fare con la magia e l'occulto?

Cominciamo anche qui dal fenomenologico. Il tranello viene teso con cose promettenti, con una esperienza di potere, di allegria, di soddisfazione. Ma poi una persona entra in una rete demoniaca che diventa dopo poco tempo molto più forte di lui. Non è più l'uomo padrone di casa

Poniamo che una persona entri a fare parte di una setta o di un gruppo magico. Diventerà schiavo non solo del gruppo, il che sarebbe già gravissimo, dato che queste sette possono alienare totalmente una persona. Ma sarà schiavo della realtà che sta dietro il gruppo, cioè una realtà realmente diabolica. E cosi va verso una autodistruzione sempre più profonda, peggiore di quella della droga.

Nessuno degli occultisti dichiara apertamente di operare con il concorso dei demonio. Anzi, quasi tutti affermano di essere credenti e di fare il bene. Usano immagini sacre, crocifissi...

Si. La menzogna profonda poi si concretizza in menzogne più evidenti. Il mago, nel suo orientamento personale, è arrivato alla menzogna. Poi, diventa naturale usare tutti i modi concreti per esprimere e fare agire la menzogna. Naturalmente il sincretismo è uno degli elementi fondamentali del mondo magico e occultista, che si serve delle religioni, e soprattutto degli elementi cristiani, pervertendoli sia allo scopo di attirare la gente e rendersi credibile, sia anche nella speranza di usare la forza nascosta della realtà cristiana. Lo vediamo negli Atti degli Apostoli con Simone mago, che vorrebbe comprare la forza degli apostoli. "Simone, vedendo che lo Spirito veniva conferito con l' imposizione delle mani degli apostoli, offrì loro del denaro dicendo: "Date anche a me questo potere perché a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo Spirito Santo". Ma Pietro gli rispose: " Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai osato pensare di acquistare con denaro il dono di Dio. Non v'è parte né sorte alcuna per te in questa cosa, perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio. Pentiti dunque di questa tua iniquità e prega il Signore che ti sia perdonato questo pensiero . Ti vedo infatti chiuso in fiele amaro e in lacci di iniquità." (At 8,18-23)

Si afferma che esistono forme di magia e divinazione innocue e "leggere", come la lettura della mano, le carte e gli oroscopi. E si ironizza sul Nuovo Catechismo, che le ha condannate. Esiste una scala di gravità o sono tutte dello stesso ceppo, e quindi tutto gravi?

Esiste forse un uso più leggero, ma comunque non accettabile, perché apre la porta all'occulto. Se uno comincia a muoversi in questa direzione c'è il pericolo di cadere nella trappola più profonda. Ma il fatto che si scivola facilmente, e spesso inevitabilmente, una volta entrati in questo cammino, non deve portarci ad un rigorismo che non distingue più tra comportamenti che sono simbolo di una certa leggerezza di vita e il modo di agire di coloro che sono entrati nel pieno di queste situazioni. Una certa distinzione esiste senza dubbio, ma si deve tenere presente che un gradino guida facilmente all'altro, perché il terreno è scivoloso.

Eminenza, le cito alcuni dati. In Italia, al numero dell'oroscopo telefonico arrivano oltre 10 milioni di chiamate all'anno. Sempre in Italia, ci sono almeno 100 mila maghi e meno di 38 mila sacerdoti cattolici. Cosa prova meditando questa realtà?

E' il segno che siamo in una minaccia di paganizzazione profonda. Questo è paganesimo, è perversione del destino religioso dell'uomo. In questa religione artefatta, nella quale come ho detto l'uomo sfrutta o cerca di sfruttare le forze soprannaturali, c'è una sfida fondamentale per la nostra opera di evangelizzazione. Davanti alla paganizzazione si deve annunciare la realtà liberante di Dio. Queste pratiche si presentano con il pretesto e la pretesa di offrire all'uomo una liberazione. Offrono potere, soddisfazione, la promessa di fare vivere con tutte le possibilità dell'essere. In realtà sono una schiavitù terribile, che può realmente disumanizzare. Lo sappiamo anche dalle religioni precristiane, che hanno creato un mondo di timore. Quando è arrivato l'annuncio cristiano, non ha portato una liberazione politica, come diremmo oggi, ma la liberazione dalla paura dei demoni. C'è un solo Dio che è più forte di tutti: questo è l'annuncio che ha liberato realmente il mondo. E anche oggi, in certe parti del mondo non ancora evangelizzate, si vede come la paura dei demoni e dei maghi crea un clima di paura e di immobilità. Non si può agire perché ad ogni passo si può cadere nelle mani di un demone. Dobbiamo quindi proclamare la forza liberatrice dell'annuncio che c'è un solo Dio, e che questo Dio è Amore e ci ama e ha la forza di guidarci e di darci la vera libertà, e che con potenza invincibile ci libera da questa schiavitù. Ma si vede che, purtroppo, questo non è più presente nella mentalità delle persone. Molti vedono solo il cammino arduo della religione, come è lontano Dio, come non ne facciamo esperienza, e cercano l'esperienza veloce e la soddisfazione rapida, e cosi cadono nella schiavitù. In questa ora di tentazione pagana profonda, credo che dobbiamo annunciare il Vangelo in tutta la sua semplicità e grandezza come la vera e l'unica liberazione.

E un valido metro di valutazione che l'occultista richieda denaro o meno?


Dipende dalla sua decisione precedente di essere mago. Se il suo fosse un lavoro moralmente giusto, potrebbe anche richiedere di essere pagato. Ma dato che già il suo mestiere in quanto tale implica la menzogna e la perversione della realtà, la presenza del denaro non serve ad altro che a continuare la menzogna fondamentale che sta alla base. In questo senso, nel commercio di magia e di "poteri", si rende visibile una perversione ancora più profonda. Le cose spirituali non possono essere pagate, e la vera esperienza spirituale, che è quella che Cristo mi regala, la posso ottenere solo con la mia conversione, il mio "esodo" spirituale. Occorre dunque aiutate le persone cadute nella rete dell'occulto a ritrovare la via della conversione, offrendo loro una comunità, accompagnarle verso la fede e aiutarle a mettersi in cammino verso la verità, oltre che ovviamente aiutarle ad accedere - se le condizioni sono adempiute - all'esorcismo effettuato da sacerdoti autorizzati dal proprio Vescovo.

(fonte Acquaviva 2000)
Ratzigirl
00sabato 14 maggio 2005 17:59
Intervista autobiografica
R. – E’ impossibile un autoritratto; ed è difficile giudicare se stessi. Io posso soltanto dire che vengo da una famiglia molto semplice, molto umile, e perciò non mi sento tanto cardinale, mi sento un uomo semplice. In Germania vivo in un piccolo paese con persone che lavorano nell’agricoltura, nell’artigianato e lì mi sento nel mio ambiente. Nello stesso tempo cerco di essere così anche nel mio ufficio, se riesco: non oso io giudicare. Io ricordo sempre con grande affetto la profonda bontà di mio padre e di mia madre e naturalmente per me bontà implica anche la capacità di dire “no”, perché una bontà che lascia correre tutto non fa bene all’altro, qualche volta la forma della bontà può essere anche dire “no” e rischiare così anche la contraddizione. Ma anche questo deve essere realmente nutrito non da senso di potere, di rivendicazione, ma deve provenire da un’ultima bontà, dal desiderio di fare bene all’altro. Questi sono i miei criteri, questa la mia origine, altro dovrebbero dire altri.

D. – Lei ha paura di Dio?

R. – Non ho paura di Dio perché Dio è buono. Naturalmente sono consapevole della mia debolezza, dei miei peccati. In questo senso c’è un timore di Dio che è altra cosa dalla paura intesa nel senso umano. Sant’Ilario ha detto: “Tutta la nostra paura è nell’amore”. Quindi l’amore implica non paura ma, diciamo, la preoccupazione di non contrastare il dono dell’amore, di non far nulla che potrebbe distruggere l’amore. In questo senso, c’è qualcosa d’altro, che non è paura: è riverenza, tanta, in modo che ci si sente obbligati realmente a rispondere bene a questo amore e di non far nulla che potrebbe distruggerlo.

D. – Tanti anni nella Congregazione per la Dottrina della Fede, a stretto contatto con Giovanni Paolo II: i suoi ricordi più forti …

R. – I ricordi più forti sono legati agli incontri col Papa nei grandi viaggi; poi al grande dramma della teologia della liberazione, dove abbiamo cercato la strada giusta; e poi tutto l’impegno ecumenico del Santo Padre, questa ricerca di una grande apertura della Chiesa nella quale allo stesso tempo non perda la sua identità. Gli incontri normali con il Papa sono forse l’esperienza più bella perché qui si parla cuore a cuore e vediamo la comune intenzione di servire il Signore, e vediamo come il Signore ci aiuta anche a trovare compagnia nel nostro cammino: perché niente va fatto solo da me, ecco questo è molto importante, non prendere solo decisioni personali ma in una grande collaborazione. Questo sempre in un cammino di comunione con il Papa che ha una grande visione del futuro. Lui mi conferma e mi guida nella mia strada.

D. – Ma come è il Papa, qualche aggettivo da parte sua che potesse rendercelo anche più familiare…

R. – Il Papa è soprattutto molto buono. E’ un uomo che ha un cuore aperto, anche un uomo scherzoso con il quale si può parlare allegramente e in modo disteso. Non siamo sempre sulle grandi nuvole, siamo in questa vita… Questa bontà personale del Papa mi convince sempre di nuovo, non dimenticando la sua grande cultura, la sua normalità e il fatto che sta con tutti e due i piedi sulla terra.

D. – Lei afferma che la Chiesa “non ha ancora effettuato il balzo nel presente”: cosa intende?

R. – C’è ancora un grande lavoro di traduzione da fare dei grandi doni della fede nel linguaggio di oggi, nel pensiero di oggi. Le grandi verità sono le stesse: il peccato originale, la creazione, la redenzione, la vita eterna… ma molte di queste cose si esprimono ancora con un pensiero che non è più il nostro e bisogna farle arrivare nel pensiero del nostro tempo e renderle accessibili per l’uomo perché veda davvero la logica della fede. E’ un lavoro ancora da fare.



D. – Cosa dice oggi alle nuove generazioni?

R. – Che devono aver fiducia, che la Chiesa è sempre giovane ed il futuro sempre appartiene alla Chiesa. Tutti gli altri regimi che sembravano molto più forti sono caduti, non esistono più, sopravvive la Chiesa; sempre una nuova nascita appartiene alle generazioni. Fiducia, questa è realmente la nave che conduce al porto.
Ratzigirl
00sabato 14 maggio 2005 18:02
Intervista 2003 sulle riforme della liturgia
Intervista fatta da Raymond Arroyo, direttore di EWTN News
(Eternal Word Television Network ? Global Catholic Network ? USA),
e mandata in onda per la prima volta il 5 settembre 2003.



Raymond: Parliamo un poco del Concilio Vaticano II, in particolare dell’applicazione del Concilio. Lei ne ha parlato e scritto così tanto. Ritengo che per la gente della mia generazione la cosa che risalta di più nella fede, anche in quella dei nostri padri e dei padri dei nostri padri, è la liturgia, la Messa. Lei ha parlato di riforma della riforma, di riformare la riforma. Come pensa di attuarla? Come ritiene che possa concretamente prendere forma via via che andiamo avanti ?

Cardinale: In generale, ritengo che la riforma liturgica non sia stata applicata bene, perché si trattava di una idea generale. Oggi la liturgia è una cosa della comunità. La comunità rappresenta se stessa, e con la creatività dei preti o di altri gruppi si creano le loro liturgie particolari . Si tratta più della presenza delle loro esperienze ed idee personali, che dell’incontro con la Presenza del Signore nella Chiesa; e con questa creatività e questa auto-presentazione della comunità sta scomparendo l’essenza della liturgia. Con l’essenza della liturgia noi possiamo superare le nostre proprie esperienze e ricevere ciò che non deriva da esse, ma che è un dono di Dio. Così penso che dobbiamo restaurare non tanto certe cerimonie, ma l’idea essenziale della liturgia - capire che nella liturgia non rappresentiamo noi stessi, ma riceviamo la grazia della presenza del Signore nella Chiesa del cielo e della terra. E mi sembra che l’universalità della liturgia sia essenziale. Definire la liturgia e ripristinare questa idea aiuterebbe anche ad essere più ubbidienti alle norme, non nel senso di un positivismo giuridico, ma proprio come condivisione, partecipazione a quello che ci è dato dal Signore nella Chiesa .

Raymond: E quel senso di sacrificio e di culto di cui Lei ha parlato così eloquentemente, come lo vede ripristinato in concreto? Assisteremo al ritorno della disposizione del prete “ad orientem”, rivolto verso Est, che volge le spalle al popolo durante il Canone, al ritorno del latino, a più latino nella Messa?


Cardinale: “Versus orientem”, direi che potrebbe essere un aiuto, perché si tratta realmente di una tradizione dei tempi apostolici. Non è solo una norma, ma è anche l’espressione della dimensione cosmica e della dimensione storica della liturgia. Noi celebriamo con il cosmo, con il mondo. È la direzione del futuro del mondo, della nostra storia rappresentata dal sole e dalle realtà cosmiche. Io penso che oggi questa nuova scoperta del nostro rapporto con il mondo creato può essere capita anche dalla gente, forse meglio di 20 anni fa. E ancora, si tratta di una direzione comune - prete e popolo orientati insieme verso il Signore. Per questo penso che potrebbe essere un aiuto. Da sempre, i gesti esteriori non sono semplicemente un rimedio in se stessi, ma possono essere un aiuto, perché si tratta della classica interpretazione di cos’è la direzione nella liturgia. In generale io penso che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: “io sono nella stessa Chiesa”. Perciò in generale, le lingue parlate sono ….

Raymond: Una buona cosa.


Cardinale: … una soluzione. Ma una qualche presenza del latino potrebbe essere utile per avere una maggiore esperienza di universalità.
Ratzigirl
00giovedì 19 maggio 2005 03:38
Intervista Rai 2003
ATTENZIONE!!! PER VEDERE IL VIDEO DELL'INTERVISTA Cliccaci sopra!!!


D : Eminenza, quali sono, secondo lei, le parole-chiave del pontificato di Giovanni Paolo II?

Rimane sempre valido il grido pronunciato il 22 ottobre 1978 in Piazza San Pietro: «Non abbiate paura di Cristo. Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo». Due altre grandi parole sono «pace» e «unità» e, finalmente, anche la parola «verità». Ecco le encicliche Veritatis splendor e Fides et ratio. È la chiamata ad aprire gli occhi, anche della nostra ragione, per vedere e seguire la verità.

D :In oltre venticinque anni di pontificato, quello wojtyliano, le difficoltà non sono mancate.

Sono le difficoltà del nostro periodo: materialismo, agnosticismo, relativismo. Da una parte una vita di consumo, dall’altra la miseria che impedisce all’uomo di vivere secondo la sua alta vocazione. I problemi del mondo sono i problemi della Chiesa che fa parte del mondo.




D: Secondo lei hanno funzionato i Sinodi dei vescovi?

L’impressione è che col passare degli anni il centralismo romano abbia prevalso. Non Roma come centro di comunione, piuttosto organo di controllo su una miriade di dettagli della vita delle Chiese locali.
E' un'impressione un po’ superficiale. Non avremmo neppure l’apparato sufficiente per controllare tutto. Siamo pochi e i vescovi quando vengono da noi, e persino i politici, si meravigliano con quante poche persone lavoriamo per la Chiesa universale. Certamente, qua e là, ci può essere un centralismo sbagliato, ma ciò a cui puntiamo è la collaborazione fra centro e periferia. Le faccio un esempio: quando ero arcivescovo di Monaco feci nel 1977 una «visita ad limina» e mi resi conto della cornice formalistica in cui queste visite venivano vissute. Oggi sono invece occasioni di incontro e questa è una bellissima cosa. Sono occasioni che spesso favoriscono il crescere di amicizie personali.

D: Lei non vede una partecipazione più ampia delle Conferenze Episcopali nelle decisioni che riguardano la Chiesa universale?

Penso al «reclutamento», alla nomina dei vescovi.
E' una questione da approfondire. Molte Conferenze Episcopali sono grandi Conferenze. Quando una diocesi è senza pastore si cerca il coinvolgimento dei vescovi delle diocesi limitrofe, si interpellano laici, religiosi, sacerdoti. Il sistema di «reclutamento», come lo definisce lei, può sempre migliorare anche se non è semplice. Oggi si nomina un vescovo dopo inchieste abbastanza lunghe e la lunghezza delle procedure, di cui molti si lamentano, dipende dal fatto che si cerca, senza pubblicità, di coinvolgere moltissime persone che hanno nella Chiesa i ruoli più svariati.


Qualcosa però non ha funzionato. Mi riferisco al terribile fenomeno della pedofilia.
Sì, dobbiamo fare un esame di coscienza su quello che è successo. La Chiesa è Chiesa immersa nel mondo con tutte le sue tentazioni. Una serie di malintesi derivanti dal Concilio aveva fatto pensare che sarebbe bastato identificarsi con i comportamenti del mondo.

E di conseguenza?
Molti sacerdoti hanno perso l’ancoraggio alla comunione con Cristo. Ora dobbiamo riflettere su come, da una parte, conservare l’apertura al mondo, cioè essere solidali con i nostri contemporanei e, dall’altra, su come rimanere in profonda comunione con Cristo: solo così si può garantire la possibilità di vivere secondo il Vangelo in questo nostro tempo.

D:Lei è cardinale da molti anni. Parteciperà forse a un terzo Conclave...

Se sarò ancora vivo!



D : Il Collegio cardinalizio è al di sopra e al di fuori del Collegio dei vescovi. È un problema per le Chiese orientali. Nel futuro Conclave lei vede solo cardinali?

Non direi che il Collegio cardinalizio è sopra il Collegio dei vescovi perché, a cominciare da papa Giovanni, tutti i cardinali sono vescovi e, gran parte di loro, vescovi di grandi diocesi. Non vedo questa tensione, semmai la difficoltà può riguardare la Chiesa orientale. Ma, nel frattempo, molti patriarchi sono cardinali. Su questo punto si può discutere e valutare se un patriarca, in forza del fatto di essere patriarca, possa partecipare direttamente al Conclave. La tradizione che lega il Papa ai cardinali, che appartengono al clero di Roma, è di per sé una buona tradizione. In relazione agli orientali si può riflettere come migliorare.


Non sarebbe opportuno un Concilio Vaticano III veramente ecumenico con la partecipazione delle Chiese ortodosse? Scusi, eminenza, se sono cadute le scomuniche siamo in comunione.
Si possono scomunicare le persone non le Chiese. La figura delle Chiese scomunicate non esiste. Le persone scomunicate nel 1054 non ci sono più e nell’aldilà non vige il diritto ecclesiastico, si vive nelle mani di Dio! Nel 1965 non si volle togliere scomuniche che non esistevano più, quanto piuttosto purificare la memoria della Chiesa. Con la purificazione della memoria si sarebbe dovuti arrivare all’unità perfetta.

Invece non è stato così.
Purtroppo. I nostri amici ortodossi affermano che in molte cose non siamo all’altezza della loro visione, vedono eresie. Proprio da parte degli ortodossi non riesco a trovare un’opportunità per coinvolgerli in un nostro Concilio. Loro stessi darebbero probabilmente una risposta negativa, quindi rimane la ricerca difficile e impegnata, amorosa e appassionata, di come superare tali impedimenti.

Lei accennava al coinvolgimento dei laici. Mi chiedo, leggendo tanti documenti della Chiesa, dove è andata a finire la categoria di «popolo di Dio».
Forse era male interpretata. Nell’Antico Testamento era il popolo d’Israele, da Cristo in avanti il nuovo popolo è quello dei suoi seguaci. Non è un concetto che di per sé indica una teologia del laicato. Al popolo di Dio, grazie a Dio, appartengono anche vescovi e sacerdoti. La teologia del laicato deve essere ripensata in modo molto realistico.

D: In che senso?

Nel senso di non clericalizzare i laici. Si pensa che solo i cristiani che gestiscono le cose della Chiesa sono cristiani al 100%. Il problema è invece di come il cristiano può cooperare perché il Vangelo sia lievito del mondo.


D: Lei, cardinale Ratzinger, ha fatto molto soffrire gli appartenenti alle altre confessioni cristiane non cattoliche durante il Giubileo. La dichiarazione Dominus Iesus(VEDI DOC in questo forum ) è stata giudicata un documento fondamentalista che ha rischiato di tagliare le gambe a ogni dialogo ecumenico. Lo riscriverebbe ancora, oggi?

Sì, certamente. Etichettare un documento come «fondamentalista» è un modo per sottrarsi al dialogo. È una etichetta che non accetto, perché non è giusta. Moltissimi, quasi tutti i protestanti, ci sono stati grati specie per la prima parte del documento, laddove c’è una confessione franca, umile e aperta che Cristo è Figlio di Dio, dunque è diverso da tutte le grandi personalità della storia delle religioni. Ci erano grati perché solo la Chiesa cattolica aveva la possibilità di parlare al mondo, con questa voce, su Cristo.
Il secondo punto, naturalmente, ha presentato delle difficoltà per i protestanti. Vede, la Chiesa non è solo un sogno per domani, è una realtà per l’oggi, ed è bene che una Chiesa pensi di custodire la Persona che l’ha generata.
E ciò nonostante le nostre insufficienze, le separazioni. Tanti vescovi che vengono dai Paesi dove i cattolici sono minoranze ci ringraziano per il coraggio col quale abbiamo affermato la nostra identità. È a partire da una identità ben definita che si può discutere.

D: Le religioni sono tutte uguali per raggiungere la salvezza, sono tutte complementari alla Rivelazione? Mi dica sì o no.

Il termine complementare non mi piace. Mi meraviglia sempre che anche persone che non si interessano alla salvezza eterna formulino la teoria della convergenza di tutte le religioni…

D :Una religione vale l’altra?

No, no. Non sono identiche. Con tale fraseologia ci si risparmia dall’impegno di conoscere realmente le religioni. Molti ci invitano a non essere conservatori, tradizionalisti o conformisti e, nel contempo, esaltano il valore della tradizione, dunque la conservazione. Questo è un procedere contraddittorio. Tutti dobbiamo cercare, con le nostre coscienze, quanto è meglio per la salvezza dell’uomo.


D: Tempo fa ha dichiarato: «Ciò che mi stupisce non è l’incredulità ma la fede. Ciò che mi sorprende non è l’ateo, è il cristiano». Ne è sempre convinto?

Non ho cambiato idea. Il mondo ci consiglia l’agnosticismo. Siamo portati a pensare che siamo troppo piccoli, che la nostra ragione è troppo fragile per poter credere in Dio. Eppure, in un mondo così frammentato e oscuro, milioni di persone continuano a credere. Questo è un miracolo. È il segno che Dio opera in mezzo a noi.

D: La Chiesa deve insegnare l’arte di vivere bene, l’arte della felicità. «Voi siete il popolo delle beatitudini» ha esclamato il Papa davanti ai giovani riuniti a Toronto. La Chiesa soddisfa però questa sete di felicità, questa sete di infinito che alberga nel cuore dell’uomo?

Non sempre, non sempre in modo sufficiente. Rimane però una fonte. Se uno le si avvicina, accettando anche gli aspetti umani più deboli, può trovare la luce dell’eternità e i segni della felicità.

D: È Dio che non si fa più sentire o è l’uomo che non è più in grado di ascoltarlo?

Dio qualche volta si nasconde, come si legge nella Sacra Scrittura, e si nasconde per invitarci a cercarlo di più, con maggiore forza. L’uomo, di contro, è troppo occupato in altre cose e diventa quasi sordo e cieco. Dobbiamo liberarci dalle occupazioni inutili e avere un po’ più di attenzione interiore per poter vedere meglio.


D:Quali sono, secondo il custode della fede cattolica, le più pericolose eresie del nostro tempo?

Il problema centrale è la nostra sordità alla voce di Dio; è l’agnosticismo che diventa quotidianità, scelta di vita. Inoltre, vi è il tentativo di ridurre Cristo a una persona che ha una grande esperienza religiosa. Un Cristo solo umano che non è grande per la sua divinità, ma è grande solo secondo le convenienze del momento.

D: Quale sarà il futuro del cristianesimo?

Chi può osare rispondere a questo? Il Signore ci assicura che la Chiesa sarà sempre viva fino alla fine del mondo, anche con grande sofferenza, forse molto ridotta. Il Vangelo si domanda: «Quando Cristo ritornerà troverà ancora la fede sulla terra?». Ci saranno molte crisi; d’altra parte sappiamo che l’uomo è sempre aperto a Dio e Dio si fa presente. La Chiesa, come in passato, dovrà subire tante tentazioni, sofferenze, persecuzioni. Rimarrà comunque una fonte di vita, di gioia, una ragione di speranza.

D: Quando Cristo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?

Qui il Signore parla in forma interrogativa, altri testi della Scrittura, invece, ci dicono che Gesù troverà la fede, troverà la sua Chiesa. La redimerà e redimerà il mondo.




[Modificato da Ratzigirl 19/05/2005 3.43]

Ratzigirl
00venerdì 20 maggio 2005 02:41
Intervista sul libro "Fede,Speranza, Tolleranza"
D: Eminenza, c´è un´idea che si è affermata nella cultura alta e nel pensiero comune secondo cui le religioni sono tutte vie che portano verso lo stesso Dio, quindi l´una vale l´altra. Cosa ne pensa, dal punto di vista teologico?

Direi che anche sul piano empirico, storico, non è vera questa concezione molto comoda per il pensiero di oggi. È un riflesso del relativismo diffuso, ma la realtà non è questa perché le religioni non stanno in un modo statico una accanto all´altra, ma si trovano in un dinamismo storico nel quale diventano anche sfide l´una per l´altra. Alla fine la Verità è una, Dio è uno, perciò tutte queste espressioni, così diverse, nate in vari momenti storici, non sono equivalenti, ma sono un cammino nel quale si pone la domanda: dove andare? Non si può dire che sono vie equivalenti perché sono in un dialogo interiore e naturalmente mi sembra evidente che non possono essere mezzi della salvezza cose contraddittorie: la verità e la menzogna non possono essere allo stesso modo vie della salvezza. Perciò questa idea semplicemente non risponde alla realtà delle religioni e non risponde alla necessità dell´uomo di trovare una risposta coerente alle sue grandi domande.

D: In diverse religioni si riconosce la straordinarietà della figura di Gesù. Sembra non sia necessario essere cristiani per venerarlo. Dunque non c´è bisogno della Chiesa?

Già nel Vangelo troviamo due posizioni possibili in riferimento a Cristo. Il Signore stesso distingue: che cosa dice la gente e che cosa dite voi. Chiede cosa dicono quelli che Lo conoscono di seconda mano, o in modo storico, letterario, e poi cosa dicono quelli che Lo conoscono da vicino e sono entrati realmente in un incontro vero, hanno esperienza della Sua vera identità. Questa distinzione rimane presente in tutta la storia: c´è una impressione da fuori che ha elementi di verità. Nel Vangelo si vede che alcuni dicono: "è un profeta". Così come oggi si dice che Gesù è una grossa personalità religiosa o che va annoverato fra gli avataras (le molteplici manifestazioni del divino). Ma quelli che sono entrati in comunione con Gesù riconoscono che è un´altra realtà, è Dio presente in un uomo.

D: Non è confrontabile con le altre grandi personalità delle religioni?

Sono molto diverse l´una dall´altra. Buddha in sostanza dice: "Dimenticatemi, andate solo sulla strada che ho mostrato". Maometto afferma: "Il signore Dio mi ha dato queste parole che verbalmente vi trasmetto nel Corano". E così via. Ma Gesù non rientra in questa categoria di personalità già visibilmente e storicamente diverse. Ancora meno è uno degli avataras, nel senso dei miti della religione induista.

D: Perché?

È una realtà del tutto diversa. Appartiene ad una storia, che comincia da Abramo, nella quale Dio mostra il suo volto, Dio si rivela come una persona che sa parlare e rispondere, entra nella storia. E questo volto di Dio, di un Dio che è persona e agisce nella storia, trova il suo compimento in quell´istante nel quale Dio stesso, facendosi uomo Lui stesso, entra nel tempo. Quindi, anche storicamente, non si può assimilare Gesù Cristo alle varie personalità religiose o alle visioni mitologiche orientali.

D: Per la mentalità comune questa "pretesa" della Chiesa - che proclama "Cristo, unica salvezza" - è arroganza dottrinale.

Posso capire i motivi di questa moderna visione la quale si oppone all´unicità di Cristo e comprendo anche una certa modestia di alcuni cattolici per i quali "noi non possiamo dire che abbiamo una cosa migliore che gli altri". Inoltre c´è anche la ferita del colonialismo, periodo durante il quale alcuni poteri europei hanno strumentalizzato il cristianesimo in funzione del loro potere mondiale. Queste ferite sono rimaste nella coscienza cristiana, ma non devono impedirci di vedere l´essenziale. Perché l´abuso del passato non deve impedire la comprensione retta. Il colonialismo - e il cristianesimo come strumento del potere - è un abuso. Ma il fatto che se ne sia abusato non deve rendere i nostri occhi chiusi di fronte alla realtà dell´unicità di Cristo. Soprattutto dobbiamo riconoscere che il Cristianesimo non è un´invenzione nostra europea, non è un prodotto nostro. E´ sempre una sfida che viene da fuori dell´Europa: all´origine venne dall´Asia, come sappiamo bene. E si trovò subito in contrasto con la sensibilità dominante. Anche se poi l´Europa è stata cristianizzata è rimasta sempre questa lotta tra le proprie pretese particolari, fra le tendenze europee, e la novità sempre nuova della Parola di Dio che si oppone a questi esclusivismi e apre alla vera universalità. In questo senso, mi sembra dobbiamo riscoprire che il cristianesimo non è una proprietà europea.

D: Il cristianesimo contrasta anche oggi la tendenza alla chiusura che c´è in Europa?

Il cristianesimo è sempre qualcosa che viene realmente da fuori, da un avvenimento divino che ci trasforma e contesta anche le nostre pretese e i nostri valori. Il Signore cambia sempre le nostre pretese e apre i nostri cuori per la Sua universalità. Mi sembra molto significativo che al momento l´Occidente europeo sia la parte del mondo più opposta al cristianesimo, proprio perché lo spirito europeo si è autonomizzato e non vuole accettare che ci sia una Parola divina che gli mostra una strada che non è sempre comoda.

D: Riecheggiando Dostoevskij mi chiedo se un uomo moderno può credere, credere veramente che Gesù di Nazaret è Dio fatto uomo. E´ percepito come assurdo.

Certo, per un uomo moderno è una cosa quasi impensabile, un po´ assurda e facilmente si attribuisce ad un pensiero mitologico di un tempo passato che non è più accettabile. La distanza storica rende tanto più difficile pensare che un individuo vissuto in un tempo lontano possa essere adesso presente, per me, e sia la risposta alle mie domande. Mi sembra importante allora osservare che Cristo non è un individuo del passato lontano da me, ma ha creato una strada di luce che pervade la storia cominciando con i primi martiri, con questi testimoni che trasformano il pensiero umano, vedono la dignità umana dello schiavo, si occupano dei poveri, dei sofferenti e portano così una novità nel mondo anche con la propria sofferenza. Con quei grandi dottori che trasformano la saggezza dei greci, dei latini, in una nuova visione del mondo ispirata proprio da Cristo, che trova in Cristo la luce per interpretare il mondo, con figure come San Francesco d´Assisi, che ha creato il nuovo umanesimo. O figure anche del nostro tempo: pensiamo a Madre Teresa, Massimiliano Kolbe... È un´ininterrotta strada di luce che si fa cammino della storia e una ininterrotta presenza di Cristo e mi sembra che questo fatto - che Cristo non è rimasto nel passato ma è stato sempre contemporaneo con tutte le generazioni ed ha creato una nuova storia, una nuova luce nella storia, nella quale è presente e sempre contemporaneo, fa capire che non si tratta di un qualunque grande della storia, ma di una realtà davvero Altra, che porta sempre luce. Così, associandosi a questa storia, uno entra in un contesto di luce, non si mette in rapporto con una persona lontana, ma con una realtà presente.

D: Perché, secondo lei, un uomo del 2003 ha bisogno di Cristo?

E´ facile accorgersi che le cose rese disponibili solo da un mondo materiale o anche intellettuale, non rispondono al bisogno più profondo, più radicale che esiste in ogni uomo: perché l´uomo ha il desiderio - come dicono già i Padri - dell´infinito. Mi sembra che proprio il nostro tempo con le sue contraddizioni, le sue disperazioni, il suo massiccio rifugiarsi in scorciatoie come la droga, manifesti visibilmente questa sete dell´infinito e solo un amore infinito che tuttavia entra nella finitudine, e diventa addirittura un uomo come me, è la risposta. E´ certo un paradosso che Dio, l´immenso, sia entrato nel mondo finito come una persona umana. Ma è proprio la risposta della quale abbiamo bisogno: una risposta infinita che tuttavia si rende accettabile e accessibile, per me, "finendosi" in una persona umana che tuttavia è l´infinito. È la risposta della quale si ha bisogno: si dovrebbe quasi inventare se non esistesseÉ

D: C´è una novità nel suo libro a proposito del tema del relativismo. Lei sostiene che nella pratica politica, il relativismo è il benvenuto perché ci vaccina, diciamo, dalla tentazione utopica. E´ il giudizio che la Chiesa ha sempre dato sulla politica?

Direi proprio di sì. E´ questa una delle novità essenziali del cristianesimo per la storia. Perché fino a Cristo l´identificazione di religione e stato, divinità e stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo stato. Poi l´islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l´umanità. In realtà, da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l´umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell´amore che attrae. Egli dice: "attirerò tutti a me". Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell´imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo stato.

D: Quindi non c´è potere o politica o ideologia che possa rivendicare per sé l´assoluto, la definitività, la perfezioneÉ

Questo è molto importante. Perciò sono stato contrario alla teologia della liberazione, che di nuovo ha trasformato il Vangelo in ricetta politica con l´assolutizzazione di una posizione, per cui solo questa sarebbe la ricetta per liberare e dare progressoÉ In realtà, il mondo politico è il mondo della nostra ragione pratica dove, con i mezzi della nostra ragione, dobbiamo trovare le strade. Bisogna lasciare proprio alla ragione umana di trovare i mezzi più adatti e non assolutizzare lo stato. I padri hanno pregato per lo stato riconoscendone la necessità, il suo valore, ma non hanno adorato lo stato: mi sembra proprio questa la distinzione decisiva. Ma questo è uno straordinario punto d´incontro tra pensiero cristiano e cultura liberal-democratica. Io penso che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando pure una nuova libertà. Lo stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l´ultimo potere. La distinzione tra lo stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal democratico ha preso le sue strade, l´origine è proprio questa.

D: I sistemi comunisti europei sono crollati. Ma lei, nel suo libro, non esclude che il pensiero marxista possa comunque ripresentarsi in altre forme nei prossimi tempi.

E´ una mia ipotesi, ma mi sembra cominci già a verificarsi perché il puro relativismo che non conosce valori etici fondanti e quindi non conosce realmente neanche un perché della vita umana, anche della vita politica, non è sufficiente. Perciò per un non credente che non riconosce la trascendenza, resta questo grande desiderio di trovare qualcosa di assoluto ed un senso morale del suo agire.

D:I sommovimenti noglobal di questi anni sono di nuovo una trasposizione della sete d´assoluto in un obiettivo politico?

Direi di sì. È sempre questa sete, perché l´uomo ha bisogno dell´assoluto e se non lo trova in Dio lo crea nella storia.

D:Sempre a proposito del tema del relativismo. Tutti gli usi e i costumi e le civiltà debbono comunque essere sempre rispettate a priori oppure c´è un canone minimo di diritti e doveri che deve valere per tutti?

Ecco, questo è l´ altro aspetto della medaglia. Prima abbiamo constatato che la politica è il mondo dell´opinabile, del perfettibile, dove si devono cercare con le forze della ragione le strade migliori, senza assolutizzare un partito o una ricetta. Tuttavia è anche un campo etico, la politica, perciò non può alla fine comportare un relativismo totale dove, per esempio, uccidere e creare pace hanno la stessa legittimità. Abbiamo in diversi documenti della nostra Congregazione sottolineato questo fatto, pur riconoscendo totalmente l´autonomia politica.

Dunque non tutto è permessoÉ

Abbiamo sempre detto che neanche la maggioranza è l´ultima istanza, la legittimazione assoluta di tutto, in quanto la dittatura della maggioranza sarebbe ugualmente pericolosa come le altre dittature. Perché potrebbe un giorno decidere, per esempio, che vi sia una "razza" da escludere per il progresso della storia, aberrazione purtroppo già vista. Quindi, ci sono limiti anche al relativismo politico. Il limite è delineato da alcuni valori etici fondamentali che sono proprio la condizione di questo pluralismo. E sono quindi obbligatori anche per le maggioranze.

D: Qualche esempio?

Sostanzialmente il Decalogo offre in sintesi queste grandi costanti.

D: Torno a un altro aspetto del "relativismo culturale". Anche fra i cattolici c´è chi considera la missione quasi una violenza psicologica nei confronti di popoli che hanno un´altra civiltà.

Se uno pensa che il cristianesimo sia solo il suo proprio mondo tradizionale evidentemente sente così la missione. Ma si vede che non ha capito la grandezza di questa perla, come dice il Signore, che gli si dona nella fede. Naturalmente, se fossero solo tradizioni nostre, non si potrebbero portare ad altri. Se invece abbiamo scoperto, come dice San Giovanni, l´Amore, se abbiamo scoperto il volto di Dio, abbiamo il dovere di raccontare agli altri. Non posso mantenere solo per me una cosa grande, un amore grande, devo comunicare la Verità. Naturalmente nel pieno rispetto della loro libertà, perché la verità non s´impone con altri mezzi che con la propria evidenza e solo offrendo questa scoperta agli altri - mostrando cosa abbiamo trovato, che dono abbiamo in mano, che è destinato a tutti - possiamo annunciare bene il cristianesimo, sapendo che suppone l´altissimo rispetto della libertà dell´altro, perché una conversione che non fosse basata sulla convinzione interiore - "ho trovato quanto desideravo" - non sarebbe una vera conversione.

D: Di recente è venuto alla luce sulla stampa un fenomeno doloroso: la conversione di tanti immigrati che provengono dall´islam, e che - oltre a trovarsi in pericolo - si ritrovano soli, non accompagnati dalla comunità cristiana.

Sì, ho letto e mi addolora molto. E´ sempre lo stesso sintomo, il dramma della nostra coscienza cristiana che è ferita, che è insicura di sè. Naturalmente dobbiamo rispettare gli stati islamici, la loro religione, ma tuttavia anche chiedere la libertà di coscienza di quanti vogliono farsi cristiani e con coraggio dobbiamo anche assistere queste persone, proprio se siamo convinti che hanno trovato qualcosa che è la risposta vera. Non dobbiamo lasciarli soli. Si deve fare tutto il possibile perché possano in libertà e con pace vivere quanto hanno trovato nella religione cristiana.
Ratzigirl
00venerdì 20 maggio 2005 15:15
Intervista sulla "Dominus Jesum" 2000
Il 22 settembre 2000 il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung ha pubblicato una intervista al cardinale Joseph Ratzinger, nella quale il porporato rispondeva alle principali obiezioni sollevate contro la Dichiarazione "Dominus Iesus", pubblicata nel 2000 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, della quale egli era allora Prefetto. Successivamente l' Osservatore Romano ha pubblicato il testo dell'intervista tradotto in italiano, omettendo solo quelle le parti legate alla particolare situazione tedesca. Riportiamo la parte di intervista apparsa sul quotidiano vaticano.




D: Signor Cardinale, Lei è a capo di una struttura nella quale "esistono tendenze alla ideologizzazione e alla penetrazione eccessiva di elementi di fede stranieri e fondamentalisti?". Il rimprovero è contenuto in una comunicazione diffusa la scorsa settimana dalla sezione tedesca della Società Europea per la Teologia Cattolica.


Devo confessare di essere molto annoiato da questo tipo di dichiarazioni. Conosco a memoria da molto tempo questo vocabolario, nel quale i concetti di fondamentalismo, centralismo romano e assolutismo non mancano mai. Certe dichiarazioni potrei formularle da solo senza neanche aspettare di riceverle, perché si ripetono ogni volta indipendentemente dall'argomento che si tratta. Mi chiedo per quale motivo non escogitino mai qualcosa di nuovo.


D: Sta dicendo che le critiche sono false perché ripetute troppo spesso?

No. Solo che in questo tipo di critica predefinita manca la trattazione dei vari argomenti. Alcuni muovono critiche con tanta facilità perché considerano tutto ciò che viene da Roma dal punto di vista della politica e della spartizione del potere e non affrontano i contenuti.


D:In effetti i contenuti sono abbastanza esplosivi. Si stupisce veramente del fatto che un documento nel quale si pretende che solo il cristianesimo sia depositario della verità e agli anglicani e ai protestanti viene disconosciuto lo status ecclesiale incontri tanta opposizione?

Innanzitutto desidero esprimere la mia tristezza e la mia delusione per il fatto che le reazioni pubbliche, a parte alcune lodevoli eccezioni, hanno ignorato completamente il tema vero e proprio della dichiarazione. Il documento comincia con le parole "Dominus Iesus"; si tratta della breve formula di fede contenuta nella Prima Lettera ai Corinzi versetto 12, 3, in cui Paolo ha riassunto l'essenza del cristianesimo: Gesù è il Signore. Con questa Dichiarazione, la cui redazione ha seguito fase per fase con molta attenzione, il Papa ha voluto offrire al mondo un grande e solenne riconoscimento di Gesù Cristo come Signore nel momento culminante dell'Anno Santo, portando così con fermezza l'essenziale al centro di questa occasione, sempre soggetta a esteriorizzazioni.


D:Il risentimento di molti riguarda proprio questa "fermezza". Nel momento culminante dell'Anno Santo non sarebbe stato più opportuno inviare un segnale alle altre religioni invece che mettersi ad autoconfermare la propria fede?

All'inizio di questo millennio ci troviamo in una situazione simile a quella descritta da Giovanni alla fine del sesto capitolo del suo Vangelo: Gesù aveva spiegato chiaramente la sua natura divina nell'istituzione dell'Eucaristia. Nel versetto 66 leggiamo: "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui".



D:Oggi nei discorsi generali la fede in Cristo rischia di appiattirsi e di disperdersi in chiacchiere. Con questo documento, il Santo Padre, quale Successore dell'Apostolo Pietro, ha inteso dire: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio" (Gv 6, 68 e seg.). Il documento vuole essere un invito a tutti i cristiani ad aprirsi nuovamente al riconoscimento di Gesù Cristo come Signore e a conferire cosi all'Anno Santo un significato profondo.

Mi ha fatto piacere che il Presidente delle Chiese protestanti della Germania Kock nella sua reazione, peraltro molto composta, abbia riconosciuto questo elemento importante del testo e lo abbia paragonato alla Dichiarazione di Barmen, con la quale nel 1934 la "Bekennende Kirche", ai suoi inizi, rifiutò la Chiesa del Reich creata da Hitler.



D: Anche il prof. Jüngel di Tubinga ha trovato in questo testo - nonostante le sue riserve sulla parte ecclesiologica - un respiro apostolico, simile alla Dichiarazione di Barmen. Inoltre il Primate della Chiesa anglicana, l'Arcivescovo Carey, ha manifestato il suo sostegno grato e deciso al vero tema della dichiarazione. Perché la maggior parte dei commentatori invece lo
trascura?

Gradirei volentieri una risposta.



D: L'elemento dirompente di carattere politico-ecclesiastico è contenuto nella sezione del documento relativa all'ecumenismo. Per la parte evangelica si è pronunciato Eberhard Jüngel, affermando che il documento tralascia il fatto che tutte le Chiese "a loro proprio modo" vogliono essere ciò che di fatto sono: "Chiesa una, santa, cattolica, apostolica". Dunque la Chiesa cattolica si illude quando pretende di avere l'esclusiva dal momento che, secondo Jüngel, condivide questi diritti con le altre Chiese?

Le questioni ecclesiologiche ed ecumeniche, delle quali ora tutti parlano, occupano solo una piccola parte del documento, che ci è parso necessario redigere per sottolineare la presenza viva e concreta di Cristo nella Storia. Mi meraviglia che Jüngel dica che la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica sia presente in tutte le Chiese a loro proprio modo e con ciò (se ho capito bene) consideri risolta la questione dell'unità della Chiesa. Queste numerose "Chiese" però si contraddicono! Se tutte sono Chiesa a "loro proprio modo", allora questa Chiesa è un insieme di contraddizioni e non è in grado di offrire agli uomini indicazioni chiare.



D:Ma da questa impossibilità normativa deriva anche un'impossibilità effettiva?

Che tutte le comunità ecclesiali esistenti facciano ricorso allo stesso concetto di Chiesa mi sembra contrario alla loro coscienza di sé. Lutero riteneva che la Chiesa in senso teologico e spirituale non potesse incarnarsi nella grande struttura istituzionale della Chiesa cattolica, che anzi considerava uno strumento dell'Anticristo. Secondo la sua visione la Chiesa era presente laddove la Parola veniva annunciata correttamente e i sacramenti erano amministrati nel modo giusto.



D: Lutero stesso ritenne impossibile considerare Chiesa le Chiese locali sottoposte ai prìncipi: erano istituzioni esterne di assistenza sicuramente necessarie, ma non Chiesa in senso teologico. E chi direbbe oggi che strutture sorte per casualità storiche, ad esempio la Chiesa dell'AssiaWaldeck e dello Schaumburg-Lippe, sono Chiese nello stesso modo in cui la Chiesa cattolica ritiene di essere tale?

E' chiaro che l'unione delle Chiese luterane in Germania (VELKD) e l'unione delle Chiese protestanti in Germania (EKD) non vogliono essere "Chiesa". A un esame realistico pare che la realtà della Chiesa per i protestanti risieda altrove e non in quelle istituzioni chiamate Chiese regionali. Di questo si sarebbe dovuto discutere.



D: Il fatto è che ormai la parte evangelica considera la definizione "comunità ecclesiale" un'offesa. Le dure reazioni al suo documento ne sono una chiara dimostrazione.

La pretesa dei nostri amici luterani mi sembra francamente assurda, cioè che noi consideriamo queste strutture sorte da casualità storiche come Chiesa nello stesso modo in cui crediamo Chiesa la Chiesa cattolica, fondata sulla successione degli apostoli nell'Episcopato. Sarebbe più giusto che i nostri amici evangelici ci dicessero che per loro la Chiesa è qualcosa di diverso, una realtà più dinamica e non così istituzionalizzata, neanche nella successione apostolica. La questione allora non è se le Chiese esistenti siano Chiesa tutte allo stesso modo, cosa che evidentemente non è, ma in che cosa consista o non consista la Chiesa. In questo senso non offendiamo nessuno dicendo che le strutture evangeliche effettive non sono Chiesa nel senso in cui quella cattolica vuole esserlo. Esse stesse non desiderano esserlo.



D:Questa questione è stata affrontata dal Concilio Vaticano II?

IL Concilio Vaticano II ha cercato di accogliere questo diverso modo di determinare il luogo della Chiesa, affermando che le Chiese evangeliche effettive non sono Chiese nello stesso modo in cui ritiene di esserlo quella cattolica, ma in esse esistono "elementi di salvezza e verità". Può darsi che il termine "elementi" non sia il migliore. In ogni caso il suo senso fu di indicare una visione ecclesiologica, per la quale la Chiesa non esiste in strutture, ma nell'avvenimento della predicazione e dell'amministrazione dei sacramenti.
Il modo in cui lo scontro viene condotto ora è senz'altro errato. Vorrei che non ci fosse bisogno di precisare che la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla.



D: Invece Eberhard Jüngel vi vede qualcosa di diverso. Il fatto che a suo tempo il Concilio Vaticano II non avrebbe affermato che l'unica e sola Chiesa di Cristo è esclusivamente la Chiesa romana cattolica suscita in Jüngel delle perplessità. Nella Costituzione "Lumen gentium" si dice soltanto che la Chiesa di Cristo "sussiste nella Chiesa cattolica governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui", non esprimendo con la parola latina "subsistit" alcuna esclusività.

Purtroppo ancora una volta non riesco a seguire il ragionamento dello stimato collega Jüngel. Io ero presente quando durante il Concilio Vaticano II venne scelta l'espressione "subsistit" e posso dire di conoscerla bene. Purtroppo in un'intervista non si può scendere nei dettagli. Pio XII nella sua Enciclica aveva detto: la Chiesa cattolica romana "è" l'unica Chiesa di Gesù Cristo. Ciò parve esprimere una identità totale, per la quale al di fuori della comunità cattolica non c'era Chiesa.
Tuttavia non è così: secondo la dottrina cattolica, condivisa ovviamente anche da Pio XII, le Chiese locali della Chiesa orientale separata da Roma sono autentiche Chiese locali, le comunità scaturite dalla Riforma sono costituite diversamente, come ho appena detto. In esse la Chiesa esiste nel momento in cui si verifica l'evento.


D: Ma allora non si dovrebbe dire: non esiste un'unica Chiesa. Essa si è disgregata in numerosi frammenti?

In effetti, molti contemporanei la considerano così. Esisterebbero solo frammenti ecclesiali e bisognerebbe cercare il meglio dei diversi pezzi. Ma se fosse così si consacrerebbe il soggettivismo: allora ognuno dovrebbe comporsi il proprio cristianesimo e alla fine risulterebbe determinante il gusto personale.



Ratzigirl
00sabato 4 giugno 2005 15:09
Il racconto dei 2 conclavi 1978
Quella del 1978 non fu un’estate qualsiasi per la Chiesa cattolica. Nel giro di poche settimane i cardinali si ritrovarono per due volte riuniti in conclave per eleggere il successore di Pietro. Il 6 agosto, infatti, dopo quindici anni di pontificato, venne meno Paolo VI, che avrebbe compiuto 81 anni il successivo 26 settembre. Il 26 agosto, dopo un rapidissimo conclave – due giorni e quattro votazioni – venne eletto papa il patriarca di Venezia Albino Luciani, che prese il nome di Giovanni Paolo I. Avrebbe compiuto 66 anni il 17 ottobre. Ma non festeggiò quel compleanno. Il suo pontificato durò appena trentatré giorni. All’alba del 28 settembre il nuovo Pontefice venne trovato esanime nella sua camera da letto. Il Sacro Collegio quindi si riunì di nuovo per il conclave che il 16 ottobre – dopo otto votazioni in tre giorni – vide l’elezione dell’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla, 58 anni, che col nome di Giovanni Paolo II divenne il primo Papa polacco della storia, il primo non italiano dopo 456 anni.
Per ricordare, venticinque anni dopo, i drammatici avvenimenti di quell’estate, 30Giorni ha chiesto la testimonianza del cardinale Joseph Ratzinger, 76 anni, indubbiamente il più conosciuto tra i ventuno porporati dell’attuale Sacro Collegio che parteciparono ai due conclavi del 1978. Con il porporato bavarese abbiamo anche parlato dei suoi colloqui e dei suoi incontri con papa Montini e con Luciani tra il 1977 e il 1978.
Il cardinale Joseph Ratzinger non ha bisogno di molte presentazioni. Teologo famoso fin dall’epoca del Concilio Vaticano II, nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e creato cardinale nel 1977 da Paolo VI, è attualmente l’unico porporato europeo creato da papa Montini che siederebbe in un eventuale conclave. Convocato a Roma da papa Wojtyla nel 1981, presiede da allora la Congregazione per la dottrina della fede, la Pontificia Commissione biblica e la Commissione teologica internazionale. Attualmente è il più longevo tra i capidicastero della Curia romana. Eletto vicedecano del Sacro Collegio nel novembre ’98, alla fine dello scorso anno è stato eletto decano.

Eminenza, il 24 marzo 1977 Paolo VI la nominò arcivescovo di Monaco, tre mesi dopo la creò cardinale…
JOSEPH RATZINGER: Due o tre giorni dopo la mia consacrazione episcopale del 28 maggio venni informato della mia nomina a cardinale, che quindi coincideva quasi con l’ordinazione sacramentale. Fu per me una grande sorpresa. Non so ancora darmi una spiegazione di tutto questo. So comunque che Paolo VI teneva presente il mio lavoro come teologo. Tanto che alcuni anni prima, forse nel 1975, mi aveva invitato a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano. Ma non mi sentivo sufficientemente sicuro né del mio italiano né del mio francese per preparare e osare una tale avventura, e così avevo detto di no. Ma questa era una prova che il Papa mi conosceva. Forse una qualche parte in questa storia potrebbe averla avuta monsignor Karl Rauber, oggi nunzio in Belgio, allora stretto collaboratore del Sostituto Giovanni Benelli. Comunque, sta di fatto, mi hanno detto, che di fronte alla terna per la nomina a Monaco e Frisinga, il Papa avrebbe personalmente scelto la mia povertà.

Quello del 27 giugno 1977 fu un “miniconcistoro” con soli cinque neocardinali…
RATZINGER: Sì, eravamo un piccolo gruppo, interessante e simpatico. C’era Bernardin Gantin, l’unico ancora in vita oltre il sottoscritto. E poi Mario Luigi Ciappi, il teologo della Casa pontificia, Benelli naturalmente, e Frantisek Tomasek che era stato nominato in pectore già l’anno prima e che ricevette la porpora insieme a noi.

Si racconta che fu Benelli, il quale era stato nominato arcivescovo di Firenze il 3 giugno, a “scegliere” i nomi di quel “miniconcistoro”…
RATZINGER: Può darsi. Non ho mai avuto voglia, né ho voglia ora di esplorare queste cose. Rispetto la Provvidenza; quali fossero gli strumenti della Provvidenza non mi interessa.

Cosa ricorda di quella cerimonia?
RATZINGER: Alla consegna del berretto nell’aula Paolo VI io ho avuto un grande vantaggio rispetto agli altri neocardinali. Nessuno degli altri quattro cardinali aveva con sé una grande famiglia. Benelli aveva lavorato per lungo tempo in Curia, e a Firenze non era molto conosciuto, quindi non erano tanti i fedeli provenienti dal capoluogo toscano; Tomasek – c’era ancora la cortina di ferro – non poteva avere accompagnatori; Ciappi era un teologo che aveva lavorato sempre, per così dire, nella sua isola; Gantin è del Benin e dall’Africa non è agevole venire a Roma. Io invece ho avuto tanta gente: l’aula era quasi piena di persone che venivano da Monaco e dalla Baviera.

Fece un figurone…
RATZINGER: In un certo senso sì. Gli applausi per me furono maggiori che per gli altri. Si vedeva che Monaco era presente. E il Papa fu visibilmente compiaciuto di vedere in qualche modo confermata la sua scelta.

In quell’occasione ebbe modo di avere un colloquio personale col Papa?
RATZINGER: Dopo la liturgia, nella quale il Papa ci aveva consegnato l’anello, mi fu detto che Paolo VI desiderava parlarmi in udienza privata. Io ero stato per tanti anni un semplice professore, molto lontano dai vertici della gerarchia e non sapevo come comportarmi, mi sentivo un po’ a disagio in quel contesto. Non osavo parlare con il Papa perché mi sentivo ancora troppo semplice, ma lui fu molto buono e mi incoraggiò. Si trattò di un colloquio senza intenzioni specifiche, voleva conoscermi da vicino, dopo che forse Benelli gli aveva parlato di me.

Cosa ricorda dell’ultimo anno del pontificato di Paolo VI?
Il 26 agosto 1978, dopo un rapidissimo conclave, viene eletto papa il cardinale Albino Luciani che sceglierà il nome di Giovanni Paolo I



RATZINGER: In quel periodo, insieme agli altri vescovi della Baviera, venni a Roma per la visita ad limina. E in quella occasione ci fu un bell’incontro col Papa. Paolo VI cominciò a parlare in tedesco, lo faceva abbastanza bene, ma poi preferì passare all’italiano con cui era più facile comunicare. Parlò col cuore della sua vita e del suo primo incontro con la nostra terra. Ricordò che quando era stato a Monaco, da giovane sacerdote, si era trovato un po’ disorientato e aveva trovato tante persone che lo avevano aiutato. Fu un colloquio personale, senza grandi discorsi: si vedeva che il suo cuore si era aperto e voleva semplicemente condividere alcuni momenti con alcuni suoi confratelli nell’episcopato. Si trattò di un incontro molto simpatico.

Venne a Roma altre volte con Paolo VI papa?
RATZINGER: Sì, per il suo ottantesimo compleanno [il 26 settembre 1977, ndr]. Il 16 ottobre celebrò una messa solenne a San Pietro. In quella occasione mi ha impressionato per come ha citato il verso della Divina Commedia in cui Dante parla di «quella Roma onde Cristo è romano» [Purgatorio, XXXII, 102, ndr]. Paolo VI era considerato un po’ un intellettuale che aveva difficoltà ad essere caldo con gli altri. In quel momento aveva manifestato un calore inaspettato proprio per Roma. Io non conoscevo o non mi ricordavo di queste parole di Dante. Mi impressionarono molto. Con queste parole Paolo VI voleva esprimere il suo amore per Roma che è divenuta la città del Signore, il centro della Sua Chiesa.

Come seppe della scomparsa di papa Montini?
RATZINGER: Ero andato in vacanza in Austria. Venni informato la mattina stessa del 6 agosto che il Santo Padre si era sentito improvvisamente male. Chiamai il vicario generale di Monaco per dirgli di invitare subito tutta la diocesi a pregare per il Papa. Poi feci una piccola gita e quando tornai mi telefonarono per dirmi che il Papa si era aggravato e poco dopo mi chiamarono di nuovo per comunicarmi che era morto. Allora decisi che la mattina successiva sarei tornato a Monaco, e quella sera stessa venne la tv per intervistarmi. Dopo aver scritto una lettera alla diocesi partii per Roma.

Dove assistette ai funerali del Papa.
RATZINGER: Mi colpì l’assoluta semplicità della bara con il Vangelo posato sopra. Questa povertà, che il Papa aveva voluto, mi aveva quasi scioccato. Mi impressionò anche la messa funebre celebrata dal cardinale Carlo Confalonieri, che essendo ultraottantenne, non avrebbe partecipato al conclave: fece un’omelia molto bella. Come fu bella quella pronunciata in un’altra messa dal cardinale Pericle Felici, che sottolineò come durante il funerale le pagine del Vangelo posto sopra la bara del Papa fossero state sfogliate dal vento. Ritornai poi a Monaco per celebrare una messa in suffragio: il duomo era molto affollato. Quindi tornai a Roma per il conclave.

Lei era un cardinale “novello”…
RATZINGER: Ero tra i più giovani ma, siccome ero vescovo diocesano, appartenevo all’ordine dei presbiteri e quindi, nel protocollo, venivo prima di molti cardinali curiali che appartenevano all’ordine dei diaconi. Così non ero agli ultimi posti. Ricordo che al pranzo, anche in questo contesto venivano rispettate le precedenze, mi trovavo tra i cardinali Silvio Oddi e Felici, due porporati italianissimi.

Ebbe realmente un ruolo importante in quel conclave?
RATZINGER: È vero che con alcuni cardinali germanofoni ci siamo visti qualche volta. A questi incontri partecipavano Joseph Schröffer, già prefetto dell’Educazione cattolica, Joseph Höffner di Colonia, il grande Franz König di Vienna – che vive ancora –, Alfred Bengsch di Berlino; c’erano inoltre Paulo Evaristo Arns e Aloísio Lorscheider, brasiliani di origine tedesca. Si trattava di un piccolo gruppo. Non volevamo assolutamente decidere niente, ma solo parlare un po’. Io mi sono lasciato guidare dalla Provvidenza, ascoltando i nomi, e vedendo come si è formato finalmente un consenso sul patriarca di Venezia.



Lo conosceva?
RATZINGER: Sì, lo conoscevo personalmente. Durante le vacanze estive del ’77, ad agosto, mi trovavo nel seminario diocesano di Bressanone e Albino Luciani venne a farmi visita. L’Alto-Adige fa parte della regione ecclesiastica del Triveneto e lui, che era un uomo di una squisita gentilezza, come patriarca di Venezia si sentì quasi in obbligo di recarsi a trovare questo suo giovane confratello. Mi sentivo indegno di una tale visita. In quella occasione ho avuto modo di ammirare la sua grande semplicità, e anche la sua grande cultura. Mi raccontò che conosceva bene quei luoghi, dove da bambino era venuto con la mamma in pellegrinaggio al santuario di Pietralba, un monastero di Serviti di lingua italiana a mille metri di quota, molto visitato dai fedeli del Veneto. Luciani aveva tanti bei ricordi di quei luoghi e anche per questo era contento di tornare a Bressanone.

Prima non l’aveva mai conosciuto di persona?
RATZINGER: No. Io ero vissuto, come ho già detto, nel mondo accademico, molto lontano dalle gerarchie, e non conoscevo di persona i vertici ecclesiastici.



Poi lo incontrò di nuovo?
RATZINGER: No, mai prima del conclave del ’78.

In quell’occasione scambiò delle parole con lui?
RATZINGER: Qualcuna, perché ci conoscevamo, ma non molte. C’era molto da fare e da meditare.

Che impressione fece la sua elezione?
RATZINGER: Io sono stato molto felice. Avere come pastore della Chiesa universale un uomo con quella bontà e con quella fede luminosa era la garanzia che le cose andavano bene. Lui stesso era rimasto sorpreso e sentiva il peso della grande responsabilità. Si vedeva che soffriva un po’ di questo colpo. Non si aspettava questa elezione. Non era un uomo che cercava la carriera, ma concepiva gli incarichi che aveva avuto come un servizio e anche una sofferenza.

Quale fu il suo ultimo colloquio con lui?
RATZINGER: Il giorno del suo insediamento, il 3 settembre. L’arcidiocesi di Monaco e Frisinga è gemellata con le diocesi dell’Ecuador e per quel mese di settembre a Guayaquil era stato organizzato un Congresso mariano nazionale. L’episcopato locale aveva chiesto che venissi nominato delegato pontificio per questo Congresso. Giovanni Paolo I aveva già letto la richiesta e deciso positivamente in merito; così, durante il tradizionale omaggio dei cardinali, parlammo del mio viaggio e lui invocò molte benedizioni su di me e su tutta la Chiesa ecuadoregna.

Lei andò in Ecuador?
RATZINGER: Sì, e proprio quando ero lì mi raggiunse la notizia della morte del Papa. In un modo un po’ strano. Dormivo nell’episcopio di Quito. Non avevo chiuso la porta perché nell’episcopio mi sento come nel seno di Abramo. Era notte fonda quando entrò nella mia stanza un fascio di luce e si affacciò una persona con un abito da carmelitano. Rimasi un po’ sbigottito da questa luce e da questa persona vestita in maniera lugubre che sembrava messaggera di notizie infauste. Non ero sicuro se fosse sogno o realtà. Infine scoprii che era un vescovo ausiliare di Quito (Alberto Luna Tobar, oggi arcivescovo emerito di Cuenca, ndr), il quale mi comunicò che il Papa era morto. E così seppi di questo avvenimento tristissimo e imprevisto. Nonostante questa notizia, riuscii a dormire in grazia di Dio e la mattina dopo celebrai messa con un missionario tedesco, il quale nella preghiera dei fedeli pregò «per il nostro papa morto Giovanni Paolo I». Alla funzione assisteva anche il mio segretario laico, il quale alla fine venne da me e mi disse costernato che il missionario aveva sbagliato nome, che avrebbe dovuto pregare per Paolo VI e non per Giovanni Paolo I. Lui ancora non sapeva della morte di Albino Luciani.

Lei aveva visto il Papa al conclave. Nel rendergli omaggio le sembrava un uomo che nel giro di un mese potesse morire?
RATZINGER: Mi sembrava che stesse bene. Certo non appariva un uomo di grande salute. Ma tanti sembrano fragili e poi vivono cento anni. A me appariva di buona salute. Non sono un medico, ma mi sembrava un uomo che, come me, non pareva avere una salute molto forte. Ma queste persone sono poi quelle che hanno di solito una maggiore aspettativa di vita.

Quindi fu per lei una morte inaspettata?
RATZINGER: Assolutamente inaspettata.

Ebbe qualche dubbio quando cominciarono a girare voci su una morte violenta del Papa?
RATZINGER: No.

Il vescovo di Belluno-Feltre, il salesiano Vincenzo Savio, ha annunciato di aver ricevuto, lo scorso 17 giugno, il nulla osta della Congregazione delle cause dei santi affinché si possa procedere alla causa di beatificazione del Servo di Dio Albino Luciani. Cosa pensa a riguardo?
RATZINGER: Personalmente sono convintissimo che era un santo. Per la sua grande bontà, semplicità, umiltà. E per il suo grande coraggio. Perché aveva anche il coraggio di dire le cose con grande chiarezza, anche andando contro le opinioni correnti. E anche per la sua grande cultura di fede. Non era solo un semplice parroco che per caso era diventato patriarca. Era un uomo di grande cultura teologica e di grande senso ed esperienza pastorale. I suoi scritti sulla catechesi sono preziosi. Ed è bellissimo il suo libro Illustrissimi, che lessi subito dopo l’elezione. Sì, sono convintissimo che è un santo.

Pur avendolo incontrato in non più di tre occasioni?
RATZINGER: Sì, è stato sufficiente perché la sua figura luminosa irradiasse in me questa convinzione.

Quando vi incontraste per il secondo conclave del 1978 quale era la sensazione dominante nel Collegio cardinalizio?
RATZINGER: Dopo questa morte improvvisa eravamo tutti un po’ depressi. Era stato un colpo forte. Certo, anche dopo la morte di Paolo VI c’era tristezza. Ma quella di Montini era stata una vita completa, che aveva avuto un epilogo naturale. Lui stesso aspettava la morte, parlava della sua morte. Dopo un pontificato così grande c’era stato un nuovo inizio, con un Papa di tipo diverso ma in piena continuità. Ma che la Provvidenza avesse detto di no alla nostra elezione fu veramente un colpo duro. Benché l’elezione di Luciani non fu un errore. Quei trentatré giorni di pontificato hanno avuto una funzione nella storia della Chiesa.

Quale?
RATZINGER: Non fu solo la testimonianza di bontà e di una fede gioiosa. Ma quella morte improvvisa aprì anche le porte ad una scelta inaspettata. Quella di un Papa non italiano.

Nel primo conclave del 1978 era stata presa in considerazione questa ipotesi?
RATZINGER: Si parlò anche di questo. Ma non era un’ipotesi molto reale, anche perché c’era la bella figura di Albino Luciani. Dopo si pensò che c’era bisogno di qualcosa di assolutamente nuovo.

[Modificato da Ratzigirl 04/06/2005 15.12]

Ratzigirl
00domenica 5 giugno 2005 21:20
Intervista sull'amico Pavan
Pietro Pavan il mio amico sapiente»

Joseph Ratzinger

Pubblichiamo integralmente il testo inedito dell’intervento che l’allora cardinale Joseph Ratzinger fece presso la sede nazionale delle Acli, a Roma, il 27 ottobre 1999 durante il convegno sul pensiero del cardinale Pietro Pavan dal titolo «La Sussidiarietà nel tempo della globalizzazione». Il simposio si svolse a cinque anni dalla morte del porporato, che Ratzinger ricordò con uno scritto dal titolo «Il mio amico Pavan».




La mia testimonianza ha due limiti. Il primo è che sono incompetente in materia di dottrina sociale, la materia del cardinale Pavan. Il secondo limite è che ho fatto amicizia con Pavan soltanto molto tardi, verso la fine della sua vita. L’incontro però mi ha impressionato ed è proprio di questo che vorrei parlare, con grande semplicità.

A dire il vero ho sentito il nome di Pavan per la prima volta nel 1963, nel contesto della pubblicazione della Lettera enciclica di Papa Giovanni XXIII «Pacem in Terris». Si disse allora che un certo professor Pavan, dell’Università del Laterano, sarebbe stato il redattore principale del testo in quanto amico di Papa Giovanni, il quale aveva visto realizzate in lui le sue idee. Grazie a questa profonda amicizia Pavan poteva quindi essere, per così dire, la "penna" di Papa Giovanni.

Tutti sappiamo che la Pacem in Terris ha attirato l’attenzione soprattutto sul punto dove il Papa, senza parlare esplicitamente del marxismo o dei regimi comunisti, si esprimeva sulla possibilità di una convivenza. Per questo è stata strumentalizzata dalla politica, il che mi ha stimolato a interessarmi in maniera particolare di questo testo per vedere cosa l’Enciclica dicesse veramente.

Mentre la leggevo pensavo anche di intravedere, assieme alla figura di Papa Giovanni, anche quella del suo amico e ho scoperto che il punto fondamentale era la distinzione di due realtà. La prima era l’ideologia dominante: inflessibile, invariabile e, come dice l’Enciclica, «ispirata da una filosofia falsa sull’origine, l’essenza e il destino del mondo e dell’uomo». Si trattava di una constatazione molto precisa; un "no" ad una ideologia falsa, che non interpreta bene l’essenza dell’uomo, del mondo, del suo destino, la sua origine. Ma il Papa, e con lui il professore Pavan di quel tempo, distingueva da questa ideologia dominante un’altra realtà. Diceva in sostanza che nonostante la dominazione di questa ideologia falsa e inflessibile la realtà apre qualche volta, qua e là, anche altre strade.

La realtà costringe a cercare altre vie, secondo una recta ratio, una sana ragione, che corrisponde alle esigenze profonde della persona. Si tratta di realtà che offrono la possibilità di certi contatti e rapporti che devono essere accettati e coltivati in quanto possono essere considerati porte che potrebbero aprire qualche possibilità di coesistenza.

Sempre parlando sicut insipiens, tale visione a me sembrava molto importante e molto interessata; dotata di grande chiarezza a livello dottrinale, filosofico e del pensiero fondamentale sull’uomo e sul mondo ma con anche un realismo ispirato da ottimismo. Anzi, direi non semplicemente da ottimismo ma da una fiducia nelle forze sane e nella creatura uomo. La fiducia cioè che nell’uomo vive sempre la ragione e può superare tutti gli impedimenti e le barriere ideologiche.
È la fiducia che nell’uomo l’immagine di Dio non può mai essere totalmente distrutta e la scintilla della luce divina vive nella creatura umana. Questa scintilla può far rivivere la recta ratio, la vera ragione dell’uomo e può far rivivere le esigenze della persona umana in uno sviluppo difficile, complicato, lento. Questa era la fiducia che il peccato non poteva mai distruggere totalmente l’immagine di Dio in noi e che Dio, nonostante tutto il potere della menzogna di altre realtà, ha forza nel mondo e in noi; per questo dobbiamo essere attenti ai piccoli segnali di questa scintilla divina nell’uomo.

Mi sembra che la realtà abbia finalmente confermato questa visione. Non si può in permanenza e per sempre reprimere la scintilla della recta ratio; cioè della luce di Dio in noi.
Abbiamo visto che la realtà è più forte delle ideologie e che la recta ratio, la luce di Dio, è una realtà. Quando parliamo di realismo spesso pensiamo soltanto alle cose materiali: ai poteri militari, economici o ad altre cose di questo genere, mentre dimentichiamo che anche questa realtà invisibile, che sembra apparentemente impotente, è invece qualcosa di concreto.

Nel crollo dei governi dell’Est abbiamo visto che hanno cooperato tanti fattori ma mi sembra che non si possa negare che proprio la scintilla della luce divina nell’uomo sia stata determinante in questo processo. È stata così confermata la visione di quella Enciclica.
Per questo motivo non parlerei più di "ingenuo ottimismo", come molti hanno fatto in quel momento nei confronti del Papa e forse anche del professor Pavan. Penso infatti che quella, più che ottimismo fosse speranza. Speranza che a lunga scadenza Dio ha ragione; Dio ha potere nel mondo e nell’essere umano.
Purtroppo in quel momento la propaganda politica ha oscurato questa visione contenuta nel testo. I regimi comunisti lo hanno sfruttato per la loro ideologia e purtroppo anche l’Occidente ha accettato la loro interpretazione, opponendosi all’Enciclica invece di coglierne la profondità. Questo mi sembra possa dire qualcosa anche a noi. Troppo spesso infatti siamo veloci nel concentrarci su problemi che riguardano il potere politico, economico e militare mentre dimentichiamo le realtà silenziose, poco evidenti; come la scintilla di Dio che è in noi, ma che a lunga scadenza sono determinanti.

Leggendo e meditando la Pacem in Terris così ho pensato di capire non solo l’anima di Papa Giovanni ma anche qualcosa del suo redattore.
A quel tempo in Germania non c’era molta stima per la Dottrina sociale della Chiesa, che era considerata come una cosa astratta e senza una reale incisività. Leggendo l’Enciclica ho però pensato che Pavan era un uomo che conosceva bene i principi e li sapeva collegare con la realtà. Un uomo che aveva una perfetta competenza nel suo campo ma che sapeva anche pensare con il cuore della fede; con il cuore di un pastore. Mi ero fatto così l’idea che egli non fosse soltanto un grande professore ma anche un vero pastore, un uomo saggio e un uomo credente; senza alcuna contraddizione, poiché le due cose erano in lui complementari.

Il primo vero incontro tra me e Pavan è avvenuto nel 1982 o nel 1983, non ricordo esattamente. In quel tempo l’Episcopato americano preparava una grande lettera pastorale sul tema della pace, della guerra e sugli armamenti. Era il momento in cui i due Blocchi si armavano e potenziavano sempre più l’arsenale nucleare, al punto che i cristiani hanno sentito il bisogno di dire qualcosa: si può andare avanti così? Si può accumulare tanto potere distruttivo o sfruttare per la guerra così tanti mezzi, che potrebbero invece essere utilizzati per fare del bene?

Le domande erano grandi e ricordo di aver discusso diverse volte con il cardinale Casaroli su simili argomenti. In quella situazione la lettera pastorale degli americani interessava tutto il mondo, perciò la Santa Sede invitò i rappresentanti di tutti gli episcopati occidentali a discuterla. Fu invitato come esperto anche il professor Pavan e io ero moderatore della riunione. Quell’incontro confermò perfettamente l’idea che venti anni prima mi ero fatto di questa persona. Non ricordo più gli argomenti e i contenuti di quel dialogo ma ricordo l’evidente competenza scientifica di Pavan e la sua profonda umanità, l’allegria della fede così visibile sulla faccia, la sintesi tra capacità pastorali e cultura.

Il secondo incontro personale avvenne all’incirca dieci anni dopo. Ero presidente della commissione per l’elaborazione del Catechismo della Chiesa cattolica e avevamo trasmesso il progetto non solo a tutte le conferenze episcopali e a tutti i maggiori istituti di catechesi ma anche ad ogni singolo vescovo, per avere una risposta ampia e il contributo di tutta la Chiesa cattolica. Il testo dunque venne trasmesso anche al cardinale Pavan, il quale venne a trovarmi per dirmi che aveva letto attentamente il progetto e che con i suoi anni non si riteneva più in grado di formulare un voto scritto, ma aveva intenzione di spiegarmi a voce le sue osservazioni. Ancora una volta non ricordo più esattamente i contenuti del dialogo ma ebbi di nuovo la stessa impressione: era un uomo di grande competenza, in grado di fare osservazioni precise e frutto della sensibilità di un pastore che sa come parlare al mondo contemporaneo.

Il cardinale mi ha poi invitato con grande cordialità al «Paesetto della Madonna» dove abitava. Andando all’aeroporto di Fiumicino avevo visto diverse volte la collina con l’orto e ho sempre pensato che una simile oasi poteva crescere solo grazie alle mani delle suore. Ero quindi curioso di poter conoscere un giorno quel piccolo paradiso. Inoltre quando Pavan sollecitò a recarmi al «Paesetto» disse che la sua aria iodata e ossigenata sarebbe stata per me la migliore medicina dopo gli impegni, spesso gravosi, del mio ufficio.

A un tale invito non si poteva certo resistere, considerata anche la grande cordialità col quale era stato rivolto. L’occasione giunse poco tempo dopo, nel 1991. Mia sorella, come sempre, andò in Germania per visitare la tomba dei nostri genitori e io, rimasto a Roma, ne approfittai per andare al «Paesetto della Madonna». Devo dire che fu un atto della Provvidenza, perché il secondo giorno di novembre, in maniera assolutamente imprevista, mia sorella morì e solo grazie alle suore del luogo, così vicino all’aeroporto, potei vederla per alcune ore ancora viva. Anche per questo è rimasto nel mio cuore un grande ricordo di quella prima visita al «Paesetto».

Il cardinale Pavan mi fece una grande impressione. Mentre passeggiava nell’orto ho visto come parlava con le piante, con gli alberi - molti dei quali erano stati piantati da lui stesso - e come conoscesse quasi personalmente gli arbusti, i fiori, gli alberi. Sentiva la loro voce interiore; la voce di queste creature di Dio, di questi fratelli e sorelle.

Ho capito che la sua amicizia con Dio aveva creato questa sensibilità per la presenza del Creatore in tutto il creato. Ho visto come la fede diventa visione e dialogo. Ho visto un’anima realmente francescana, con l’allegria della fede, e anche vedere i suoi occhi azzurri, limpidi, brillare di gioia della fede era impressionante. Pavan aveva una profonda pace interiore e godeva di quella gioia che nasce soltanto quando uno è realmente in pace con il Creatore e quindi con sé, con il prossimo, con tutta la creazione.

Di questi incontri mi è rimasto un pensiero. A un intellettuale, un professore, la bella parola del Signore in Matteo 11 - dove il Signore benedice il Padre perché ha nascosto ai sapienti e agli intelligenti queste cose (cioè il mistero trinitario e il mistero dell’incarnazione) per rivelarle ai piccoli e ai semplici - fa inevitabilmente un po’ male.
Un intellettuale qualche volta si poterebbe domandare: siamo forse noi degli esclusi? Siccome è rivelato solo ai piccoli e ai semplici, dovremmo non fare uso della nostra intelligenza? Conoscendo il cardinale Pavan non solo ho trovato ma ho visto la risposta. Lui era senza dubbio sapiente e intelligente ma con una sapienza che non aveva oscurato la semplicità del cuore. Al contrario, aveva creato la vera e profonda semplicità; quella che fa vedere. Così ho capito che esiste una sapienza che non solo non contrasta con la semplicità, ma che la vera sapienza fa semplici e fa tenere gli occhi aperti sui misteri di Dio.

Questa è una grande consolazione: possiamo imparare una sapienza che non contrasta con la vera semplicità, che non ci esclude dalla visione dei misteri divini ma al contrario ci apre gli occhi. Il cardinale Pavan mi è rimasto nella memoria come grande modello di uomo intelligente e credente.
Ratzigirl
00lunedì 6 giugno 2005 00:34
Intervista rilasciata a "le spettacle du monde"
La mentalità generale che prevale in Occidente prende sempre piú le distanze dalla fede della Chiesa. È un fatto.

C’è da notare che quando si attacca la “Dominus Iesus” come fosse una espressione di intolleranza, la verità è proprio il contràrio: non si tòllera piú che la Chiesa cattolica possa esprímersi sulla propria identità e sulla propria fede, che essa non impone a nessuno, ma che esprime e difende. In fatto di tolleranza, mi sembra che il mínimo che si possa dire è che la comunità che in definitiva ha formato l’Occidente, possa esprímersi sulla propria fede. D’altronde, questi attacchi violenti dimòstrano che la fede, anche all’interno di questa emarginazione, resta una realtà forte. Non si sentirebbe il bisogno di attaccare la Chiesa, né la fede, se fòssero considerate come delle realtà trapassate o sul punto di ésserlo. Si può dire, dunque, che questi attacchi sono anche un segno della vitalità della fede e della forza che essa conserva nel mondo spirituale.
Aggiungerei che questa emarginazione della Chiesa non è cosí forte in tutte le regioni d’Europa, né in tutte le parti del mondo. Cosí possiamo vedere che in Germania è in atto una paganizzazione, soprattutto nelle zone che prima érano comuniste, e comunque nel nord del paese, in cui il protestantésimo si decompone e lascia il posto ad un paganésimo che non ha piú bisogno di attaccare la Chiesa, perché la fede è diventata talmente assente che non si sente piú il bisogno di aggredirla. Ma vi sono anche delle situazioni del tutto diverse. Ai giorni nostri si pòssono constatare delle nuove manifestazioni di fede: vi sono tra i giòvani dei movimenti molto forti che dimòstrano la realtà sempre presente di bisogno di assoluto, con una riscoperta della bellezza della fede e del sacro. Questo desidério del sacro, di recúpero di tutte le bellezze perdute, è molto presente presso la nuova generazione. Da questo punto di vista il panorama è diversificato. Da un lato, vi è quanto indicato da Mons. Billé, questa nuova radicalizzazione del secolarismo, il quale vorrebbe trionfare definitivamente e imporre il suo domínio rendendo inaccessíbile, inaccettàbile e intolleràbile la realtà della Chiesa. Dall’altro, senza neanche il sostegno dei mezzi di comunicazione, ma con una profonda forza interiore, vi è una riapparizione della fede. La Chiesa è destinata certamente a vívere in una situazione di minoranza nel nostro continente, ma rafforzàndosi spiritualmente e interiormente, tanto da diventare una speranza per molti uòmini.




(ACB) - Questo rinnovamento di cui parlate, in Francia si manifesta col fiorire di nuove comunità, col manifestarsi di numerose forze vive. Ma esse sono disperse e frantumate, e sono anche in attesa di affermazioni cristiane chiare e decise da parte dei Pastori.

(CJR) - Mi sembra che si possa parlare di una generazione un po’ scoraggiata: la generazione del Vaticano II, la quale, al momento del Concílio, aveva cullato l’illusione di grandi speranze, un po’ irreali, su una nuova unanimità fra la Chiesa e il mondo. La delusione che è seguita a queste speranze mal riposte è stata forte, e oggi non si ritrova piú la forza interiore della fede, che non deve mai contare su una fàcile accettazione da parte del mondo, anche se essa costituisce la risposta ai grandi problemi che oggi si pòngono davanti agli uòmini.
Nella nuova generazione sòrgono molte vocazioni, un po’ disperse. Le diòcesi hanno meno vocazioni perché è presente un clero scoraggiato e delle comunità desolate. L’attrazione che prima esercitava il lavoro nelle parròcchie, oggi la esércitano le comunità viventi, nelle quali si riscontra una grande intensità di gioia e di fede, anche se nella dispersione, questo è vero. Ma a me sembra che questa forte presenza di vocazioni, un po’ minoritaria, un po’ marginalizzata, avrà un gran peso in avvenire.


(ACB) -Vi è un dato che impressiona i Véscovi francesi: su quasi centoventi preti secolari o assimilati, ordinati ogni anno, di tutte le tendenze, dalla Fraternità San Pio X ai piú progressisti, da venti a venticinque - uno su cinque - sono ordinati per il rito tradizionale. Dei rimanenti quattro, due sono vicini alla sensibilità litúrgica tradizionale. Nei seminàrii di Parigi e di Ars, una parte non trascurabile (talvolta un po’ piú della metà) ha pensato di rivolgersi ad un seminàrio della Fraternità San Pietro o della Fraternità San Pio X, ma non l’ha fatto perché questo ridurrebbe o emarginerebbe il loro apostolato. Non sembra sia giunto il momento di cambiare qualcosa sul terreno litúrgico parrocchiale?

(CJR) - Mi sembra che la priorità non stia nel cambiamento. È l’errore che si fece dopo il Concílio. Si pensò che la riforma consistesse innanzi tutto nel cambiamento.

(ACB) - Non pensavo ai testi, ma a dei cambiamenti concreti, come l’inversione dell’Altare, il silénzio del Cànone, l’Offertòrio.

(CJR) - Tuttavia, questa dev’éssere la conseguenza di una nuova presenza del sacro nei cuori. È stata cambiata la posizione dell’Altare perché vi era una nuova sensibilità, piú didàttica, direi un po’ piú razionalista. Si è pensata la Messa come fosse un diàlogo col pòpolo. Tutto andava compreso, tutto doveva éssere “aperto” per éssere compreso. E si è perduta la percezione del fatto che compréndere la realtà della liturgia è cosa ben diversa dal compréndere le stesse parole della liturgia.
Una pia vecchietta può compréndere beníssimo la profondità del mistero, senza tuttavia compréndere il significato di ogni parola.
Questo è quello che è accaduto dopo il Concílio. Il Concílio è rimasto ancora molto equilibrato, ma dopo il Concílio è prevalsa l’idea che occorreva aprire tutto, compréndere tutto, cosa questa che derivava da una superficialità circa il modo di compréndere la liturgia e il suo messaggio. Vero è che la liturgia, in questo modo, è annunciata, ma si tratta di un annuncio differente. È molto importante che i giòvani chiamati alla vocazione riscòprano che una liturgia razionalizzata, una liturgia nella quale vige solo la preoccupazione di farsi compréndere dal punto di vista della ragione e dal punto di vista intellettuale, non ha piú la profondità di quella realtà che tocca il mio cuore fino al livello della presenza di Dio in me.
Se si ritorna ad una visione molto piú profonda della liturgia come mistero, nel senso che questo términe ha nel Nuovo Testamento, se ritroviamo l’essenziale in questo contatto tra il pòpolo e il prete, nel Signore, e se è il Signore stesso che ci tocca, allora il piú importante è stato fatto. Penso dunque che una nuova sensibilizzazione nei confronti delle realtà della liturgia e del suo mistero, insieme ad una nuova educazione litúrgica, siano le prime cose da fare. Non bisogna pensare innanzi tutto e súbito a dei cambiamenti. Se si ritrova una piú profonda comprensione, i cambiamenti seguiranno necessariamente.


(ACB) - Rigirare i cuori, prima di rigirare gli Altari. Ma i segni litúrgici aiútano molto.

(CJR) - Certo, i segni aiútano perché siamo fatti di ànima e di corpo, e le cose devono anche esprímersi cosí.

(ACB) - Voi siete particolarmente sensíbile al recúpero di una lettura della Scrittura in Chiesa. Ora, la recente riedizione di una delle Bibbie piú célebri in francese, contiene delle note in cui si dice che tale o talaltro passo del Vangelo secondo San Giovanni (al pari dell’inno del capítolo 2 dell’Epístola ai Filippesi) rifiútano la divinità di Cristo. Queste note sono state redatte da uno dei piú conosciuti esegeti francesi, il quale ritiene che vi siano tre livelli di redazione in questo Vangelo: Giovanni I, che non credeva nella divinità di Cristo, Giovanni II che vi credeva, e Giovanni III, giudeo-cristiano, che non vi credeva.

(CJR) - Sí, dobbiamo ritrovare una lettura ecclesiale della Scrittura. Ciò di cui parlate deriva, chiaramente, da un’altra forma di lettura della Scrittura. In questi sviluppi troppo azzardati, si tratta della presenza dello storicismo puro. Innanzi tutto, chi prova l’esistenza di questi tre livelli di redazione? Si tratta di ricostruzioni condotte con un método letterario assurdo, viste dal solo punto di vista dello storico di mestiere.
D’altronde, oggi lo studio letterario dei testi conosce un rinnovamento che si rivela fecondo, anche per la Bibbia. Si comprende che non è possibile fissarne il senso ricostruendo un momento storico. E del resto, come si fa a ricostruire questo momento? Le ipòtesi di ricostruzione, che sono delle pure ipòtesi, càmbiano tutti i giorni. Non è cosí che si può compréndere un’òpera letterària, Dante, Racine; non è cosí che si può compréndere la Bibbia. Non è possibile entrare nel dinamismo interno di un testo dell’Antico o del Nuovo Testamento se non si comprende una cosa - appurata dal punto di vista storico - e cioè che questi libri sono nati nella fede, nel seno del pòpolo di Dio, all’interno di una comunità di credenti. Non sono delle invenzioni, non si è in presenza di un autore o di un altro che scrivévano libri come pòssono farlo oggi dei professori. Questi testi sono stati prodotti nella fede e per la fede della Chiesa, e possono compréndersi solo se si entra nello stesso dinamismo della fede.
Questa fede è quella di un soggetto - la Chiesa - che esisteva e che ancora esiste. Di conseguenza, la contemporaneità, il sincronismo con il significato dei testi sacri, non si otténgono con delle ricostruzioni - che, ripeto, per me sono assurde - ma per mezzo dell’identità con il sincronismo della Chiesa come tale. Mi sembra, dunque, che la lettura da voi richiamata abbia fatto il suo tempo. Essa non apporta niente ad alcuno, anche storicamente. Si tratta solo di giuochi d’astúzia che non hanno nemmeno una consistenza stòrica. Occorre ritornare ad una visione piú profonda: conòscere il soggetto che sta all’orígine del libro, e l’identità di questo soggetto. È solo dall’interno di questo soggetto, della Chiesa, che si può realmente compréndere la Scrittura. È per questo che la lettura piú realística e piú fedele storicamente, è la lettura litúrgica, in cui le parole sono presenza e realtà.


(ACB) -Uno degli aspetti, e non dei minori, della crisi della trasmissione della fede non consiste in una predicazione aséttica, una predicazione “alla Walt Disney”, come dice l’attore cristiano Henri Tisot, in cui “tutti sono gentili e bisogna éssere gentili con tutti”?

(CJR) - Si, oggi si ha paura di parlare del peccato, poiché si teme di offrire una visione negativa della vita, e non si vuole imporre all’uomo moderno, che è già tanto sofferente, una predicazione pesante da parte della Chiesa. Ma noi dobbiamo compréndere bene queste sofferenze molto reali che afflíggono l’uomo nella società odierna. In definitiva, esse sono il prodotto dell’assenza di Dio. E in questo consiste l’essenza del peccato: vívere in assenza di Dio. Ed allora, in questo modo di predicare, vi è un ottimismo falso e molto artificiale, il quale presuppone che tutto sia buono e che noi si sia tutti gentili. Non è questa la realtà dell’uomo di oggi. Se cosí non fosse, non avremmo la droga, il suicídio…

(ACB) - … l’aborto, che in Francia interessa una donna su due…

(CJR) - … è tutto questo che fa la sofferenza degli uomini della nostra società, ed è questo che bisogna compréndere. Sofferenze profonde, come dimostra il fatto che gli uòmini cércano le risposte ai loro mali nella psichiatria, nella psicanàlisi. È necessario, dunque, préndere le distanze da questo ottimismo falso e fatale. Come sarebbe piacévole parlare solo di cose belle e buone! Ma gli uòmini véngono a noi perché sòffrono; essi vògliono avere una risposta vera per questa pena profonda; essi véngono verso di noi per scoprire che alla base di ciò che li affligge vi è l’assenza di Dio. Perché, se Dio non c’è, cosa faccio? Qual è il senso della mia vita? Dove vado? Perché? Tutto diventa inútile e inaccettàbile. Per noi si tratta di far conòscere che la malattia della vita, il peccato, consiste nella pérdita di Dio; di far conòscere questo Dio che concede il perdono dei peccati. Il perdono è una guarigione per ottenere la quale devo collaborare con Dio nella penitenza. Penso che occorra trovare un nuovo realismo per parlare del peccato. Se ne parliamo con delle fòrmule inaccessíbili all’uomo odierno, esse rimarranno delle fòrmule del passato, prive di significato.

(ACB) - Trovare un linguaggio pastorale realista, che corrisponda all’uditore e alla realtà, non vale anche per ciò che avete richiamato all’inizio, e cioè per il confronto fra la Chiesa e la società?

(CJR) - Certamente. Il Signore ha inviato i suoi discépoli: “predicate e guarite i malati”. È una parte essenziale della missione degli Apòstoli. Il che non signífica che dobbiamo sostituirci ai médici del corpo: io mi riferisco alla vera malattia della vita. È dunque chiaro che la fede che ci è stata donata non è fatta per un mondo chiuso; essa è sempre data per l’umanità. E questo non signífica intolleranza da parte nostra, ma esercízio della responsabilità che noi abbiamo nei confronti degli altri: di annunciare loro questa possibilità di guarigione nel Signore. Occorre avere un coràggio nuovo, occorre éssere convinti che noi si àbbiano in mano i mezzi per guarire gli uòmini, che è nostro dovere dare loro questa parola di Salvezza, e che essa è veramente tanto necessaria per l’uomo. Occorre un nuovo slancio missionario. Non si ama piú parlare di conversione, ma questa è la realtà: noi abbiamo una responsabilità universale, non possiamo esímercene. Sarebbe còmodo, se fosse possíbile, ma invece siamo tenuti ad offrire agli altri ciò che il Signore ci ha dato per gli altri.

(ACB) - Voi sapete, Eminenza, che siete un Cardinale molto popolare: un sondaggio internet vi assegna il 28% di opinioni favorévoli, su cinquantasettemila risposte; appena dopo il Cardinale Martini, che è in testa col 32%. Ora, gli specialisti dícono che nelle risposte spontanee, le opinioni dette di “sinistra” si esprimono sempre piú facilmente… Lo dico per amore dell’aneddoto, ma anche per sottolineare l’eco delle vostre considerazioni. Voi dunque, per i Pastori di domani, proponete un nuovo coràggio nell’annúncio della fede?

(CJR) - Assolutamente. Con la certezza che, se il Signore è con noi, potremo affrontare i problemi del nuovo millénnio. Per quanto riguarda candidature e sondaggi, trovo tutto questo alquanto ridícolo: noi abbiamo un Papa, ed è il Signore che decide in tutto del quando e del come. È vero che éssere Pastore oggi nella Chiesa esige un grande coràggio; ma anche con la nostra debolezza - io sono un uomo débole - possiamo ugualmente accettare il ríschio di fare il nostro dovere di Pastori, perché è il Signore che agisce, Egli ha detto ai suoi Apòstoli che nell’ora del confronto, non avrébbero dovuto pensare con inquietúdine a come difendersi e a cosa dire, poiché lo Spírito avrebbe loro insegnato cosa dire.
Questa è per me una cosa molto reale. Anche con la mia poca forza, e direi pròprio a causa di essa, il Signore potrà fare in me ciò che vorrà. Nella Scrittura vediamo sempre svilupparsi questa struttura: il Signore scéglie, per agire, coloro che di per sé non potrébbero fare gran cosa. È in questa fragilità umana che Egli dimostra la propria forza, come dice San Paolo. In questo senso, io credo che un Pastore non abbia mai motivo di aver paura, nella misura in cui làscia agire in sé il Signore.

Ratzigirl
00domenica 12 giugno 2005 23:04
Inervista emittente americana EWTN
Intervista fatta da Raymond Arroyo, direttore di EWTN News
(Eternal Word Television Network ? Global Catholic Network ? USA),
e mandata in onda per la prima volta il 5 settembre 2003.



Estratti

Raymond: Parliamo un poco del Concilio Vaticano II, in particolare dell’applicazione del Concilio. Lei ne ha parlato e scritto così tanto. Ritengo che per la gente della mia generazione la cosa che risalta di più nella fede, anche in quella dei nostri padri e dei padri dei nostri padri, è la liturgia, la Messa. Lei ha parlato di riforma della riforma, di riformare la riforma. Come pensa di attuarla? Come ritiene che possa concretamente prendere forma via via che andiamo avanti ?

Cardinale: In generale, ritengo che la riforma liturgica non sia stata applicata bene, perché si trattava di una idea generale. Oggi la liturgia è una cosa della comunità. La comunità rappresenta se stessa, e con la creatività dei preti o di altri gruppi si creano le loro liturgie particolari . Si tratta più della presenza delle loro esperienze ed idee personali, che dell’incontro con la Presenza del Signore nella Chiesa; e con questa creatività e questa auto-presentazione della comunità sta scomparendo l’essenza della liturgia. Con l’essenza della liturgia noi possiamo superare le nostre proprie esperienze e ricevere ciò che non deriva da esse, ma che è un dono di Dio. Così penso che dobbiamo restaurare non tanto certe cerimonie, ma l’idea essenziale della liturgia - capire che nella liturgia non rappresentiamo noi stessi, ma riceviamo la grazia della presenza del Signore nella Chiesa del cielo e della terra. E mi sembra che l’universalità della liturgia sia essenziale. Definire la liturgia e ripristinare questa idea aiuterebbe anche ad essere più ubbidienti alle norme, non nel senso di un positivismo giuridico, ma proprio come condivisione, partecipazione a quello che ci è dato dal Signore nella Chiesa .

Raymond: E quel senso di sacrificio e di culto di cui Lei ha parlato così eloquentemente, come lo vede ripristinato in concreto? Assisteremo al ritorno della disposizione del prete “ad orientem”, rivolto verso Est, che volge le spalle al popolo durante il Canone, al ritorno del latino, a più latino nella Messa?


Cardinale: “Versus orientem”, direi che potrebbe essere un aiuto, perché si tratta realmente di una tradizione dei tempi apostolici. Non è solo una norma, ma è anche l’espressione della dimensione cosmica e della dimensione storica della liturgia. Noi celebriamo con il cosmo, con il mondo. È la direzione del futuro del mondo, della nostra storia rappresentata dal sole e dalle realtà cosmiche. Io penso che oggi questa nuova scoperta del nostro rapporto con il mondo creato può essere capita anche dalla gente, forse meglio di 20 anni fa. E ancora, si tratta di una direzione comune - prete e popolo orientati insieme verso il Signore. Per questo penso che potrebbe essere un aiuto. Da sempre, i gesti esteriori non sono semplicemente un rimedio in se stessi, ma possono essere un aiuto, perché si tratta della classica interpretazione di cos’è la direzione nella liturgia. In generale io penso che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: “io sono nella stessa Chiesa”. Perciò in generale, le lingue parlate sono ….

Raymond: Una buona cosa.


Cardinale: … una soluzione. Ma una qualche presenza del latino potrebbe essere utile per avere una maggiore esperienza di universalità.

[Modificato da Ratzigirl 12/06/2005 23.06]

Ratzigirl
00mercoledì 15 giugno 2005 00:11
Il problema della Liturgia
Ratzinger: la liturgia cattolica è in pericolo





da "Il Giornale" del 29 dicembre 2001



La liturgia della Chiesa cattolica è minacciata dalla "creatività" di quei sacerdoti e di quelle comunità che la modificano a loro piacimento e arrivano talvolta al punto di trasformate la Messa in uno show. C'è il rischio di non sapere più in che cosa consista la liturgia cattolica. A lanciare l'allarme, ancora una volta, è il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il porporato bavarese, va precisato subito a scanso di equivoci, non ha particolari simpatie per i "lefebvriani", non è un tradizionalista nostalgico dell'antico messale, non vuole ribaltare nuovamente gli altari per tornare all' epoca preconciliare. Le sue parole, pubblicate ieri dal quotidiano cattolico francese "La Croix" in una lunga intervista intitolata "I pericoli che oggi minacciano la liturgia", assumono dunque un'importanza particolare.
"Tante persone - ha detto il cardinale - si lamentano oggi del fatto che non ci siano più due messe uguali una all'altra, tanto da arrivare al punto di domandarsi se esista ancora una liturgia cattolica. Questo punto di vista - precisa - è senz'altro esagerato, ma il pericolo c'è. Da qui il mio appello: liberiamoci di noi stessi, e abbandoniamoci a una realtà più grande".



Preoccupazione crescente

Negli ultimi anni le dichiarazioni di Ratzinger sulla crisi della liturgia sono state un crescendo. Già nell'autobiografia (La mia vita, 1997), il porporato aveva scritto: "Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta". Nel libro Introduzione allo spirito della liturgia (2001), interamente dedicato a questo argomento, il cardinale aveva fatto osservare che nelle celebrazioni postconciliari "Il sacerdote - o il "presidente" come si preferisce chiamarlo - diventa il vero e proprio punto di riferimento di tutta la celebrazione. Tutto termina su di lui. È lui che bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l'insieme della celebrazione". "L'attenzione - commentava con una punta di amarezza - è sempre meno rivolta a Dio". Nell'ultimo libro-intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald (Dio e il mondo, 2001), Ratzinger è tornato a criticare gli abusi della riforma postconciliare, chiedendo ai confratelli vescovi di essere più tolleranti con i fedeli che chiedono la Messa col vecchio rito come previsto dall'indulto di Papa Wojtyla.



La "riforma della riforma"

Il prefetto della dottrina della fede non intende, con questi interventi, proporre la cancellazione la riforma scaturita dal concilio Vaticano II. Desidera invece far nascere un movimento liturgico dal basso, condiviso, per far comprendere che la liturgia non è solo una componente rituale ma un elemento centrale della Chiesa cattolica e della vita cristiana, in grado di avvicinare i fedeli all'unità con Dio e la sua opera universale. Per questo, a trent'anni dall'entrata in vigore della nuova Messa, propone una lenta e parziale correzione di rotta, da lui ribattezzata "riforma della riforma", che, lungi da buttare tutto all'aria di nuovo, migliori quello che si può migliorare. "Io sono per la stabilità - ha detto nell'intervista il porporato -. Se si cambia la liturgia ogni giorno la cosa si fa invivibile. Ma d'altra parte - specifica - anche l'eccessiva rigidità è controindicata". Affrontare questi argomenti, nella Chiesa, oggi non è affatto facile. Molti liturgisti, infatti, considerano intoccabili fin nei minimi particolari le riforme postconciliari. "Alcuni liturgisti - ha detto ancora Ratzinger - vorrebbero far credere che tutte le idee che non sono conformi alle loro categorie rappresentino un ritorno al passato. Non è così. Io sono evidentemente a favore del Vaticano II che ci ha portato tante belle cose, ma dichiarare questo insuperabile e giudicare inaccettabili tutte le riflessioni con le quali dobbiamo riprendere la storia della Chiesa è un settarismo che non accetto". Per arrivare a una pacificazione e frenare gli abusi ha lavorato molto in questi anni la Congregazione vaticana per il culto divino, guidata dal cardinale Arturo Medina Estevez, che sta per andare in pensione: la sua successione alla guida del dicastero impensierisce non poco chi la pensa come Ratzinger.



Quando la messa diventa show

Sono davvero eccessivi gli appelli del custode dell'ortodossia cattolica, criticato da sinistra perché giudicato troppo conservatore e da destra perché giudicato troppo aperturista? Se si osserva la situazione della liturgia di molti Paesi, non c'è dubbio che si tratti di allarmi giustificati. Ma non occorre andare molto lontano. Ecco due casi recentissimi, a loro modo paradossali e, soprattutto, vicini a noi. Nella parrocchia di Sant'Agostino, ad Albignasego, alle porte di Padova, una domenica dello scorso novembre il sacerdote ha invitato alcuni ragazzi accanto all'altare a ballare una nota melodia dei Lunapop. Nella centralissima parrocchia di San Nicolò, accanto all'Arena di Verona, domenica 16 dicembre il curato, durante la Messa dei ragazzi, ha introdotto in chiesa un mimo vestito da barbone, con un cappellaccio in testa, e quindi una specie di marionetta animata raffigurante un angelo. Due esempi di "creatività" che fa degenerare l'azione liturgica in show.


Sihaya.b16247
00mercoledì 22 giugno 2005 02:24
Tutto Ratzinger
Sarebbe bello avere questa intervista!!!

la Repubblica - Venerdì, 5 luglio 1985 - pagina 23
TUTTO RATZINGER, CRISI E SPERANZE DELLA CHIESA OGGI

"SONO sempre stato sicuro di Gesù e di Dio, ma la mancanza di un successo visibile della redenzione del mondo mi ha tormentato" dice il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (ex Sant' Uffizio). Anna Maria Federici ha raccolto la prima lunga intervista televisiva concessa dal responsabile del più importante dicastero vaticano. Andrà in onda stasera su RaiDue alle 23,20 con il titolo di "Joseph Ratzinger il coraggio di credere". Il cardinale però non parlerà solo del suo incarico in seno alla Chiesa; racconterà anche della sua vita, dei suoi fatti personali, dei momenti di crisi, di dubbio, delle sue speranze di uomo di fede. "Da bambino ho visto come i nazisti, prima della Messa, bastonavano il parroco..." e la mente corre lontano, all' infanzia, alle prime convinzioni religiose, alla scelta della strada da intraprendere. Ma anche gli argomenti di attualità sono importanti Ratzinger parlerà della teologia della liberazione, e del caso Boff, del ruolo della donna nella Chiesa, dei nuovi movimenti ecclesiali, del Sinodo straordinario dei viscovi convocato per il prossimo novembre, delle tensioni e delle speranze della Chiesa a vent' anni dal Concilio.
Sihaya.b16247
00mercoledì 29 giugno 2005 23:33
"La bellezza, nostalgia di Dio"
Oooooohhhh [SM=g27836] INTERVENTO BELLISSIMO

Avvenire 20/04/2005

di Joseph Ratzinger

Pubblichiamo un ampio estratto della riflessione teologica che Ratzinger scrisse per commentare il tema dell’edizione 2002 del Meeting di Rimini: «Il sentimento delle cose, la contemplazione della bellezza».

Ogni anno, nella Liturgia delle Ore del Tempo di Quaresima, torna a colpirmi un paradosso che si trova nei Vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, l’una accanto all’altra, ci sono due antifone, una per il tempo di Quaresima, l’altra per la Settimana Santa. Entrambe introducono il Salmo 44, ma ne anticipano una chiave interpretativa del tutto contrapposta. È il Salmo che descrive le nozze del Re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. Nel Tempo di Quaresima il salmo ha per cornice la stessa antifona che viene utilizzata per tutto il restante periodo dell’anno. È il terzo verso del salmo che recita: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia». È chiaro che la Chiesa legge questo salmo come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Riconosce Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra indica la bellezza interiore della Sua parola, la gloria del Suo annuncio. Così, non è semplicemente la bellezza esteriore dell’apparizione del Redentore ad essere glorificata: in Lui appare piuttosto la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso che ci attira a sé e allo stesso tempo ci procura la ferita dell’Amore, la santa passione (eros) che ci fa andare incontro, insieme alla e nella Chiesa Sposa, all’Amore che ci chiama...
Chi crede in Dio, nel Dio che si è manifestato proprio nelle sembianze alterate di Cristo crocifisso come amore "sino alla fine" (Gv 13,1) sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente egli apprende anche che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e, sì, anche l’oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell’accettazione del dolore, e non nell’ignorarlo.
Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al "Fedro" di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo "entusiasma" attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto...
La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo... L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale...
L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima e in questo modo le apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei criteri di giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti. Resta per me un’esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’uno all’altro e altrettanto spontaneamente ci dicemmo:- "Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera". In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di realtà presente da rendersi conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore. E la stessa cosa non è forse evidente quando ci lasciamo commuovere dall’icona della Trinità di Rublëv? Nell’arte delle icone, come pure nelle grandi opere pittoriche occidentali del romanico e del gotico, l’esperienza descritta da Kabasilas, partendo dall’interiorità, si è resa visibile e partecipabile. Pavel Evdokimov ha indicato in maniera così pregnante quale percorso interiore l’icona presupponga. L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un "digiuno della vista". La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la "gloria di Dio sul volto di Cristo" (2, Cor 4,6). Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una purificazione del cuore, ci rivela la bellezza, o almeno un raggio di essa. Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità. Io ho spesso già affermato essere mia convinzione che la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare i Santi, a entrare in contatto con il bello.
Ora però dobbiamo rispondere ancora ad un’obiezione. Abbiamo già respinto l’affermazione secondo cui quanto finora sostenuto sarebbe una fuga nell’irrazionale, nel mero estetismo. E’ vero piuttosto l’opposto: proprio così la ragione viene liberata dal suo torpore e resa capace di azione. Maggior peso ha oggi un’altra obiezione: il messaggio della bellezza viene messo completamente in dubbio attraverso il potere della menzogna, della seduzione, della violenza, del male. Può la bellezza essere autentica, oppure, alla fine, non è che un’illusione? La realtà non è forse in fondo malvagia? La paura che, alla fine, non sia lo strale del bello a condurci alla verità, ma che la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera "realtà" ha angosciato gli uomini in ogni tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’ affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto fare poesia, dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori? Ora questa obiezione, per la quale esistevano motivi sufficienti ancora prima di Auschwitz, in tutte le atrocità della storia, indica in ogni caso che un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente. Non regge il confronto con la gravità della messa in discussione di Dio, della verità, della bellezza. Apollo, che per il Socrate di Platone era "il Dio" e il garante della imperturbata bellezza come "il veramente divino", non basta assolutamente più. In questo modo ritorniamo alle "due trombe" della Bibbia dalle quali eravamo partiti, al paradosso per cui di Cristo si possa dire sia "Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo", sia "Non ha apparenza né bellezza…… il suo volto è sfigurato dal dolore". Nella passione di Cristo l’estetica greca, così degna di ammirazione per il suo presentito contatto con il divino, che pure le resta indicibile, non viene rimossa, bensì superata. L’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine - la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva "sino alla fine" e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è "vera", bensì proprio la verità. E’ per così dire un nuovo trucco della menzogna presentarsi come "verità" e dirci: al di là di me non c’e in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla; così facendo siete sulla strada sbagliata. L’icona di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo all’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza...
Chi non ha conosciuto la molto citata frase di Dostoevskij: "La bellezza ci salverà?" Ci si dimentica però nella maggior parte dei casi di ricordare che Dostoevskij intende qui la bellezza redentrice di Cristo. Dobbiamo imparare a vederLo. Se noi Lo conosciamo non più solo a parole ma veniamo colpiti dallo strale della sua paradossale bellezza, allora facciamo veramente la Sua conoscenza e sappiamo di Lui non solo per averne sentito parlare da altri. Allora abbiamo incontrato la bellezza della verità, della verità redentrice. Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo del bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria Luce.
RATZGIRL
00mercoledì 29 giugno 2005 23:44
Caro Papa Ratzi
...nessun altro poteva esprimersi altrettanto bene sulla bellezza,attraverso di essa tu catturi ogni giorno il cuore di tante persone(come hai fatto con il mio)e li porti al Signore.[SM=g27838] [SM=g27838] [SM=x40791]
Ratzigirl
00sabato 16 luglio 2005 03:15
La teologia della liturgia

Intervento alla Conferenza tenutasi nel monastero di Fontgombault nel 2001




(e non lasciatevi sfuggire queste foto!!!)

ROMA, venerdì, 15 luglio 2005 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento tenuto dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, durante una Conferenza svoltasi presso l’Abbazia benedettina di “Notre Dame de Fontgombault”, in Francia (22-24 luglio 2001).






* * *


Il Concilio Vaticano II definisce la liturgia come "l'opera del Cristo sacerdote e del suo corpo che è la Chiesa" (Sacrosanctum Concilium , n. 7). L'opera di Gesù Cristo è designata nello stesso testo come l’opera della redenzione che il Cristo ha compiuto in modo particolare attraverso il mistero pasquale della Sua passione, della Sua Resurrezione dai morti e della Sua gloriosa ascensione. "Con questo mistero, morendo, ha distrutto la nostra morte e, risorgendo, ha restaurato la vita" (Sacrosanctum Concilium , n. 5).

A prima vista, in queste due frasi la parola "opera del Cristo" sembra utilizzata in due distinti significati. L’opera del Cristo designa in primo luogo le azioni redentrici storiche di Gesù, la Sua morte e la Sua Resurrezione; d’altra parte si definisce "opera del Costo" la celebrazione della liturgia. In realtà, i due significati sono inseparabilmente legati: la morte e la Resurrezione, il mistero pasquale non sono soltanto avvenimenti storici esteriori. Per la Resurrezione, questo appare molto chiaramente.

Raggiunge e penetra la storia, ma la trascende in un doppio senso; non è l’azione di un uomo bensì una azione di Dio, e conduce in tal modo Gesù risuscitato oltre la storia, là dove siede alla destra del Padre. Neanche la croce è una semplice azione umana.

L’aspetto puramente umano è presente nelle persone che condussero Gesù alla croce. Per Gesù, la croce non è un’azione, ma una passione, e una passione che significa che Egli è un tutt’uno con la volontà divina, un’unione della quale l’episodio dell’Orto degli Ulivi ci fa vedere l’aspetto drammatico.

Così la dimensione passiva della Sua messa a morte si trasforma nella dimensione attiva dell’amore: la morte diventa abbandono di se stesso al Padre per gli uomini. In questo modo l’orizzonte si estende, qui come nella Resurrezione, ben al di là del puro aspetto umano e ben al di là del puro fatto di essere stato crocifisso e di essere morto.

Il linguaggio della fede ha chiamato mistero questa eccedenza riguardo al mero istante storico e ha condensato nel termine mistero pasquale il nocciolo più intimo dell’avvenimento redentore. Se possiamo dire da allora in poi che il mistero pasquale costituì il nocciolo dell’opera di Gesù, il rapporto con la liturgia è già patente; è precisamente questa opera di Gesù che è il vero contenuto della liturgia. Tramite questa, con la fede e la preghiera della Chiesa, l’opera di Gesù raggiunge continuamente la storia per penetrarla.

Nella liturgia il puro istante storico è così trasceso di nuovo ed entra nell’azione divino-umana permanente della redenzione. In questa Cristo è il vero soggetto: e l’opera del Cristo, ma in essa Egli attira a sé la storia, precisamente in questa azione che è il luogo della nostra salvezza.

Il sacrificio rimosso in questione

Tornando al Vaticano II, vi troviamo la seguente descrizione di questi rapporti: "La liturgia, mediante la quale, soprattutto nel divino sacrificio dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e l’autentica natura della vera Chiesa" (ibid. n. 2).

Tutto ciò è diventato estraneo al pensiero moderno e nemmeno trent’anni dopo il concilio, persino tra i liturgisti cattolici, è oggetto di punti interrogativi. Oggi chi parla ancora del sacrificio divino dell’Eucaristia? Certo le discussioni intorno alla nozione di sacrificio sono tornate ad essere sorprendentemente vive, sia da parte cattolica che protestante. Si avverte che in un’idea che ha sempre occupato, sotto molte forme, non soltanto la storia della Chiesa, ma la storia intera dell’umanità, vi deve esserci l’espressione di qualche cosa di essenziale che riguarda anche noi.

Ma nello stesso tempo restano ancora vive ovunque le vecchie posizioni dell’illuminismo: accusa a priori di magia e di paganesimo, sistematiche opposizioni tra rito ed ethos, concezione di un cristianesimo che si libera dal culto ed entra nel mondo profano; teologi cattolici che non hanno per nulla voglia, per l’appunto, di vedersi tacciare di anti-modernità.

Anche se si ha in un modo o nell'altro il desiderio di ritrovare il concetto di sacrificio, ciò che alla fine resta è l’imbarazzo e la critica. Così recentemente Stephan Orth, in un vasto panorama della bibliografia recente consacrata al terna del sacrificio, ha creduto di riassumere tutta la sua inchiesta con le constatazioni seguenti: oggi, persino molti cattolici ratificano il verdetto e le conclusioni di Martin Lutero, per il quale parlare di sacrificio è il più grande e spaventoso errore, è una maledetta empietà.

Per questo motivo vogliamo astenerci da tutto ciò che sa di sacrificio, compreso tutto il canone e considerare solo tutto ciò che è santo e puro. Poi Orth aggiunge: dopo il Concilio Vaticano II questa massima fu seguita anche nella Chiesa cattolica, per lo meno come tendenza, e condusse a pensare anzitutto il culto divino a partire dalla festa della Pasqua, citata nel racconto della Cena. Facendo riferimento ad un’opera sul sacrificio edita da due liturgisti cattolici di avanguardia, dice in seguito, in termini un po’ più moderati, che appare chiaramente che la nozione di sacrificio della Messa, più ancora di quella del sacrificio della Croce, è nel migliore dei casi una nozione che si presta motto facilmente a malintesi.

Non è necessario che dica che io non faccio parte dei "numerosi" cattolici che considerano con Lutero come il più spaventoso errore e una maledetta empietà il fatto di parlare di sacrificio della Messa. Si comprende parimenti che il redattore abbia rinunciato a menzionare il mio libro sullo Spirito della liturgia che analizza nel dettaglio la nozione di sacrificio.

La sua diagnosi risulta costernante. È anche vera? Io non conosco questi numerosi cattolici che considerano come una maledetta empietà il fatto di comprendere l’Eucaristia come un sacrificio. La seconda diagnosi, più cauta, secondo la quale si considera la nozione di sacrificio della Messa come concetto altamente esposto a malintesi, si presta invece a facile verifica. Ma, se si lascia da parte la prima affermazione del redattore, non trovandoci che una esagerazione retorica, resta un problema sconvolgente che occorre risolvere. Una parte non trascurabile di liturgisti cattolici sembra essere praticamente arrivata alla conclusione che occorre dare sostanzialmente ragione a Lutero contro Trento nel dibattito del XVI secolo; si può del pari ampiamente constatare la medesima posizione nelle discussioni post-conciliari sul sacerdozio.

Il grande storico del Concilio di Trento, Hubert Jedin, indicava questo fatto nel 1975, nella prefazione all’ultimo volume della sua Storia del Concilio di Trento: "il lettore attento... non sarà, leggendo ciò, meno costernato dell’autore, quando si renderà conto del numero di cose, a dire il vero quasi tutte, che, avendo una volta agitato gli uomini, sono di nuovo proposte oggi".
Solo a partire da qui, dalla squalifica pratica di Trento, si può comprendere l’esasperazione che accompagna la lotta contro la possibilità di celebrare ancora, dopo la riforma liturgica, la Messa secondo il messale del 1962. Questa possibilità è la contraddizione più forte e quindi la meno tollerabile in rapporto all’opinione di colui che ritiene che la fede nell’Eucaristia formulata a Trento abbia perso il suo valore. Sarebbe facile raccogliere prove a sostegno di questa situazione.

Faccio astrazione dalla teologia liturgica estrema di Harald Schutzeichel, che si stacca completamente dal dogma cattolico ed espone, per esempio, l’affermazione avventurosa che soltanto nel Medioevo l’idea di presenza reale sarebbe stata inventata. Un liturgista di punta, come David N. Power, ci insegna che nel corso della storia non solo la maniera con la quale una verità viene espressa, ma lo stesso contenuto di ciò che vi è espresso può perdere il suo significato. Mette concretamente questa teoria in rapporto con gli enunciati di Trento.

Th. Schnitker ci dice che una liturgia rinnovata include egualmente una espressione differente della fede e dei cambiamenti teologici. Del resto, secondo lui ci sarebbero teologi, per lo meno nel cerchio della Chiesa romana e della sua liturgia, che non avrebbero ancora colto la portata di queste trasformazioni promosse dalla riforma liturgica nel campo della dottrina della fede. L’opera senza dubbio seria di R. Messner sulla riforma della Messa in Martin Lutero e l’Eucaristia della Chiesa antica, che contiene molte interessanti riflessioni, giunge tuttavia alla conclusione che Lutero comprese la Chiesa antica meglio di Trento.

La gravità di queste teorie consiste nel fatto che frequentemente passano subito nella pratica. La tesi secondo la quale è la comunità in quanto tale il soggetto della liturgia passa per una autorizzazione a manipolare la liturgia secondo la comprensione di ciascuno. Pretese nuove scoperte e le forme che ne conseguono si diffondono con una stupefacente rapidità e con una obbedienza riguardo a tali mode che da tempo non esiste più riguardo alle norme dell’autorità ecclesiastica. Delle teorie nel campo della liturgia si trasformano oggi molto rapidamente in pratica e la pratica, a sua volta, crea o distrugge comportamenti e forme di comprensione

La problematica del resto si è nel frattempo aggravata per il motivo che il movimento più recente dell’illuminismo supera di gran lunga Lutero. Mentre Lutero prendeva ancora alla lettera i racconti della Istituzione e li poneva come norma normans, come fondamento dei suoi tentativi di riforma, le ipotesi della critica storica stanno da tempo provocando un’ampia erosione dei testi.
I racconti della Cena appaiono come un prodotto della costruzione liturgica della comunità; dietro ad essi si cerca un Gesù storico che "naturalmente" non poteva aver pensato al dono del Suo corpo e del Suo sangue, né aver compreso la Sua croce come sacrificio di espiazione; bisognerebbe piuttosto pensare a un pasto d’addio contenente una prospettiva escatologica.

Non solo l’autorità del Magistero ecclesiale è declassata agli occhi di molti, ma anche la Scrittura, al posto della quale entrano delle ipotesi pseudo-storiche mutevoli, che in fondo daranno spazio a qual si voglia arbitrio ed espongono la liturgia alla mercé della moda. Laddove sulla base ditali idee si manipola sempre più liberamente la liturgia, i credenti sentono che in realtà nulla vi è celebrato ed è comprensibile che abbandonino la liturgia e con questa la Chiesa.

I principi della ricerca teologica

Torniamo dunque alla questione fondamentale: è giusto qualificare l’Eucaristia di sacrificio divino, oppure è una maledetta empietà? In questo dibattito occorre per prima cosa stabilire i principali presupposti che determinano in ogni caso la lettura della Scrittura e conseguentemente le conclusioni che se ne traggono. Per il cristiano cattolico qui si impongono due linee ermeneutiche essenziali di orientamento. La prima: noi diamo fiducia alla Scrittura e ci basiamo sulla Scrittura, non su ricostruzioni ipotetiche che si collocano al di qua di essa e ricostruiscono a modo loro una storia nella quale svolge un ruolo fondamentale la domanda presuntuosa di sapere ciò che si può o ciò che non si può attribuire a Gesù; il che significa "naturalmente" solo ciò che un erudito moderno vuole attribuire a un uomo di un tempo che lui stesso ha ricostruito.

La seconda è che noi leggiamo la scrittura nella comunità vivente della Chiesa e dunque sulla base di decisioni fondamentali, grazie alle quali è divenuta storicamente efficace e ha precedentemente gettato le basi della Chiesa. Non bisogna separare il testo da questo contesto vivente. In questo senso la Scrittura e la Tradizione formano un tutto inseparabile e questo è il punto che Lutero, all’alba del risveglio dalla coscienza storica, non è riuscito a vedere. Egli credeva alla univocità della lettera, univocità che non esiste e alla quale ha da lungo tempo rinunciato la storiografia moderna.

Che nella Chiesa nascente, l’Eucaristia sia stata sin dall’inizio compresa come sacrificio, persino in un testo come la Didachè, difficile e piuttosto marginale in rapporto alla grande tradizione, è un elemento di interpretazione di prim’ordine. Ma c’è ancora un oltre aspetto ermeneutico fondamentale nella lettura e nella interpretazione della testimonianza biblica. Il fatto che io possa o no riconoscere un sacrificio nell’Eucaristia, così come il Signore l’ha istituita, si collega essenzialmente alla questione di sapere ciò che io intendo per sacrificio, dunque a ciò che si chiama pre-comprensione. La pre-comprensione di Lutero, per esempio, in particolare la sua concezione dell’avvenimento e della presenza storica della Chiesa, era tale che la categoria di sacrificio, così come egli la vedeva, non poteva nella sua applicazione all’Eucaristia della Chiesa apparire che come un’empietà.

I dibattiti ai quali si riferisce Stephan Orth mostrano quanto confusa e ingarbugliata è la nozione di sacrificio in quasi tutti gli autori e mettono in condizione di vedere tutto il lavoro da farsi sull’argomento. Per il teologo credente risulta evidente che è la stessa Scrittura che deve fargli da guida verso la definizione essenziale di sacrificio e ciò a partire da una lettura "canonica" della Bibbia nella quale la Scrittura è letta nella sua unità e nel suo movimento dinamico, le cui diverse tappe ricevono il loro significato ultimo da Cristo, al quale questo movimento nella sua interezza conduce. In questa stessa misura, l’ermeneutica qui presupposta è una ermeneutica della fede, fondata sulla sua logica interna. Non dovrebbe essere, in fondo, una evidenza? Poiché senza la fede, la stessa Scrittura non è la Scrittura, ma un insieme piuttosto disparato di brani letterari, il che non potrebbe rivendicare oggi alcun significato normativo.

Il sacrificio e la Pasqua

Il compito al quale si fa qui allusione supera di molto, beninteso, i limiti di una conferenza; mi sia allora permesso di rimandare al mio libro su Lo spirito della liturgia, nel quale ho cercato di tracciare le grandi linee di questa questione. Ciò che se no deduce è che, nel suo percorso attraverso la storia delle religioni e la storia biblica, la nozione di sacrificio assume delle connotazioni che vanno ben oltre la problematica che noi leghiamo abitualmente alla nozione di sacrificio. Di fatto, apre l’accesso alla comprensione globale del culto e della liturgia: sono queste grandi prospettive che vorrei tentare di indicare qui. In questo modo devo necessariamente rinunciare a questioni speciali d’esegesi, in particolare al problema fondamentale dell’interpretazione dei racconti dell’istituzione, riguardo alla quale, oltre al mio libro sulla liturgia, ho cercato di fornire alcuni elementi nel mio contributo su Eucaristia e Missione.

C’è tuttavia una indicazione che non posso impedirmi di dare, Nella menzionata rassegna bibliografica Stephan Orth dice che il fatto di avere evitato, dopo il Vaticano II, la nozione di sacrificio, ha condotto a "pensare il culto divino soprattutto a partire dal rito della Pasqua, rapportata nei racconti della Cena". Questa formulazione appare a prima vista ambigua: si pensa il culto divino a partire dalla Cena, oppure dalla festa di Pasqua che vengono indicate come quadro temporale, ma non vengono descritte ulteriormente? Sarebbe giusto dire che la Pasqua ebraica, la cui istituzione è riportata in Es 12, acquista nel Nuovo Testamento un nuovo senso. Proprio in essa si manifesta un grande movimento storico che va dalle origini fino alla Cena, alla Croce e alla Resurrezione di Gesù. Ma ciò che stupisce, soprattutto nella formulazione di Orth, è l’opposizione costruita tra l’idea di sacrificio e la Pasqua.

I dati veterotestamentari giudaici privano tutto ciò di senso, poiché dalla legislazione deutoronomistica l’uccisione degli agnelli è legata al tempio; ma persino nel periodo primitivo, in cui la Pasqua era ancora una festa familiare, l’uccisione degli agnelli aveva già un carattere sacrificale. Così, per l’appunto attraverso la tradizione della Pasqua, l’idea di sacrificio arriva fino alle parole e ai gesti della Cena, dove è presente, del resto, sulla base di un secondo passaggio veterotestamentario, Es 24, che riporta la conclusione dell’Alleanza del Sinai. Là è riferito che il popolo fu asperso col sangue delle vittime condotte in precedenza e che Mosè disse in quella occasione: "Questo è il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole" (Es 24,8).

La nuova Pasqua cristiana è così espressamente interpretata nei racconti della Cena come un avvenimento sacrificate e, sulla base delle parole della Cena, la Chiesa nascente sapeva che la croce era un sacrifico, poiché la Cena sarebbe stata un gesto vuoto senza la realtà della croce e della Resurrezione, che vi è anticipata e resa accessibile per tutti i tempi nel suo contenuto interno.
Menziono questa strana opposizione tra la Pasqua e il sacrificio, perché rappresenta il principio architettonico di un libro recentemente pubblicato dalla Fraternità San Pio X, che pretende esista una rottura dogmatica tra la nuova liturgia di Paolo VI e la precedente tradizione liturgica cattolica.

Questa rottura è vista precisamente nel fatto che tutto ormai si interpreta a partire "mistero pasquale" al posto del sacrificio redentore d’espiazione del Cristo; la categoria del mistero pasquale sarebbe l’anima della riforma liturgica ed e proprio questo che care la prova della rottura verso la dottrina classica della Chiesa. È chiaro che vi sono autori che prestano il fianco a un simile malinteso. Ma che si tratti di un malinteso è assolutamente evidente per chi osserva il fatto da vicino. In realtà, il termine di mistero pasquale rinvia chiaramente agli avvenimenti che hanno avuto luogo nei giorni che vanno dal Giovedì Santo al mattino di Pasqua: la Cena come anticipazione della Croce, il dramma del Golgota e la Resurrezione del Signore.

Nel termine di mistero pasquale, questi episodi sono visti sinteticamente come un unico avvenimento, unitario, come "l’opera del Cristo", così come l’abbiamo inizialmente sentito dire dal Concilio, come una realtà che è storicamente avvenuta e allo stesso tempo trascende questo preciso istante. Poiché questo avvenimento è, interiormente, un culto reso a Dio, ha potuto diventare un culto divino e in questo modo essere presente in ogni istante. La teologia pasquale del Nuovo Testamento, alla quale abbiamo dato un rapido sguardo, dà precisamente a intendere questo: l’episodio apparentemente profano della crocifissione del Cristo è un sacrificio d’espiazione, un atto salvatore dell’amore riconciliatore del Dio fatto uomo. La teologia della Pasqua è una teologia della redenzione, una liturgia di un sacrificio espiatorio. Il pastore è diventato agnello. La visione dell’agnello, che appare nella storia di Isacco, dell’agnello che rimane impigliato negli sterpi e riscatta il figlio, è diventata una realtà: il Signore si fa agnello, si lascia legare e sacrificare, per liberarci.

Tutto ciò è divenuto estremamente estraneo al pensiero contemporaneo. Riparazione, "espiazione", può forse evocare qualche cosa nel quadro dei conflitti umani e nella liquidazione della colpabilità che regna tra gli esseri umani, ma la sua trasposizione al rapporto tra Dio e l’uomo non può sortire buon esito. Ciò si collega sicuramente al fatto che la nostra immagine di Dio è impallidita, si è avvicinata al deismo. Non ci si può più immaginare che l’errore umano possa ferire Dio e ancor meno che debba avere bisogno di una espiazione, simile a quella che costituisce la croce del Cristo. Stessa cosa per la sostituzione vicaria: non possiamo affatto rappresentarci qualche cosa a questo riguardo. La nostra immagine dell’uomo è diventata troppo individualista per questo.

Così la crisi della liturgia ha per base delle concezioni centrali sull’uomo. Per superarla, non è sufficiente banalizzare la liturgia e trasformarla in una semplice riunione o in un pasto fraterno. Ma come uscire da questi disorientamenti? Come ritrovare il senso di questa realtà immensa che è nel cuore del messaggio della Croce e della Resurrezione? In ultima istanza, certamente non attraverso delle teorie e delle riflessioni erudite, ma solo per mezzo della conversione, per mezzo di un radicale cambiamento di vita, al quale possono certamente aprire la strada taluni elementi di discernimento, e vorrei proporre delle indicazioni in questo senso e ciò in tre tappe.

L’amore, cuore del sacrificio

La prima tappa deve essere una questione preliminare alla comprensione essenziale del termine sacrificio. Si considera comunemente il sacrificio come la distruzione di una realtà preziosa agli occhi dell’uomo; distruggendola, egli vuole consacrare questa realtà a Dio, riconoscere la sua sovranità. Tuttavia, una distruzione non onora Dio. Ecatombi di animali o di qualsiasi cosa non possono onorare Dio. "Se avessi fame, a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli nell’Altissimo i tuoi voti" — dice Dio a Israele nel salmo 50 (49), 12-14.

In che cosa consiste allora il sacrificio? Non nella distruzione, ma nella trasformazione dell’uomo. Nel fatto che diventa lui stesso conforme a Dio, e diventa conforme a Dio quando diventa amore. "È per questo che il vero sacrificio è qualsiasi opera che ci permette di unirci a Dio in una santa comunità", dice a proposito Agostino. A partire da questa chiave neotestamentaria, Agostino interpreta i sacrifici veterotestamentari come simboli che significano questo sacrificio propriamente detto, ed per questo, dice, che il culto doveva essere trasformato, il segno doveva scomparire in favore della realtà: "Tutte le prescrizioni divine della Scrittura concernenti i sacrifici del tabernacolo o del tempio, sono delle figure che si riferiscono all’amore di Dio e del prossimo" (La Città di Dio, X, 5).

Ma Agostino sa anche che l’amore diventa vero solo quando conduce l’uomo a Dio e così lo indirizza verso il suo vero fine; solo qui si può verificare l’unità degli uomini tra loro. Così il concetto di sacrificio rinvia alla comunità e la prima definizione tentata da Agostino si trova, a partire da questo momento, ampliata dal seguente enunciato: "Tutta la comunità umana riscattata, cioè l’unione e la comunità dei santi è offerta a Dio in sacrificio dal Gran Sacerdote che si è offerto lui stesso" (ibid. X, 6). E più semplicemente ancora: "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine, un solo corpo nel Cristo" (ibid. X, 6).

Il "sacrificio" consiste dunque —diciamolo ancora una volta — nella conformazione dell’uomo a Dio nella sua theiosis, direbbero i Padri. Consiste, per esprimersi in termini moderni, nell’abolizione delle differenze, nell’unione tra Dio e l’uomo, tra Dio e la creazione: "Dio tutto in tutti" (1 Cor 15, 28). Ma come ha luogo questo processo che fa sì che diventiamo amore e un solo corpo con il Cristo, che noi diventiamo una sola cosa con Dio, come avviene questa abolizione della differenza? Prima di tutto esiste a questo proposito una netta frontiera tra le religioni fondate sulla fede di Abramo da una parte e dall’altra parte le altre forme di religione come le troviamo in particolare in Asia, ma anche — probabilmente sulla base di tradizioni asiatiche - nel neo-platonismo di impronta plotiniana.

Là l’unione significa liberazione dalla finitezza che si svela infine come apparenza, abolizione dell’io nell’oceano del tutto che, di fronte al nostro mondo di apparenze, e il nulla, tuttavia in verità è il solo vero essere. Nella fede cristiana, che dà compimento alla fede dl Abramo, l’unità è vista in modo completamente diverso: è l’unità dell’amore, nella quale le differenze non sono abolite, ma si trasformano nell’unità superiore degli amanti, quale si trova, come in archetipo, nell’unità trinitaria di Dio. Mentre, per esempio, presso Plotino, il finito è decadenza in rapporto all’unità ed è per così dire il livello del peccato e in quanto tale e al tempo stesso il livello di ogni male, la fede cristiana non vede il finito come una negazione, ma come una creazione, come il frutto di un volere divino, che crea un partner libero, una creatura che non deve essere abolita, ma deve essere compiuta e inserirsi nell’atto libero dell’amore.

La differenza non è abolita, ma diventa la modalità di una superiore unità. Questa filosofia della libertà, che è alla base della fede cristiana e la differenzia dalle religioni asiatiche, include la possibilità della negazione. Il male non è una semplice decadenza dell’essere, ma la conseguenza di una libertà male utilizzata. Il cammino dell’unità, il cammino dell’amore, è perciò un cammino di conversione, un cammino di purificazione, prende la figura della croce, passa attraverso il mistero pasquale, attraverso la morte e la Resurrezione. Ha bisogno di un Mediatore che nella Sua morte e nella Sua Resurrezione diventa per noi la via, ci attira tutti a lui (Gv 12, 32) e ci esaudisce.
Gettiamo un colpo d’occhio addietro.

Nella sua definizione: sacrificio eguale amore, Agostino si appoggia con ragione sul termine presente sotto diverse varianti nell’Antico e nel Nuovo Testamento che egli cita secondo Osea: "Voglio l’amore e non il sacrificio" (6, 6; 5. Agostino, La città di Dio, X, 5). Ma questa affermazione non mette semplicemente una opposizione tra ethos e culto — in questo caso il cristianesimo si ridurrebbe a un moralismo —, rinvia a un processo che è più che la morale, a un processo di cui Dio prende l’iniziativa. Lui solo può avviare nell’uomo il cammino verso l’amore.

È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare tutto questo dicendo "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta" (ibid. X, 6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia.

Il nuovo tempio

Vorrei ora richiamare ancora, in modo molto breve, altre due linee di avvicinamento all’aspetto centrale della questione. A mio avviso, una indicazione importante è data nella scena della purificazione del tempio, in particolare nella forma trasmessa da Giovanni. In realtà Giovanni riferisce una parola di Gesù che nei Sinottici è presente soltanto durante il processo a Gesù sulle labbra di falsi testimoni e in modo deformato. La reazione di Gesù riguardo ai mercanti e ai cambiavalute del tempio era nella pratica un attacco contro le immolazioni di animali che vi erano presentati, dunque un attacco contro la forma esistente del culto del sacrificio in generale.

È questo il motivo per cui le competenti autorità ebraiche gli domandano, con pieno diritto, con quale segno Egli giustifichi una tale azione che equivaleva a un attacco contro la legge di Mosè e le sacre prescrizioni dell’Alleanza. In proposito Gesù risponde: "Distruggete (dissolvete) questo tempio e in tre giorni lo faro risorgere" (Gv 2,19).

Questa sottile formula evoca una visione di cui Giovanni stesso dice che i discepoli non la compresero, se non dopo la Resurrezione, ricordandosi gli eventi, e che ricondusse a credere alle Scritture e alla Parola detta da Gesù (Gv 2, 22). Ora infatti comprendono che al momento della crocifissione di Gesù il tempio è stato abolito: secondo Giovanni, Gesù fu crocifisso esattamente nel momento in cui gli agnelli pasquali venivano immolati nel santuario.

Nel momento in cui il Figlio si consegna in persona come agnello, vale a dire si dona liberamente al Padre e così (pure) a noi, giungono alla fine le antiche prescrizioni del culto, che non potevano essere altro che un segno delle realtà autentiche. Il tempio è distrutto. E ormai il Suo corpo risuscitato — Lui stesso — diventa il vero tempio dell’umanità, nel quale si svolge l’adorazione in Spirito e verità (Gv 4, 23). Ma Spirito e verità non sono concetti filosofici astratti — Lui stesso è la verità, e lo Spirito è lo Spirito Santo che da Lui procede.

In tal modo, anche qui appare con chiarezza che il culto non è sostituito dalla morale, ma che il culto antico giunge alla fine, con le sue sostituzioni e i suoi malintesi, spesso tragici, perché la realtà stessa, il nuovo tempio, si manifesta: il Cristo risuscitato che ci attiva, ci trasforma e ci unisce a Lui. Ed è di nuovo chiaro che l’Eucaristia della Chiesa — per parlare con Agostino — è sacramentum del vero sacrificium — segno sacro nel quale si produce ciò che è significato.

Il sacrificio spirituale

Infine vorrei segnalare molto brevemente una terza via secondo la quale è progressivamente diventato più chiaro il passaggio dal culto di sostituzione, quello della immolazione di animali, al vero sacrificio — alla comunione, alla offerta del Cristo. Presso i profeti pre-esilici c’era stata contro il culto del tempio una critica estremamente dura, che Stefano, con stupito terrore dei dottori e dei sacerdoti del tempio, riprese nel suo grande discorso. segnatamente questo versetto di Amos: "Mi avete forse offerto vittime e sacrifici per quarant’anni ne! deserto, o casa di Israele? Avete preso con voi la tenda di Moloc e la stella del dio Refan, simulacri che vi siete fabbricati per adorarli" (5,25, At 7,42).

La critica dei profeti fu il presupposto interno che per mise ad Israele di attraversare la prova della distruzione del tempio, dell’epoca senza culto. Allora ci si trovò nella necessità di mettere in luce in modo più profondo e nuovo che cosa è il culto, l’espiazione, il sacrificio. Al tempo della dittatura ellenistica, in cui Israele fu di nuovo senza tempio e senza sacrificio, il libro di Daniele ci ha trasmesso questa preghiera: "Ora, Signore, noi siamo diventati più piccoli dl qualunque altra nazione.., ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti dl montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a Te e ti sia gradito, perché non c’è delusione per coloro che confidano in te. Ora ti seguiamo con tutto i! cuore, ti temiamo e cerchiamo il Tuo volto" (Dn, 37-41).

Così lentamente maturò la scoperta che la preghiera, la parola, l’uomo che prega e diviene lui stesso parola è il vero sacrificio. A questo proposito la lotta di Israele poté entrare in fecondo contatto con la ricerca del mondo ellenistico: anche esso cercava il ripiego per uscire dal culto di sostituzione delle immolazioni di animali, per arrivare a un culto propriamente detto, alla vera adorazione. In questa prospettiva è maturata l’idea della loghikè tysia — del sacrificio consistente nella parola che noi incontriamo nel Nuovo Testamento in Romani 12,1, dove l’apostolo esorta i credenti ad offrire se stessi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio.






Ratzigirl
00venerdì 29 luglio 2005 15:39
Intervista del 2000 con vescovi e cardinali al congresso Ecumenico
La sorpresa di un incontro

Ratzinger al Seminario dei vescovi sui movimenti: due ore di domande. L'avvenimento cristiano di fronte alle sfide del mondo contemporaneo. Appunti delle risposte del Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede è stato protagonista per due ore di un vivace dibattito nel tardo pomeriggio del 16 maggio, al Seminario organizzato dal Pontificio Consiglio per i laici su: "Movimenti ecclesiali e nuove comunità nella sollecitudine pastorale dei vescovi", in corso a Roma fino a sabato 22 maggio, a un anno dall'incontro del Papa coi movimenti che radunò mezzo milione di persone. Il cardinale Ratzinger ha risposto a domande che gli sono state rivolte da un'assemblea di oltre cento vescovi e cardinali di tutto il mondo. Eccone una sintesi.

Provocato da S.E. monsignor Stanislaw Rylko (segretario del Consiglio per i laici) circa la sua personale esperienza con i movimenti, Ratzinger ha ricordato che i suoi primi contatti risalgono alla metà degli anni '60. Ha parlato dell'incontro coi Neocatecumenali che rimettevano al centro il "Battesimo, il sacramento assai dimenticato nella Chiesa, mentre è il fondamento della nostra fede, in un tempo in cui la famiglia e la scuola sono sempre meno una iniziazione alla fede"; e di come alla fine degli anni '60 abbia conosciuto Comunione e Liberazione: "Abbiamo trovato don Giussani e i suoi nelle università; nell'epoca della rivoluzione marxista non rispondevano in forma reattiva o con un atteggiamento conservatore, ma con una rivoluzione più fresca e più radicale, quella della fede cristiana"; e ancora dell'incontro col Rinnovamento nello Spirito: "Ho così avuto la gioia e la grazia di vedere giovani cristiani toccati dalla forza dello Spirito Santo". "In un momento di fatica nel quale si parlava di "inverno della Chiesa", lo Spirito Santo creava una nuova primavera. Era una risposta anche di fronte a due esperienze negative vissute in Germania: nel mondo accademico, dove la teologia si allontanava sempre più da una fede entusiasta, per essere totalmente uguale alle altre discipline, diventando così "freddamente scientifica", ridotta a fenomeno di oppressione della fede da parte di una ragione unilaterale; e una crescente burocratizzazione della Chiesa".
Il dialogo è, poi, proseguito con le domande dei vescovi.

Si va verso una istituzionalizzazione dei movimenti?

Questo è accaduto anche in passato. Pensiamo al monachesimo o al francescanesimo. Una certa struttura è essenziale per un effetto più ordinato e una integrazione nella vita della Chiesa. Ma bisogna stare attenti che l'istituzionalizzazione non diventi una corazza sulla vita; occorre che l'elemento istituzionale non spenga lo Spirito.

Che relazione c'è tra la dimensione istituzionale e quella carismatica?
I vescovi non sono solo istituzione. Senza la dimensione carismatica non si può essere buon vescovo. Sono essi che hanno la grazia per discernere i carismi autentici. L'ultimo giudizio è quello del vescovo, nella comunione con il corpo episcopale e con il Santo Padre. Ma si suppone che il vescovo senta la responsabilità di non spegnere lo Spirito, ma abbia il discernimento. E il suo compito è di discernere e aiutare i movimenti a purificare quanto è necessario. Perché se la fonte è lo Spirito Santo, poi le concretizzazioni sono umane, comportano l'elemento umano. I vescovi hanno dunque il compito di discernere per aiutare i movimenti a trovare la strada giusta per la pacifica unità e di aiutare i parroci ad aprirsi, a lasciarsi sorprendere da queste forme suscitate dallo Spirito.

E che rapporto tra parrocchie e movimenti, tra parrocchie e comunità di persone?

Occorre salvaguardare l'unità dei fedeli che sono una sola Chiesa e non molte Chiese. È molto importante tenere viva la coscienza di essere parte di un'unica Chiesa, cosicché i fenomeni che sorgono siano al servizio dell'unica Chiesa in cui trovano spazio tutti. Il cristianesimo non è un gruppo di amici che si separano, ma uomini trovati dal Signore: cioè fratelli. Accettare i fratelli perché uniti dall'unica fede, anche se non piacciono, è elementare.

Quarant'anni fa esisteva una cultura cattolica che sosteneva la fede, ma ora è stata distrutta. Che cosa fare?

Dopo il '68 c'è stata un'esplosione di secolarismo che ha radicalizzato un processo in corso da duecento anni: il fondamento cristiano è diminuito. Pensiamo al fatto che fino a quarant'anni fa era impensabile una legislazione che trattasse un'unione omosessuale quasi come un matrimonio. Ora dobbiamo riformulare le nostre ragioni per arrivare di nuovo alla coscienza dell'uomo di oggi e dobbiamo accettare un conflitto di valori per cui dobbiamo difendere l'uomo, non solo la Chiesa, come ha scritto il Papa in molte sue encicliche. Di fronte alla secolarizzazione, per essere contemporanei all'uomo d'oggi non bisogna tuttavia perdere la contemporaneità con la Chiesa di tutti i tempi. Per questo occorre avere una identità di fede molto chiara, ispirata da una gioiosa esperienza della verità di Dio. E così torniamo ai movimenti, che offrono questa gioiosa esperienza. I movimenti hanno questa specificità: in questa società di massa, aiutano a trovare, in una Chiesa che può apparire come una grande organizzazione internazionale, una casa dove si trova la familiarità della famiglia di Dio e nello stesso tempo si rimane nella grande famiglia universale dei santi di tutti i tempi. Nel nostro tempo notiamo una certa prevalenza di spirito protestante in senso culturale, perché la protesta contro il passato sembra essere moderna e rispondere meglio al presente. Per questo, da parte nostra, occorre fare vedere che il cattolicesimo porta l'eredità del passato per il futuro, anche se lo fa controcorrente in questi tempi.

E quando, come è accaduto in America Latina, la teologia era più importante della fede e la militanza politica era più forte dell'esperienza della contemporaneità di Cristo?

Se non si considerano più come una realtà Dio e quindi la fede, si riduce la vita umana, creando odio e contrapposizione. Quando viene scartato Dio, viene amputato l'uomo. Se ritroviamo una vera fede che è l'incontro con Dio, tutto è ispirato da questo centro vivo e provoca anche l'impegno sociale, fa opera sociale.

Quale presenza dello Spirito fuori della Chiesa?

Ne parla il Concilio e anche i Padri della Chiesa. Vediamo che fuori della Chiesa Dio non è assente. Dio non dimentica nessun luogo, nessuna cultura. Vediamo che rinasce il senso di Dio, della responsabilità dell'altro, l'amore dell'altro. Nelle religioni questi elementi sono presenti. Nel cristianesimo abbiamo la pienezza degli elementi della fede, ma non esclude che elementi importanti siano presenti altrove. C'è un'apertura del cuore umano. Come vescovi dobbiamo impegnarci a non mostrare solo il lato giuridico istituzionale, ma anche il lato del mistero che continua l'umiltà del Signore che si degna di essere presente come voce viva, presenza viva. Nel mondo c'è desiderio di una voce che non parli per sé, ma in nome della fede in Dio, che obbedisca alla presenza di Dio nel mondo: il Papa è questo, continua l'umiltà del Signore che parla con strumenti, come siamo noi, che possono essere inadeguati.

E l'annuncio cristiano in Paesi dove può provocare guerre di religione o violenze?

Dobbiamo testimoniare il Signore Redentore che vince solo per la forza della convinzione provocata da una testimonianza.

Il 30 maggio 1998 si è conclusa la prima fase della storia dei movimenti, quella in cui si trattava di fare spazio ad essi da parte della realtà istituzionale della Chiesa. Ora siamo nella seconda fase, quella del riconoscimento dell'unità sostanziale delle realtà carismatiche e dell'istituzione; quando il Papa dice che "la Chiesa stessa è movimento", che cosa vuol dire per noi vescovi?

Il vescovo diventa meno monarca e più pastore di un gregge; sta faccia a faccia col gregge ed è pellegrino coi pellegrini, come diceva sant'Agostino: siamo tutti discepoli alla scuola di Cristo. Pur rimanendo rappresentante del sacramento, il vescovo diventa più un fratello in una scuola in cui c'è un solo padre e un solo maestro. Garantisce che la Chiesa non è un mercato, ma una famiglia. Identifica la Chiesa particolare e la Chiesa universale. Non è la fonte del diritto e della legge, ma agisce come guida e come testimonianza di unità nel contesto della familiarità della Chiesa con un solo maestro. Occorre perciò evitare il pericolo di una sovraistituzionalizzazione: i tanti "Consigli", pur utili, non possono essere come un gruppo di governo che complica la vita dei fedeli e fa perdere il contatto diretto dei pastori con essi. Come mi raccontò un giorno una persona: "Io vorrei parlare col mio parroco, ma mi dicono che è sempre in riunione!". Si deve trovare una collaborazione con tutti i componenti del popolo di Dio, affinché ci sia un'unità più ricca.

La Chiesa sarà sempre più minoranza? E quale l'importanza dei movimenti?

Lo sviluppo degli ultimi cinquant'anni mostra che la religiosità non scompare, perché è un desiderio ineliminabile del cuore dell'uomo. Bisogna, però, che non sia guidato male, perché allora sorgerebbe una patologia religiosa. Per questo abbiamo la responsabilità di offrire la risposta vera, e questa è una responsabilità storica della Chiesa in questo momento in cui la religione può diventare una malattia che non offre il volto di Dio, ma elementi sostitutivi che non guariscono. Anche se minoranza, la priorità per noi è quella dell'annuncio. In Occidente le statistiche parlano di una riduzione del numero dei credenti; viviamo un'apostasia della fede, quasi si dissolve l'identità tra la cultura europea-americana e la cultura cristiana. La sfida oggi è che la fede non si ritiri in gruppi chiusi, ma che illumini tutti e parli a tutti. Pensiamo alla Chiesa dei primi secoli: i cristiani erano pochi, ma hanno suscitato ascolto, perché non erano un gruppo chiuso, ma portavano una sfida generale per tutti che toccava tutti. Anche oggi abbiamo una missione universale: rendere presente la vera risposta all'esigenza di una vita corrispondente al Creatore. Il Vangelo è per tutti e i movimenti possono essere di grande aiuto perché hanno lo slancio missionario degli inizi, pur nella piccolezza dei numeri, e possono incoraggiare la vita del Vangelo nel mondo.

Ratzigirl
00venerdì 29 luglio 2005 20:44
Il testo integrale dell'incontro con il clero della diocesi di Aosta
Benedetto XVI ha incontrato in mattinata il clero della diocesi di Aosta. Dopo il saluto iniziale del Vescovo diocesano Mons. Giuseppe Anfossi l'incontro è proseguito con il canto dell'Ora Terza. Al termine della preghiera il Santo Padre ha affrontato alcuni temi proposti dal Vescovo Anfossi e dai sacerdoti presenti. Ecco il testo pronunciato a braccio da Benedetto XVI:

Clicca QUI per leggerlo!!
Ratzigirl
00martedì 4 ottobre 2005 22:45
Ratzinger: dopo l’11 setembre ripartire dal Decalogo
Intervista del 2002


Dopo l'11 settembre, è proprio l'essenzialità del Decalogo che si propone come passaggio obbligato. Per le grandi religioni, ma anche per le grandi culture. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede non ha dubbi. “Il Decalogo non è una proprietà privata dei cristiani o degli ebrei - dice intervenendo alle Giornate internazionali del pensiero filosofico promosse a Trieste dalla Fondazione Liberal, che gli ha anche assegnato il premio Liberal Trieste 2002 -, è un'altissima espressione di ragione morale, che come tale si incontra largamente anche con la sapienza delle altre grandi culture. Riferirsi nuovamente al decalogo potrebbe essere essenziale proprio per il risanamento della ragione”.

Ma il rapporto tra islam e cristianesimo, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, è irrimediabilmente guastato, oppure può essere recuperato?
Dall'11 settembre all'Iraq. “E' importa nte non attribuire semplicisticamente quanto è accaduto l'11 settembre all'islamismo - risponde il cardinale ai giornalisti -. Sarebbe un grande errore. E' vero, nella storia dell'islamismo c'è anche una tendenza verso la violenza, ma ci sono pure altri aspetti: una vera realtà di apertura alla volontà di Dio. E' quindi importante aiutare affinché nel mondo islamico prevalga la linea positiva che pure esiste nella sua storia. E che abbia la forza sufficiente per prevalere sull'altra linea”.

Ma la ventilata guerra contro l'Iraq può compromettere gli sforzi che si stanno compiendo in questa direzione? Ratzinger risponde ai giornalisti che le questioni politiche non sono di sua competenza, però le sue idee le esprime con puntualità. Questa guerra - gli viene chiesto - trova una giustificazione morale?.

“In questa situazione certamente no”, risponde il cardinale. 1;Ci sono le Nazioni Unite. Sono loro l'istanza che dovrebbe fare la scelta decisiva. E' necessario che a decidere sia la comunità dei popoli, non un singolo potere. E il fatto che le Nazioni Unite cerchino il modo di evitare la guerra mi sembra dimostri con sufficiente evidenza che i danni risulterebbero più grandi dei valori che si vuole salvare”. Il porporato non si nasconde che “l'Onu può essere criticata”, sotto vari punti di vista, ma - puntualizza - “è lo strumento creato dopo la guerra per un coordinamento anche morale della politica”.

I giornalisti insistono e chiedono al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede se il catechismo della Chiesa consente, in casi eccezionali, la "guerra preventiva".

“Il concetto di guerra preventiva non appare nel catechismo”, precisa Ratzinger, che aggiunge, per chiarire: “Non si può semplicemente dire che il Catechismo non legittima la guerra, ma è vero che il Catechismo ha sviluppato una dottrina tale che da una parte non si esclude che ci siano dei valori e delle popolazioni da difendere, in talune circostanze, e dall'altra propone una dottrina molto precisa sui limiti di queste possibilità”.

Il crocifisso in aula.

“E' una cattiva comprensione del "segno" del Crocifisso. Il "segno" del Dio che ha compassione dell'uomo, che accetta la sua debolezza, apre l'uno all'altro, crea la relazione della fraternità. Sarebbe quindi necessario far capire meglio ai nostri concittadini islamici che cosa dice questo segno nel quale si è radicata la nostra cultura”. Ratzinger aggiunge, al riguardo, un significativo ricordo. “Rammento benissimo che negli anni '30, in Germania, i nazisti volevano togliere dalle scuole le croci. E proprio qui si manifestò una vera resistenza dei laici: proprio perché la croce era la test imonianza che garantiva la dignità umana”.

Libertà di deridere?

Spiegando tutta una serie di "punti oscuri" nell'esercizio dei diritti, Ratzinger coglie l'opportunità del suo intervento alla Fondazione Liberal per denunciare “la libertà di deridere ciò che è sacro per altri”. “Grazie a Dio, presso di noi nessuno si può permettere di deridere ciò che è sacro per un ebreo o per un musulmano. Ma si annovera fra i diritti di libertà fondamentali il diritto di dileggiare e di coprire di ridicolo ciò che è sacro per i cristiani”.

Vanno altresì affrontati e risolti altri nodi essenziali che restano controversi, per quanto riguarda appunto l'esercizio del diritto alla libertà.
Diritto alla vita.
Ratzinger pone, in testa alle emergenze “il diritto alla vita per ciascuno, che sia un essere umano” e “la inviolabilità grave; della vita umana in tutte le sue fasi”. “Laddove - aggiunge - esperimenti umani con embrioni vengono reclamati in nome della scienza, la dignità dell'uomo viene negata e calpestata nell'essere più indifeso”. Per cui “si deve dare spazio alla smitizzazione dei concetti di libertà e di scienza - asserisce il porporato, che nell'intervento al convegno ha sviluppato il tema "Visioni politiche e prassi della politica" -, se non vogliamo perdere i fondamenti di ogni diritto, il rispetto dell'uomo e della sua dignità”.

Convenzione europea.

Ai fini della formazione della Carta costituzionale europea, “bisogna prima definire - è il parere di Ratzinger - che cos'è questa Europa. E' solo uno spazio geografico, economico, militare o qualcosa di più?”. Cioè una comunità umana e di valori. Insomma, “è import ante decidere su che cosa si fonda l'identità specifica dell'Europa. Da qui anche la differenza tra Filadelfia e la Rivoluzione francese, tema al centro del convegno”. Ratzinger dice di non avere dubbi: anche il mondo laico “non può separarsi dalla grande storia di valori che comincia a Gerusalemme e continua ad Atene, poi a Roma e va avanti nella storia di questo Continente”.
Francesco Dal Mas sull’Avvenire del 21 settembre
Ratzigirl
00venerdì 7 ottobre 2005 20:56
Benedetto XVI ricorda l’amicizia e il pensiero di Hans Urs von Balthasar, a 100 anni dalla nascita


Con il teologo svizzero aveva dato vita alla rivista teologica “Communio”

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 7 ottobre 2005

A cento anni di distanza dalla nascita di Hans Urs von Balthasar (1905-1988), Benedetto XVI in un messaggio pubblicato questo venerdì ha ricordato la profonda amicizia che li legava e il comune impegno nella ricerca teologica.

“L'esempio che von Balthasar ci ha lasciato è piuttosto quello di un vero teologo che nella contemplazione aveva scoperto l'azione coerente per la testimonianza cristiana nel mondo”, ha scritto il Pontefice.

Questo in sostanza il nodo centrale della lettera da lui inviata ai partecipanti al Convegno Internazionale di studi sulla figura e il pensiero di Hans Urs von Balthasar dal titolo “Solo l’amore è credibile”, in corso di svolgimento a Roma, presso la Pontificia Università Lateranense, e da questa Università organizzato in collaborazione con la Rivista Internazionale “Communio”.

Il Convegno, tenutosi dal 6 al 7 ottobre, si poneva come finalità quella di ripercorrere storicamente il pensiero del teologo svizzero e di approfondire le tematiche centrali della sua teologia fino ad arrivare ad un dibattito che ne abbracciasse complessivamente tutta la produzione.

In un'occasione come questa potrebbe essere facile la tentazione di ritornare ai ricordi personali, sulla base della sincera amicizia che ci legava, e dai numerosi lavori che insieme abbiamo intrapreso, raccogliendo le non poche sfide di quegli anni”, ha ammesso il Papa nel messaggio.

“Posso attestare che la sua vita è stata una genuina ricerca della verità, che egli comprendeva come una ricerca della vera Vita”, ha raccontato.

“Ha cercato le tracce della presenza di Dio e della sua verità ovunque: nella filosofia, nella letteratura, nelle religioni, giungendo sempre a spezzare quei circuiti che tengono spesso la ragione prigioniera di sé e aprendola agli spazi dell'infinito”, ha quindi aggiunto.

Il Vescovo di Roma ha successivamente accennato a quando insieme a von Balthasar ed Henri de Lubac fondò, all'indomani del Concilio Vaticano II, nel 1972, la rivista trimestrale “Communio: International Theological Review”, definendola “il segno più evidente del nostro impegno comune nella ricerca teologica”.

Benedetto XVI è quindi passato ad una breve trattazione del pensiero di von Balthasar che aveva fatto del “mistero dell'Incarnazione l’oggetto privilegiato del suo studio, vedendo nel triduum paschale - come significativamente intitolò uno dei suoi scritti - la forma più espressiva di questo calarsi di Dio nella storia dell’uomo”.

“Nella morte e risurrezione di Gesù, infatti, viene rivelato in pienezza il mistero dell'amore trinitario di Dio. La realtà della fede trova qui la sua bellezza insuperabile”, ha quindi osservato.

“Nel dramma del mistero pasquale, Dio vive pienamente il farsi uomo, ma nel contempo rende significativo l'agire dell'uomo e dà contenuto all'impegno del cristiano nel mondo”, ha detto il Papa.

“In questo von Balthasar vedeva la logica della rivelazione: Dio si fa uomo, perché l'uomo possa vivere la comunione di vita con Dio”. In particolare, secondo il teologo svizzero, “in Cristo viene offerta la verità ultima e definitiva alla domanda di senso che ognuno si pone”.

“Hans Urs von Balthasar è stato un teologo che ha posto la sua ricerca a servizio della Chiesa, perché era convinto che la teologia poteva essere solo connotata dall'ecclesialità”, e doveva essere “coniugata con la spiritualità”, per poter essere “profonda ed efficace”.

“La spiritualità non attenua la carica scientifica, ma imprime allo studio teologico il metodo corretto per poter giungere a una coerente interpretazione”, ha commentato il Papa.

Benedetto XVI ha quindi posto l’accento su un altro dei temi centrali nel pensiero del teologo svizzero individuabile nella “necessità della conversione”: “il cambiamento del cuore era per lui un punto centrale; solo in questo modo, infatti, la mente si libera dai limiti che le impediscono di accedere al mistero e gli occhi diventano capaci di fissare lo sguardo sul volto di Cristo”.

“In una parola, egli aveva profondamente compreso che la teologia può svilupparsi solo con la preghiera che coglie la presenza di Dio e a lui si affida obbedienzialmente”, ha aggiunto.

“E' questa una strada che merita di essere percorsa fino alla fine. Ciò comporta di evitare sentieri unilaterali, che possono solo allontanare dalla meta, ed impegna a rifuggire dal seguire mode che frammentano l'interesse per l'essenziale”, ha poi concluso.

Originario di Basilea, dal 1924 al 1928 Hans Urs von Balthasar compie studi di germanistica e filosofia fra Zurigo, Vienna e Berlino, prima di entrare nella Compagnia di Gesù a Ferldkirch come postulatore della provincia tedesca orientale.

Nel 1936 riceve l’ordinazione sacerdotale nella St. Michaelskirche di Monaco dal Cardinale Michael Faulhaber, Arcivescovo di Monaco e di Frisinga, lo stesso anziano porporato che ordinò sacerdote Joseph Ratzinger, e di cui egli nella sua autobiografia “La mia vita” ricorda le sofferenze patite nel nazismo che sembravano conferirgli un certo “invisibile alone di dignità”.

Nel 1969 diviene membro della Commissione Internazionale di Teologia, mentre il 25 agosto 1988 viene nominato Cardinale da Papa Giovanni Paolo II.

Ratzigirl
00venerdì 2 dicembre 2005 00:09
Intervista al Card. Ratzinger in occasione del 20esimo anno alla Congregazione
Ratzinger/1
Vent’anni alla Congregazione per
la dottrina della fede

Il 25 novembre è scoccato il ventesimo anniversario della nomina del cardinale Joseph Ratzinger alla Congregazione per la dottrina della fede. Quasi in corrispondenza di quella data, il 18 novembre, la Radio Vaticana ha mandato in onda una intervista in cui il porporato, su richiesta della giornalista, fornisce questo sintetico profilo di sé: «È impossibile un autoritratto; è difficile giudicare se stessi. Io posso soltanto dire che vengo da una famiglia molto semplice, molto umile, e perciò non mi sento tanto cardinale, mi sento un uomo semplice. In Germania ho casa in un piccolo paese con persone che lavorano nell’agricoltura, nell’artigianato e lì mi sento nel mio ambiente. Nello stesso tempo cerco di essere così anche nel mio ufficio; se vi riesco, non oso io giudicare me stesso. Io ricordo sempre con grande affetto la profonda bontà di mio padre e di mia madre e naturalmente per me bontà implica anche la capacità di dire “no”, perché una bontà che lascia correre tutto non fa bene all’altro, qualche volta la forma della bontà può essere anche dire “no” e rischiare così anche la contraddizione. Questi sono i miei criteri, questa la mia origine; altro dovrebbero dirlo gli altri».
Ratzigirl
00sabato 3 dicembre 2005 18:56
Cardinal Ratzinger su Papa Luciani


Ratzinger: «Spero che papa Luciani sia presto beato»

Da Belluno. «Io prego ogni giorno per questa beatificazione. Papa Luciani è un esempio per tutti», ammette il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della congregazione per la dottrina della fede. «È una figura che ho molto amato», confessa. Per presentare il suo libro «Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo» Ratzinger ha scelto, ai piedi delle Dolomiti, il Centro papa Luciani di Col Cumano.
Si tratta del cuore delle iniziative per la causa di canonizzazione, aperta esattamente un anno fa dall'allora vescovo monsignor Vincenzo Savio. «Di Luciani mi hanno impressionato la bontà e la grande umiltà. Ricordo quando ero giovanissimo arcivescovo di Monaco - ha raccontato il prefetto delle Congregazione per la dottrina della fede - e Luciani venne a trovarmi, con molta semplicità, a Bressanone, dove trascorrevo un breve periodo di vacanza. La sua bontà di cuore mi ha fatto grande impressione. Una bontà e un'umiltà, però, che non volevano dire debolezza. Luciani era un uomo di grande fede, di grande cultura. Il suo libro "Illustrissimi" dimostra quanto ha letto, quanto ha riflettuto. Luciani ha avuto anche una buona cultura teologica; la sua tesi di laurea l'ha fatta su Rosmini. Parlando con lui - ha concluso il porporato -, si percepiva quant'era un uomo essenziale. Che andava sul semplice, ma non era affatto un semplicista. Aveva una forte cultura e una fermezza dottrinale».

Ratzinger ne fa memoria anche nella cattedrale di Belluno, dove ha concelebrato una Messa in latino. E dove ha sottolineato la forza della preghiera. In particolare della preghiera per la giustizia nel mondo. «Noi pensiamo - spiegherà poi ai giornalisti - che la preghiera sia una cosa intimistica. Non crediamo più tanto, almeno mi sembra, all'effetto reale, storico della preghiera. Dobbiamo invece convincerci e imparare che questo impegno spirituale, che collega cielo e terra, ha una forza interna. E un mezzo per arrivare all'affermazione della giustizia è di impegnarsi a pregare, perché in questo modo diventa un'educazione mia e dell'altro per la giustizia. Dobbiamo, insomma, reimparare il senso sociale della preghiera».
La forza della preghiera - gli verrà anche chiesto, pensando all'Iraq - è più pacificatrice di quella delle armi? «Sì, direi che è la forza che abbiamo noi - ha notato Ratzinger -, perché vediamo che anche con le armi più forti non si può spegnere la fiamma del terrorismo. Violenza crea violenza. Certo, una difesa è necessaria, ma solo con la controviolenza non possiamo spegnere queste fiamme. Abbiamo bisogno di una forza spirituale che nasce proprio dalla preghiera». La preghiera e, magari, anche il digiuno. Il digiuno perché - spiega il cardinale, rispondendo ad una domanda sul ramadam - «può educare alla libertà di se stessi».
La disponibilità di Ratzinger sospinge i giornalisti su altre frontiere di riflessione. Come la Carta costituzionale europea che non riconosce le radici cristiane del continente. «In numerosi Paesi ci saranno i referendum. Vedremo che cosa dirà il popolo. In ogni caso - precisa il cardinale - mi sembra che non dovremo considerare rimosso questo problema, perché non si tratta di una questione marginale, solo un ornamento, ma si tratta della definizione della nostra identità. L'Europa non può essere soltanto una comunità di interessi e di strategie, o di commercio. Abbiamo bisogno di un'identità più profonda. E questa identità esige una definizione».
Ratzigirl
00domenica 11 dicembre 2005 13:57
In esclusiva per il quotidiano "La Provincia",
(da "La Provincia")



Il Cardinale Joseph Ratzinger ha risposto ad alcune nostre domande, durante la sua breve visita, pomeriggio di sabato 17 aprile, nella terra del Dottore Angelico.

Ricordiamo che l'Eminente Reverendissimo Cardinale Joseph Ratzinger, è decano del Collegio Cardinalizio, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Pontificia Commissione Teologica Internazionale.
D: Eminenza, quali sono, secondo Lei, le insidie che incontra la Fede, in particolar modo per i giovani?

R: "L'insidia primaria è il materialismo. Si vive di apparenze, Dio appare così lontano, si sente che la scienza non potrebbe trovare Dio, forte è l'agnosticismo. Una vita di cose materiali, secondo i modelli presentati dalla televisione. Più profondamente, direi una delle insidie per la Fede è il relativismo. Pensare che tutte le religioni sono uguali, noi cristiani ne abbiamo una, gli altri hanno la propria. Così si perde il senso della Verità, non bisogna considerare tutto come una tradizione. Superficialità nel modo di vivere, e più profondamente pensare che la Verità non la possiamo vedere, son tutte tradizioni e qualche volta può anche esser bello avere delle tradizioni, ma non può essere determinante per la mia vita."

D: In questi momenti così tristi, per le vicende internazionali, il Santo Padre nel messaggio "Urbi et Orbi" pasquale ha invitato le religioni ad essere unite contro il terrorismo. Lei Eminenza come vede questo dialogo interreligioso ed in particolare con l'Islam?

R: "La nostra posizione è contro il relativismo, come se tutto fosse uguale. Dall'altra parte implica il rispetto per l'altro e il comune impegno per la pace. Questo è importante, Dio non può dividere. Dio non può leggittimare l'opposizione e l'odio. Dio è il Creatore di tutti e seppur con le differenze delle religioni, tutti dobbiamo rispettare Dio, nel senso di comune impegno e responsabilità per la dignità umana, per il rispetto della vita, e per l'impegno contro la violenza e l'odio. Il dialogo interreligioso ha soprattutto questo scopo: favorire il rispetto reciproco, una maggiore conoscenza di Dio per capire. Il Dio vero non può essere la realtà che ci separa. Il Dio vero non può essere promotore di odio, il Dio vero deve essere di pace. Siamo nella strada verso Dio soltanto se ci impegniamo per la pace, per il rispetto reciproco."

D: Eminenza, Lei conosce da vicino il Santo Padre. Cosa ha donato al mondo questo lungo pontificato?
R: "Ha donato il senso di Dio. Dio è vicino e vincente. Non posso dimenticare mai il primo suo discorso in piazza S. Pietro. "Aprite le porte a Cristo, non abbiate paura del Signore. Cristo non toglie niente, Cristo è pienezza della vita". Ma il Santo Padre ha donato al mondo anche la speranza a tutti che la vita non è vuota, impegnarsi per i valori grandi dell'umanità, una cosa non solo necessaria, ma da pienezza alla nostra vita. L'apertura a Dio, questa sua vicinanza al Signore lo ha aiutato a cercare la pace. Certo questa situazione terribile nel mondo, lascia molto perplessi, ma ci sono venti di pace, hanno sempre avuto un grande approccio nel messaggio del Santo Padre. E' importante sapere che egli è un uomo di profonda fede, un uomo di preghiera, chi ha partecipato alle sue Sante Messe, ha visto come egli è immerso in Dio. Un uomo che conosce Cristo di vicino, di prima mano, ama moltissimo la Madre del Signore, e cosi vede la tenerezza di Dio negli occhi della Madre. Un uomo fedelissimo ai Sacramenti, ai grandi doni della nostra Fede. Con questa profonda fedeltà, è così aperto, perchè chi è vicino a Gesù non è contrario agli altri, ma trova l'apertura con tutti e l'amore."

D: Eminenza, nei suoi ultimi testi, ed in particolare "In cammino verso Gesù Cristo", non era da dare per scontato la centralità di Cristo nella Fede, anzì Lei invita tutti a riscoprire Gesù Cristo.
R: "Penso che è importante ritrovare la centralità di Cristo. Quanto siamo più vicini a Cristo, quanto più siamo vicini all'amore di Dio e capaci di essere pacificatori nella Terra. Questa fobia di Cristo che esiste un pò perchè così si pensa di poterci separarci dai musulmani, dai budisti e dagli altri, è un grande errore. Perdere il centro della nostra Fede, perdere questa faccia di Dio nel cuore trafitto di Cristo ci allontana da Dio, ci allontana dai fondamenti della nostra Speranza e non ci aiuta nell'impegno per l'umanità e la pacificazione."

D: Eminenza, quale è il ruolo di Maria nella fede dei cristiani oggi?
R: "Si adesso che anche i nostri fratelli protestanti nel mondo hanno riscoperto il ruolo e l'importanza della donna, sarebbe veramente una lacuna incomprensibile se nella fede cristiana la donna non avesse un posto molto importante nella società. La realtà è che Dio ha scelto una Donna per farsi Uomo, una donna come la sua dimora vivente, come il suo tempio vivente, come l'espressione della sua tenerezza. Maria sta nel cuore della nostra fede. Possiamo così rispondere anche ai femminismi sbagliati soltanto se vediamo la vera figura della donna nella sua grande altezza, nella sua vicinanza a noi tutti. In questo tempo di violenza, materialismo, tecnocrazia, è in pericolo perdere il cuore. Tecnocrazia è un mascolismo triste, in questo contesto è molto importante vedere la figura di Maria, come Madre di Dio, Madre del Signore, che è totalmente Uomo, ma Maria è anche portatrice della presenza di Dio nel Mondo. In quest'ora mariana, ne abbiamo tanto bisogno."
emma3
00domenica 11 dicembre 2005 21:51
I ricordi dell’attuale Pontefice sul Concilio
(da Repubblica 13 maggio 2005- Tratto da un’intervista di Chessa e Villari per Raisat Extra, da cui sono stati tratti gli stralci trasmessi dopo la messa dell’Immacolata


Al momento del Concilio ero un giovane professore all’Università di Bonn: l’Arcivescovo competente per questa Università era il Cardinale Frings di Colonia. Avevo tenuto una conferenza sulla teologia del Concilio alla quale assisteva il Cardinale, che la apprezzò e mi invitò ad accompagnarlo al Concilio. In precedenza, Frings mi aveva già chiesto di preparargli un discorso da tenere, su invito del cardinale Siri, a Genova, sui problemi da trattare nel Concilio: questa conferenza, che poteva apparire forse rivoluzionaria no, ma certo un po’ audace, piacque moltissimo a Papa Giovanni XXIII che, abbracciando Frings, gli disse: “Proprio queste erano le mie intenzioni nell’indire il Concilio”.
Vedere la Chiesa viva, tremila vescovi presenti, è un avvenimento eccezionale: raramente nella storia la si può vedere così, toccarla nella sua universalità e in un momento di grande realizzazione della sua stessa missione.
La vita romana. Abitavo col Cardinale nel Collegio dell’Anima, in via della Pace: era un’istituzione austriaca dall’atmosfera simpatica. Il Cardinale aveva riunito tutti i vescovi di lingua tedesca nella sala del Collegio ed io ero incaricato di tenere loro una conferenza e di introdurre tutto l’episcopato di lingua tedesca al lavoro del Concilio. Per un giovanissimo professore – avevo 32 anni e avevo appena cominciato ad insegnare all’Università – si trattava di una cosa veramente impressionante, in un certo senso anche pesante: la responsabilità di tracciare la pista che i vescovi tedeschi avrebbero preso era sensibilmente sulle mie spalle. Da una parte c’era quindi grande gioia nel partecipare realmente ai lavori del Concilio, dall’altra sentivo una grande responsabilità davanti a Dio e davanti alla storia.
Il Concilio era per me, anche personalmente, un avvenimento storico: mi trovavo insieme con tante persone conosciute solo attraverso i libri. Per un giovane professore che aveva vissuto fino al allora nel suo mondo accademico, anche partecipare alla vita romana, era una realtà del tutto nuova. Nel Collegio dell’Anima si vedeva il mondo, si sentivano soprattutto i rumori della vecchia Roma. Andare al caffè con altri e conoscere la vita romana, talmente diversa dalla mia vita universitaria, suscitò in me un’impressione grandissima che ha marcato la mia vita.
La morte di Giovanni XXIII. Durante il Concilio morì Papa Giovanni: mi ricordo della grande tristezza che ci fu in Germania. La Germania è di solito un paese non vicino ai papi, eppure tutti soffrirono per il Papa morente, che era amato moltissimo. Fu incredibile vedere come questa persona avesse unito tutti in un amore straordinario, avvicinandoli al papato.
E poi, naturalmente, c’era la questione del successore. Essendo solo professore, non partecipai al conclave e, in quel momento, neppure parlai col Cardinale Frings. Noi pensavamo che l’Arcivescovo di Milano avrebbe dovuto essere il successore: era conosciuto già quando era Sostituto della Segreteria di Stato qui a Roma, così che già nel 58, quando morì Papa pio XII, avevamo detto: “Peccato che questo Montini non sia Cardinale, dovrebbe essere il papa futuro”.
Non fu quindi una sorpresa quando venimmo a sapere che l’Arcivescovo Montini era stato eletto Papa. Era per noi il garante della continuità del Concilio, nello spirito di Papa Giovanni. E Papa Giovanni stesso aveva fatto capire che desiderava l’Arcivescovo di Milano come suo successore. Fu accolto senza difficoltà, anzi, come un portatore di speranza.
Roncalli e Montini, simili e diversi. Il Concilio fu un’esperienza fondamentale anche per il passaggio tra i due papi, realmente consoni nelle loro intenzioni fondamentali, ma con personalità del tutto diverse. Era interessante vedere Papa Giovanni, totalmente carismatico, che viveva dell’ispirazione del momento e della vicinanza al popolo e, dall’altra parte, trovarsi Papa Paolo VI, un’intellettuale che rifletteva su tutto con una serietà incredibile.
Durante il Concilio non ho mai visto l’Arcivescovo di Cracovia: a quel tempo non avevo ancora conosciuto il Cardinale Wojtyla.
Ero seduto nella tribuna dove gli esperti avevano il loro posto, così potevo seguire i lavori conciliari. Nei primi due mesi, tuttavia, non ero ancora perito ufficiale, solo un perito privato del Cardinale. Soltanto in novembre il Papa mi nominò anche perito ufficiale, e da quel momento ho partecipato ufficialmente a tutte le sedute. Era un grande avvenimento vedere tuti gli esperti, grandi personalità che avevo conosciuto attraverso lo studio: De Lubac, Congar e altri grandi nomi.
Era un avvenimento grande anche vedere i rappresentanti delle altre chiese e confessioni cristiane e poi, naturalmente il Papa stesso. Rimane indimenticabile quella famosa sera con la fiaccolata e con la luna, quando il Santo Padre disse alle mamme presenti :“Date un bacio ai bambini, dite che viene dal papa”. Tutto questo era per me un’esperienza anche doppiamente nuova, perché non conoscevo la vita romana…
Discipula
00lunedì 12 dicembre 2005 10:36
Re:

Scritto da: emma3 11/12/2005 21.51
I ricordi dell’attuale Pontefice sul Concilio
(da Repubblica 13 maggio 2005- Tratto da un’intervista di Chessa e Villari per Raisat Extra, da cui sono stati tratti gli stralci trasmessi dopo la messa dell’Immacolata


Al momento del Concilio ero un giovane professore all’Università di Bonn: l’Arcivescovo competente per questa Università era il Cardinale Frings di Colonia. Avevo tenuto una conferenza sulla teologia del Concilio alla quale assisteva il Cardinale, che la apprezzò e mi invitò ad accompagnarlo al Concilio. In precedenza, Frings mi aveva già chiesto di preparargli un discorso da tenere, su invito del cardinale Siri, a Genova, sui problemi da trattare nel Concilio: questa conferenza, che poteva apparire forse rivoluzionaria no, ma certo un po’ audace, piacque moltissimo a Papa Giovanni XXIII che, abbracciando Frings, gli disse: “Proprio queste erano le mie intenzioni nell’indire il Concilio”.
Vedere la Chiesa viva, tremila vescovi presenti, è un avvenimento eccezionale: raramente nella storia la si può vedere così, toccarla nella sua universalità e in un momento di grande realizzazione della sua stessa missione.
La vita romana. Abitavo col Cardinale nel Collegio dell’Anima, in via della Pace: era un’istituzione austriaca dall’atmosfera simpatica. Il Cardinale aveva riunito tutti i vescovi di lingua tedesca nella sala del Collegio ed io ero incaricato di tenere loro una conferenza e di introdurre tutto l’episcopato di lingua tedesca al lavoro del Concilio. Per un giovanissimo professore – avevo 32 anni e avevo appena cominciato ad insegnare all’Università – si trattava di una cosa veramente impressionante, in un certo senso anche pesante: la responsabilità di tracciare la pista che i vescovi tedeschi avrebbero preso era sensibilmente sulle mie spalle. Da una parte c’era quindi grande gioia nel partecipare realmente ai lavori del Concilio, dall’altra sentivo una grande responsabilità davanti a Dio e davanti alla storia.
Il Concilio era per me, anche personalmente, un avvenimento storico: mi trovavo insieme con tante persone conosciute solo attraverso i libri. Per un giovane professore che aveva vissuto fino al allora nel suo mondo accademico, anche partecipare alla vita romana, era una realtà del tutto nuova. Nel Collegio dell’Anima si vedeva il mondo, si sentivano soprattutto i rumori della vecchia Roma. Andare al caffè con altri e conoscere la vita romana, talmente diversa dalla mia vita universitaria, suscitò in me un’impressione grandissima che ha marcato la mia vita.
La morte di Giovanni XXIII. Durante il Concilio morì Papa Giovanni: mi ricordo della grande tristezza che ci fu in Germania. La Germania è di solito un paese non vicino ai papi, eppure tutti soffrirono per il Papa morente, che era amato moltissimo. Fu incredibile vedere come questa persona avesse unito tutti in un amore straordinario, avvicinandoli al papato.
E poi, naturalmente, c’era la questione del successore. Essendo solo professore, non partecipai al conclave e, in quel momento, neppure parlai col Cardinale Frings. Noi pensavamo che l’Arcivescovo di Milano avrebbe dovuto essere il successore: era conosciuto già quando era Sostituto della Segreteria di Stato qui a Roma, così che già nel 58, quando morì Papa pio XII, avevamo detto: “Peccato che questo Montini non sia Cardinale, dovrebbe essere il papa futuro”.
Non fu quindi una sorpresa quando venimmo a sapere che l’Arcivescovo Montini era stato eletto Papa. Era per noi il garante della continuità del Concilio, nello spirito di Papa Giovanni. E Papa Giovanni stesso aveva fatto capire che desiderava l’Arcivescovo di Milano come suo successore. Fu accolto senza difficoltà, anzi, come un portatore di speranza.
Roncalli e Montini, simili e diversi. Il Concilio fu un’esperienza fondamentale anche per il passaggio tra i due papi, realmente consoni nelle loro intenzioni fondamentali, ma con personalità del tutto diverse. Era interessante vedere Papa Giovanni, totalmente carismatico, che viveva dell’ispirazione del momento e della vicinanza al popolo e, dall’altra parte, trovarsi Papa Paolo VI, un’intellettuale che rifletteva su tutto con una serietà incredibile.
Durante il Concilio non ho mai visto l’Arcivescovo di Cracovia: a quel tempo non avevo ancora conosciuto il Cardinale Wojtyla.
Ero seduto nella tribuna dove gli esperti avevano il loro posto, così potevo seguire i lavori conciliari. Nei primi due mesi, tuttavia, non ero ancora perito ufficiale, solo un perito privato del Cardinale. Soltanto in novembre il Papa mi nominò anche perito ufficiale, e da quel momento ho partecipato ufficialmente a tutte le sedute. Era un grande avvenimento vedere tuti gli esperti, grandi personalità che avevo conosciuto attraverso lo studio: De Lubac, Congar e altri grandi nomi.
Era un avvenimento grande anche vedere i rappresentanti delle altre chiese e confessioni cristiane e poi, naturalmente il Papa stesso. Rimane indimenticabile quella famosa sera con la fiaccolata e con la luna, quando il Santo Padre disse alle mamme presenti :“Date un bacio ai bambini, dite che viene dal papa”. Tutto questo era per me un’esperienza anche doppiamente nuova, perché non conoscevo la vita romana…




Grazie, Emma, per aver postato questo testo. Io ho seguito l'intervista alla Tv ed è stato, oltre che interessante, anche molto carino e curioso vedere con quale vivacità nello sguardo il nostro Papa Ratzi rievocava quell'esperienza di vita romana: mi ha dato l'impressione di essere rimasto molto incuriosito e affascinato dall'ambiente della città ... [SM=g27824]

Eheh, il nostro bavarese probabilmente è diventato molto più "romano" di quanto lui stesso creda ...

[SM=x40792] [SM=x40792] [SM=x40792]
Ratzigirl
00sabato 17 dicembre 2005 14:12
San Nicola o Babbo Natale: racconto di Papa Ratzinger (Joseph)
Nel sito di Gabriella (autrice di questo post) un bellissimo racconto fatto da Joseph Ratzinger su San Nicola: davvero illuminante!!!

Grazie!!! [SM=g27822] [SM=g27822] [SM=g27822]


(scrive Gabriella sul blog)

Ho trovato questo scritto, si tratta di una trasmissione alla Radio Bavarese del 6.12.1980, tratta di Babbo Natale, anzi di San Nicola, anzi in tedesco di Weihnachtmann (=notte di natale-uomo), è un racconto interessante e delizioso, ci fa guardare al Papa con gli sereni dei bei momenti natalizi vissuti in Germania, spero che sia bello anche qui a Roma per lui, certamente sarà un tempo veramente nuovo ora che che è il Papa:


"Chi oggi o nel passato abbia percorso le strade della Baviera, ha potuto certamente incontrare spesso un san Nicola, non sempre in vesti tanto confacenti all'abbigliamento di un vescovo, e di sicuro mai senza la lunga barba bianca con cui, del resto, lo si rappresenta già nell'VIII secolo. Più o meno confacente a un vescovo è anche quello che queste raffigurazioni di san Nicola dicono e fanno: spesso giocano a far apaventare i bambini piuttosto che ad attualizzare la carità dei Santi, di cui la leggenda racconta in molti modi.

Chi fu egli esattamente, sotto il profilo storico? La tradizione ha sempre identificato San Nicola con quel vescovo Nicola che partecipò al concilio di Nicea (325 d.C.) e che insieme a quella prima assise episcopale formulò la professione di fede nella piena divinità di Gesù Cristo. Anche su di un altro versante le fonti più antiche su Nicola concordano nella medesima indicazione. Nicola fu uno tra i primi che furono venerati come santi senza essere un martire. Al tempo della persecuzione dei cristiani, erano di per sé diventati grandi testimoni e punti di riferimento per la fede coloro che si erano opposti al potere pagano degli stati e avevano risposto della fede con la loro vita. Una leggenda dei santi dice in proposito, in modo molto bello, che tutti i possibili miracoli li potrebbero imitare anche i maghi e i demoni, così che quei segni restano pur sempre ambigui; mentre invece una cosa sola è del tutto inequivocabile e non permette alcun inganno: essere buoni per tutta la vita; per tutta l'esistenza, vivere la fede nella vita quotidiana e dar prova di carità e di amore.

Gli uomini del IV secolo questo miracolo lo hanno sperimentato con Nicola: tutte le vicende miracolose, che più tandi la leggenda ha elaborato, non sono in fondo se non variazioni di quest'unico fondamentale miracolo, che la gente ha percepito con stupore e gratitudine come la in cui risplende la luce di Cristo. In quest'uomo, essa ha compreso che cos'è la fede nel'incarnazione; in lui, il dogma di Nicea si è per così dire tradotto in realtà vivente, che ciascuno poteva vedere e toccare con mano.

: quest'antica descrizione di san Nicola rientra al tempo stesso nel novero delle più antiche immagini in cui viene raffigurato ciò che l'Avvento significa. Solo nella luce del Dio che si è fatto uomo noi possimao sempre di nuovo accendere la candela dell'umanità, che rischiara l'oscurità del mondo, irradiando speranza e letizia. Questo dovrebbe essere il più profondo messagio che ci raggiunge attraverso tutte le raffigurazioni di San Nicola: accendere alla luce di Cristo la fiamma di un'umanità nuova."

[Modificato da Ratzigirl 17/12/2005 14.13]

Ratzigirl
00giovedì 12 gennaio 2006 23:47
Fede, verità, tolleranza. Un’intervista a Ratzinger


Intervista a cura di Antonio Socci. Il libro: Joseph Ratzinger, “Fede, verità tolleranza. Il cristianesimo e le religioni nel mondo”, Cantagalli, Siena, 2003, pagine 298, euro 17,50



Eminenza, c’è un’idea che si è affermata nella cultura alta e nel pensiero comune secondo cui le religioni sono tutte vie che portano verso lo stesso Dio, quindi l’una vale l’altra. Cosa ne pensa, dal punto di vista teologico?

Direi che anche sul piano empirico, storico, non è vera questa concezione molto comoda per il pensiero di oggi. È un riflesso del relativismo diffuso, ma la realtà non è questa perché le religioni non stanno in un modo statico una accanto all’altra, ma si trovano in un dinamismo storico nel quale diventano anche sfide l’una per l’altra. Alla fine la Verità è una, Dio è uno, perciò tutte queste espressioni, così diverse, nate in vari momenti storici, non sono equivalenti, ma sono un cammino nel quale si pone la domanda: dove andare? Non si può dire che sono vie equivalenti perché sono in un dialogo interiore e naturalmente mi sembra evidente che non possono essere mezzi della salvezza cose contraddittorie: la verità e la menzogna non possono essere allo stesso modo vie della salvezza. Perciò questa idea semplicemente non risponde alla realtà delle religioni e non risponde alla necessità dell’uomo di trovare una risposta coerente alle sue grandi domande.

In diverse religioni si riconosce la straordinarietà della figura di Gesù. Sembra non sia necessario essere cristiani per venerarlo. Dunque non c’è bisogno della Chiesa?

Già nel Vangelo troviamo due posizioni possibili in riferimento a Cristo. Il Signore stesso distingue: che cosa dice la gente e che cosa dite voi. Chiede cosa dicono quelli che Lo conoscono di seconda mano, o in modo storico, letterario, e poi cosa dicono quelli che Lo conoscono da vicino e sono entrati realmente in un incontro vero, hanno esperienza della Sua vera identità. Questa distinzione rimane presente in tutta la storia: c’è una impressione da fuori che ha elementi di verità. Nel Vangelo si vede che alcuni dicono: “è un profeta”. Così come oggi si dice che Gesù è una grossa personalità religiosa o che va annoverato fra gli avataras (le molteplici manifestazioni del divino). Ma quelli che sono entrati in comunione con Gesù riconoscono che è un’altra realtà, è Dio presente in un uomo.

Non è confrontabile con le altre grandi personalità delle religioni?

Sono molto diverse l’una dall’altra. Buddha in sostanza dice: “Dimenticatemi, andate solo sulla strada che ho mostrato”. Maometto afferma: “Il signore Dio mi ha dato queste parole che verbalmente vi trasmetto nel Corano”. E così via. Ma Gesù non rientra in questa categoria di personalità già visibilmente e storicamente diverse. Ancora meno è uno degli avataras, nel senso dei miti della religione induista.

Perché?

È una realtà del tutto diversa. Appartiene ad una storia, che comincia da Abramo, nella quale Dio mostra il suo volto, Dio si rivela come una persona che sa parlare e rispondere, entra nella storia. E questo volto di Dio, di un Dio che è persona e agisce nella storia, trova il suo compimento in quell’istante nel quale Dio stesso, facendosi uomo Lui stesso, entra nel tempo. Quindi, anche storicamente, non si può assimilare Gesù Cristo alle varie personalità religiose o alle visioni mitologiche orientali.

Per la mentalità comune questa “pretesa” della Chiesa - che proclama “Cristo, unica salvezza” - è arroganza dottrinale.

Posso capire i motivi di questa moderna visione la quale si oppone all’unicità di Cristo e comprendo anche una certa modestia di alcuni cattolici per i quali “noi non possiamo dire che abbiamo una cosa migliore che gli altri”. Inoltre c’è anche la ferita del colonialismo, periodo durante il quale alcuni poteri europei hanno strumentalizzato il cristianesimo in funzione del loro potere mondiale. Queste ferite sono rimaste nella coscienza cristiana, ma non devono impedirci di vedere l’essenziale. Perché l’abuso del passato non deve impedire la comprensione retta. Il colonialismo - e il cristianesimo come strumento del potere - è un abuso. Ma il fatto che se ne sia abusato non deve rendere i nostri occhi chiusi di fronte alla realtà dell’unicità di Cristo. Soprattutto dobbiamo riconoscere che il Cristianesimo non è un’invenzione nostra europea, non è un prodotto nostro. È sempre una sfida che viene da fuori dell’Europa: all’origine venne dall’Asia, come sappiamo bene. E si trovò subito in contrasto con la sensibilità dominante. Anche se poi l’Europa è stata cristianizzata è rimasta sempre questa lotta tra le proprie pretese particolari, fra le tendenze europee, e la novità sempre nuova della Parola di Dio che si oppone a questi esclusivismi e apre alla vera universalità. In questo senso, mi sembra dobbiamo riscoprire che il cristianesimo non è una proprietà europea.

Il cristianesimo contrasta anche oggi la tendenza alla chiusura che c’è in Europa?

Il cristianesimo è sempre qualcosa che viene realmente da fuori, da un avvenimento divino che ci trasforma e contesta anche le nostre pretese e i nostri valori. Il Signore cambia sempre le nostre pretese e apre i nostri cuori per la Sua universalità. Mi sembra molto significativo che al momento l’Occidente europeo sia la parte del mondo più opposta al cristianesimo, proprio perché lo spirito europeo si è autonomizzato e non vuole accettare che ci sia una Parola divina che gli mostra una strada che non è sempre comoda.

Riecheggiando Dostoevskij mi chiedo se un uomo moderno può credere, credere veramente che Gesù di Nazaret è Dio fatto uomo. È percepito come assurdo.

Certo, per un uomo moderno è una cosa quasi impensabile, un po’ assurda e facilmente si attribuisce ad un pensiero mitologico di un tempo passato che non è più accettabile. La distanza storica rende tanto più difficile pensare che un individuo vissuto in un tempo lontano possa essere adesso presente, per me, e sia la risposta alle mie domande. Mi sembra importante allora osservare che Cristo non è un individuo del passato lontano da me, ma ha creato una strada di luce che pervade la storia cominciando con i primi martiri, con questi testimoni che trasformano il pensiero umano, vedono la dignità umana dello schiavo, si occupano dei poveri, dei sofferenti e portano così una novità nel mondo anche con la propria sofferenza. Con quei grandi dottori che trasformano la saggezza dei greci, dei latini, in una nuova visione del mondo ispirata proprio da Cristo, che trova in Cristo la luce per interpretare il mondo, con figure come San Francesco d’Assisi, che ha creato il nuovo umanesimo. O figure anche del nostro tempo: pensiamo a Madre Teresa, Massimiliano Kolbe... È un’ininterrotta strada di luce che si fa cammino della storia e una ininterrotta presenza di Cristo e mi sembra che questo fatto - che Cristo non è rimasto nel passato ma è stato sempre contemporaneo con tutte le generazioni ed ha creato una nuova storia, una nuova luce nella storia, nella quale è presente e sempre contemporaneo, fa capire che non si tratta di un qualunque grande della storia, ma di una realtà davvero Altra, che porta sempre luce. Così, associandosi a questa storia, uno entra in un contesto di luce, non si mette in rapporto con una persona lontana, ma con una realtà presente.

Perché, secondo lei, un uomo del 2003 ha bisogno di Cristo?

E’ facile accorgersi che le cose rese disponibili solo da un mondo materiale o anche intellettuale, non rispondono al bisogno più profondo, più radicale che esiste in ogni uomo: perché l’uomo ha il desiderio - come dicono già i Padri - dell’infinito. Mi sembra che proprio il nostro tempo con le sue contraddizioni, le sue disperazioni, il suo massiccio rifugiarsi in scorciatoie come la droga, manifesti visibilmente questa sete dell’infinito e solo un amore infinito che tuttavia entra nella finitudine, e diventa addirittura un uomo come me, è la risposta. È certo un paradosso che Dio, l’immenso, sia entrato nel mondo finito come una persona umana. Ma è proprio la risposta della quale abbiamo bisogno: una risposta infinita che tuttavia si rende accettabile e accessibile, per me, “finendosi” in una persona umana che tuttavia è l’infinito. È la risposta della quale si ha bisogno: si dovrebbe quasi inventare se non esistesse…

C’è una novità nel suo libro a proposito del tema del relativismo. Lei sostiene che nella pratica politica, il relativismo è il benvenuto perché ci vaccina, diciamo, dalla tentazione utopica. È il giudizio che la Chiesa ha sempre dato sulla politica?

Direi proprio di sì. È questa una delle novità essenziali del cristianesimo per la storia. Perché fino a Cristo l’identificazione di religione e stato, divinità e stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo stato. Poi l’islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità. In realtà, da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell’amore che attrae. Egli dice: “attirerò tutti a me”. Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo stato.

Quindi non c’è potere o politica o ideologia che possa rivendicare per sé l’assoluto, la definitività, la perfezione…

Questo è molto importante. Perciò sono stato contrario alla teologia della liberazione, che di nuovo ha trasformato il Vangelo in ricetta politica con l’assolutizzazione di una posizione, per cui solo questa sarebbe la ricetta per liberare e dare progresso… In realtà, il mondo politico è il mondo della nostra ragione pratica dove, con i mezzi della nostra ragione, dobbiamo trovare le strade. Bisogna lasciare proprio alla ragione umana di trovare i mezzi più adatti e non assolutizzare lo stato. I padri hanno pregato per lo stato riconoscendone la necessità, il suo valore, ma non hanno adorato lo stato: mi sembra proprio questa la distinzione decisiva. Ma questo è uno straordinario punto d’incontro tra pensiero cristiano e cultura liberal-democratica. Io penso che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando pure una nuova libertà. Lo stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal democratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa.

I sistemi comunisti europei sono crollati. Ma lei, nel suo libro, non esclude che il pensiero marxista possa comunque ripresentarsi in altre forme nei prossimi tempi.

È una mia ipotesi, ma mi sembra cominci già a verificarsi perché il puro relativismo che non conosce valori etici fondanti e quindi non conosce realmente neanche un perché della vita umana, anche della vita politica, non è sufficiente. Perciò per un non credente che non riconosce la trascendenza, resta questo grande desiderio di trovare qualcosa di assoluto ed un senso morale del suo agire.

I sommovimenti noglobal di questi anni sono di nuovo una trasposizione della sete d’assoluto in un obiettivo politico?

Direi di sì. È sempre questa sete, perché l’uomo ha bisogno dell’assoluto e se non lo trova in Dio lo crea nella storia.

Sempre a proposito del tema del relativismo. Tutti gli usi e i costumi e le civiltà debbono comunque essere sempre rispettate a priori oppure c’è un canone minimo di diritti e doveri che deve valere per tutti?

Ecco, questo è l’ altro aspetto della medaglia. Prima abbiamo constatato che la politica è il mondo dell’opinabile, del perfettibile, dove si devono cercare con le forze della ragione le strade migliori, senza assolutizzare un partito o una ricetta. Tuttavia è anche un campo etico, la politica, perciò non può alla fine comportare un relativismo totale dove, per esempio, uccidere e creare pace hanno la stessa legittimità. Abbiamo in diversi documenti della nostra Congregazione sottolineato questo fatto, pur riconoscendo totalmente l’autonomia politica.

Dunque non tutto è permesso…

Abbiamo sempre detto che neanche la maggioranza è l’ultima istanza, la legittimazione assoluta di tutto, in quanto la dittatura della maggioranza sarebbe ugualmente pericolosa come le altre dittature. Perché potrebbe un giorno decidere, per esempio, che vi sia una “razza” da escludere per il progresso della storia, aberrazione purtroppo già vista. Quindi, ci sono limiti anche al relativismo politico. Il limite è delineato da alcuni valori etici fondamentali che sono proprio la condizione di questo pluralismo. E sono quindi obbligatori anche per le maggioranze.

Qualche esempio?

Sostanzialmente il Decalogo offre in sintesi queste grandi costanti.

Torno a un altro aspetto del “relativismo culturale”. Anche fra i cattolici c’è chi considera la missione quasi una violenza psicologica nei confronti di popoli che hanno un’altra civiltà.

Se uno pensa che il cristianesimo sia solo il suo proprio mondo tradizionale evidentemente sente così la missione. Ma si vede che non ha capito la grandezza di questa perla, come dice il Signore, che gli si dona nella fede. Naturalmente, se fossero solo tradizioni nostre, non si potrebbero portare ad altri. Se invece abbiamo scoperto, come dice San Giovanni, l’Amore, se abbiamo scoperto il volto di Dio, abbiamo il dovere di raccontare agli altri. Non posso mantenere solo per me una cosa grande, un amore grande, devo comunicare la Verità. Naturalmente nel pieno rispetto della loro libertà, perché la verità non s’impone con altri mezzi che con la propria evidenza e solo offrendo questa scoperta agli altri - mostrando cosa abbiamo trovato, che dono abbiamo in mano, che è destinato a tutti - possiamo annunciare bene il cristianesimo, sapendo che suppone l’altissimo rispetto della libertà dell’altro, perché una conversione che non fosse basata sulla convinzione interiore - “ho trovato quanto desideravo” - non sarebbe una vera conversione.

Di recente è venuto alla luce sulla stampa un fenomeno doloroso: la conversione di tanti immigrati che provengono dall’islam, e che - oltre a trovarsi in pericolo - si ritrovano soli, non accompagnati dalla comunità cristiana.

Sì, ho letto e mi addolora molto. È sempre lo stesso sintomo, il dramma della nostra coscienza cristiana che è ferita, che è insicura di sé. Naturalmente dobbiamo rispettare gli stati islamici, la loro religione, ma tuttavia anche chiedere la libertà di coscienza di quanti vogliono farsi cristiani e con coraggio dobbiamo anche assistere queste persone, proprio se siamo convinti che hanno trovato qualcosa che è la risposta vera. Non dobbiamo lasciarli soli. Si deve fare tutto il possibile perché possano in libertà e con pace vivere quanto hanno trovato nella religione cristiana.
Ratzigirl
00venerdì 13 gennaio 2006 23:57


Pensavo di raccogliere in questo spazio le Omelie tenute dal Cardinale Joseph Ratzinger prima di diventare Papa.Ho avuto modo di leggerne alcune e sono decisamente molto belle.Ne ho anche ascoltate alcune ,tramite alcuni video , e ho potuto notare come nel corso degli anni il suo modo di esprimersi sia cambiato, passando da un linguaggio molto colloquiale ad un altro molto più catechetico (quello che fa adesso da Papa) ma basta vedere le ultime omelie a braccio (quella di Santa Maria Consolatrice, e quella per la festa del Battesimo del Signore, per ritrovare quello spirito giovanile e meraviglioso che contraddistingueva le omelie del primo Ratzinger....fresche, immediate e piene di vita!!!

Ratzigirl
00venerdì 13 gennaio 2006 23:59
"MARIA CI FA DA MAESTRA" per divenire “terra fertile” per la Parola di Dio



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“La parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto” (55,11).

Quando il profeta Isaia faceva questa affermazione, essa non era affatto il rilievo di una cosa tanto ovvia, ma piuttosto una contraddizione a quel che ci si poteva aspettare. Perché questo brano appartiene certamente alla narrazione della passione di Israele, ove si legge che i richiami di Dio al suo popolo subiscono continue sconfitte e che la sua parola resta invariabilmente senza frutto, mentre Dio appare sì assiso sul palco della storia, ma non come vincitore. Perché tutto era avvenuto in segni: il passaggio del Mar Rosso, lo spuntare dell’epoca dei re, il ritorno in patria di Israele dall’esilio, tutto questo ora svanisce. La semina di Dio nel mondo non sembra dare risultati. Perciò l’oracolo, sebbene avvolto di oscurità, è un incoraggiamento per tutti coloro che nonostante tutto continuano a credere nella potenza di Dio, convinti che il mondo non è soltanto roccia in cui il seme non può trovare spazio e certi che la terra non sarà solo e sempre una crosta superficiale, da cui i passeri giorno per giorno beccan via subito quel seme che vi è caduto sopra (cf Mc 4,1-9).
Per noi cristiani, questa affermazione del profeta Isaia suona come promessa di Gesù Cristo, grazie al quale la parola di Dio è ora veramente penetrata nella terra ed è divenuta pane per tutti noi: seme che porta frutto per i secoli, risposta feconda, in cui il discorso di Dio si è radicato in questo mondo in modo vitale. È difficile rinvenire altrove il mistero di Cristo collegato a quello di Maria in una forma così chiara e stretta come nella prospettiva di questa promessa: perché quando si afferma che la parola, o meglio, il seme porta frutto, si vuol dire che esso non cade sulla terra per rimbalzarvi come una palla, ma che penetra invece profondamente nel suolo per assorbirne la linfa e trasformarla in se stesso. Presa così la terra in sé, produce realmente qualcosa di nuovo, transustanziando la stessa terra in frutto. Il chicco non resta solo: ad esso appartiene il mistero materno della terra – a Cristo appartiene Maria, suolo santo della Chiesa, come appropriatamente la chiamano i Padri. Il mistero di Maria significa appunto questo, che la parola di Dio non rimase sola, assunse anzi in sé l’altro, la terra; nella “terra” della Madre la parola divenne uomo e ora di nuovo, impastata con la terra dell’intera umanità, può far ritorno a Dio.
Il vangelo ci spiega come sia possibile agli uomini diventare un campo fertile per la parola di Dio. Essi lo possono divenire, preparando quegli elementi, nei quali una vita può crescere e maturare. Raggiungono lo scopo, vivendo essi stessi di tali elementi; trasformandosi cioè essi stessi, impregnati della parola, in parola; inabissando la vita nella preghiera e quindi in Dio.

Terra buona

Luca ci introduce al mistero mariano a più riprese dice di Maria che “custodiva” la parola nel suo cuore (2,19; 2,51; cf 1,29). Maria ha radunato in sé le correnti d’Israele; in sé ha portato, pregando, la sofferenza e la grandezza di tale storia per convertirla in fertile terreno per il Dio vivente.
Pregare, come ci dice il Vangelo, significa indubbiamente molto di più che parlare senza riflessione, che emettere parole.
Essere terreno per la parola vuol dire essere una terra che si lascia assorbire del seme, che al seme si assimila, rinunciando a se stessa, per farlo germogliare.
Con la sua maternità Maria ha trasfuso in esso la sostanza di sé, corpo e anima, affinché una nuova vita potesse venir fuori. Il detto sulla spada che le trafiggerà l’anima (Lc 2,35) ha un significato molto più grande e profondo: Maria si mette a completa disposizione come suolo, si lascia usare e consumare per venir trasformata in Colui che ha bisogno di noi per diventare frutto della terra.

Desiderio di Dio

Nella colletta del primo martedì di Quaresima, noi veniamo sollecitati a farci desiderio struggente di Dio. I Padri della Chiesa sostengono che pregare non è altro che cambiarsi in desiderio struggente del Signore.
In Maria quest’orazione viene esaudita: ella è, vorrei dire, una coppa del desiderio in cui la vita diviene preghiera e la preghiera vita. San Giovanni ha meravigliosamente alluso a tale processo di trasformazione, non chiamando mai Maria per nome nel suo Vangelo. Si riferisce a lei soltanto come alla madre di Gesù. Ella ha in un certo senso messo da parte quanto in lei vi era di personale per essere unicamente a disposizione del Figlio; ed è proprio in questo che Maria ha realizzato la sua personalità.
Penso che simile connessione tra il mistero di Cristo e quello di Maria, sia di grande importanza nella nostra epoca di attivismo di cui la mentalità occidentale ha toccato le punte massime. Perché nel nostro modo di pensare vale ancora solo il principio del maschio: fare, produrre, pianificare il mondo e, semmai, rifabbricarselo da sé, senza dover niente a nessuno, facendo invece affidamento solo sulle proprie risorse. Non a caso, perciò, con questa mentalità abbiamo sempre di più separato Cristo dalla Madre, senza renderci conto che Maria, in quanto sua madre, potrebbe significare qualcosa di indispensabile per la teologia e per la fede. Tutto questo modo di riferirsi alla Chiesa parte perciò da un modo errato di pensare. La consideriamo spesso anche noi quasi come un prodotto tecnico che intendiamo programmare con perspicacia e realizzare con un dispendio enorme di energie. Ci meravigliamo se poi succede quanto annota San L. M. Grignon di Montfort in calce ad un detto del profeta Aggeo (1,6): “«Voi fate molto, ma non ne vien fuori niente!». Se il fare prende il sopravvento, divenendo autonomo, quelle cose che non sono da farsi, ma che sono vive e vogliono maturare, non potranno più esistere”.

Chiesa, mistero di Maria

È necessario che usciamo da questa unilateralità di prospettive propria dell’attivismo occidentale per non degradare la Chiesa a un prodotto del nostro fare e pianificare. La Chiesa non è un manufatto finito, ma seme vivente di Dio che vuole svilupparsi e arrivare a maturazione. Per questo essa ha bisogno del mistero mariano, anzi è essa stesa mistero di Maria. Può esserci in essa fecondità solo se si sottomette a questo segno, solo cioè se diventa terra santa per la parola. Dobbiamo accettare il simbolo del suolo fertile, dobbiamo nuovamente divenire uomini che aspettano, raccolti nel proprio intimo, persone che nella profondità della preghiera, dell’anelito e della fede danno spazio alla crescita.


Joseph Card. Ioseph Ratzinger

Omelia tenuta presso la chiesa salesiana di Don Bosco nel 2001
Ratzigirl
00sabato 14 gennaio 2006 12:15
Omelia pronunciata dal Cardinale Joseph Ratzinger in occasione dei funerali di don Luigi Giussani
Duomo di Milano, 24 febbraio 2005



Cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
"i discepoli al vedere Gesù gioirono". Queste parole del Vangelo ora letto ci indicano il centro della personalità e della vita del nostro caro don Giussani. Don Giussani era cresciuto in una casa – come dice – povera di pane, ma ricca di musica, e così dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza e non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale: cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita, e così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia.

Già da ragazzo ha creato con altri giovani una comunità che si chiamava Studium Christi; il loro programma fu di parlare di nient’altro se non Cristo, perché tutto il resto appariva come perdita di tempo. Naturalmente ha saputo poi superare l’unilateralità, ma la sostanza gli è sempre rimasta, che solo Cristo dà senso a tutto nella nostra vita, sempre ha tenuto fisso lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro, una storia di amore, è un avvenimento. Questo innamoramento in Cristo, questa storia di amore che è tutta la sua vita era tuttavia lontana da ogni entusiasmo leggero, da ogni romanticismo vago; realmente, vedendo Cristo, ha saputo che incontrare Cristo vuol dire seguire Cristo, che questo incontro è una strada, un cammino, un cammino che attraversa – come abbiamo sentito nel salmo – anche la "valle oscura". E nel Vangelo, nel secondo Vangelo abbiamo sentito proprio l’ultimo buio della sofferenza di Cristo, della apparente assenza di Dio, dell’eclisse del Sole del mondo. Sapeva che seguire è attraversare una "valle oscura", vuol dire andare sulla via della croce, e tuttavia vivere nella vera gioia. Perché è così? Il Signore stesso ha tradotto questo mistero della croce, che in realtà è il mistero dell’amore, con una formula nella quale si esprime tutta la realtà della nostra vita. Il Signore dice: "Chi cerca la sua vita, vuol avere per sé la vita, la perde e chi perde la sua vita, la trova". Don Giussani realmente voleva non avere per sé la vita, ma ha dato la vita, e proprio così ha trovato la vita non solo per sé, ma per tanti altri. Ha realizzato quanto abbiamo sentito nel primo Vangelo: non voleva essere un padrone, voleva servire, era un fedele servitore del Vangelo, ha distribuito tutta la ricchezza del suo cuore, ha distribuito la ricchezza divina del Vangelo, della quale era penetrato e, servendo così, dando la vita, questa sua vita ha portato un frutto ricco come vediamo in questo momento, è divenuto realmente padre di molti e, avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo, proprio ha guadagnato i cuori, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo. Questa centralità di Cristo nella sua vita gli ha dato anche il dono del discernimento, di decifrare in modo giusto i segni dei tempi in un tempo difficile, pieno di tentazioni e di errori, come sappiamo. Pensiamo agli anni ’68 e seguenti, un primo gruppo dei suoi era andato in Brasile e qui si trovò a confronto con questa povertà estrema, con questa miseria. Che cosa fare? Come rispondere? E la tentazione fu grande di dire: adesso dobbiamo, per il momento, prescindere da Cristo, prescindere da Dio, perché ci sono urgenze più pressanti, dobbiamo prima cominciare a cambiare le strutture, le cose esterne, dobbiamo prima migliorare la terra, poi possiamo ritrovare anche il cielo. Era la tentazione grande di quel momento di trasformare il cristianesimo in un moralismo, il moralismo in una politica, di sostituire il credere con il fare.

Perché, che cosa comporta il credere? Si può dire: in questo momento dobbiamo fare qualcosa. E tuttavia, di questo passo, sostituendo la fede col moralismo, il credere con il fare, si cade nei particolarismi, si perdono soprattutto i criteri e gli orientamenti, e alla fine non si costruisce, ma si divide. Monsignor Giussani, con la sua fede imperterrita e immancabile, ha saputo, che anche in questa situazione, Cristo, l’incontro con Cristo rimane centrale, perché chi non dà Dio, dà troppo poco e chi non dà Dio, chi non fa trovare Dio nel volto di Cristo, non costruisce, ma distrugge, perché fa perdere l’azione umana in dogmatismi ideologici e falsi, come abbiamo visto molto bene.

Don Giussani ha conservato la centralità di Cristo e proprio così ha aiutato con le opere sociali, con il servizio necessario l’umanità in questo mondo difficile, dove la responsabilità dei cristiani per i poveri nel mondo è grandissima e urgente. Chi crede deve attraversare – abbiamo detto – anche la "valle oscura", le valli oscure del discernimento, e così anche delle avversità, delle opposizioni, delle contrarietà ideologiche che arrivavano fino alle minacce di eliminare i suoi fisicamente per liberarsi da questa altra voce che non si accontenta del fare, ma porta un messaggio più grande, così anche una luce più grande.

Monsignor Giussani, nella forza della fede ha attraversato imperterrito queste valli oscure e naturalmente, con la novità che portava con sé aveva anche difficoltà di collocazione all’interno della Chiesa. Sempre se lo Spirito Santo, secondo i bisogni dei tempi, crea il nuovo, che in realtà è il ritorno alle origini, è difficile orientarsi e trovare l’insieme pacifico della grande comunione della Chiesa universale. L’amore di don Giussani per Cristo era anche amore per la Chiesa, e così sempre è rimasto fedele servitore, fedele al Santo Padre, fedele ai suoi Vescovi.

Con le sue fondazioni ha anche interpretato di nuovo il mistero della Chiesa. Comunione e Liberazione ci fa subito pensare a questa scoperta propria dell’epoca moderna, la libertà, e ci fa pensare anche alla parola di sant’Ambrogio "Ubi fides est libertas". Il Card. Biffi ha attirato la nostra attenzione sulla quasi coincidenza di questa parola di sant’Ambrogio con la fondazione di Comunione e liberazione. Mettendo in rilievo così la libertà come dono proprio della fede, ci ha anche detto che la libertà, per essere una vera libertà umana, una libertà nella verità, ha bisogno della comunione. Una libertà isolata, una libertà solo per l’io, sarebbe una menzogna e dovrebbe distruggere la comunione umana. La libertà per essere vera, e quindi per essere anche efficiente, ha bisogno della comunione, e non di qualunque comunione, ma ultimamente della comunione con la verità stessa, con l’amore stesso, con Cristo, col Dio trinitario. Così si costruisce comunità che crea libertà e dona gioia.

L’altra fondazione, i Memores Domini, ci fa pensare di nuovo al secondo Vangelo di oggi: la memoria che il Signore ci ha dato nella santa eucaristia, memoria che non è solo ricordo del passato, ma memoria che crea presente, memoria nella quale Egli stesso si dà nelle nostre mani e nei nostri cuori, e così ci fa vivere. Attraversare valli oscure. Nella ultima tappa della sua vita don Giussani ha dovuto attraversare la valle oscura della malattia, dell’infermità, del dolore, della sofferenza, ma anche qui il suo sguardo era fissato su Gesù, e così rimase vero in tutta la sofferenza, vedendo Gesù, poteva gioire, era presente la gioia del Risorto, che anche nella passione è il Risorto e ci dà la vera luce e la gioia e sapeva che – come dice il salmo – anche attraversando questa valle, "non temo alcun male perché so che Tu sei con me e abiterò nella casa del Padre". Questa era la sua grande forza: sapere che "Tu sei con me".

Miei cari fedeli, cari giovani soprattutto, prendiamo a cuore questo messaggio, non perdiamo di vista Cristo e non dimentichiamo che senza Dio non si costruisce niente di bene e che Dio rimane enigmatico se non riconosciuto nel volto di Cristo.

Adesso il vostro caro amico don Giussani è arrivato nell’altro mondo e siamo convinti che si è aperta la porta della casa del Padre, siamo convinti che adesso pienamente si realizza questa parola: vedendo Gesù gioirono, gioisce con una gioia che nessuno gli toglie. In questo momento vogliamo ringraziare il Signore per il grande dono di questo sacerdote, di questo fedele servitore del Vangelo, di questo padre. Affidiamo la sua anima alla bontà del suo e del nostro Signore.

Vogliamo in quest’ora pregare anche particolarmente per la salute del nostro Santo Padre, ricoverato di nuovo, con tanta fiducia che il Signore lo accompagni e gli dia forza e salute. E preghiamo perché il Signore ci illumini, ci doni la fede che costruisce il mondo, la fede che ci fa trovare la strada della vita, la vera gioia.

Amen.


Card. Joseph Ratzinger

ratzi.lella
00sabato 14 gennaio 2006 13:28
grande idea ratzigirl!!!
ciao a tutti [SM=x40791]
trovo che l'idea di ratzigirl sia davvero entusiasmante.
cercando in giro per internet, ho trovato l'omelia che l'allora cardinale Ratzinger ha tenuto a Loreto l’8 settembre 1991, durante il solenne pontificale, in occasione della festività della Natività di Maria, alla presenza di numerosi pellegrini, provenienti anche da Altötting per il gemellaggio della città bavarese con Loreto.


Il giorno della Natività della Vergine Maria non è un compleanno come tanti altri. Celebrando il compleanno di una grande personalità della storia pensiamo ad una vita passata, pensiamo a cose passate, a fatti compiuti da tale personalità e all’eredità da essa lasciata. Pensiamo, in una parola, a cose di questo mondo. Con la Madre di Dio non è così. Maria non parla di se stessa. Dal primo momento della vita lei è totalmente trasparente per Dio, è come un’icona raggiante della bontà divina. Maria, con la totalità della sua persona, è un messaggio vivo di Dio per noi. Perciò Maria non appartiene al passato, Maria è contemporanea a noi tutti, a tutte le generazioni. Con la sua disponibilità alla volontà di Dio ha quasi trasferito, consegnato il tempo umano della sua propria vita nelle mani di Dio e, così, ha unito il tempo umano con il tempo divino. Con il suo presente permanente, perciò, Maria trascende la storia ed è presente sempre nella storia, presente con noi.
Maria impersona il messaggio vivo di Dio. Ma cosa ci dice di più precisamente la vita di Maria oggi, nel giorno della sua nascita? Mi sembra che proprio il santuario di Loreto, costruito attorno alla Casa terrena di Maria, costruito attorno alla Casa di Nazareth, possa aiutarci a capire meglio il messaggio della vita della Madonna. Queste pareti conservano per noi il ricordo del momento nel quale l’angelo venne da Maria con il grande annuncio dell’Incarnazione, il ricordo della sua risposta: “Eccomi, sono la serva del Signore”. Questa Casa umile è una testimonianza concreta, palpabile dell’avvenimento più grande della nostra storia che è l’incarnazione del Figlio di Dio.
Il Verbo si è fatto carne. Maria, la serva di Dio, è divenuta la “porta” per la quale Dio è potuto entrare in questo mondo. Anzi, non solo la “porta”, è divenuta “dimora”del Signore, “casa vivente”, dove ha abitato realmente il Creatore del mondo. Maria ha offerto la sua carne perché il Figlio di Dio diventasse come noi. E qui ci viene in mente la parola con la quale secondo la Lettera agli Ebrei, Cristo ha iniziato la sua vita umana dicendo al Padre: “Non hai voluto né sacrifici né offerta, un corpo invece mi hai preparato [...]. Allora io ho detto: ecco, io vengo, o Dio, per fare la tua volontà” (Ebr 10, 5-7).

La serva del Signore dice proprio la stessa cosa: mi hai preparato un corpo, ecco io vengo. In questa coincidenza della parola del Figlio con la parola della Madre si toccano, anzi si uniscono cielo e terra, Dio creatore e la sua creatura. Dio diventa uomo, Maria si fa “casa vivente” del Signore, “tempio” dove abita l’Altissimo. E qui sopraggiunge un’altra considerazione: dove abita Dio, tutti noi siamo “a casa”; dove abita Cristo, i suoi fratelli e le sue sorelle non sono stranieri. Così è anche con la Casa di Maria e con la vita stessa di lei: è aperta per tutti noi. La madre di Cristo è anche la nostra Madre, di tutti quanti sono divenuti corpo di Cristo e costituiscono la famiglia di Cristo Gesù. Essi sono con Cristo e con la Madre, costituiscono la “sacra famiglia” di Dio.

Maria ci ha aperto la sua vita e la sua Casa perché, aprendosi a Dio, si è aperta a tutti noi e ci offre la sua Casa come Casa comune dell’unica famiglia di Dio. Possiamo dire: dove c’è Maria c’è la Casa; dove c’è Dio, siamo tutti “a casa”. La fede ci dà una casa in questo mondo, ci riunisce in una unica famiglia. Qui però nasce una domanda seria: la fede ci dice che siamo tutti fratelli e sorelle di Cristo, quindi un’unica famiglia; noi dobbiamo chiederci se questo è vero, se siamo realmente un’unica famiglia e, se non è vero, perché non è vero, perché le opposizioni, le lotte, l’egoismo lacerante?
La Casa di Nazareth non è una reliquia del passato, essa ci parla nel presente e ci provoca a un esame di coscienza. Dobbiamo domandarci se siamo realmente aperti anche noi al Signore, se vogliamo offrirgli la nostra vita perché sia una dimora per lui; oppure se abbiamo un po’ di paura della presenza del Signore, se abbiamo paura che essa possa limitare la nostra dignità, se vogliamo forse riservarci una parte della nostra vita che vorremmo appartenesse solo a noi e non fosse conosciuta da Dio, che non dovrebbe avvicinarsi ad essa.
Mi sembra che questa Casa di Nazareth conservi, anche sotto questo punto di vista, un simbolismo molto prezioso. Come sapete, questa Casa ha solo tre pareti: è una Casa aperta, dunque, è come un invito, è come un abbraccio aperto. Essa, cosi, ci dice: aprite anche voi le vostre case, le vostre famiglie, la vostra vita alla presenza del Signore.

Questa Casa sia aperta alla famiglia di Dio, a tutti i figli di Dio, ai fratelli e alle sorelle di Cristo! Lasciamoci sfidare, accettiamo la parola della Madre che ci dice: venite, venite nella mia Casa e diventate anche voi, ogni giorno della vostra vita, realmente dimora del Signore.
Questa Casa diventa così come una famiglia aperta, nella quale tutti i figli di Dio, tutte le creature di Dio sono anche fratelli e sorelle nostri. Maria, dunque, è “casa vivente” del Signore; la Casa di Nazareth è casa comune di tutti noi, perché, dove abita Dio tutti siamo “a casa”.
Questa Casa nazaretana nasconde un altro messaggio. Finora abbiamo detto che Dio non è un Dio astratto, puramente spirituale, lontano da noi: Dio si è legato alla terra, Dio ha una storia comune con noi, una storia palpabile, visibile, qui, in questi segni della sua storia e soprattutto nella Santa Chiesa e nei sacramenti.
La fede ci fa “abitare” ma ci fa anche “camminare”. Anche su questo punto la Casa nazaretana conserva un insegnamento importante. Quando i crociati hanno trasferito le pietre della Casa nazaretana dalla Terra Santa qui sulla terra italiana, hanno fissato il nuovo posto della Casa sacra su una strada. È una casa - mi sembra - molto strana, perché casa e strada sembrano escludersi: o casa o strada, vogliamo dire. Ma proprio così si esprime il messaggio vero di questa Casa, che non è una casa privata di una persona, di una famiglia, di una stirpe, ma sta sulla via di noi tutti: è una Casa aperta di noi tutti. La stessa Casa ci fa “abitare” e ci fa “camminare”.

La vita stessa è la casa della famiglia di Dio che è in pellegrinaggio con Dio, verso Dio, verso la casa definitiva e verso la “città nuova”. E qui possiamo essere ancora più concreti.
Tutti i santuari, i grandi santuari del mondo, hanno offerto sempre a persone di nazioni diverse, di razze, di professioni diverse questa esperienza preziosa della casa nuova della famiglia comune di tutti i figli di Dio. Questa esperienza della casa però presuppone l’esperienza di un cammino, l’esperienza del pellegrinaggio. Il pellegrinaggio è una dimensione fondamentale dell’esistenza cristiana.
Solo camminando, pellegrinando possiamo superare le frontiere delle nazioni, delle professioni, delle razze. Possiamo diventare uniti solo andando insieme verso Dio. Il significato di questo gemellaggio tra Loreto e Altötting si inserisce in questa realtà: ci dice lo stesso che dobbiamo andare insieme, dobbiamo divenire pellegrini dell’eterno, dobbiamo alzarci sempre di nuovo verso Dio, verso la pace divina, verso l’unità con Dio e la sua unica famiglia.



Joseph cardinal Ratzinger, 8 settembre 1991.
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