Le brigate rosse e il caso Moro. Una tragedia italiana. In tutto e per tutto.
Dunque, il sequestro Moro. O l'omicidio Moro. O il caso Moro. Comunque uno lo definisca. Un momento drammatico e a suo modo decisivo nella storia nazionale. Né sarò io a minimizzare la portata dell'evento, che vissi in prima persona come esponente del movimento studentesco e membro del PCI di allora. Furono mesi difficili e spesso incomprensibili che segnarono un po' tutti all'epoca.
Quello che però trovo difficile capire è come, a quarant'anni di distanza, ancora si parla di “segreti” e “misteri” del caso. Ho letto molto su questa triste storia, libri di diverse tendenze, e francamente non riesco a capire la tenace sopravvivenza di questi miti e l’incapacità di accettare l’idea che le BR fossero solo un centinaio di “regolari” in clandestinità più un migliaio di “irregolari” sostenitori che vivevano una vita apparentemente normale.
Penso che tutto questo sia dovuto alla spettacolarità delle azioni dei brigatisti e dello scioccante effetto che avevano nella vita della nazione. Un risultato sproporzionato rispetto alle minime forze impiegate. La “geometrica potenza dispiegata in Via Fani”, cara al professor Toni Negri, colpì l'immaginazione del mondo politico come quello della gente comune e contribuì a fare delle BR un mito di efficienza militare che poteva essere spiegato solo con la partecipazione di professionisti delle armi e della guerra.
Eppure una lettura anche superficiale della dinamica dell'agguato in Via Fani non lascia molto ai voli di fantasia. È facilmente spiegabile tenendo conto di quelle che i brigatisti stessi hanno più volte definito le loro uniche superiorità rispetto agli apparati dello stato: la meticolosa preparazione e la sorpresa. Questo è quello che successe quel giorno.
I brigatisti avevano seguito Moro per mesi e ormai conoscevano a memoria il tragitto. Sapevano che Moro non aveva auto blindata e che i poliziotti della scorta portavano solo pistole d'ordinanza (in realtà i mitra li avevano ma nel bagagliaio delle auto perché non addestrati ad usarli). Avevano preparato da tempo il covo dove tenerlo rinchiuso (un appartamento con parcheggio sotterraneo affittato da tempo e modificato per includere una stanza senza finestre), la via di fuga da Via Fani e predisposto le auto su cui via via spostare il prigioniero fino a metterlo nell'auto appartenente alla coppia che ufficialmente affittava il rifugio finale così da non destare sospetti. Avevano la superiorità di fuoco tramite le armi automatiche e la superiorità numerica visto che c'erano almeno 10 dei loro con vari compiti. Sapevano tutto di quel che sarebbe successo mentre per la scorta era semplicemente un'altra noiosa giornata lungo itinerari di routine.
Anche la dinamica dell’agganciamento del corteo di Moro da parte dell'auto di Moretti non ha nulla di sovrumano. Una ragazza ai bordi della strada con un mazzo di fiori in mano fa cenno a Moretti che il corteo sta arrivando, in tempo per costui d'immettersi nel traffico proprio davanti alla prima auto, quella di Moro, seguita da quella della scorta. Arrivato alla fine di Via Fani, all'incrocio, Moretti si ferma mettendosi un po' di traverso in modo da bloccare le auto dietro.
A quel punto, dall'altro lato della strada, spuntano due coppie di brigatisti che, indossando divise rubate dell'Alitalia, aprono il fuoco con i mitra. Due sparano all'auto della scorta che segue quella di Moro. Non è difficile, sparando a raffica, colpire tre uomini seduti nell’angusto abitacolo di un automobile. Né i brigatisti sono poi così bravi a sparare. Nonostante la facilità di colpire, la maggior parte dei proiettili vanno a vuoto e uno dei poliziotti, illeso, riesce ad uscire dell’auto ed impugnare la pistola prima di essere colpito. L'autista, morendo, lascia andare la frizione e l’auto tampona quella di Moro che a sua volta tampona quella di Moretti. Il blocco delle auto è totale.
Nel frattempo gli altri due brigatisti aprono il fuoco contro il conducente e la guardia del corpo di Moro. Ci si è meravigliati del miracolo di uccidere 5 uomini lasciando illeso l'ostaggio. Ma dov'è la difficoltà? Moro siede da solo sul sedile posteriore. I brigatisti sparano quasi a bruciapelo dal finestrino davanti e gli obiettivi sono chiarissimi. E anche in questo caso non tutto fila liscio per loro. La guardia del corpo muore sul colpo ma un altro mitra s'inceppa e l’autista è solo ferito. Cercherà di districare l'auto finché il brigatista non riesce a cambiare il caricatore, espellere il proiettile inceppato e finirlo alla guida. Poi Moro, leggermente ferito dalle schegge di vetro dei finestrini esplosi, viene caricato su un'auto preparata per la fuga e portato via, nel covo di Via Montalcini.
L'intera azione è durata meno di tre minuti, forse due. In tutto questo orrore non c'è niente che non sia alla portata di persone comuni con una certa familiarità con le armi che usano. Chiunque può farlo. Basta solo la volontà di uccidere e la determinazione di farlo senza esitazioni. I mafiosi, che non sono militari o commando professionisti, ne hanno compiuti di più spettacolari. Similmente fecero quelli dalla RAF tedesca, un gruppetto di studentelli con molti meno aderenti delle BR e meno appoggi nel movimento studentesco e operaio dei nostri brigatisti.
Naturalmente ci sono punti oscuri nell'intera vicenda. La fantomatica Honda con due persone a bordo che secondo alcuni transitava in Via Fani al momento dell'attentato. Il nome Gradoli (altra base romana delle BR) suggerito durante una “seduta spiritica” e poi inteso come un paese e non come una via. La scoperta casuale dello stesso covo in seguito ad una perdita d'acqua della doccia. Il falso comunicato numero 7 che dava Moro per morto e gettato sotto il ghiaccio del lago della Duchessa. La copia del memoriale scritto da Moro in prigionia, mai pubblicato e ritrovato nello stesso covo di Via Montalcini anni dopo che era stato scoperto e perquisito. E via discorrendo. È ovvio che in casi così complessi ci siano molti dettagli che non tornano. E la testimonianza umana è una delle cose più labili del mondo. Ma si tratta di dettagli, appunto, che non hanno incidenza fondamentale.
Eppure allora non era facile accettare la spiegazione più semplice. L'effetto devastante delle azioni delle BR era tale che non sembrava possibile fosse dovuto solo ad un gruppetto di fanatici dediti alla guerriglia urbana. Per produrre tali effetti “doveva” esserci qualche cosa di più. Per molti nel PCI era quasi una questione di fede. Moro era inviso da molti per il suo sforzo di portare i comunisti al governo ed era facile credere che questi potentati in qualche modo avessero a che fare col terrorismo rosso che di fatto danneggiava la linea politica democratica del PCI. Sembrava impossibile che non ci fossero di mezzo la CIA, forse il KGB, per eliminare una possibilità sgradita a entrambi. E che le BR non fossero altro che dei fantocci manovrati da altri senza che lo sapessero. E poi, in perfetta sintonia con l'ossessione italica per il “gomblotto”, aggiungere via via altri tasselli: la NATO, i cecoslovacchi, la P2, la mafia, Gladio eccetera, in un coacervo dove nessuno riesce poi a distinguere il falso dal vero. Così il caso Moro finì col complicarsi sempre più, ingigantendosi fino a diventare un complotto cosmico indecifrabile per via della sua estensione.
Per noi del PCI c’era un altro motivo per negare l'autonomia e l’indipendenza delle BR: la paura di dover ammettere che una parte dei giovani e degli operai che costituivano la nostra base partitica ed elettorale fosse in qualche modo, se non attivamente almeno passivamente, “contigua” alle formazioni armate. Era il nostro incubo. Ammetterlo significava accettare che quella classe operaia che ci immaginavamo unita in blocco dietro al partito e la strategia del “compromesso storico” in realtà era, seppure in una porzione minoritaria, ostile ad esso ed alla via democratica al socialismo. Lo negavamo quanto più lo temevamo. Eppure è doveroso ammettere, sia pure con dispiacere, che la forza e la durata delle BR fu dovuta principalmente al fatto che una parte degli operai, come molti studenti, pur considerandoli “compagni che sbagliano”, non li denunciavano e magari li aiutavano a evitare la cattura. Questo permise alle BR di avere occhi ed orecchie nei quartieri e le borgate operaie, luoghi di rifugio e aiuto logistico. Per questo furono così efficienti. È vero che non ebbero mai quell'appoggio popolare esteso che permise all’IRA e l'ETA di operare quasi alla luce del sole, ma si giovarono di una parte del tessuto sociale che, pur criticandoli, non era preparato ad espellerli. Questa era una realtà troppo dura da accettare per noi. Di qui le varie teorie complottiste che ne derivarono e che ancor sopravvivono e s’inseguono, come ombre di ombre, spostandosi di qua e di là.
In definitiva, penso che il caso Moro e tutta la storia delle BR e della guerriglia urbana dei gruppi “comunisti” sia più semplice e più complessa di quello che ci immaginiamo. Continuiamo, come il buon Ezio Mauro su Repubblica, a concentrarci sulle minuzie e sui dettagli di terz'ordine, sulle testimonianze contraddittorie e le voci incontrollate, sulle piste che s'intrecciano e non portano a niente. In perfetto stile italico, stiamo a tagliuzzare il capello sotto il microscopio senza accorgerci dell'iceberg che ci scivola silenzioso accanto.