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"Elvis e il Colonnello"

Ultimo Aggiornamento: 05/08/2023 16:02
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di James-Dickerson



James L. Dickerson
2022
Rizzoli
300 pagine
ISBN10: 88-17-14420-7 ISBN13: 978-88-17-14420-9
11/02/2023 22:55
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Il libro

Sul Colonnello Parker sono fiorite mille leggende: "L'uomo che fece Elvis Presley”.
È uno dei personaggi più ambigui e misteriosi all’ombra della stella più luminosa dello show business moderno.
Questo libro ricostruisce i mille volti del Colonnello, raccontandolo dall’inizio: prima di intraprendere la carriera di manager, Parker giunse clandestinamente negli Stati Uniti a poco più di vent’anni, cambiò nome e mantenne per tutta la vita il segreto sulle sue origini olandesi. Impresario teatrale di spettacoli circensi prima, poi promoter di musicisti, uomo dalle
mille risorse, astuto, ma anche smaliziato giocatore d’azzardo abituato a reinventarsi continuamente, a metà degli anni Cinquanta incontra un giovane Elvis Presley. E da quel momento le loro vite cambiano.
Padre putativo, ma anche burattinaio di Elvis, contro tutto e tutti, lo accompagna a diventare il grande showman che ha fatto tremare l’America e rivoluzionato completamente il business dell’intrattenimento. In pochi mesi Parker riesce a strappare per Elvis un contratto con la RCA, a introdurlo alla televisione, ai musical, a Hollywood. Presley è stato e sarà
sempre un'icona anche grazie all’abilità e alla spregiudicatezza del Colonnello, ma dietro la scalata scintillante al successo si nascondono molte altre storie.

Elvis e il colonnello è il racconto incredibile e poco conosciuto sul controverso ma produttivo rapporto tra l’artista che portò il rock nel mondo e il suo manager, una storia che ha scatenato l’immaginazione di un genio come Baz Luhrmann che alla complicata relazione umana e professionale tra Elvis e il Colonnello ha dedicato un film con protagonista Tom Hanks nei panni di Tom Parker.
15/07/2023 18:36
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1. Il secondo spettacolo più grande del mondo

- Prima parte -

Per il giovane Tom Parker, Tampa splendeva come un faro nella notte. La natura legava inestricabilmente Tampa e St. Petersburg tramite un’enorme baia d’acqua salata incuneata nell’entroterra, ma le due città sono assai diverse.
St. Petersburg, con le spiagge sabbiose che danno sul Golfo del Messico, ormai da molti anni è il paese dei balocchi di vip e ricchi. Tampa, invece, poggia sulle fondamenta austere della classe operaia e per gran parte della sua storia recente è stata soprattutto un porto d’approdo per le bananiere colombiane. Dal Sedicesimo secolo, quando Juan Ponce de Leon e Hernando de Soto esplorarono la regione per la prima volta, Tampa si era creata una doppia reputazione: era allo stesso tempo un paradiso naturale alimentato da sorgenti minerali con proprietà curative miracolose e una città portuale aperta, dove gioco d’azzardo, prostituzione e alcolici venivano ragionevolmente tollerati, purché rimanessero a rispettabile distanza dai curatissimi quartieri dell’alta società.
Agli occhi di Tom Parker, Tampa offriva tutto ciò che un giovanotto potesse desiderare. Nei primi anni Trenta, quando Parker esordì nel panorama della baia di Tampa, in Florida il boom immobiliare del decennio precedente era scemato e si era portato dietro una gran quantità di nuovi arrivati, alcuni in possesso di patrimoni da investire, altri disperatamente in cerca di lavoro. Era il momento e il posto ideale, per Parker, per mettere radici. L’intera costa occidentale della Florida era una terra incolta e desolata, a eccezione della zona della baia di Tampa. Dato che ospitava l’unico porto di una certa dimensione tra Key West e Pensacola, era di gran lunga l’opzione preferita per l’immigrazione illegale dal momento che si potevano evitare i porti più frequentati della costa occidentale. I cubani arrivavano a migliaia per lavorare nelle fabbriche di sigari; era, insomma, il porto di riferimento per l’accesso clandestino negli Stati Uniti. Di tutti i porti americani, era quello in cui si facevano meno domande, il posto perfetto se si aveva un passato ingombrante e si desiderava ricominciare da capo.
Quando Tom Parker giunse a Tampa, all’inizio degli anni Trenta, non era da molto che si faceva chiamare così. Prima del suo arrivo in città, infatti, non ci sono altri documenti che attestino la sua permanenza in America. Tutto ciò che concerne la sua vita prima di quel momento è una macchia sfocata nella storia. Ci sarebbero voluti decenni prima che qualcuno accertasse che il suo vero nome era Andreas van Kuijk. Secondo le testimonianze più accreditate – accettate da un tribunale del Tennessee competente in materia di successioni e mai contestate da Tom Parker – era nato a Breda, in Olanda, il 26 giugno del 1909 e si chiamava, appunto, Andreas van Kuijk.
Alla sua venuta al mondo, Andreas trovò cinque fratelli e sorelle; altri quattro sarebbero arrivati prima del suo decimo compleanno. I suoi genitori si chiamavano Adam e Maria van Kuijk. Tutto fa pensare che ebbe un’infanzia piuttosto normale. I nonni materni, Johannes e Marie Ponsie, si mantenevano come venditori di ninnoli ambulanti viaggiando sui canali olandesi.
Quando il padre morì, Andreas aveva sedici anni e la scomparsa della principale fonte di sostentamento della famiglia gettò tutti nello sconforto di doversi adattare al cambiamento. Dove sarebbero andati a vivere? Come avrebbe fatto Maria a sfamare la famiglia?
Andreas iniziò a sparire per brevi periodi; si scoprì in seguito che passava il proprio tempo nei cantieri navali. Fino a quando, un mattino uscì di casa e non tornò più. L’unica cosa che sappiamo per certo è che Andreas sparì verso la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta. Da qualche parte tra Olanda e Stati Uniti si liberò della vecchia identità e si reinventò. Quando Andreas abbandonò la propria identità olandese, nacque Tom Parker, un adulto fatto e finito con un enorme sigaro artigianale cubano da sfoggiare sempre in bocca.
«Salve» disse una volta arrivato nella grintosa città portuale di Tampa. «Mi chiamo Tom Parker e vengo da Huntington, nella Virginia Occidentale.»
Nel corso degli anni Venti e nei primi anni Trenta, decine di luna park itineranti attraversavano l’America in lungo e in largo, fornendo intrattenimento per fiere, circhi e promotori indipendenti. Il Johnny J. Jones Exposition era uno dei più noti, ma ce n’erano tanti altri, tra i quali il Rubin & Cherry Shows, il Beckman & Gerety’s C.A. Wortham Shows e il John M. Sheeshley’s Mighty Midway. Una delle attività più intraprendenti era però quella del Royal American Shows di Tampa, che aveva esordito nei primi anni Venti.
Fino agli inizi degli anni Trenta aveva dovuto andare alla rimonta degli altri, poi però divenne la principale attrazione del Paese, un riconoscimento che mantenne fino al secolo successivo.
Quelli delle fiere, in sostanza, erano una versione più raffinata degli spettacoli itineranti in cui si vendevano elisir miracolosi, che erano stati popolari dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento fino all’inizio del nuovo secolo. Una buona rappresentante di questo genere di spettacoli era la Kickapoo Indian Medicine Company con la sua variegata proposta di intrattenimento. Il tipico programma in dieci atti comprendeva danze indiane, contorsionisti, un numero al
trapezio, esibizioni con pistole e fucili e un equilibrista che camminava sulla fune.
Quando la popolarità di questi affascinanti spettacoli itineranti crebbe, quelli dedicati agli elisir miracolosi diminuirono di numero, per scomparire più o meno del tutto verso la metà degli anni Sessanta. All’arrivo di Tom Parker a Tampa, però, erano ancora alquanto in voga, in particolare nel Sud. Spesso erano l’unico intrattenimento disponibile per la provincia americana.
La routine era sempre la medesima: lo spettacolo montava i tendoni nella periferia di una cittadina e l’imbonitore si recava in città con un «Jake» 4 e un indiano per esibirsi in una serie di numeri all’angolo delle strade di grande passaggio. Gli sketch servivano ad attirare le persone in modo che andassero poi ai tendoni a vedere gli spettacoli, che di solito duravano un paio d’ore e il cui vero scopo – come in seguito fu per i luna park – era vendere prodotti, non offrire
intrattenimento.
Per tutti gli anni Venti, il padre di queste fiere americane fu Johnny J. Jones, con i suoi modi gentili, la sua bassa statura e la sua fama da uomo d’affari scaltro ma comprensivo con i dipendenti. I lavoratori lo apprezzavano molto. Quando nel dicembre del 1930 nel circuito iniziò a circolare la notizia della sua morte, la prima reazione fu di tristezza, poiché girava voce che Jones non avesse mai compiuto un gesto scortese nei confronti dei subordinati. Il dolore, però, si trasformò presto in preoccupazione: chi avrebbe assunto le redini del comando? Gli operai e gli artisti avevano bisogno di una figura che li rappresentasse, qualcuno che sapesse fare loro da guida spirituale, che fosse in grado di fare affari con il mondo delle persone normali. I lavoratori del settore avevano infatti una propria lingua, un proprio codice di condotta e certe aspettative nei confronti del mondo dei non addetti ai lavori. La morte di Johnny J. Jones aveva lasciato un
vuoto. I capi non venivano scelti tramite elezioni democratiche né venivano designati per intervento divino: salivano ai vertici dimostrando una naturale propensione al comando.
Nel 1931, l’uomo che aveva più probabilità di assumere il ruolo di guida era Carl J. Sedlmayr, proprietario e gestore (insieme ai fratelli Velare) della Royal American Shows di Tampa. Sedlmayr era nato il 20 ottobre 1886 a Falls City, in Nebraska, perciò alla morte di Jones aveva quarantacinque anni. La sua non era una famiglia di circensi o di giostrai e proprio per questo la sua ascesa al successo fu ancora più notevole.
L’infanzia di Sedlmayr era stata priva di eventi rilevanti fino alla morte di suo padre, avvenuta nel 1897, in seguito alla quale fu mandato a vivere presso alcuni parenti di Kansas City, nel Missouri.
A quattordici anni, il suo più grande desiderio era diventare farmacista, un sogno che si infranse quando fece domanda a Omaha e a Council Bluffs, nell’Iowa, e venne respinto. Allora Sedlmayr rispose a un annuncio pubblicato sul giornale,
con il quale si cercavano rappresentanti di un nuovo prodotto per scrivere, la penna stilografica. Portò nelle strade quella moderna invenzione e fece successo come commesso viaggiatore.
Durante i suoi spostamenti incontrò numerosi imbonitori agli spettacoli per la vendita degli elisir e cominciò a interessarsi a uno stile di vita ormai simbolo dello show business americano. Nel 1907, a ventun’anni, si gettò a capofitto nella vita delle fiere iniziando a lavorare come venditore di biglietti al Riverview Park di Chicago. Con il tempo, Sedlmayr risparmiò il denaro sufficiente ad acquistare un’attrazione tutta sua.
Con l’idea che il termine «Royal» avrebbe attirato i canadesi e «American» sarebbe risultato allettante negli Stati Uniti (per avere successo, il gestore di una fiera doveva guadagnare bene in entrambe le nazioni), ribattezzò la propria attività Royal American Shows.
Nel 1925, Sedlmayr aveva preso con sé due soci, Elmer e Curtis Velare. Insieme, trasformarono la Royal American Shows in un’impresa di prim’ordine. Le industrie del cinema e radio erano la maggiore minaccia per le fiere itineranti, ma i circensi sapevano essere competitivi sfruttando al meglio la natura partecipativa dei loro spettacoli. Era possibile vedere da vicino gli artisti, si poteva sentire il profumo dell’erba, dei pop corn e delle mele candite. Inoltre, i luna park prevedevano spettacoli femminili capaci di stuzzicare lo spettatore come radio e cinema non potevano fare (a meno di non avere particolare fortuna in galleria).
Sedlmayr era uno showman provetto. Non che si fosse mai esibito su un palco: il suo talento era d’altro tipo. Possedeva infatti la capacità di recarsi in una cittadina e con la semplice forza della sua personalità convincere tutti che quello della Royal American era lo spettacolo più grande del pianeta. Quasi tutti i lavoratori del settore conoscono le città e i Paesi che visitano meglio di chi ci vive. Capiscono in fretta chi è onesto e chi no. Se una cittadina è sotto il controllo di una famiglia che gestisce in stile mafioso spettacoli con ragazze e sale per il gioco d’azzardo, lo sanno quasi subito. Sbuffano quando qualcuno li accusa di inaffidabilità, perché a mettere in atto la più grande tra le truffe per loro è in realtà il mondo: tra i segreti nascosti nelle cittadine di provincia e la ferocia dei grandi centri di potere.
Ad ogni modo, Sedlmyr giungeva in una cittadina tre giorni prima dello spettacolo. La prima cosa da fare era presentarsi alle autorità, ai capi politici e agli uomini d’affari di cui voleva assolutamente evitare l’opposizione. Fatto questo, si recava nel campo in cui si sarebbe svolta la fiera e misurava camminando il punto in cui si sarebbe costruita ogni attrazione. Il suo passo era lungo esattamente tre piedi (circa novantuno centimetri e mezzo).
Sedlmayr conosceva l’ingombro di tutte le attrazioni del suo spettacolo ed era orgoglioso della propria capacità di misurare con i passi la giusta collocazione di ogni paletto e di ogni palo di sostegno necessari.
Nel 1935, Sedlmayr era ormai l’indiscusso re del circuito fieristico. La carovana della Royal American riempiva novanta vagoni ferroviari e offriva il più vasto assortimento del settore di giostre, attrazioni da circo e artisti. Ricevette però un ulteriore slancio inaspettato nel 1938, quando i dipendenti del circo Barum & Bailey decisero di scioperare.
Durante quel periodo di inattività, infatti, la Royal American, che spesso forniva lo spazio per allestire il circo, fu in grado di espandere lo spazio assegnatole, cosicché, quando lo sciopero terminò e il circo riprese l’attività, la Royal aveva più agio.
Da che la gente aveva memoria, «Il più grande spettacolo del pianeta» era sempre stato lo slogan di cui P. T. Barnum si era fregiato. Tuttavia, ancora nel 1938, la Royal American di Carl Sedlmayr era chiaramente il secondo spettacolo più grande del pianeta. Solo nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta aumentò la propria influenza, per mantenerla fino alla fine degli anni Novanta come leader indiscussa. Carl Sedlymar non ottenne mai il riconoscimento pubblico o la notorietà di Barnum, decidendo di rimanere dietro le quinte fin dall’inizio della sua carriera. Al di fuori del giro, il suo nome è per lo più sconosciuto, ma nel mondo fieristico è quasi pari a una divinità.
Nel 1965, alla fine della stagione, il treno della Royal American rientrò ai suoi quartieri invernali, a Tampa, e tutto l’equipaggiamento venne scaricato e sistemato in magazzino. Sedlmayr e suo figlio, Carl Sedlmayr Jr., si accordarono per una cena a casa di quest’ultimo la sera successiva. Quando il padre non si presentò come concordato, Carl Jr. andò a cercarlo a casa sua e lo trovò nel letto: si era spento nel sonno, pacificamente.
Oltre milleduecento uomini di spettacolo si presentarono al Greater Tampa Showmen’s Club (il club dei più noti showmen di Tampa) per partecipare al funerale di Carl Sedlmayr. In linea con lo stile di vita cosmopolita del re, il servizio funebre fu condotto sia da un rabbino sia da un ministro protestante. Il corpo venne inumato in un mausoleo dello Showmen’s Rest di Tampa e, in seguito all’addio all’impresario, il testimone della Royal American passò a suo figlio che, a quarantasei anni, si era già fatto la propria parte d’esperienza nei circuiti fieristici.
La prima volta che Carl J. Sedlmayr Jr. incontrò Thomas A. Parker fu forse nel 1931 o nel 1932. Sedlmayr aveva dodici o tredici anni e aveva appena iniziato ad apprendere dal padre i rudimenti su come gestire gli affari nel mondo fieristico. Era difficile non notare il ventiduenne Parker: con il suo metro e ottanta e la sua stazza, spiccava tra la folla. Aveva un volto rotondo e amichevole, gli occhi azzurri brillavano maliziosi.
Di Parker, Sedlmayr conserva ancora ricordi vividi. Non rammenta in quale città si trovassero, ma un giorno, durante una passeggiata, alzando lo sguardo vide una faccia nuova. Ci fece caso perché frequentare il mondo delle fiere è un po’ come stare in famiglia: i nuovi membri vengono sempre esaminati per bene. Tom Parker era dietro il bancone di un chioschetto, svettava in mezzo alla folla e alla confusione della fiera… mentre vendeva mele candite con l’entusiasmo e il fervore di un predicatore che dà spettacolo sotto a un tendone.

- continua -
15/07/2023 18:53
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1. Il secondo spettacolo più grande del mondo
- Seconda parte -

Sedlmayr non sa dire con certezza in quale mese Parker firmò con la Royal American, perché tutti i vecchi registri sono andati distrutti per via di una perdita nel soffitto di uno dei carri merci: la pioggia ha completamente inzuppato il carico. Ricorda però l’anno in cui conobbe Parker perché rammenta quanti anni aveva all’epoca.
«Era una comunità piccola» ha detto della Royal American. «Avevamo un rapporto stretto perché lavoravamo e vivevamo insieme.»
Come da tradizione, il treno della fiera lasciava Tampa verso marzo-aprile. Da tempo ormai immemorabile, la stagione iniziava sempre la prima settimana di maggio, in corrispondenza della celebrazione annuale del Cotton Carnival di Memphis, nel Tennessee, e si concludeva l’ultima settimana di ottobre con la Fiera statale della Louisiana di Shreveport – due città, Memphis e Shreveport, che si sarebbero rivelate cruciali per la carriera di Tom Parker quanto per quella di Elvis Presley.
Ogni ingaggio durava una settimana, ma in alcune occasioni, come per il festival annuale primaverile di St. Louis, nel Missouri, o per la Calgary Exhibition and Stampede di Alberta, in Canada, si prolungavano per dieci, quattordici giorni. Altre tappe della tournée da Memphis a Shreveport comprendevano l’Annual Shrine Jubilee di Davenport, nell’Iowa, la Edmonton Exhibition ad Alberta, in Canada, la Regina Exhibition di Saskatchewan, in Canada, la fiera statale del Wisconsin a Milwaukee, quella di St. Paul, in Minnesota, quella del Kansas e la Mid America Fair di Topeka.
La prima città in cui Parker si trovò a vendere mele candite fu Memphis, durante il festival di Cotton Carnival, che imitava in maniera neanche troppo velata il Martedì Grasso di New Orleans. Il Cotton Carnival aveva inizio con l’arrivo della «chiatta reale» sul Mississippi all’attracco di Monroe Street, nel cuore di Memphis. Seguiva poi una parata con carri allegramente decorati e fanfare. Il re e la regina del Carnevale, reclutati tra le famiglie dei mercanti di cotone più affermate, indossavano abiti regali e lanciavano caramelle a bambini e adulti che affollavano le strade del centro. In seguito si sarebbero utilizzati elaborati carri a motore, ma nei primi anni Trenta c’erano ancora i vecchi carri merci dismessi dalla
fabbrica del ghiaccio, trainati da cavalli e muli.
Parker viaggiava su un treno carico di estranei, l’unica cosa che condivideva con i compagni di viaggio era una gran diffidenza nei confronti dell’autorità. Il personale delle fiere non è mai composto da colletti bianchi che lavorano dalle nove alle cinque e si uniformano al sistema, con un certo senso di responsabilità sociale. Si tratta piuttosto di una varia umanità, di colore e origini etniche diversi, con orientamenti sessuali e talenti diversi; ciò che li accomuna tutti è lo
scetticismo nei confronti della società tradizionale. Questa percezione condivisa li unisce, trasformandoli in una sorta di nucleo familiare. La prima cosa che Parker avrebbe fatto, una volta arrivato a Memphis, soprattutto visto che era la prima volta che viaggiava con la compagnia, sarebbe stato scoprire chi fossero i capi – non che desiderasse fissare un incontro, ovviamente, dal momento che l’idea era di tenersi lontano dai guai.
Nei primi anni Trenta, Memphis ospitava uno dei cartelli criminali più potenti della nazione. Per oltre vent’anni, la compagnia d’assicurazioni Prudential, in seguito a uno studio sui tassi d’omicidio del Paese, aveva definito Memphis la «capitale degli omicidi» d’America. L’etichetta le sarebbe rimasta incollata addosso fino a tutti gli anni Trenta e Quaranta, e a periodi alterni fino a oggi. Le ragioni che rendevano pericolosa la città erano molte e profonde, quella di fondo, però, era rappresentata da una cultura criminale diffusa, fondata sullo spaccio di cocaina, sulla prostituzione, sul gioco d’azzardo e, in anni successivi, anche su complesse truffe finanziarie che estorcevano milioni di dollari al governo e alle
industrie private. Accanto a queste attività clandestine, proliferava l’organizzazione politica capeggiata dal famigerato boss E.H. Crump. Non solo controllava la politica dell’intero Tennessee, ma spesso era capace di influenzare anche quella nazionale. Per quasi quarant’anni, condizionò la scelta dei candidati politici, compresi il presidente, i giudici federali e una varietà di altre cariche locali, dall’agenzia federale U.S. Marshals all’ufficio di leva. Negli anni Trenta, Memphis era sulla bocca di tutta la nazione e le riviste inviavano regolarmente i propri giornalisti in città, affinché raccontassero le nefandezze che rappresentavano di fatto una minaccia per la salute e la sicurezza dell’intero Paese.
Qualsiasi fosse l’impressione che Parker si fece di Memphis, quando nel 1931 arrivò in città insieme alla Royal American, quasi di certo se ne andò con un’idea chiara: era la località più pericolosa d’America. Sedlmayr non sa nemmeno dire di preciso per quanto tempo Parker lavorò per la Royal American. Potrebbe essere stato solo per una o due annualità, anche se è più probabile che abbia lavorato per la fiera per sei o sette anni. Fu Parker stesso a lasciarlo intendere,
alcuni anni dopo. Se così fosse, forse era presente anche all’inaugurazione del Cotton Carnival del 1934, quando si scatenarono alcuni disordini in seguito all’annuncio che i biglietti per lo spettacolo dell’Orchestra Guy Lombardo nell’auditorium cittadino erano esauriti. Una folla di fan delusi formò un anello attorno all’auditorium impedendo ai possessori dei biglietti di accedere all’edificio. Il tumulto che ne seguì provocò danni a finestre e porte, il che avrebbe fornito a Parker un primo sguardo sul potere distruttivo e sull’immenso potenziale economico delle celebrità del mondo della musica.
Parker non si limitò a vendere mele candite per tutto il tempo. Molto spesso raccontava del suo numero di danza delle galline, durante il quale sistemava una piastra sotto una lastra di metallo coperta di segatura e poi sulla segatura liberava diversi animali; ogni volta che voleva farle «ballare» gli bastava riscaldare la piastra, per ustionare le zampe alle galline. A volte catturava degli scriccioli, li dipingeva di giallo e poi li vendeva come canarini. Oscar Davis, che in seguito divenne il suo assistente, disse a Jerry Hopkins, biografo di Elvis, che Parker gli aveva raccontato di essersi occupato anche della preparazione del cibo per la carovana – su quella che i lavoratori della fiera chiamavano la «carrozza delle torte», e di avere
arrotondato persino leggendo la mano.
Altri raccontano che Parker gestisse la bancarella degli hot dog. Vendere hot dog non rappresenta di per sé una sfida: la gente li compra perché sono buoni. La sfida in quel caso consisteva nel vendere hot dog senza effettivamente vendere hot dog. Quelli di Parker contenevano infatti piccoli pezzi di wurstel alle due estremità del panino, tenuti insieme da grumi di senape e parti poco costose nel mezzo. Se qualcuno avesse esaminato gli hot dog e fosse andato a lamentarsi di essere stato truffato, Parker avrebbe indicato un wurstel che aveva gettato nella segatura in precedenza. «Be’, ma sei tu che hai fatto cadere la carne, ragazzo» avrebbe detto, indicando il pezzo di carne per terra.
Un altro aneddoto racconta di quando i chioschi alimentari della fiera iniziarono a fruttare poco e la direzione valutò di ridurre il prezzo dei pasti da cinquanta a venticinque centesimi. Parker disse di avere un’idea migliore. Scrisse un cartello: «Ingresso, un dollaro. Se non siete soddisfatti, vi restituiremo metà dei soldi». Naturalmente, i clienti affollarono il chiosco per approfittare dell’affare.
Quando le scorte di una merce per il chiosco erano scarse, per esempio i limoni per la limonata, Parker si recava al negozio più vicino e comprava confezioni di acido citrico per dare alla bevanda il sapore giusto. Una volta mescolati come si deve acqua e zucchero, li guarniva con una fettina di limone. La bevanda aveva un sapore terribile, ma aveva l’aspetto della limonata ed era l’unica cosa che contava.
Nei primi anni Trenta, la Royal American Shows aveva un ricco programma di spettacoli. Per una persona dalla sensibilità di Parker, era una circostanza inebriante. Nani, donne barbute, contorsionisti, trapezisti, tiratori esperti, lanciatori di coltelli, esibizioni di animali, come gorilla, serpenti e leoni, e giochi di prestigio di ogni tipo. Chiunque proponesse un numero poteva fare della fiera casa sua. L’importante era che fosse strano, per un verso o per l’altro, o che si
basasse su un qualche imbroglio, impossibile da indovinare. Alcuni numeri erano eccezionalmente semplici. Ala Bianca, ad esempio, era un afroamericano con una finta uniforme militare e tanto di pantaloni e scarpe bianchi che pattugliava la fiera con un bastone appuntito, una borsa e un fischietto. Se vedeva per terra un pezzetto di carta, soffiava più forte che poteva nel fischietto e si precipitava come un matto sulla carta, infilzandola con un gesto teatrale. I proprietari della fiera erano ben felici di sganciargli soldi a manciate per ripagarlo di una performance che per gli avventori era davvero particolare e inaspettata.
Una delle attrazioni più popolari era però Harlem in Havana di Leon Claxton, l’artista di colore più affermato del circuito. A differenza dei minstrel show, che per lo più erano interpretati da bianchi con il volto dipinto di nero, il numero di Claxton era eseguito da uomini afroamericani che ballavano, cantavano ed eseguivano diversi sketch per il pubblico pagante. Claxton aveva un talento straordinario per le produzioni di alto livello e molte delle sue trovate teatrali furono in seguito introdotte anche nei primi spettacoli rock ’n’ roll.
In tutte le fiere c’erano poi gli show femminili, la Royal American non faceva eccezione. Sarebbe stato naturale se un ex marinaio ventunenne come Parker si fosse interessato a tali spettacoli, ma non abbiamo prove di un suo minimo interesse per le ragazze, a quell’epoca. Quali che fossero i suoi vizi allora, sappiamo per certo che più avanti sarebbero stati il cibo e il gioco d’azzardo, e che le donne non sarebbero state incluse nel pacchetto.
Uno degli aspetti della Royal American da cui Parker era più colpito era la volontà di impressionare gli spettatori con le tecnologie moderne. Agli occhi di Carl Sedlmayr, bisognava sempre puntare in alto, in particolare considerando nuovi gadget o invenzioni. Nel 1932, Sedlmayr cominciò a utilizzare giganteschi riflettori della marina per illuminare il cielo notturno con abbaglianti fasci di luce che si potevano scorgere fino a oltre sessanta chilometri. L’anno successivo la Royal American fu la prima fiera a prevedere ben quattro ruote panoramiche in un’unica mastodontica esposizione. Nella fiera c’era ben poco che si potesse considerare un divertimento intellettuale. Una delle prime lezioni che l’olandese
imparò fu che, quando si trattava di spettacoli americani, la formula del successo era ridurre sempre tutto al minimo comune denominatore. La gente avrebbe anche potuto prendersi gioco dei giostrai, ma quando si trattava di far soldi con l’intrattenimento, erano proprio loro i maestri.
Come sempre accadeva, il tour della Royal American si concluse a Shreveport. Dopo aver lasciato Memphis, Tom Parker pensò forse che la depravazione e la totale assenza di leggi della città (in Beale Street, per esempio, avrebbe potuto acquistare bustine di cocaina e godere della compagnia di prostitute ascoltando il miglior blues in circolazione) fossero un’anomalia, e che le altre tappe del tour, in confronto, si sarebbero rivelate monotone. Shreveport però lo riportò alla realtà. Nei primi anni Trenta, gli abitanti della cittadina erano meno della metà di quelli di Memphis, ma Shreveport era coinvolta nei medesimi traffici clandestini, con una sola grande differenza: mentre a Memphis il crimine organizzato era più o meno confinato nella zona della Bluff City, la città del promontorio (così chiamata perché si affacciava sul fiume Mississippi) e l’intero Stato della Louisiana erano controllati da spietati boss, a partire da Huey Long, detto Kingfish, eletto governatore degli Stati Uniti nel 1928, e senatore nel 1931, proprio l’anno in cui Tom Parker giunse in città a bordo del treno della Royal American.
Molto probabilmente, Parker ebbe la sua prima esperienza con le slot machine a Shreveport. Dato che la fiera statale durava un’intera settimana, i giostrai cercavano un modo per passare il tempo durante le ore di riposo. Shreveport non era una città aperta quanto New Orleans: nonostante offrisse più o meno gli stessi tipi di divertimento, i locali erano più nascosti, soprattutto le bettole che offrivano whiskey di contrabbando e gioco d’azzardo. Nei primi anni Trenta, le slot machine di Shreveport erano di proprietà di don Frank Costello, ovvero della mafia newyorkese. Quando Costello aveva deciso di installare le sue slot machine in Louisiana, il boss mafioso Sam Carolla aveva già l’esclusiva per New Orleans; nel resto dello Stato invece non ce n’erano. Da quel che riporta Davis, Costello andò da Huey Long e strinse con lui un accordo in seguito al quale Long avrebbe accettato di utilizzare le forze di polizia per proteggere le slot machine statali, comprese quelle di proprietà di Carolla. A Carolla parve una buona idea e così acconsentì all’ingresso di Costello nello Stato. Per distribuire le sue slot machine e garantirne la manutenzione, Costello scelse Carlos Marcello, già proprietario di una compagnia di distribuzione di jukebox, la Jefferson Music.
Parker si sarebbe accorto di tutti questi traffici nel corso della sua prima visita a Shreveport. Nonostante la segretezza, la criminalità organizzata non si nascondeva quando si trattava di farsi avanti con i proprietari delle attività commerciali presentandosi come parte di una rete mafiosa sotto la protezione di Huey Long. Erano proprio le ammissioni di quel genere che costringevano i nightclub e i ristoranti gestiti da proprietari indipendenti a collaborare, se non volevano guai con la mafia.
Quando Parker tornò a Tampa nel novembre del 1931 (o forse del 1932), aveva ormai una chiara idea del ventre molle e oscuro della politica e degli affari americani che si sarebbe portato dietro per tutta la vita. Il suo principale problema a quel punto era lo status giuridico. Se la sua fedina non avesse riportato condanne penali e se non ci fossero stati mandati d’arresto a suo carico, dopo aver vissuto nel Paese per cinque anni non avrebbe avuto problemi a ottenere la
cittadinanza americana. La naturalizzazione non era una faccenda complicata: il primo requisito era dichiarare l’intenzione di diventare cittadino americano tre anni prima di inoltrare effettivamente la domanda di cittadinanza, presentando le «prime carte», a un cancelliere della corte distrettuale degli Stati Uniti. Per qualche motivo, però, Parker non tentò mai di ottenere la cittadinanza. Il suo lavoro lo portava a viaggiare per gran parte dell’anno. Poteva fare qualsiasi cosa ed essere chiunque volesse, mentre lavorava alla fiera. La cittadinanza sarebbe stata più un peso che una risorsa. Più di ogni altra cosa, piuttosto, gli serviva una famiglia, una vera, onesta famiglia americana, per mescolarsi alla comunità.
Sfortunatamente, non conosceva molte donne. Uno dei molti chioschetti che viaggiavano insieme al carrozzone della Royal American però era di proprietà della ditta produttrice di sigari Have-a-Tampa. A gestire tali bancarelle, di solito, erano donne giovani e belle, con sorrisi invitanti e fin troppo larghi. Tutte le ragazze dietro al bancone erano di aspetto attraente (era per questo motivo che venivano assunte); così una in particolare catturò l’attenzione di Parker. Si chiamava Marie Mott. Reduce da due matrimoni, Marie aveva un anno in più di Parker, dunque ventisette, quando si conobbero, nel 1935. Da uno dei suoi matrimoni aveva avuto un figlio, Robert Ross. Quando incontrò Parker, Marie e Robert vivevano nella stessa casa dei genitori e del fratello di lei, Bitsy Mott. Che si trattasse di vero amore o poggiasse le proprie basi su una sorta di economia della sopravvivenza, Parker le chiese di sposarlo quasi subito. Quello stesso anno, convolarono a nozze. Non solo il matrimonio diede a Parker una famiglia già pronta: gli diede anche un posto dove vivere quando non era in tour; perciò portò i propri averi a casa dei genitori di Marie. Bitsy Mott ha raccontato a Dirk Vellenga che la casa diventava un putiferio ogni volta che sua sorella e il suo nuovo marito tornavano dai loro viaggi:
«Ricordo che facevano sloggiare papà e mamma dal loro letto e lo usavano loro. Papà e mamma dormivano dove potevano, e la cosa mi irritava un po’».
Forse Parker voleva solo compagnia e un posto dove stare, queste potrebbero essere state le sue motivazioni, ma se si aspettava che il matrimonio con Marie gli facesse ottenere la cittadinanza americana, si sbagliava. Le donne straniere che sposavano uomini americani ottenevano la cittadinanza, non necessariamente però avveniva il contrario. Un immigrato clandestino maschio non poteva sposare una donna americana e ottenere automaticamente la cittadinanza. Prima
del 1922, addirittura la donna americana che avesse sposato uno straniero clandestino avrebbe perso la propria. Quando il Colonnello si sposò, per fortuna, la legge era cambiata e permetteva che le donne americane che si univano in matrimonio con uno straniero mantenessero la cittadinanza, a condizione che i loro mariti avessero i requisiti per richiederla a loro volta; nel corso degli anni Trenta e Quaranta, ad ogni modo, in tribunale questa rimase una zona
grigia.
A quanto pareva, lo stato giuridico di Marie Parker non fu mai messo in dubbio dalle autorità, ma se per qualche motivo suo marito non avesse avuto i requisiti per la cittadinanza, allora nemmeno il loro matrimonio gli sarebbe servito a ottenerla.
Carl Seldmayr non era l’unico maestro tra gli uomini di spettacolo della zona di Tampa Bay. Al di là della baia, a St. Petersburg, c’era un imprenditore che aveva ottenuto fama nazionale grazie al suo stile sfarzoso e alle sue strategie. James Earl Webb non era un comune affarista: possedeva il drugstore più famoso del mondo: Webb’s City, la città di Webb.
Il centro commerciale occupava infatti dieci isolati, era una sorta di cittadina, e vendeva tutto quello che era possibile trovare sotto il sole. Webb si vantava di vendere mille medicine e cinquemila coni gelato al giorno: non un’impresa difficile, per un insieme di negozi che attirava quotidianamente sessantamila clienti. Le dimensioni del centro lo rendevano già di per sé bizzarro, oltre al fatto che c’era davvero di tutto, dagli pneumatici per le automobili ai televisori passando per i mobili da cucina, fino agli orologi svizzeri che costavano sei dollari e novantotto centesimi, ma il fatto che fosse sempre pieno zeppo di clienti non era dovuto alle sue dimensioni: piuttosto, a fare la differenza era l’impareggiabile capacità di
intrattenere il pubblico del dottor Webb.
Con i suoi abiti vistosi, alto poco più di un metro e mezzo, il re degli impresari indossava completi che avrebbero fatto invidia a Liberace. Diceva in giro di averne più di cento, oltre a cinquanta giacche sportive, tutte un tripudio per gli occhi. Webb aveva uno stile tutto suo, di cui Parker si sarebbe in seguito appropriato, per trasferirlo a Elvis Presley, fino ai minimi dettagli. Anche se inizialmente era lo stile a calamitare l’attenzione di tutti, il suo genio di promotore commerciale lo aveva reso uno degli uomini più ricchi della Florida.
Durante un’enorme campagna promozionale, Webb pubblicizzò una vendita di banconote, promettendo di distribuirne duemila da un dollaro al modico prezzo di novantacinque centesimi l’una. Webb’s City venne assalita da migliaia di clienti che s’impossessarono dei dollari pagati solo novantacinque centesimi e poi li spesero per fare acquisti nei negozi. Il giorno successivo, Webb lanciò una seconda promozione: venticinquemila banconote da un dollaro a ottantanove centesimi l’una. Ancora una volta i negozi furono presi d’assalto. Il terzo e ultimo giorno, si offrì di riacquistare tutte le banconote da un dollaro rimaste per un dollaro e trentacinque centesimi l’una. C’era però una condizione: le banconote dovevano avere il numero di serie giusto. Ancora una volta i negozi si riempirono di persone ansiose di tentare la sorte, vedere se la loro banconota aveva il numero di serie corretto e guadagnare così facilmente trentacinque centesimi. Naturalmente, nessun numero di serie combaciava, dato che tutte quelle banconote si trovavano in cassaforte a casa del dottor Webb.
Se le promozioni legate alle banconote da un dollaro non fossero state sufficienti, Webb aveva qualcos’altro da offrire. La rivista «Cosmopolitan» aveva mandato un proprio giornalista a Webb’s City, per indagare sul centro commerciale. Ne era venuta fuori una storia che parlava di uno spettacolo di danza del ventre in mensa, di gente che vendeva biancheria femminile al banco dei sigari e di uno show a cielo aperto con il dottor Webb in persona in un circo a tre piste mentre «fluttuava durante un numero da funamboli con intorno una galassia di giovani audaci e di bell’aspetto».
È impossibile misurare l’effetto che Carl Seldmayr e Webb insieme ebbero su Tom Parker, tuttavia dovette assorbire come una spugna, prendendo a prestito alcune idee pari pari, mescolandole poi con le proprie esperienze personali, senza gettare via nulla. Se non ci fossero stati Sedlmayr e Webb a ispirarlo, è improbabile che sarebbe mai esistito un Tom Parker o almeno non colui che, in seguito, avrebbe rivoluzionato l’industria dell’intrattenimento.
Alla fine degli anni Trenta, Parker era ormai stanco di viaggiare con la Royal American, così comunicò all’ufficio personale che la stagione seguente non sarebbe tornato. Delle attività cui si dedicò tra il 1938 e il 1940 non si sa molto, salvo che riuscì a ottenere incarichi come promoter delle esibizioni personali di una certa quantità di artisti, compresi il cantante pop californiano Gene Austin, la star del cinema Tom Mix e l’artista country Roy Acuff. Per lo più, si trattava di distribuire brochure, coltivare relazioni con speaker radiofonici e giornalisti della carta stampata, proporre iniziative per regalare biglietti o farsi venire idee per la promozione degli artisti all’interno dei negozi in stile dottor Webb, per la firma
degli autografi. Era a malapena un lavoro, perciò è indubbio che Parker accettasse anche altri lavori diurni di tipo più ordinario.
In seguito alla notizia che i nazisti avevano sconfitto i francesi, nel 1940 il Congresso approvò una legge che dovette far tremare di paura Parker: il Selective Service Act stabilì la prima leva militare americana dal 1918. Tutti gli uomini di età compresa tra i ventuno e i trentasei anni dovevano registrarsi nei centri di reclutamento locali. Con il tempo, ognuno avrebbe ricevuto l’ordine di presentarsi per la visita medica, e coloro che l’avessero superata sarebbero stati inseriti
nelle forze armate per un anno di servizio militare. Il 16 ottobre 1940, Parker si presentò al servizio di leva, nell’edificio della First National Bank, e compilò i documenti di registrazione necessari. Nel modulo si descrisse così: capelli castani,
occhi azzurri e carnagione chiara. Disse di non avere segni particolari evidenti che avrebbero aiutato a identificarlo. Quando dovette fornire il nome di un datore di lavoro, citò il cantante Gene Austin di Hollywood, in California.
All’epoca, lui e Marie vivevano ancora con i genitori di lei al numero 1210 di West Platt Street, perciò, passati quattro anni, i suoi suoceri iniziarono a esercitare una notevole pressione perché si trovasse lavoro e fornisse sostegno alla famiglia. La legge sulla coscrizione appena promulgata fu un ulteriore incentivo. Difficilmente quello di promoter part time sarebbe stato il tipo di mestiere che gli avrebbe fatto scampare il servizio militare; gli serviva un lavoro utile per la comunità.
Così all’inizio del 1941, trovò un impiego come agente operativo presso la Tampa Humane Society. L’aspetto più allettante dell’offerta era l’appartamento gratuito che questa comprendeva, situato al secondo piano del ricovero. Con Marie e Robert si trasferirono lì e misero su casa.
Quello che in realtà Parker voleva era diventare un promoter di spettacolo a tempo pieno. Il ricovero comunque si trovava in una posizione comoda, sulla North Armenia Avenue, e gli forniva una base dalla quale perseguire i suoi interessi. La sua prima sfida, che a quanto sembra lanciò a se stesso, fu trovare una strategia promozionale per aiutare il ricovero a ottenere maggiore sostegno pubblico. La sua migliore idea fu che la Humane Society realizzasse un cimitero per animali domestici rivolto agli amanti degli animali che volessero offrire ai loro beniamini un luogo dignitoso dove riposare in pace. Non è chiaro se sia stato Parker ad avere l’idea o se l’abbia rubata a qualcun altro, ma si dimostrò un’impresa di grande successo.
Per tutto il 1941, l’entrata degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale rimase incerta. Parker non ebbe notizie dall’ufficio leva. Poi, il 7 dicembre, i giapponesi attaccarono Pearl Harbor, un’azione che obbligò l’entrata in guerra. Un mese dopo l’attacco, l’8 gennaio 1942, l’ufficio leva di Tampa inviò al trentaquattrenne Parker un altro questionario da compilare. Per pura coincidenza, fu spedito lo stesso giorno in cui Elvis Presley stava festeggiando il suo settimo compleanno a Tupelo, nel Mississippi. Prima di rimandare indietro il questionario, Parker aspettò quasi due settimane. Poi, in base alle informazioni fornite, l’ufficio leva gli attribuì la classe III-A: ovvero, fu rinviato perché aveva una moglie e un figlio da mantenere. Parker non ebbe più notizie fino al febbraio seguente, quando fu riclassificato I-A, il che significava che era disponibile per il servizio militare.
Perché l’ufficio leva abbia modificato la sua classificazione è un mistero. Tutti gli uomini sposati con figli erano esentati. Alla fine del 1943, tale esenzione sarebbe stata revocata, ma all’epoca in cui Parker fu riclassificato era ancora effettiva. La spiegazione più probabile è che l’ufficio, controllando il questionario, non trovò le prove che lui e Marie fossero sposati come da lui sostenuto. A Tampa non ci sono documenti che attestino le nozze e a oggi nessuno ha mai trovato una registrazione del matrimonio tra Thomas e Marie Parker.
Così l’ufficio leva contattò di nuovo Parker, perché si presentasse alla visita medica pre-arruolamento. Le vittime di guerra salirono rapidamente nel corso del 1943 e non si vedeva nemmeno l’ombra della fine delle ostilità. Parker doveva mantenere una moglie e un figlio e lavorava giorno e notte per salvare le vite di poveri cuccioli indifesi. Senza dubbio, sarebbe bastato a tenerlo lontano dall’esercito. Era di gran lunga troppo vecchio per giocare alla guerra.

- fine capitolo 1-
[Modificato da marco31768 16/07/2023 16:45]
16/07/2023 16:44
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2. In viaggio con Hank e Eddy

Nell’inverno del 1943, Tampa fu invasa da una troupe cinematografica della MGM che stava girando il nuovo film di Spencer Tracy, "Joe il pilota" ("A Guy Named Joe"), nel quale Tracy interpreta un pilota di guerra che muore e diventa poi l’angelo custode di un pilota più giovane. inoltre, nel film recitavano irene Dunne e un novellino di nome Van Johnson.
All’epoca, Tracy era più o meno l’unica grande star rimasta a Hollywood. Clark Gable, Robert Taylor, James Stewart e Robert Montgomery si erano tutti arruolati nell’esercito come volontari. Con così tanti attori a indossare l’uniforme, la MGM ridusse il registro di produzione ad appena una dozzina di film all’anno. Tracy rifiutò molti copioni, quell’anno, finché lesse la sceneggiatura di "Joe il pilota" firmata da Dalton Trumbo. Era una storia sentimentale e campanilista che faceva appello al senso patriottico di Tracy.
Trumbo era il re dei film patriottici (in seguito, quell’anno, Tracy, Johnson e Trumbo lavorarono insieme a "Missione segreta" ["30 Seconds Over Tokyo]", ma in seguito fu chiamato a rispondere dei suoi presunti legami con il Partito comunista dalla Commissione per le attività antiamericane, e messo sotto torchio. Trumbo rifiutò di ribattere alle domande della commissione e fu condannato per oltraggio al Congresso. Uscito di prigione, per anni rimase sulla lista nera e scrisse sceneggiature sotto falso nome.
Per Joe il pilota, la MGM scelse Tampa perché la base dell’Aeronautica militare di MacDill si trovava lungo il perimetro meridionale della città. La base di MacDill era l’unico centro di addestramento dell’esercito di una certa importanza in Florida e le forze armate desideravano ardentemente che le compagnie cinematografiche utilizzassero le loro strutture: era una buona pubblicità e aiutava l’esercito negli sforzi di reclutamento.
Un giorno, il direttore di produzione andò alla Tampa Humane Society e chiese a Tom Parker se avessero dei cani da prestargli per alcune scene. Parker fu felice di fornirgli tutto quello che gli serviva: non solo non gli avrebbe fatto pagare gli animali, li avrebbe anche portati alla base e si sarebbe assicurato che rimanessero in riga e che obbedissero agli ordini. Anche se agli occhi di chi stava lavorando al film era solo un umile accalappiacani, l’esperienza concesse a Parker
un primo assaggio di show business ai massimi livelli e gli infiammò il cuore.
All’inizio del 1944, sembrò che Tom Parker dovesse arruolarsi. Gli scontri in Europa e nel Pacifico erano terribili e uccidevano uomini in quantità. L’ufficio leva di Tampa verificò le proprie quote per marzo e aprile ed esaminò a fondo i registri e il 3 marzo del 1944, inviò a Parker una lettera con la quale gli si ordinava di presentarsi per la visita medica preliminare al reclutamento. La settimana successiva, si presentò così al centro predisposto per le visite mediche insieme a decine di altri uomini. I registri non rivelano dove tale centro si trovasse, probabilmente però era presso la base di MacDill. Una volta arrivato, fu pesato, gli fu misurata l’altezza e gli vennero esaminati sommariamente vista e udito. Un medico dell’esercito gli misurò la pressione e gli auscultò il battito cardiaco, quindi appuntò la sua storia clinica. Fino a quel momento, aveva avuto a che fare con gli esaminatori da solo, ma presto sarebbe stato diverso. Quando lasciò lo stanzino
dove era stato visitato dal medico, gli fu detto di sedersi e aspettare che lo chiamassero. Si accomodò su una sedia pieghevole di metallo in una stanza piena di uomini, in gran parte più giovani di lui di diversi anni. Non ci volle molto prima che iniziassero a succedersi i nomi… Thomas Andrew Parker. Si mise in fila con i compagni e andò in un’altra stanza scarsamente ammobiliata. Venne loro ordinato di formare due righe, una dietro l’altra e rimanere spalla contro spalla. Un medico dell’esercitò gridò loro di calarsi i pantaloni alle caviglie e di allargare i piedi. Il medico non aveva braccia così lunghe da giustificare una certa distanza così Parker si trovò di fronte il volto di un uomo a pochi centimetri dal suo. Senza spiegazioni, il medico iniziò la prassi che avrebbe ripetuto decine di volte prima della fine di quella giornata.
«Volta la testa a sinistra» disse il dottore.
Parker lo sentì afferrargli i testicoli.
«Tossisci» gli intimò il medico.
Lo scopo dell’esame era duplice: prima di tutto, determinare se il movimento dei testicoli mentre tossiva rivelasse la presenza di un’ernia; in secondo luogo, scoprire se l’esaminato avesse un’erezione abbassandosi i pantaloni in presenza di altri uomini.
Prima di lasciare la base d’ispezione, Parker apprese di avere una delle classificazioni migliori che un uomo potesse mai volere: era un 4-F, ovvero era stato esonerato dal servizio militare per «ragioni fisiche, mentali o morali».
Un’esclusione per motivi fisici avrebbe potuto riferirsi a una gran quantità di malanni. Quelle per motivi mentali si basavano più su problemi emotivi che su effettivi disturbi mentali, anche se chi possedeva un quoziente intellettivo eccezionalmente basso veniva in genere scartato. Le esclusioni per motivi morali di solito si basavano sull’impressione che la recluta fosse omosessuale. La ragione per cui Parker venne escluso non è più rintracciabile, perché la legge esige
che il Selective Service System distrugga i registri dopo un certo periodo di tempo. Tuttavia, se venne respinto per motivi fisici, allora il medico doveva essere insolitamente incapace, dato che dopo quella visita Parker visse altri cinquantatré anni.
L’ufficio leva gli spedì una lettera il 16 marzo, notificandogli ufficialmente la classificazione 4-F, poi nel settembre dell’anno successivo la modificò in 4-A; ciò significava che, a trentasei anni, era considerato troppo vecchio per prestare servizio nelle forze armate. È il caso di dire che Parker aveva proprio schivato la pallottola.
Nel 1944, uno dei più promettenti artisti country era un chitarrista di Henderson, nel Tennessee, di nome Eddy Arnold. Non era ancora una star, ma era sulla buona strada per diventarlo. All’epoca, il cammino verso il successo nel mondo della musica iniziava spesso con un periodo alla radio locale. La musica dal vivo era una componente basilare della maggior parte delle stazioni e in genere non era difficile, per gli aspiranti cantanti, trovare un ingaggio.
Arnold debuttò in radio nel 1936, in una stazione di Jackson, nel Tennesse. Da lì passò a radio di Memphis e St. Louis, poi tornò a Jackson, dove divenne una presenza regolare della Wtjs per sei anni.
Le stazioni radiofoniche non pagavano gli artisti per le performances dal vivo; ci si aspettava che lo facessero per l’esperienza che veniva offerta loro.
Per mantenersi, Arnold faceva serate nei club ogni volta che poteva, inoltre accettò un lavoro part time come assistente in un obitorio. il suo compito principale era guidare l’ambulanza. L’impresario funebre gli dava un posto per dormire presso le pompe funebri e lo pagava venticinque centesimi per ogni cadavere che portava lì, cinquanta per ogni funerale a cui lavorava e un extra se indossava un completo e faceva da portatore delle bare.
Nel 1943, Arnold attirò l’attenzione di Dean Upson, un dirigente della stazione radio Wsm, che gestiva un’agenzia di booking di nome Artists’ Service Bureau. in cambio di una commissione del quindici per cento, l’agenzia procurava ad Arnold ingaggi per performance dal vivo e gli permetteva di pubblicizzarsi come una star del programma radiofonico Grand Ole Opry.
Upson disse ad Arnold che voleva diventare il suo manager personale e gli offrì un contratto di cinque anni, ma il cantante non voleva legarsi per un periodo così lungo e firmò invece per uno soltanto.
Quell’anno la rivista «Radio Mirror» pubblicò un servizio su Arnold, affermando che il cantante stava «diventando più famoso a ogni apparizione». Tom Parker lesse la storia e prese l’appunto mentale di tenerlo d’occhio. Arnold non aveva ancora un contratto discografico, ma c’era fermento attorno all’artista venticinquenne.
Parker riteneva che avesse l’aspetto e la voce giusti per diventare una stella discografica. L’anno seguente Arnold, che aveva iniziato a pubblicizzarsi come il contadino del Tennessee, gli dimostrò che aveva ragione siglando un contratto con la Rca Victor.
Ispirato dalla sua fugace esperienza nel mondo cinematografico, nonché sollevato per essere sfuggito alle grinfie dell’esercito americano, Parker si prese qualche giorno libero dal lavoro al ricovero per animali e andò a Nashville. Tutti quelli con cui aveva parlato nel giro gli avevano detto che se voleva farsi una carriera a tempo pieno come agente avrebbe dovuto andare nella Città della musica e inizare a coltivare relazioni di peso con i pezzi grossi del country. Aveva svolto qualche lavoro di promozione su piccola scala a Tampa per le stelle del Grand Ole Opry Ernest Tubb e Roy Acuff, e questo fu sufficiente ad aprirgli le porte del Ryman Auditorium.
L’Opry andava in onda dal 1925, anche se quando era iniziato si chiamava Wsm Barn Dance. Dato che la Wsm era un’affiliata della NBC, riceveva diverse ore di programmazione da New York. In cambio, la stazione radio forniva al network numerosi spettacoli alla settimana, tutti di musica popolare e con grandi orchestre. Lo show più celebre era il "Sunday Down South", con la partecipazione di Dinah Shore e Snooky Lanson.
Il sabato sera, la grande proposta della NBC era la "Music Appreciation Hour", che trasmetteva musica classica e opera. Per contro, la WSM proponeva "Barn Dance" subito dopo la trasmissione del network.
Una notte, con l’intenzione di prendere in giro la musica seriosa proposta nella trasmissione della NBC, l’annunciatore della WSM presentò il "Barn Dance" come il "Grand Ole Opry". Il nome rimase e quando in seguito la WSM aumentò la sua potenza di trasmissione da mille a cinquantamila watt, l’Opry arrivò nelle case di gran parte della nazione.
I proprietari della stazione WSM ricevettero un sacco di critiche dagli amici per lo show che mandavano in onda, dato che molti, a Nashville, ritenevano che presentasse la città sotto una cattiva luce; tuttavia lo spettacolo si dimostrò di enorme successo al di fuori della zona di Nashville e presto i fans della musica country si riversarono in città per ascoltare di persona i propri beniamini. Ecco perché l’Opry divenne presto troppo frequentato per le vecchie strutture della stazione radio. La WSM provò perciò diverse nuove sedi, compreso il "War Memorial Building", e infine trovò per l’Opry una casa definitiva nel "Ryman Auditorium".
Il sabato sera in cui Parker visitò il Ryman, era prevista l’esibizione di Eddy Arnold in un programma introduttivo che precedeva la messa in onda dell’Opry. O forse Parker non si trovò lì per pura fortuna. Forse aveva pianificato che la sua visita coincidesse con la performance di Arnold. Quale che sia stata la logistica dell’incontro, Parker si presentò ad Arnold e gli disse che credeva di potergli portare dei benefici come agente. Arnold rimase impressionato da Parker, anche se trovava il suo accento gutturale difficile da seguire.
Mentre si trovava a Nashville, tra le altre cose, Parker scoprì che stavano progettando uno spettacolo itinerante per promuovere il programma e i suoi sponsor nelle piccole cittadine del Sud. Lo show prevedeva quattro numeri, incluso quello di Eddy Arnold, e si sarebbe tenuto in un tendone come quelli del circo. Parker disse alla direzione dell’Opry che quel tipo di show gli era affine, dato era stato addestrato all’arte imprenditoriale fieristica dal maestro in persona, Carl Sedlmayr. Così venne assunto su due piedi. Fece ritorno a Tampa, si licenziò dalla "Humane Society" e comprò un furgoncino di seconda mano grande abbastanza da contenere l’equipaggiamento utile (manifesti, secchi di colla, pennelli e così via) e abbastanza comodo da dormirci mentre era in viaggio. Poi assunse colui che era stato suo assistente al ricovero, un uomo di nome Bevo, con lo stesso ruolo.
Quando lo spettacolo giunse in Florida, Parker fece tutto il possibile e lavorò indefessamente per promuovere gli artisti. Il suo lavoro consisteva nell’arrivare in città diversi giorni prima dello show e appiccicare manifesti ovunque. Ci si aspettava anche che stringesse rapporti con le stazioni radio e i giornali del posto e stimolasse l’interesse per lo spettacolo. Se l’affluenza era buona, Parker se ne prendeva il merito. Se il pubblico era scarso, aveva pronta la spiegazione per dare la colpa a qualcun altro.
Sul vecchio furgone, lento e traballante, che Parker aveva dipinto di un giallo vivace, viaggiava anche il suo aiutante Bevo, che da un giorno all’altro era passato da assistente accalappiacani ad assistente promoter di concerti. Nella sua autobiografia, "It’s a Long Way from Chester County" ("È lunga la strada dalla contea di Chester"), Eddy Arnold descrisse Bevo come un manovale circense che lo aveva colpito molto dal momento che era un vero personaggio.
«Pensava di essere un fusto, un dongiovanni, e si presentava con addosso roba di ogni tipo buttata via dalla gente, pantaloni troppo grandi o troppo corti, giacche con le spalle che gli pendevano fin quasi ai gomiti o colori che non stavano bene insieme» scrisse. «Era anche un casanova, proprio come altri sono alcolisti o hanno il vizio del gioco, e per questo si cacciava in ogni sorta di guai.»
Il compito di Bevo era raccogliere i manifesti che Parker aveva affisso, per poterli riciclare. A volte spariva per giorni interi, il che di solito aveva a che fare con qualche donna conosciuta in viaggio. Bevo amava dire alle ragazze di essere il manager di Eddy Arnold e a volte loro gli credevano e scappavano con lui fino alla città successiva, per poi tornare dalla madre quando scoprivano che aveva mentito ed era poco più che un assistente.
Questo suo comportamento indispettiva tantissimo Parker, perché aveva bisogno dei manifesti per la città successiva; ma, secondo Arnold, Parker faceva fatica a rimanere arrabbiato con Bevo molto a lungo. Ogni volta che quest’ultimo scompariva, Parker gli urlava contro e gli diceva che stava deludendo tutti, poi, però, dato che ovviamente non stava trasportando un carico di mattoni, finiva per dargli una pacca sulla spalla dicendogli solo di rimettersi al lavoro.
Stando a tutte le testimonianze, Parker era un agente intrepido. Secondo quanto si racconta, una volta, mentre una band locale stava suonando dal vivo per una trasmissione radio in una zona isolata, all’aperto, tra una canzone e la successiva, Parker schizzò fuori dal furgoncino e saltò sul palco, s’impossessò del microfono annunciando al pubblico in ascolto che si stavano perdendo un artista parecchio bravo di nome Eddy Arnold, che si esibiva nel tendone dall’altra parte della città. Quando il microfono gli fu strappato di mano, aveva già detto tutto quello che avrebbe voluto, rubando preziosi minuti di trasmissione per il suo cliente.
Arnold apprezzò i suoi sforzi e glielo fece sapere. Concluso il tour di due settimane, Parker disse ad Arnold che avrebbe voluto fargli da manager. L’artista rispose che ne aveva già uno, ma che il contratto sarebbe scaduto l’anno successivo, così Parker gli domandò se fosse contento di come il suo agente si era occupato di lui. Arnold disse di avere firmato un contratto discografico con la RCA, ma di non avere ancora inciso niente e che quello che stava guadagnando con un manager non era poi molto diverso da quello che avrebbe guadagnato senza.
Parker gli disse ciò che i manager dicono da sempre ai potenziali clienti: che le persone che facevano parte della filiera lo stavano derubando, e gli stavano fregando uno spicciolo dopo l’altro, spiccioli che sommati insieme sarebbero diventati soldi veri. Se fosse stato lui il suo manager, avrebbe tagliato fuori gli intermediari e si sarebbe preso cura del suo denaro: «Ragazzo, io ti renderò una star!». E ad Arnold andava più che bene.
Nel dicembre del 1944, la RCA fissò una sessione di registrazioni per Arnold. Le due canzoni incise quel giorno, "Mommy, Please Stay Home with Me" e "Mother’s Prayer", furono lanciate il mese successivo. Il disco andò molto bene per gli standard del 1945 e vendette tutte le ottantacinquemila copie stampate. Arnold era euforico. Altri due dischi distribuiti quell’anno, "Many Years Ago" e "Cattle Call", non ebbero altrettanto successo, ma Arnold aveva iniziato la carriera
discografica con il piede giusto, e ne era consapevole.
Per tutto il 1944 e fino al 1945, Parker continuò a lavorare come promoter freelance per gli spettacoli dell’Opry in tour in Florida. In quel periodo, la direzione gli fece pressione affinché si trasferisse a Nashville, ma lui aveva un motivo per non farlo: fino al settembre del 1945, quando l’ufficio leva di Tampa gli scrisse finalmente per notificargli che era stato riclassificato 4-A, troppo vecchio per il servizio militare, Parker non si sentì libero di lasciare la Florida. L’ultima cosa che voleva, in quel momento della sua vita, era sollevare un polverone con l’ufficio leva. La classificazione che aveva ottenuto nel 1944, 4-F, era buona perché lo manteneva fuori dall’esercito e non era soggetta a cambiamenti. Una volta che si era classificati 4-A, non si tornava più indietro: troppo vecchio voleva dire troppo vecchio.
Alla fine del 1945, Parker e Arnold strinsero un accordo di rappresentanza. Parker e Marie si trasferirono a Nashville, andando a vivere per un po’ proprio a casa di Arnold e sua moglie, Sally. Per il contadino del Tennessee, Parker era un uomo privo di istruzione e con i piedi per terra, che sembrava avere però un talento naturale per i rapporti con la gente.
«Spesso le persone credevano di avere a che fare con un provincialotto» scrisse Arnold nella propria autobiografia. “Va bene, posso batterlo” si dicono. Ma non lo battono. Parker è già in testa, prima ancora che si siedano al tavolo. Ha buon senso; li frega. Dato che il suo inglese non è perfetto (capita che sbagli una parola qua e là), pensano “be’, saprò trattarci” e finiscono dritti nella sua ragnatela.»
Fin da subito, Parker dimostrò di avere talento come manager. Fece girare Arnold per spettacoli nei tendoni e nelle birrerie e fissò per lui eventi in locali di qualità. Fece in modo che presentasse un segmento del Grand Ole Opry e strinse accordi a destra e a manca per lui, piccoli affari che sommati insieme produssero belle cifre. Per esempio, se il proprietario di un teatro acconsentiva a fissare una data per Arnold solo a patto che il teatro stesso ricevesse una percentuale sulle vendite del suo libro celebrativo, come in effetti spesso accadeva, Parker rispondeva che era d’accordo, a condizione che il teatro concedesse ad Arnold una percentuale sulle vendite dei popcorn. Riusciva sempre a cogliere una prospettiva vantaggiosa. I proprietari dei teatri erano abituati ad avere a che fare con i provincialotti, ma non erano abituati a trattare con un genio che aveva solo l’aspetto e la parlata da campagnolo.
Durante il primo anno come manager di Arnold, Parker dimostrò che, se mai aveva un talento, era proprio per tale mestiere. Lavorando nelle fiere aveva imparato l’importanza dei dettagli e del contatto visivo con «l’obiettivo». Sapeva che il successo di ogni imbroglio dipendeva dalla gestione dei minimi particolari. Sapeva che i salari che ricevevano gli artisti dalla direzione nel circuito delle fiere erano noccioline rispetto a quello che guadagnavano dalla vendita degli spazi per i chioschi. Lo stesso principio valeva per l’industria musicale. Per ogni cantante che sentiva di aver sbarcato il lunario solo perché si era fatto cento dollari cantando con il cuore, c’era un gestore di chioschetti o un proprietario di teatri che aveva guadagnato due volte, anzi dieci volte quella stessa cifra.
I proprietari dei teatri non erano abituati ad avere a che fare con i lavoratori del circuito fieristico, soprattutto quelli che rappresentavano spettacoli country, perciò quando Parker offriva loro una percentuale sulla parcella di Arnold in cambio di una fetta dalle vendite di cibo, la maggior parte accettava subito, pensando di avere fregato sia lui sia il proprietario del teatro della città precedente che non aveva ricevuto la stessa offerta.
La prima differenza che Arnold e la sua band notarono in Parker fu la sua disponibilità a viaggiare e trattare di persona. La maggior parte dei manager di Nashville stringeva accordi e fissava le date dei tour al telefono. Parker no. Lui non voleva concedere ai booker dei concerti e ai proprietari dei teatri il tempo di pensare alle offerte: voleva essere presente di persona, guardarli negli occhi, metterli in soggezione con la sua stazza e l’atteggiamento prendere-o-lasciare,
pronto ad abbandonare l’incontro. Andando al sodo, Parker era un negoziatore con i fiocchi e un attore nato.
Eddy Arnold era una delle stelle della musica country più in voga. Per diversi anni di seguito, si ritrovò ad avere due o tre dischi nella Top Ten in contemporanea. Nel 1948 ebbe nove dischi Top Ten in classifica, cinque dei quali arrivarono al primo posto. Vendite dei dischi, dei biglietti dei concerti e del merchandising, nonché il publishing correlato alle canzoni fruttarono denaro a pioggia.
A differenza di molti musicisti country contemporanei, Arnold scriveva molti dei propri brani. Aveva imparato che il denaro vero, nell’industria musicale, si faceva con il publishing: era un aspetto che Parker non conosceva ancora, quando arrivò a Nashville, ma era uno che imparava alla svelta e negli anni seguenti, quando gestì la carriera di Elvis Presley, trasse grandissimo beneficio da ciò che Arnold gli aveva insegnato sull’industria del publishing.
Una delle prime azioni che Parker intraprese quando i dischi di Arnold iniziarono a entrare in Top Ten fu fargli lasciare l’Opry. Da lì, denaro non ne arrivava. Perché parteciparvi? E poi, non solo lo spettacolo non li faceva guadagnare, ma la direzione dell’Opry chiedeva anche una commissione del quindici per cento su tutte le esibizioni degli artisti che comparivano nello show.
Parker convinse Ralston Purina a sponsorizzare uno spettacolo radiofonico giornaliero di quindici minuti presentato da Arnold chiamato Checkerboard Square. Lo show andava in onda quotidianamente a mezzogiorno, sul network radiofonico Mutual. Per lo più, Arnold cantava per l’intera durata dello spettacolo, ma a volte aveva ospiti come Hank Williams ed Ernie Ford, con i quali chiacchierava in onda e si alternava nelle esibizioni.
La trasmissione radiofonica conferì ad Arnold uno status di celebrità che superava i confini della musica country. Sempre impegnato a migliorare la carriera del proprio cliente, Parker compì il suo primo viaggio a Las Vegas e ottenne per Arnold un ingaggio di due settimane nel sontuoso Hotel El Rancho Vegas. Quando l’agente glielo comunicò, Arnold rimase di sasso. Aveva suonato in un sacco di fiere statali, rodei e birrerie, ma non si era mai esibito in un luogo così di livello come l’El Rancho.
All’inizio, Arnold aveva paura che l’ingaggio indignasse i fans appartenenti alla denomiazione cristiana della Southern Baptist Convention. Aveva sentito che gli alberghi di Las Vegas spingevano gli artisti a giocarsi tutti i guadagni e chiese a Parker di accertarsi che capissero che lui non avrebbe giocato d’azzardo al casinò dell’hotel.
Con grande gioia di Arnold, lo spettacolo di Las Vegas fu un successo. Arnold godette dell’attenzione e dell’occasione di incontrare stelle del cinema come Robert Mitchum e Clara Bow. Alla conclusione dell’ingaggio, l’albergo rilasciò un comunicato stampa con il quale si congratulava per la sua performance. «Ha dimostrato un nuovo principio della nostra politica degli spettacoli, le sue canzoni folk sono apprezzate moltissimo dal pubblico di Las Vegas come fonte
d’intrattenimento» diceva il comunicato.
«Nel corso dell’anno passato, si è dimostrato la nostra migliore scoperta e un affare della massima portata.»
Las Vegas era tutto ciò che Parker aveva mai sognato di trovare in una città, per uno come lui un vero paradiso, dove il denaro parlava e le bustarelle erano considerate una maniera accettabile di fare affari. Le slot machine cromate, gli eleganti tavoli da black jack e le ipnotiche roulette facevano sembrare le squallide slot machine nascoste nei retrolocali della Louisiana delle imitazioni scadenti.
Naturalmente, il gioco d’azzardo era solo la manifestazione esteriore di ciò che faceva crescere Las Vegas. A un livello più profondo, si trattava di un sistema economico basato sull’aforisma di P.T. Barnum secondo cui ogni minuto nasce un fesso. Per Parker, fu l’inizio di una lunga e soddisfacente relazione.
La prima volta che Tom Parker arrivò a Shreveport viaggiando con la Royal American, Jimmie Davis insegnava Storia e Scienze sociali al Dodd College, una scuola femminile. Davis aveva puntato gli occhi sulla carriera da docente fin da giovane e aveva conseguito una laurea specialistica in Formazione all’Università statale della Louisiana, ma il suo primo e unico amore era la musica: aveva abbastanza talento da pagarsi gli studi universitari lavorando come artista di strada.
La stazione radio Kwkh di Shreveport trasmetteva musica country il venerdì sera e a un certo punto, intorno al 1930, Davis divenne una presenza abituale; differiva da molti altri artisti perché si scriveva da solo le canzoni. Non ci volle molto prima che un talent scout della Decca Records lo sentisse e gli offrisse un contratto di registrazione.
La prima incisione di Davis, Nobody’s Darling But Mine, fu un modesto successo e gli permise di mettere in piedi una band per esibirsi nei locali country di Louisiana e Texas. Dato che Davis riusciva a malapena a mantenersi, con i miseri guadagni da artista, accettò un lavoro da segretario comunale a Shreveport. il suo principale punto di forza però rimaneva la capacità di scrivere canzoni; nel corso della sua carriera ne compose oltre trecento, compresa "You Are My Sunshine", ancora oggi celebre.
Su insistenza della moglie, Davis entrò in politica e venne eletto commissario della Pubblica sicurezza a Shreveport. Quattro anni dopo fu eletto commissario del Pubblico servizio per il distretto della Louisiana del Nord, un incarico statale che prevedeva la supervisione delle compagnie elettriche e del gas.
Nel 1943 si candidò all’incarico di governatore e, sbalordendo tutti, fu eletto per un mandato di quattro anni. Alla fine della sessione legislativa del 1944, Davis si unì ai legislatori cantando una trascinante versione di "You Are My Sunshine" nella Camera dei rappresentanti. Mentre le loro voci tonanti echeggiavano in quel luogo prestigioso, uno dei legislatori liberò due piccioni soprannominati Pace e Armonia. Davis lasciò la camera tra l’esultanza dei legislatori, un’uscita che avrebbe riempito P.T. Barnum – e anche Tom Parker – di freddo orgoglio.
Non è dato sapere quando Davis e Parker si conobbero di preciso. Dato che dal 1938 Parker aveva smesso di recarsi ogni anno a Shreveport – e fino al 1945 non si trasferì a Nashville, dove Davis andava periodicamente per occuparsi di affari – è probabile che si fossero conosciuti nei primi anni Trenta. Davis, che aveva una passione per il mondo dello spettacolo, forse era stato attratto dalla fiera della Royal American, oppure Parker, che condivideva la medesima passione, forse si era interessato alle esibizioni di Davis per la Kwkh.
Comunque sia, non erano uniti solo dal comune interesse per lo spettacolo. Condividevano il fascino per il ventre molle e misterioso della società americana. L’ascesa politica di Davis coincise con l’arrivo in Louisiana dell’impero delle slot machine di Frank Costello e Sam Carolla. In quanto commissario di Pubblica sicurezza di Shreveport, sarebbe stato impossibile per Davis non essere a conoscenza delle slot machine e dell’identità dei loro proprietari. Funzionava così:
Carlos Marcello faceva da galoppino a Costello e gli trovava i posti dove installare le slot machine e raccogliere i ricavi. Una volta sistemate le slot machine, aveva la responsabilità di pagare le autorità locali in cambio di collaborazione e silenzio. Il senatore Huey Long proteggeva le slot machine utilizzando gli agenti di polizia per tenere in riga i funzionari locali scontenti.
Quando Long fu assassinato, nel 1935, la gerarchia politica mutò, ma non cambiò molto per i signori della malavita, che videro il loro potere aumentare di anno in anno.
Quando Davis divenne governatore, il boss che godeva del maggiore peso politico era Leander Perez, meglio noto come il Boss del Delta; il capo con la maggiore influenza sul sottobosco criminale era Carlos Marcello, che il senatore del Tennessee Estes Kefauver una volta definì «il genio malvagio del crimine organizzato».
Jimmie Davis era uno stretto collaboratore di Perez, nonché amico di lunga data di Marcello. Poco dopo aver ricevuto la nomina a governatore, Marcello, Costello e il mafioso della Florida Meyer Lanksy aprirono due veri e propri casinò per il gioco d’azzardo a Jefferson Parish, a sud ovest di New Orleans. Parker era interessato soprattutto a Lanksy. Non solo era lui il genio della finanza dietro l’investimento della mafia nei casinò di Las Vegas, era anche collegato alla famiglia Santo Trafficante di Tampa, considerata dalle autorità federali la famiglia di malavitosi più potente della Florida.
A partire dal 1937 e fino al momento in cui Parker se ne andò da Tampa, la città visse quella che i federali e i giornalisti della carta stampata hanno definito l’Epoca del sangue. Per otto anni, Trafficante e i suoi sei figli combatterono contro le gang locali per il controllo dell’area della baia di Tampa. Quando le acque si calmarono, nel 1946, e Trafficante ne emerse nettamente vincitore, il suo omonimo Santo Jr. si trasferì a Cuba per stabilirvi una serie di casinò. Fu allora che conobbe Marcello, un mastino alto poco meno di un metro e sessanta, di grossa stazza, che mescolava la parlata strascicata di New Orleans al siciliano e si faceva passare per semplice operaio. Quando Fidel Castro salì al potere, chiuse i casinò e per un breve periodo rinchiuse sia Santo Jr. sia Marcello in prigione.
Quando suo padre morì, Santo Jr. strinse un’alleanza con Meyer Lansky e gli fece conoscere Marcello. i tre mantenevano il controllo del gioco d’azzardo illegale dal Texas alla Florida e oltre, fino al delta del Mississippi. Con Lanksy in squadra, potevano infilare un piede nella porta del gioco d’azzardo legalizzato di Las Vegas.
Dei tre, Marcello godeva della reputazione più terribile. A quanto si dice, don Vito Genovese della mafia di New York, nonostante potesse recarsi ovunque in America, senza problemi di sorta, si impegnava però ad avvisare per telefono Marcello ogni volta che andava a New Orleans.
In quel periodo, nella maggior parte degli Stati del Sud era abitudine del governatore assegnare il titolo di Colonnello ai suoi maggiori sostenitori. Era un titolo onorario ma, a seconda dello Stato in cui veniva attribuito, apriva delle porte a chi lo deteneva. Nel Tennessee significava poco, ma in due Stati, la Louisiana e il Mississippi, aveva un peso considerevole, in particolare nei confronti dei funzionari di polizia. Se si era un Colonnello in uno di quei due Stati, si poteva più o meno passarla liscia per qualsiasi cosa fosse meno grave dell’omicidio (e perfino quello non era escluso a priori).
Nel 1948, ultimo anno del suo primo mandato, il governatore Davis insignì l’amico Tom Parker del titolo ufficiale di Colonnello della Louisiana. Era un modo per dire pubblicamente «i miei amici sono i tuoi amici». Recandosi sul luogo dell’investitura, Parker, riconobbe il valore di tale commissione nelle relazioni pubbliche, dicendo a un collaboratore: «Da adesso in poi, fai in modo che tutti mi chiamino il Colonnello».
L’acquisizione dello status di Colonnello per Tom Parker non fu l’unico evento storico importante che si verificò in Louisiana nel 1948. Fu anche l’anno in cui la patria musicale del governatore Jimmy Davis, la stazione radio Kwkh di Shreveport, lanciò una trasmissione settimanale intitolata "Louisiana Hayride". Andava in onda il sabato sera dall’auditorium municipale di Shreveport, un edificio con tremilaottocento posti ai margini del quartiere degli affari.
Ricalcato sul Grand Ole Opry, che riscuoteva enorme successo, l’Hayride proponeva tre ore di esibizioni dal vivo nel format di uno spettacolo di varietà che comprendeva musicisti country emergenti, cabarettisti e un conduttore con diverse tracce ben scritte su cui improvvisare. Si esibivano sul palco tradizionale da auditorium, di fronte a uno sfondo che rappresentava il paesaggio paludoso del bayou, pensato per rafforzare l’identità turistica dello Stato. Una presenza fissa era la parte dedicata a un quiz chiamato Beat the Band (Sconfiggi la band). i partecipanti venivano presi dal pubblico e dovevano riconoscere una melodia suonata dalla band di casa, i Lump Lump Boys. Se si riusciva a dire il titolo prima che la musica si interrompesse, si vinceva un premio. Dato che gli sponsor non volevano che qualcuno se ne andasse via a mani vuote, gli spettatori che non riuscivano a indovinare la canzone giusta avevano una seconda possibilità; e il secondo brano suonato era sempre "You Are My Sunshine".
La forza dello show era comunque la qualità musicale. In genere, l’Hayride sceglieva principianti affamati di esposizione mediatica. Firmavano un contratto per un anno al minimo sindacale e tornavano ogni fine settimana. il primo anno di attività iniziarono con il piede giusto scritturando un grande cast, che comprendeva Johnny & Jack e i Tennessee Mountain Boys con Kitty Wells, Tex Grimsley e i Texas Playboys e i Four Deacons.
Poi un giorno scoprirono una miniera d’oro. Dopo quattro mesi di trasmissione, di fronte all’auditorium si fermò un giovanotto con una vecchia automobile scassata piena dei suoi pochi averi. Nella macchina c’erano anche sua moglie e la sua
figliastra. L’uomo disse che voleva solo l’opportunità di mostrare alla gente dell’Hayride di che cosa fosse capace. Si chiamava Hank Williams, e prima di lasciare l’Hayride per dedicarsi a progetti migliori e più importanti, diede allo show
un’identità musicale che gli permise di fare concorrenza all’Opry. Il suo stile musicale grezzo e l’onestà emotiva lo resero subito uno dei preferiti del pubblico e si tradussero in auditorium pieni zeppi.
Williams rimase con lo show fino al giugno del 1949, poi si trasferì a Nashville e si unì all’Opry. Con una potenza di trasmissione di cinquantamila watt, l’Hayride si poteva sentire fino al New Mexico a ovest e fino all’Arkansas e al Mississippi a nord. Era un buon inizio, ma i produttori della Kwkh erano ambiziosi e presto misero insieme un network che addirittura accrebbe l’influenza dello show. Alla fine, la CBS lo acquisì, concedendo dapprima uno show al mese e poi una messa in onda ogni settimana per circa metà delle tre ore originarie.
A esibirsi come ospite speciale in quel primo anno capitò un artista canadese di nome Hank Snow. Era stato un musicista di successo nel suo Paese d’origine fin dalla metà degli anni Trenta, g quando aveva siglato un contratto discografico con la Rca Victor, ma nel 1948 stava facendo i primi passi sul mercato americano.
Fino alla metà degli anni Quaranta, la RCA Victor aveva pubblicato i suoi dischi solo in Canada. Dato che i musicisti country americani si esibivano molto in Canada, entravano in contatto con nuovi talenti spesso del tutto sconosciuti a sud del confine.
Mentre era in tour in quella nazione, Ernest Tubb scoprì Hank Snow, che si esibiva con il nome di «Hank il cantante Ranger». Tubb rimase talmente impressionato dalle sue doti che ne parlò nell’ambiente e organizzò per lui delle esibizioni a Dallas. Con Tubb che spingeva Snow a ogni occasione, la RCA Victor non ebbe altra scelta che distribuirne i dischi negli Stati Uniti, anche se continuarono a pubblicarli in Canada e a promuoverlo come musicista canadese. in seguito al modesto successo di "Brand new heart", la RCA Victor rivalutò Snow e alla fine degli anni Quaranta decise di pubblicarne i dischi negli Stati Uniti.
Due anni dopo la prima esibizione all’Hayride, Snow era una vera stella americana del country. Nel 1950 fece uscire due hit, "Golden rocket" e "I’m movin’ on", e lo stesso anno gli fu chiesto di entrare a far parte del cast regolare del Grand Ole Opry. Il risultato dell’improvviso successo fu che Snow si trasferì a Nashville e infine divenne cittadino americano. Godeva di un buon nome negli ambienti della musica country e aveva la reputazione di persona onesta e leale.
Guidata dal Colonnello Tom Parker, la carriera di Eddie Arnold impennò. Era talmente richiesto per i concerti che Parker pubblicò su «Variety» un’inserzione: «io e Eddy Arnold ci rammarichiamo di non avere date a disposizione per le esibizioni dal vivo per la stagione del 1949». Non era del tutto vero: Arnold (che, testardo, si rifiutava di chiamare Parkerm Colonnello) aveva moltissime esibizioni fissate per quell’anno, ma il suo manager, attento alla promozione,
riusciva sempre a inserire una o due date per chi gli telefonava in preda al panico temendo di essersi perso l’artista di tendenza. Fu in quel periodo che il Colonnello conobbe Al Dvorin, l’agente di Chicago specializzato in artisti performativi, nani e spettacoli di animali ammaestrati. il suo segretario era Tom Diskin. Le due sorelle di Tom cantavano con Pee Wee King, un celebre musicista country di cui si occupava Dvorin.
Quando King andò in tour con Eddy Arnold, Diskin diede a Dvorin il preavviso di quattro settimane e si unì alle sorelle; incontrò Parker e decise di andare a lavorare per lui.
Pee Wee King non era l’unico artista di Dvorin che il Colonnello aveva ingaggiato per andare in tour con Arnold. Bobby Powers e Donna Dempsey erano un duo e catturarono l’attenzione del Colonnello: il primo suonava la fisarmonica e la seconda ballava.
«Erano un grazioso duo di nani» racconta Dvorin. «Bellissimi!»
Parker pensò che aggiungessero brio allo spettacolo.
All’epoca, le esibizioni di Arnold facevano incamerare tra i quattromila e gli ottomila dollari a serata; i ricavi ottenuti con il libretto delle canzoni, venduto per cinquanta centesimi, circa quarantamila all’anno, e le vendite dei dischi erano tra i più alti della musica country (nel 1948 guadagnò duecentocinquantamila dollari di royalties sugli album). Nel 1949 raggranellava la bellezza di mezzo milione di dollari l’anno.
"Bouquet of roses" divenne il suo primo pezzo a vendere un milione di copie, un risultato eccezionale per un musicista country. La sua vita personale era ugualmente soddisfacente: quando nel gennaio del 1949 gli nacque un secondo
figlio si sentì sul tetto del mondo.
Tuttavia, perfino allora una nube incombeva su di lui. Dean Upson lasciò l’Artists’ Service Bureau della WSM poco dopo che Arnold concluse l’accordo di management, si recò a Shreveport e aiutò la Kwkh a far partire l’Hayride; non durò però a lungo e presto Upson tornò a Nashville, dove aprì un’agenzia pubblicitaria. I passi da gigante che Arnold compiva un mese dopo l’altro sulla via del successo e che lo portarono sulla bocca di tutti a Nashville, aumentarono sempre di più il risentimento di Upson, che infine gli fece causa, dichiarando che il loro contratto di management era ancora valido e dicendo che Arnold gli doveva il dieci per cento di tutti i guadagni conseguiti dalla firma dell’accordo avvenuta nel
1943.
La causa sconvolse Arnold, non solo perché era un uomo di parola e rimase sconcertato che qualcuno lo accusasse pubblicamente di non aver pagato il dovuto, ma anche perché il rapporto con Parker gli stava provocando crescente disagio. insieme a tutto ciò, pesava forse anche una certa dose di disprezzo verso se stesso, perché aveva acconsentito a dare a Parker il venticinque per cento dei suoi guadagni, anziché il dieci, dato che l’agente aveva accettato di rappresentare esclusivamente lui.
Arnold non metteva in dubbio la capacità di Parker di ottenere risultati in qualità di manager, perché era indiscutibile; a preoccuparlo era però il modo in cui l’agente si mostrava. Ogni volta che pubblicava un’inserzione – e ne pubblicava parecchie – metteva il proprio nome accanto a quello di Arnold. Tutto era sempre firmato «Eddy Arnold e Tom Parker».
Nonostante il soprannome di contadino del Tennessee, Arnold era un uomo complesso, che teneva in considerazione i sentimenti altrui e rispettava l’autorità; credeva sinceramente nella concezione tutta del Sud su come un gentiluomo dovesse presentarsi in pubblico. Era tutto ciò che Parker non era, e lentamente, un anno dopo l’altro, le differenze iniziarono a infastidirlo.
Parker era sfacciato, spaccone, a volte davvero insopportabile. Era un uomo di fiera in tutto e per tutto e non fingeva mai di essere diverso. Durante l’incontro con i dirigenti della RCA Victor, non si trattenne nel dar loro pacche sulle spalle, nel metter loro in testa strani cappelli né si preoccupò delle risate eccessive.
La risata esplosiva di Arnold era rumorosa e imprevedibile proprio quanto quella del suo manager, ma era Parker, e non il cantante, a recitare la parte del sempliciotto di campagna. Arnold non sapeva mai cosa aspettarsi e l’unica certezza che aveva era che Parker fosse da qualche parte là fuori nell’oscurità, a gestire intrallazzi, a distribuire dimostrazioni di calore eccessive e saluti ipocriti, a escogitare nuovi piani per far guadagnare altri soldi al suo «ragazzo».
La musica country non aveva mai conosciuto un successo come quello di Eddy Arnold. Nessun altro musicista di quel genere era mai arrivato a una tale popolarità e venduto una quantità così alta di dischi. Nessun altro artista country aveva mai riscosso un successo così grande con le canzoni d’amore. Nessun altro musicista country aveva mai goduto della fama di sex symbol. Le donne impazzivano per lui durante i tour; era un idolo.
Parker era sempre due passi avanti a tutti. Per introdurre Arnold nel mondo del cinema, persuase la William Morris Agency ad aprire loro le porte.
Poco dopo il primo ingaggio di Arnold a Las Vegas, l’artista girò due film, "Feudin’ Rhythm" e "Hoedown", entrambi usciti nel 1950 con recensioni contrastanti. Tutto ciò portò poi a uno show televisivo di mezz’ora per la NBC, "The Eddy Arnold Show": era poco che di un’espansione della trasmissione radiofonica, ma rese noti il suo volto e il suo nome facendo sì che milioni di spettatori lo scoprissero.
Nel frattempo, Arnold era assillato dalla causa di Upson, che si trascinò per anni, una deposizione dopo l’altra. Il litigio con il manager precedente lo rese più vigile nei confronti di quello nuovo.
La commissione cresceva di continuo. Arnold stava guadagnando un sacco, ma aveva un agente che voleva il dieci per cento e un altro che voleva il venticinque, e il governo federale esigeva più della metà in tasse: iniziava a sembrare che tutti possedessero un pezzetto di Eddy Arnold, tranne lo stesso Eddy Arnold.

- fine prima parte -

- continua -
17/07/2023 16:26
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2. In viaggio con Hank e Eddy
- seconda parte -

In quel periodo, Parker andò a Shreveport e, sostenuto da investitori anonimi che molto probabilmente aveva incontrato grazie ai suoi legami con Jimmie Davis, cercò di imporsi con forza sull’Hayride, dicendo ai padroni che voleva appropriarsi dello show. Si offrò di comprarlo seduta stante, ma gli sbalorditi proprietari non volevano nemmeno pensarci. Parker non era abituato a ricevere dei no e se ne andò indignato. Nessuno dei suoi artisti si sarebbe mai più esibito all’Hayride, a meno che fossero stati pagati così bene da non poter proprio rifiutare.
Tom Parker si crogiolava nel successo di Eddy Arnold. Aveva dimostrato che chi aveva dubitato di lui e lo aveva criticato si era sbagliato. Sapeva davvero quello che stava facendo. Avrebbero anche potuto chiamare giostraio il vecchio Colonnello, se avessero voluto – anche se nel 1952 aveva solo quarantadue anni, ne dimostrava già molti di più – ma non avrebbero potuto mettere in discussione il successo, e il suo cliente era una delle stelle più luminose d’America. Per come la vedeva Parker, la ragione della celebrità era lui. E perché non avrebbe dovuto pensarlo? Non era stato lui ad andare alle convention del settore appendendo sulla schiena di un elefante a noleggio uno striscione che diceva MAI DIMENTiCARE EDDY ARNOLD, facendolo poi sfilare avanti e indietro in modo che tutti lo vedessero? Non era stato forse lui ad affittare una mandria di pony ammaestrati per divertire i dirigenti dell’industria musicale? E non era stato lui a concepire l’inserzione pubblicitaria di più pagine sulle riviste di settore destinata a dipingere Eddy Arnold come un contadino immerso nel fango fino alle caviglie vicino a un gruppo di cavalli?
Nel 1951 e nel 1952 Arnold vantò una serie di dischi in Top Ten, compresi "Kentucky Wall", "I Wanna Play House With You" e "Call Her Your Sweetheart", ma iniziò a passare meno tempo in studio di registrazione e in concerto e più davanti alle telecamere della televisione. Passò due settimane a "The $64 Question", uno tra i quiz più importanti, fece diverse comparsate nel celebre programma di Perry Como e condusse "The Chesterfield Show", il suo rimpiazzo estivo.
Nell’agosto del 1951 la sua foto apparve sulla copertina di «TV Guide», chiaro indizio che era passato da cantante country a popolare uomo di spettacolo, un’impresa mai compiuta da nessun altro artista del suo genere.
A mano a mano che la fama di Arnold cresceva, aumentava anche la sua frustrazione nei confronti del management. Alle apparizioni dal vivo e televisive e alle sessioni d’incisione si mescolavano stressanti riunioni con gli avvocati per la causa con Upson.
Nel 1953 erano passati ormai quattro anni da quando era stata intentata e a ogni anno che passava le deposizioni e gli scontri legali diventavano sempre più tesi. Quando finalmente il caso andò a processo, l’avvocato di Upson fece fare ad Arnold la figura dell’allocco per non aver tenuto meglio i registri finanziari e delle tasse, e per un certo periodo il grande artista parve nuotare in un mare di guai. Poi la bilancia pendette di nuovo a suo favore quando il giudice stabilì che
Upson aveva alterato il contratto, all’insaputa di Arnold, per far sembrare che l’accordo avesse durata indeterminata anziché di un solo anno.
Alla fine, nel 1953 il giudice respinse le principali richieste di risarcimento di Upson e ordinò al vice cancelliere del tribunale di stabilire se Arnold dovesse qualcosa e quanto a Upson, per l’anno in cui il contratto di management era stato in vigore. Quando venne presa tale decisione, Arnold si trovava a Las Vegas, dove aveva un ingaggio di due settimane all’Hotel Las Vegas’ Sahara. Anche se non sapeva ancora quanto avrebbe dovuto pagare a Upson, aveva chiaramente vinto.
L’esperienza comunque amareggiò Arnold, rendendolo ostile all’idea di avere un manager. Si era fidato di Upson, prendendolo in parola, e, per come la vedeva lui, il suo ex agente gli si era rivoltato contro e gli aveva fatto passare le pene dell’inferno dal punto di vista legale. Se una persona di cui si era fidato senza fare domande aveva alterato un contratto, come aveva stabilito il giudice, che cosa avrebbe potuto combinargli alle spalle un uomo di cui non si era mai fidato, ovvero il Colonnello?
La crisi esplose durante l’ingaggio a Las Vegas. Arnold, Parker e l’assistente, Tom Diskin, si trovavano nel camerino degli artisti per discutere d’affari, quando Parker e Diskin decisero di fare una pausa e scendere al bar. Mentre erano via, squillò il telefono; la persona che aveva chiamato chiese di Parker ma, secondo l’autore Michael Streissguth, quando Arnold gli disse che non c’era, l’altro (ignaro che a rispondere fosse stato Arnold) gli chiese di riferire a Parker un
messaggio: «Gli dica solo che lo show che abbiamo fissato insieme con Hank Snow sta andando alla grande».
Arnold riattaccò e si precipitò al bar, furioso. Stava pagando a Parker una commissione del venticinque per cento perché rappresentasse esclusivamente lui: che fosse coinvolto nella carriera di Hank Snow era un tradimento di prim’ordine. Mentre si avvicinava al tavolo dove sedevano Parker e Diskin, li vide spingere sotto il tavolo le carte che stavano esaminando, nel tentativo di nasconderle. Arnold riferì il messaggio su Snow e se ne tornò in camera.
«Per diversi giorni mi limitai a ignorarlo» disse Arnold nel corso di un’intervista con Streissguth. «Non volevo parlargli. Ma poi tornammo a casa e lui partì per un viaggio… gli spedii un telegramma.»
Nel messaggio diceva a Parker che voleva interrompere il loro rapporto e gli chiese di incontrarlo nell’ufficio del suo avvocato per sistemare i dettagli. Parker non discusse con Arnold, ma gli fece sapere che per interrompere il contratto tra un artista e il suo agente non sarebbe bastato un telegramma: ci voleva moneta sonante.
Il 4 settembre 1953 Parker e Arnold si incontrarono nello studio dell’avvocato e sciolsero formalmente il loro contratto di management, anche se Arnold acconsentì affinché Parker continuasse a fissare ingaggi per lui su base indipendente. Quanto di preciso l’artista pagò Parker per porre fine all’accordo di rappresentanza non è mai stato rivelato, ma dev’essersi trattato di una cifra considerevole, se Parker si arrese senza combattere. In seguito, Arnold espresse solo lodi nei confronti di Parker e raccontò ai giornalisti che si erano separati per divergenze di carattere. Parker seguì la stessa falsariga nei suoi commenti e dichiarò a «Billboard»:
«Mi spiace molto di perdere Eddy. È un bravo ragazzo. Sono lieto che siamo riusciti a separarci in maniera cordiale».
All’inizio dell’anno seguente, il giudice emise la sentenza per il caso Upson. in base ai calcoli del vice cancelliere del tribunale, Arnold riceveva l’ordine di pagare a Upson la principesca somma di settecentottantadue dollari e novantaquattro centesimi. Nel giro di pochi mesi, Arnold riuscì a liberarsi di due enormi macigni che gli gravavano addosso. Fu un momento cruciale, ma non per i motivi che sperava lui.
Con Parker parzialmente fuori dalla sua vita, Arnold chiese a Joe Csida di fargli da manager. Csida era un ex direttore di «Billboard» che aveva lasciato la rivista per cimentarsi nel management e nelle produzioni televisive. Era un abile agente, ma prima che fosse passato un anno dalla fine del suo contratto con Parker, la carriera di Arnold iniziò la fase calante. Entro la fine del decennio, la straordinaria parabola del contadino del Tennessee era finita.
Insieme a Tom Diskin come assistente, Parker mise in piedi un ufficio nell’atrio degli studi della WSM, anche se all’epoca i dirigenti della stazione non ne erano a conoscenza. Era il luogo perfetto dove fare affari. Nell’atrio c’era un telefono che potevano usare gratis e, senza dubbio, c’erano mobili da ufficio in abbondanza, per gli incontri con i nuovi clienti.
Anche Oscar Davis, che si era fatto un nome come manager di Hank Williams, usava l’atrio come ufficio. La morte improvvisa di Williams, in gennaio, lo aveva sconvolto, e, come Parker, era ansioso di trovare nuovi clienti. Finì per legarsi a Parker, acconsentendo a svolgere per lui del lavoro promozionale. in realtà, Parker aveva un ufficio nel garage dietro casa sua, a Madison, nel Tennessee, ma era fuori mano rispetto al giro dell’industria musicale di Nashville e per il momento l’atrio della stazione radio serviva allo scopo. Lui e Davis rispondevano alle chiamate a turno ed esordivano dicendo il loro numero di telefono. Se la chiamata era per Davis ed era Parker a rispondere, quest’ultimo diceva «Un momento solo» e passava la cornetta all’altro, che ripeteva la stessa procedura quando era lui a rispondere.
Dopo le esperienze vissute con Eddy Arnold, Parker decise che la maniera migliore di procedere sarebbe stata fondare la propria agenzia di booking e management personale e mettere sotto contratto numerosi artisti, in modo che se con uno fosse finita male avrebbe potuto comunque lavorare con gli altri. Chiamò la sua nuova compagnia Jamboree Attractions, e fece mettere sui propri articoli di cancelleria un logo con un carro coperto e l’orgoglioso proclama «Copriamo tutta la nazione».
Nel giro di pochi mesi, mise insieme un catalogo di nuovi talenti e iniziò a fissare spettacoli per Cousin Minnie Pearl, Whitey Ford, noto anche come duca di Paducah, e un giovane cantante country di nome Tommy Sands, che in seguito avrebbe ottenuto il successo come pop star. Era una buona formazione, per iniziare, ma a Parker serviva un altro divo.
Sempre generoso con il vecchio Colonnello, il destino intervenne e gli servì uno dei solisti di punta della città, senza che Parker alzasse nemmeno un dito. Nell’autunno del 1954, Hank Snow iniziò a guardarsi intorno per trovare in città un nuovo manager. Voleva qualcuno che non si limitasse a organizzargli date, ma che gli aprisse anche le porte di radio e televisione. Snow conosceva molto bene il successo riscosso da Parker con Eddy Arnold, perciò quando venne a sapere che avevano rescisso il loro contratto di rappresentanza decise di contattare Parker perché si occupasse di lui. in seguito, si sarebbe pentito di non avere verificato i motivi per cui il rapporto d’affari del Colonnello e Arnold era naufragato ma, in quel momento, gli parve una buona idea.
Quando Snow gli telefonò, Parker era a casa, e dato che vivevano poco lontani suggerì che si incontrassero nell’ufficio collocato nel suo garage. Quando Snow arrivò ed entrò, trovò la prima di quella che si sarebbe rivelata una lunga serie di sorprese.
«Salve, Tom» esordì Snow tutto allegro.
Parker si irrigidì e lo ammonì: «D’ora in poi mi chiamerai sempre Colonnello Parker».
L’artista rimase stupefatto. L’incontro durò circa due ore, per la maggior parte delle quali, secondo quanto in seguito rammentò Snow, Parker descrisse tutti gli eccezionali risultati ottenuti con Eddy Arnold. Se quello che Hank Snow voleva era diventare una stella nazionale come Eddy Arnold, allora era senz’altro dalla persona giusta, gli garantì Parker. Lo avrebbe reso una star, portando il suo nome sotto i riflettori.
Per quanto riguardava le vendite di dischi, Hank Snow era uno dei cinque migliori musicisti country del Paese. Era solo una o due posizioni più in basso rispetto al livello raggiunto da Eddy Arnold in quel momento della sua carriera, ma voleva di più: voleva emergere dal branco e sfidare Arnold per conquistare la vetta. Chi poteva aiutarlo se non l’ex manager del contadino del Tennessee?
Durante quel primo incontro non raggiunsero un accordo, ma dopo diverse altre discussioni Parker accettò di fargli da manager in esclusiva, a condizione che Snow gli pagasse un forfait di duemilacinquecento dollari per coprire gli «speciali servizi resi» durante il resto di quell’anno.
La clausola di commissione del loro contratto sarebbe entrata in vigore il primo gennaio 1955. Quando si avvicinò la data d’inizio, Parker, che si era già intascato duemilacinquecento dollari da Snow senza muovere un dito, gli fece una nuova proposta. Perché non fondere le loro due compagnie, la Hank Snow Enterprises e la Jamboree Attractions, in un’unica partnership, tenendosi ciascuno il cinquanta per cento della partecipazione?
Stando a come la spiegò Parker, avrebbero fatto una fortuna mettendo insieme le loro compagnie e usando Snow come nome principale degli spettacoli che avrebbero fissato. A Snow parve una buona idea, così accettò. Poi Parker compì l’ultima mossa: disse a Snow che il suo assistente, Tom Diskin, era proprietario del venticinque per cento della Jamboree Attractions, perciò Snow avrebbe dovuto comprargliela prima che loro potessero concludere l’accordo.
Snow compilò per Diskin un assegno da milleduecentoventicinque dollari, una cifra che rappresentava il venticinque per cento della compagnia. Poi Parker spiegò che, siccome l’acquisizione aveva fatto sì che il valore della compagnia
rimanesse di tremilasettecentocinquanta dollari, per poter diventare soci al cinquanta per cento Snow doveva pagare a lui un assegno da millesettecentosettantacinque. Snow lo compilò.
Quel giorno, Hank Snow lasciò l’ufficio nel garage da orgoglioso co-proprietario della Hank Snow Enterprises-Jamboree Attractions. Nel suo cuore era certo di essere ben avviato sulla strada dello star system, e gli era costato solo cinquemilacinquecento dollari. Parker guardava quegli stessi cinquemilacinquecento dollari e vedeva ben altro.
Quel sabato c’era un caldo opprimente e la temperatura si mantenne per tutto il pomeriggio vicino ai trentasette gradi centigradi. Solo dopo le sei la temperatura sarebbe scesa sotto i trentaquattro. Il sabato pomeriggio, la maggior parte degli adolescenti di Memphis – o almeno quelli che avevano i venticinque centesimi del biglietto d’ingresso – andavano dritti nei cinema cittadini, dotati di aria condizionata. Poche case di Memphis ce l’avevano nel 1954, e le pubblicità dei film che dicevano «Comodi e al fresco» erano efficaci nell’attirare assidui frequentatori quanto le pellicole stesse.
Il diciannovenne Elvis Presley non faceva eccezione. Trascorreva il pomeriggio al cinema, dove arrivava in tempo per lo spettacolo di metà pomeriggio e si mescolava a una folla di ragazzini che probabilmente avevano l’età media di dodici anni, se non meno. Si era diplomato alla Humes High School l’anno precedente e, dopo un paio di false partenze, aveva trovato lavoro come camionista per la Crown Electric.
Al cinema, Elvis era fuori posto. In quei giorni, era insolito che chi aveva più di diciott’anni andasse alle matinée. Si presumeva che i pomeriggi del sabato fossero riservati ai ragazzini. A Elvis non importava, dato che era immaturo per la sua età e spesso cercava la compagnia dei ragazzi più giovani.
Quel giorno tornò a casa intorno all’ora di cena e sua madre, Gladys, gli disse che lo aveva cercato al telefono un uomo di nome Scotty Moore. Aveva detto alla donna che rappresentava gli studi "Sun Records" di Sam Phillips e voleva parlare con Elvis perché andasse da lui a fare un’audizione. Elvis non aveva bisogno di altre spiegazioni. Era stato allo studio di Sam sulla Union Avenue diverse volte, nel tentativo di attirare la sua attenzione, ma fino a quel momeneto era riuscito solo a conquistare la graziosa segretaria, Marion Keisker, che, all’insaputa di Elvis, aveva cercato per mesi di persuadere Sam a concedergli un provino.
Sam aveva sempre avuto qualche scusa per non farlo, e solo quel pomeriggio, quando Marion e Scotty erano andati a bere un caffé con Sam al locale accanto, finalmente l’uomo aveva ceduto e aveva detto a Scotty che aveva il permesso di concedere un’audizione al ragazzo con il nome buffo. Quell’anno Sam aveva già fatto uscire un disco che Scotty e la sua band, gli Starlite Wranglers, avevano registrato, ma l’album, un pezzo country intitolato "My kind of carryin’ on", non
era andato bene e Scotty era ansioso di tornare in studio per avere una seconda chance.
Qualdo Elvis lo richiamò, fu la moglie di Scotty, Bobbie, a rispondere al telefono. Scotty ed Elvis ebbero un breve dialogo, giusto quanto bastava a fissare l’incontro per il giorno successivo. L’audizione si sarebbe svolta in un giorno di festa, il 4 luglio, ma Scotty e Bobbie non avevano particolari programmi e a quanto pareva nemmeno Elvis. Fu Bobbie la prima a vederlo avvicinarsi, camminando sul marciapiede. Indossava una camicia bianca merlettata, mocassini bianchi e pantaloni rosa con una striscia nera lungo ciascuna gamba. I capelli erano tirati indietro a coda d’anatra. La donna lo fece entrare, poi chiamò Scotty, che era sul retro a suonare la chitarra.
«Quel tizio è arrivato!»
Scotty chiese a Bobbie di fare un salto a chiedere a Bill Black se volesse venire e assistere all’audizione. Black suonava il contrabbasso negli Starlite Wranglers con Scotty e aveva l’abitudine di lasciare il suo strumento a casa Moore, dove c’era più spazio e nessun bambino che tormentasse le corde. Quando Billy arrivò, Scotty ed Elvis stavano già strimpellando con le chitarre. Elvis non aveva una grandissima padronanza dello strumento, ma la sua voce era convincente e sembrava conoscere ogni canzone fosse mai stata scritta. Elvis era già da diverso tempo alla ricerca di un orientamento per la sua voce, cantando in giro per la città, ma non l’aveva ancora trovato e passava dal blues al pop alla musica country.
«Cantava qualsiasi cosa, da Eddy Arnold a Billy Ekstein, di tutto e di più» racconta Scotty. «Ero sbalordito da quante canzoni sapeva.»
Bill restò ad ascoltare per un po’, poi si alzò e se ne andò. Quando ritenne di aver sentito abbastanza, Scotty disse a Elvis che avrebbe parlato con Sam e lo avrebbe ricontattato. Dopo che Elvis se ne fu andato, Scotty e Bill si incontrarono per analizzarne la performance. Bill non ebbe peli sulla lingua. «Be’, non mi ha impressionato granché, diamine» affermò. Bobbie, a cui non era piaciuto il suo aspetto, concordò con lui.
«Non credo che abbia impressionato davvero qualcuno» disse lei. «Aveva una bella voce e sapeva cantare, ma per la roba che cantava era uguale a tutti gli altri.»
Scotty ne aveva avuto un’impressione più favorevole, nonostante in Elvis non ci fosse nulla che spiccasse e attirasse l’attenzione. Ad averlo colpito più di tutto era stata la sua capacità di tenere il ritmo: era un buon chitarrista ritmico e sapeva seguire il tempo della musica con la voce in una maniera che Scotty non aveva mancato di notare.
Più tardi, quel giorno, Scotty chiamò Sam e gli raccontò dell’audizione. Fu lusinghiero nei confronti della voce di Elvis e del suo repertorio, ma non ne esagerò il potenziale. Sam aveva due possibilità: poteva portare gli Starlite Wranglers in studio e incidere un disco con Elvis alla voce, oppure poteva chiedere a Scotty e Bill di presentarsi insieme a Elvis e ripetere il provino, per poter sentire la sua voce registrata. Sam scelse questa seconda opzione e chiese a Scotty di venire in studio con gli altri la sera seguente.
Dato che di giorno tutti lavoravano – Scotty per suo fratello, in una lavanderia a secco; Bill allo stabilimento Firestone; ed Elvis alla Crown – il lunedì seguirono la loro normale routine. Dopo il lavoro andarono a casa, cenarono e si lavarono, poi si incontrarono allo studio Phillips. Quando arrivarono faceva ancora caldo: la temperatura stava appena iniziando a scendere sotto i trentadue gradi. In quel momento nessuno parve ricordare se nello studio ci fosse l’aria condizionata, ma se anche fosse stato così, i rumorosi condizionatori sarebbero stati spenti per non alterare la registrazione. Là dentro faceva un caldo infernale.
Ripeterono la procedura seguita a casa di Scotty, solo che quella volta Bill suonò il basso. Iniziarono con "Harbor Lights", una canzone incisa diversi anni prima da Bing Crosby. Poi eseguirono "I Love You Because" di Ernest Tubb. Niente pareva generare la giusta sintonia. Sembravano un gruppo di ragazzini che suonavano roba già sentita alla radio. Più suonavano, peggio sembrava andare.
Finalmente, intorno a mezzanotte, fecero una pausa. Scotty uscì a fumare una sigaretta. Union Avenue era una delle strade principali di Memphis, perciò anche a quell’ora davanti allo studio c’era un flusso costante di traffico. L’ultima decina di brani che avevano suonato erano delle ballate. Scotty non aveva nulla contro quel tipo di canzoni, ma per inclinazione naturale propendeva verso musica più ritmata. Era sempre stato così, fin da quando aveva iniziato a
studiare chitarra da bambino.
Di nuovo in studio, sedettero sul pavimento, stanchi e senza sapere bene che cosa fare a quel punto. All’improvviso, in un momento di ispirazione, Elvis balzò in piedi e iniziò a suonare la chitarra acustica e a cantare "That’s All Right, Mama", un pezzo blues inciso da Arthur Big Boy Crudup nel 1940. Solo che non stava proprio «suonando» la chitarra: stava colpendo le corde secondo la tecnica dello slap, cercando più il ritmo che il sound.
Bill, seduto esausto sul basso, saltò su e si unì a lui. Ascoltando il veloce riff di Elvis, Scotty drizzò le orecchie e si inserì con la chitarra elettrica. Conclusa la canzone, Sam si affacciò dalla soglia della sala di registrazione.
«Che cosa state facendo?» chiese.
«Stiamo solo giocando un po’» rispose Scotty, che non sapeva se Sam avrebbe approvato il loro subitaneo momento di follia.
«Be’, non era tanto male» commentò Sam. «Riprovate.»
Questa volta, Sam cominciò a incidere.
Dopo diverse registrazioni, ascoltarono i risultati. Nessuno sapeva bene cosa dire. il pezzo era buono, di quello erano certi, ma non assomigliava affatto a quello che già si trovava sul mercato.
Alla fine Scotty disse: «Be’, dicevi che stavi cercando qualcosa di diverso».
Sul momento Sam non disse nulla. Era attonito quanto loro. Gli altri lo guardarono, in attesa che facesse sapere loro se avevano inciso un disco o se avevano solo perso tempo. Alla fine, Sam disse quello che pensava, anche se non apertamente.
«Okay, dobbiamo incidere l’altro lato» fece. «Non posso portare al disc jokey una canzone sola.»
Quando tornarono a casa, quella sera, erano emozionati per "That’s All Right, Mama", ma anche in ansia perché non sapevano se fossero stati in grado di registrare un altro brano come quello per il lato B del disco. E la loro apprensione si rivelò giustificata.
Quando, due giorni dopo, tornarono nel minuscolo studio cinque metri per dieci di Sam, tutto quello che si misero a suonare parve piatto e privo d’ispirazione.
Quella sera lasciarono lo studio senza il brano per il lato B, ma Sam non era troppo preoccupato. Chiamò un amico, Dewey Phillips (nonostante il cognome, non erano parenti), e gli chiese di passare in studio. Dewey era il disc jockey più in voga a Memphis ed era noto per il suo bizzarro senso dell’umorismo e il comportamento ossessivo quando era in onda – una specie di versione bonaria e anni Cinquanta di Howard Stern.
Dewey si innamorò della canzone e si portò via una copia della registrazione per mandarla in onda durante la sua trasmissione. E lo fece davvero, parecchie volte. Quando Scotty, Bill ed Elvis tornarono in studio, la "Sun Records" si era già vista ordinare cinquemila copie del disco, che ancora non erano state nemmeno stampate.
Adesso sapevano di dover tirare fuori una canzone per il lato B e in fretta. Erano bastati i passaggi radio di Dewey per trasformarli in celebrità locali.
Questa volta fu Bill a mettere in moto la macchina creativa. Erano seduti in studio a parlare di quello che avrebbero dovuto fare, quando all’improvviso Bill saltò in piedi e iniziò a cantare "Blue Moon of Kentucky "con voce acuta, in falsetto, pestando sul basso con tutta l’energia che riuscì a racimolare.
"Blue Moon of Kentucky" era una ballata incisa dalla leggenda della musica bluegrass Bill Monroe, ma Bill la cantò a buon ritmo, accompagnando il testo con un piglio da far battere i piedi. Com’era successo con "That’s All Right, Mama", compresero all’istante di avere un disco. Elvis subentrò alla voce e Scotty smanettò alla chitarra; Sam fece partire l’incisione, raggiante. Avevano il lato B.
Adesso erano pronti a darci dentro con il rock ’n’ roll. Marion scrisse il contratto da far firmare a Elvis, ma, stranamente, non furono offerti contratti a Scotty e Bill. Sam suggerì di siglare un accordo separato con il cantante.
Emozionati per l’uscita del loro disco, Scotty e Bill non si soffermarono troppo a riflettere sulle sottigliezze legali di quello che stavano facendo. I tre si riunirono e decisero che Elvis avrebbe ricevuto il cinquanta per cento, Scotty e Bill il venticinque a testa. Dato che avevano bisogno di un nome, decisero di chiamarsi i "Blue Moon Boys". Più avanti si sarebbero trasformati in "Elvis e i Blue Moon Boys".
Quella stessa settimana, Sam parlò con Scotty della sua preoccupazione che qualcuno potesse mettere sotto contratto di rappresentanza Elvis, mandando all’aria i loro piani. All’epoca era una pratica comune che i disc jockey esigessero di fare da manager agli artisti che avevano diffuso in radio e a volte chiedevano anche una percentuale sulle royalties delle canzoni. Sam suggerì a Scotty di diventare l’agente del cantante, almeno per il primo anno. A Scotty parve una buona idea, perciò ne parlò con Elvis e fece redigere un contratto di rappresentanza a un avvocato.
Il 12 luglio 1954, sette giorni dopo avere registrato "That’s All Right, Mama", Scotty andò a casa di Elvis, dove loro due, Gladys e Vernon Presley firmarono il primo accordo di management del futuro re del rock ’n’ roll.
«Prendetevi cura del mio ragazzo» disse Gladys.
Una frase che alcuni avrebbero considerato con noncuranza, ma non Scotty, che prese sul serio la richiesta.
Il contratto definiva Elvis un «cantante noto e di fama», mentre si riferiva a Scotty come leader del gruppo e agente di booking. Ai sensi dell’accordo, della durata di un anno, Scotty avrebbe ricevuto una commissione del dieci per cento sui guadagni di Elvis dovuti alle apparizioni dal vivo, ma anche questo era fuorviante, perché il dieci per cento del cinquanta per cento di Elvis consisteva solo in un cinque per cento extra per Scotty. Il contratto non proibiva a Elvis di
accettare ingaggi da altre fonti, il che significava che Scotty non avrebbe ricevuto alcuna commissione se fosse stato qualcun altro a fissare la data. Stranamente, l’accordo non menzionava i proventi derivati a Elvis dai dischi.
Scotty e Bill erano troppo emozionati per notarlo, all’epoca, ma da quell’accordo potevano sperare solo di ricavare la loro parte di denaro derivata dalle apparizioni in concerto. Nessuno dei due sarebbe stato pagato per suonare durante le sessioni di registrazione della "Sun Records" e solo Elvis avrebbe ricevuto le royalties dei dischi. Ciò significava che non avevano diritto ad alcun compenso per il lavoro svolto su "That’s all Right, Mama" e "Blue Moon of Kentucky" o per qualsiasi altra incisione fatta per la "Sun Records".
Per quanto riguardava Sam Phillips, Scotty e Bill erano personae non gradite. Il suo accordo era con Elvis, e solo con Elvis. Se quest’ultimo lo comprese, non lo confidò mai a Scotty o Bill, che supposero di essere entrambi soci fondatori di una collaborazione al cinquanta-venticinque-venticinque per cento.

L’ufficio improvvisato nel garage di Parker stava diventando sempre di più il suo rifugio. Una ristrutturazione della direzione della Wsm aveva come risultato la proibizione di effettuare telefonate interurbane dal telefono dell’ingresso, e anche se Parker, Oscar Davis e altri promoter che lavoravano con il gruppo di artisti dell’Opry avevano ancora il permesso di usare i telefoni negli uffici sul retro, venire relegati là dietro non era neanche lontanamente divertente quanto stare nell’atrio, per Parker, che lo vedeva come un palco su cui recitare il ruolo del manager dalla parlantina sciolta.
A parte questo, avendo Hank Snow che firmava assegni a destra e a manca, Parker non vedeva ragione di abbandonare la stazione radio. Quando non fumava sigari da solo in ufficio, passava la maggior parte del tempo a coltivare i contatti con dirigenti dell’industria musicale e altri manager. Non viaggiava più come un tempo, un netto scostamento da tutto quello che aveva imparato alla Royal American. Forse era per via dell’età, perché a quarantacinque anni il suo metabolismo non era più quello di una volta ma, più probabilmente, il motivo era che la maggior parte del suo lavoro era incentrato sul fissare ingaggi per gli artisti, non sulla gestione delle loro carriere.
L’unico musicista che aveva acconsentito a rappresentare come agente era Hank Snow e quel contratto non avrebbe iniziato a ingranare fino al gennaio del 1955. Parker non aveva fretta di iniziare un rapporto di lavoro più stretto con Snow. Fin dall’inizio, il Colonnello avvertì chiaramente dell’antagonismo nei suoi confronti, anche se il motivo non è evidente. Forse si trattò di uno scontro di personalità, oppure la ragione fu che Snow aveva il permesso di soggiorno per vivere e lavorare negli Stati Uniti, che a Parker invece mancava. Vederlo gli ricordava la sua vita segreta e quanto fosse vulnerabile nei confronti dell’espulsione.
Qualsiasi fosse il motivo, trattò Snow da fesso, usandolo, manipolandolo per i propri scopi, e nel frattempo gli rifilava saluti falsi e lodi sul meraviglioso talento donatogli da Dio. Snow non si accorse mai del disprezzo che Parker provava per lui e, ansioso di seguire la strategia del suo nuovo manager, faceva tutto quello che il Colonnello gli chiedeva, senza fare domande.
Non si sa quando Parker sentì nominare Elvis Presley per la prima volta, ma il 30 luglio 1954 i Blue Moon Boys suonarono all’Overton Park Shell di Memphis, un anfiteatro all’aperto specializzato in intrattenimento per famiglie. Quella sera il nome principale era Slim Whitman, uno dei numerosi musicisti country di cui si occupava la Jamboree Attractions di Parker.
La reazione del pubblico per Elvis, quella sera, fu così accesa, con le ragazzine che strillavano e si lanciavano sul palco, che Whitman non avrebbe potuto evitare di notare il fermento nemmeno se avesse voluto, soprattutto visto che, quando salì sul palco lui, il pubblico stava ancora urlando per Elvis. Una reazione di quel tipo l’aveva ottenuta il crooner pop Frank Sinatra negli anni Quaranta, ma aveva suonato in grandi locali di città importanti; che succedesse sulla scena country con un cantante sconosciuto dal nome bizzarro era sbalorditivo.
Forse Whitman raccontò a Parker, direttamente o indirettamente, a che cosa aveva assistito. Non era il tipo di avvenimento che un artista avrebbe tenuto per sé. C’è però anche la possibilità che sia stato Oscar Devis a farlo, dato che contattò il disc jockey di Memphis Bob Neal per ottenere informazioni privilegiate su Elvis. Neal fece ascoltare a Davis i dischi di Elvis e lo accompagnò a un suo concerto dal vivo. In seguito, comunque, Parker diede a Davis il merito di avergli
parlato di Elvis, anche se fu sempre evasivo sul momento in cui accadde. In qualunque modo il Colonnello sia venuto a sapere di lui, che sia stato da Whitman o da Davis, è evidente che fosse a conoscenza di quello che stava succedendo a Memphis già in agosto, quando Blue Moon of Kentucky entrò nelle classifiche regionali di «Billboard» al terzo posto, subito dietro a "I Don’t Hurt Anymore" di Hank Snow.
In quel momento Parker seppe di voler attirare Elvis nella sua rete manageriale. Basandosi sul successo riscosso dai Blue Moon Boys allo Shell, Sam Phillips chiamò Jim Denny, il direttore del Grand Ole Opry e gli parlò per fissare un ingaggio per la band nello show. Denny gli disse che aveva sentito il disco, ma che in realtà non era adatto all’Opry. Tuttavia, promise di restare aperto nei confronti del gruppo e disse che sarebbe rimasto in contatto.
Phillips rivolse l’attenzione al Louisiana Hayride, che ormai veniva trasmesso anche da una stazione sorella da cinquantamila watt a Little Rock, in Arkansas. L’Hayride espresse interesse a ingaggiare i Blue Moon Boys, ma richiedeva ai nuovi artisti di garantire esibizioni settimanali e firmare un contratto della durata di un anno.
Le cose stavano accadendo a una velocità tale che Phillips non era certo di voler impegnare Elvis in un contratto a lungo termine, così temporeggiò, senza dire né sì né no. Nel frattempo, Parker iniziò a tirare le fila dietro le quinte per far
ingaggiare Elvis dall’Opry. Parlò di lui a Hank Snow, suggerendo che potesse essere una buona aggiunta alla loro agenzia di booking in condivisione. Dato che Snow presentava un proprio spazio all’interno dello show, la direzione dell’Opry avrebbe avuto notevoli difficoltà a rifiutare qualcuno che lui voleva far partecipare, dunque perché non parlare con Denny per inserirlo nello spettacolo?
Denny accettò di aggiungere Elvis e i Blue Moon Boys allo show di Snow che sarebbe andato in onda il 2 ottobre e solo a condizione che suonassero "Blue Moon of Kentucky" e non quell’altra canzone che sembrava uno di quei motivetti che avrebbero ascoltato le persone di colore il sabato sera.
Quando ricevette la telefonata da Denny, Phillips rimase senza parole, una condizione rara, allora come adesso, che andava al di là della comprensione di chi lo conosceva. Era passato solo un mese da quando Denny aveva rifiutato la sua proposta. Che cosa gli aveva fatto cambiare idea? Be’, il motivo non aveva importanza… il Grand Ole Opry era il top. A meno che avesse chiamato il Signore in persona, nessun’altra telefonata avrebbe potuto essere più importante per un musicista di Memphis di quella dell’Opry.
Elvis, Scotty e Bill non stavano più nella pelle quando caricarono la macchina, la mattina del 2 ottobre, e si diressero a Nashville, con un viaggio di circa quattro ore.
Nel corso degli anni si è scritto molto sulla loro esibizione di quel giorno, in particolare si è detto che fu un disastro e che rispedì Elvis a casa in lacrime; Scotty Moore però non la ricorda affatto così. Secondo lui, il pubblico rimase sobrio e educato, anche senza schiere di adolescenti urlanti ad assalire il palco, nessuno dei membri della band percepì ostilità nel modo in cui la performance venne accolta. Ed Elvis non se ne andò in lacrime, ha affermato Bobbie Moore, che
andò a Nashville con la moglie di Bill Black, Evelyn: «A me sembrò piuttosto contento».
Quando Sam Phillips fece ritorno a Memphis, telefonò Pappy Covington, l’agente che fissava gli ingaggi per il Louisiana Hayride, e accettò il contratto di diciotto mesi che gli offriva. Elvis e i Blue Moon Boys – il nome era già cambiato, mettendo in primo piano Elvis – avrebbero dovuto partecipare tutti i sabato sera. Sarebbero stati pagati quarantadue dollari, dei quali diciotto a Elvis e dodici a testa a Scotty e Bill.
La prima esibizione di Elvis all’Hayride fu il 16 ottobre. L’unica differenza nel loro spettacolo di quella sera fu l’aggiunta di D.J. Fontana, un batterista che suonava alle loro spalle, dietro uno sfondo che lo rendeva invisibile al pubblico. All’epoca il pubblico della musica country non accettava i batteristi, ma dato che alcune band del genere li assoldavano quando registravano i dischi e ne avevano poi bisogno affinché le esibizioni suonassero come le incisioni, l’Hayride faceva in modo di avere D.J. reperibile.
Quando non rimaneva ad aspettare all’Hayride il sabato sera, in attesa di un cenno per sistemarsi silenziosamente dietro le quinte, D.J. suonava nel circuito dei night club di Shreveport. La musica country non era la sua preferita, perché era cresciuto ascoltando la musica delle orchestre, il jazz e il dixieland di New Orleans, ma un concerto era un concerto e D.J. dava il massimo a tutti i gruppi country che accompagnava. La maggior parte dei suoi guadagni veniva dalle bettole e dagli strip club di Shreveport e dintorni, i club che Carlos Marcello controllava da New Orleans.
L’annunciatore che li presentò quella sera era Frank Page, uno dei membri dello staff dell’Hayride (l’altro era Norm Bale), che fece pressioni sul direttore della programmazione della Kwkh Horace Logan affinché offrisse un contratto a Elvis e ai Blue Moon Boys.
«Horace non era d’accordo» racconta Page. «Non la considerava musica country. Neanche per noi lo era, ma pensammo, perché non fare un tentativo? Sapevamo che stavano attirando attenzioni e vendendo dischi. Li avevamo ascoltati, quei dischi. Convincemmo Logan a darci retta.»
Elvis, Scotty e Bill incontrarono D.J. dietro le quinte prima dello spettacolo. La loro ultima uscita era "Good Rockin’ Tonight", la loro canzone più veloce fino a quel momento. Ascoltarono la registrazione e D.J. decise che quello che doveva fare, dal punto di vista musicale, era starsene fuori dai piedi. La loro musica possedeva un ritmo naturale e lui non voleva scombussolarlo.
Ciò che lo sorprese del gruppo, era che fosse composto da sole tre persone. La prima volta che aveva sentito il disco aveva pensato fosse composto da cinque o sei componenti.
Quella sera, il pubblico dell’Hayride rimase entusiasta, anche se non chiassoso quanto sarebbe diventato a mano a mano che la fama di Elvis crebbe. Il mese successivo, Bob Neal, che aveva fissato alcuni ingaggi per il gruppo, parlò con Sam Phillips per rilevare la rappresentanza di Elvis da Scotty. Neal era un omone grosso come un orso, con un largo sorriso e modi affabili, e tutti nella band, Scotty compreso, lo apprezzavano e si fidavano di lui. A nessuno venne in
mente che potesse fare da intermediario, anche inconsapevolmente, per un grande squalo bianco sinistramente in agguato nell’ombra.

- fine capitolo 2 -
18/07/2023 21:42
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3. Il Colonnello scruta il suo regno selvaggio

Il mese di gennaio del 1955 si rivelò piuttosto profetico, con un piccolo terremoto che fece tremare Memphis. La città si trova sul confine sud-orientale della faglia di New Madrid, una bomba a orologeria geologica, il cui centro si trova, appunto, a New Madrid, nel Missouri, e che si estende verso sud fino a Marked Tree, in Arkansas, poco oltre il fiume Mississippi rispetto a Memphis. Quando si parla di terremoti, la maggior parte della gente pensa alla California; la faglia con la storia più violenta tuttavia non si trova a Ovest, bensì in Missouri. Secondo quanto affermano gli esperti di tali fenomeni, quando arriverà la prossima grande scossa (già nel 1955 in ritardo rispetto alle previsioni e ancora oggi non pervenuta), Memphis verrà rasa al suolo e il fiume Mississippi la reclamerà riversandosi sulla città. Nonostante le glorie del passato, gli abitanti di Memphis sono consapevoli che il luogo in cui abitano
non è altro che uno stato mentale temporaneo: potrebbe letteralmente sparire da un momento all’altro.
È una delle ragioni per cui, per decenni, Memphis è stata la Capitale degli omicidi d’America. Nessuno si era mai sentito sicuro, in città. La maggior parte dei residenti erano afroamericani discendenti degli schiavi e profughi ebrei perseguitati, prima dalla Russia e poi dalla Germania nazista. A fare da contrappeso alla maggioranza c’era una rumorosa minoranza di nazionalisti bianchi, rifugiati provenienti dal Mississippi. Un calderone di malcontento.
Per contrasto, Nashville si trova a oltre trecento chilometri di distanza ed è praticamente immune alle oscillazioni geologiche della faglia di New Madrid. Lì gli abitanti non si accorsero nemmeno del terremoto del 1955, e se pure avessero avvertito piccole scosse, o se ne avessero sentito parlare in seguito, non ci avrebbero badato più di tanto.
Per quanto li riguardava, Memphis poteva pure andare al diavolo. Gli affari delle due città non si erano mai intrecciati più di tanto.
Tom Parker aveva rimandato, puntato i piedi, trovato scuse e poi aveva tremato solo all’idea, l’inizio del nuovo anno però lo vide ufficialmente interpretare il ruolo di manager di Hank Snow. A quanto pare, non aveva mai avuto intenzione di mettere i propri talenti al suo servizio come aveva fatto con Eddy Arnold, ma Snow non lo sapeva e la nuova collaborazione riempiva il cantante d’emozione.
Parker in realtà pensava a Elvis Presley. Quando il suo accordo di rappresentanza con Snow entrò in vigore, stava anche per siglarsi il nuovo contratto di Elvis con Bob Neal. L’accordo di management di Scotty con Elvis sarebbe durato ancora per sei mesi. 1 Nelle settimane precedenti, però, Neal aveva già organizzato ingaggi per il gruppo in
Texas e in Arkansas. Sam aveva parlato di Neal come di un probabile successore, perciò Scotty sapeva che qualcosa stava per cambiare, e ciò gli suscitava emozioni contrastanti. Non gli piaceva fare il manager e non aveva chiesto la commissione, nemmeno una volta, ma era l’unico accordo scritto che lo legasse a Elvis e ai dischi che stavano realizzando. Voleva e non voleva. Alla fine, desiderava soltanto suonare la chitarra.
A un certo punto, verso Natale, Scotty trovò il nome e l’indirizzo di un’agenzia di booking di Chicago. Che volesse o meno essere il manager a quel punto era irrilevante. Se doveva trasferire il contratto a Neal, allora voleva almeno farlo sulla scia di una vittoria, non perché non fosse in grado di assolvere al suo compito. Ecco perché scrisse all’agenzia di booking di Chicago. Con Neal che fissava date in Texas e Arkansas, sarebbe stato un fiore all’occhiello per lui se avesse trovato un ingaggio per il gruppo in un locale importante, non nel Sud. Spedì una lettera all’agenzia, insieme al loro ultimo disco, e attese una risposta.
A metà gennaio, la risposta arrivò. «La ringraziamo molto per averci contattato in merito al suo artista, tuttavia, pur essendo noi un’agenzia di booking e promozione, al momento non abbiamo posti dove poterlo piazzare» scriveva l’autore della missiva. «Ci sono pochi sbocchi per gli artisti hillbilly nella zona intorno a Chicago.»
La lettera era battuta a macchina con cura, su carta intestata della "Jamboree Attractions" ed era firmata da Tom Diskin.
Non sapendo nulla di Tom Parker e della sua compagnia, Scotty aveva spedito la missiva all’ufficio di Chicago, pensando fosse l’indirizzo principale di una grande agenzia di booking. In realtà, l’indirizzo di Chicago non corrispondeva tanto a una filiale quanto al tentativo di Parker di accontentare il socio, Diskin, che viveva in quella città.
Più o meno nello stesso periodo in cui ricevette il rifiuto dalla "Jamboree Attractions", Scotty cedette il suo contratto di management a Bob Neal. Sam lo convinse che sarebbe stata la scelta migliore per la band. Nessuno gli offrì dei soldi in cambio della rinuncia all’accordo. Nessuno lo pagò per rilevarlo. Si limitò a cederlo.
Il nome completo di Bob Neal era Robert Neal Hobgood, ma in radio funzionava meglio la versione abbreviata. Alla Wmps, Neal presentava due programmi quotidiani. Era un personaggio ben noto
in città, capace di sollevare la carriera di chi lavorava nell’industria musicale. Come il suo rivale Dewey Phillips, era sempre preso di mira da promoter e dirigenti del settore che volevano ottenere più pubblicità possibile per i concerti e i dischi. Uno degli stratagemmi più in uso era pagare gli annunciatori radiofonici affinché presentassero degli show in cui i loro artisti avrebbero potuto esibirsi. In questo modo, potevano avere la certezza che l’annunciatore avrebbe menzionato lo spettacolo durante il normale turno radiofonico.
Neal conobbe Parker nella seconda metà degli anni Quaranta, quando venne a Memphis per promuovere gli show di Eddy Arnold. Parker aveva acquistato regolari annunci pubblicitari per spingerlo, ma aveva anche allungato una cinquantina di dollari a Neal per presentare lo spettacolo e reclamizzarlo in onda.
«C’erano forse tre o quattro promoter che tutti sapevano essere di vecchio stampo, degli imbroglioni: il Colonnello, Oscar Davis, J.L. Frank e Larry Sundrock» raccontò Neal. «Di [Parker] sapevo che era sempre stato assolutamente diretto, non come alcuni degli altri, che facevano promozione alla bell’e meglio. La filosofia del Colonnello era: se hai intenzione di fare qualcosa, sii pronto a pagare, per cominciare… Veniva dal mondo delle fiere. Era un vero trafficone e sapeva come smuovere la gente.»
Senza dubbio, Neal mediò per fare in modo che Parker rilevasse da Scotty il contratto di Elvis. Non si sa ancora se sapesse quello che stava facendo o se il Colonnello lo avesse semplicemente manipolato allo scopo. Quasi tutti quelli che conoscevano Neal lo apprezzavano come persona. Aveva un carattere cordiale e la capacità di far sentire importanti gli altri.
Il fatto che accettasse cinquanta dollari da Parker per presentare e reclamizzare un concerto, e che non ci vedesse nulla di male, rivela che non avrebbe considerato sbagliato concedergli altri favori, soprattutto se avesse avuto la convinzione che sarebbe stato nei migliori interessi di Elvis.
Anche se Parker negò sempre di avere visto Elvis esibirsi nelle settimane immediatamente successive al concerto di Overton Park Shell, è chiaro che lo vide all’opera dal vivo. Ed è ugualmente evidente che in quel periodo Elvis divenne una sua ossessione.
Quello che Parker colse rimanendo in agguato, sullo sfondo, a osservare e attendere, nell’ombra, è ciò che comprese anche D.J. Fontana quando incontrò per la prima volta Elvis e i Blue Moon
Boys. D.J. era rimasto colpito dalla maniera in cui il cantante, di quattro anni più giovane rispetto a Scotty, si rimetteva al manager, compagno di band. Si fidava pienamente di Scotty, quando c’erano dei dubbi era chiaro che fosse Scotty – o, come amava chiamarlo, Old man, il Vecchio – a decidere per tutti. Ancora oggi, è un dettaglio che spicca nei ricordi di D.J.
Se anche D.J., che allora aveva meno di venticinque anni, se ne era accorto, di certo lo avrebbe notato lo scaltro Parker, persino tenendo d’occhio la situazione da una certa distanza. Oltre al rispetto che Elvis nutriva per Scotty, c’era il fatto che fosse un veterano della marina militare e avesse prestato servizio in Cina durante i sanguinosi giorni della Rivoluzione comunista e, in seguito, nella Guerra di Corea. 5 Chiunque fosse legato all’esercito rappresentava una minaccia per Parker. Non avrebbe mai sfidato a un confronto diretto un veterano. Preferiva lavorare dietro le quinte, per sconfiggere gli avversari con furbizia e astuzia, operando sempre da una distanza di sicurezza.
Il 6 febbraio 1955, Elvis e i Blue Moon Boys vennero ingaggiati per un’esibizione domenicale all’Ellis Auditorium nel centro di Memphis. Bob Neal aveva rilevato il contratto di management solo da una settimana o giù di lì, ma non perse tempo a organizzare una riunione per Sam, Elvis e i ragazzi insieme all’uomo che, in qualità di manager, aveva deciso essere perfetto per fissare gli ingaggi del gruppo: il Colonnello Tom Parker.
Si incontrarono allo Shorty’s Grill, un bar semi nascosto, raggiungibile a piedi dall’auditorium. Quando Elvis, Scotty e Bill arrivarono, Neal, Sam Phillips, Parker e il suo assistente Tom Diskin erano già seduti nel locale. Presentandosi, Scotty non disse nulla della lettera di rifiuto ricevuta da Diskin un paio di settimane prima. Avrebbe potuto chiedergli come mai adesso fosse interessato – e due settimane prima no – ma così avrebbe scatenato tutta una nuova serie di problemi, e prendersi il merito di un tentativo di booking fallito era l’ultima cosa che Scotty voleva fare. Diskin aveva le proprie ragioni per tenere la bocca chiusa. Lui e Scotty costruirono il loro rapporto su un segreto.
Neal spiegò ai ragazzi che Parker e Diskin volevano rilevare l’incarico di booking e assicurarsi che tutti si sentissero a proprio agio rispetto a questo accordo. Lanciando occhiate furtive a Elvis, con i suoi inflessibili occhi azzurri che brillavano, Parker fece la solita tiritera sui passati successi con Eddy Arnold e parlò delle prospettive future con Hank Snow; Diskin gli diede man forte.
Insieme, Parker e Diskin arringarono i loro passivi ascoltatori come una coppia di imbonitori da fiera intenti a vendere una boccetta da cinque centesimi di qualche pozione. Bill rimase seduto durante le presentazioni, poi, dopo aver ascoltato lo sproloquio introduttivo, si scusò dicendo che doveva tornare all’auditorium per occuparsi di alcune faccende di lavoro. Scotty non ci mise molto a prendere le misure. Aveva visto dozzine di imbonitori come Parker a Shanghai e in un sacco di porti infestati dai ratti affacciati sul mare della Cina del sud. Non sapeva nulla di Parker, a parte quello che Neal aveva raccontato loro, ma il suo atteggiamento gli faceva accapponare la pelle.
Elvis e Scotty rimasero ancora un po’, poi anche loro tornarono all’auditorium. L’incontro non aveva suscitato una bella sensazione in Scotty, che per la prima volta iniziò a preoccuparsi del futuro della band. In loro assenza, Neal, Parker, Diskin e Sam si occuparono di affari. Parker disse che voleva ingaggiarli per una imminente serie di esibizioni con Hank Snow. Tutti concordarono che fosse una buona idea.
Scotty non fu il solo a lasciare l’incontro con un senso di disagio in fondo allo stomaco. Parker aveva provato più o meno la stessa sensazione nei confronti di Scotty, anche se per motivi totalmente diversi. Scotty non era come la maggior parte dei musicisti che aveva conosciuto: era pericoloso, del tutto imprevedibile. Cresciuto nelle campagne del West Tennessee, era testardo e determinato, come sono solo i ragazzi delle fattorie del Sud, e se questo aspetto da un lato lasciava immaginare che potenzialmente si portasse dietro una certa semplice creduloneria, suggeriva anche che potesse nutrire una sorta di rabbia legittima, tipica di chi aveva lavorato almeno per un periodo in quelle zone. Tuttavia, non era questo ad avere infastidito di più Parker: a metterlo a disagio era stata l’esperienza di Scotty nel mondo reale, oltre le coste degli Stati Uniti d’America. Questo, unito al rispetto che Elvis aveva mostrato nei suoi confronti durante l’incontro, aveva convinto Parker che il chitarrista fosse una minaccia. Prima fosse stato possibile tagliarlo fuori, meglio sarebbe stato.
Parker non perse tempo e fece andare Elvis in tour con Hank Snow. Sette giorni dopo l’incontro da Shorty’s, Elvis e i Blue Moon Boys si trovarono a Lubbock, in Texas, a suonare in un evento
country insieme al duca di Paducah, Bill Myrick e i suoi Rainbow Riders e Jimmy Rodgers Snow, il figlio diciannovenne di Hank.
Due giorni dopo, Elvis e i Blue Moon Boys si unirono all’Hank Snow Jamboree di Abilene e Snow vide per la prima volta il pubblico impazzire per la performance di Elvis: sottopalco urlarono,
agitarono le braccia, si lanciarono sul palco e si comportarono come lui non aveva mai visto fare nel mondo della musica country. Era felice di aver avviato una collaborazione con Parker. Sapeva che Elvis era sotto contratto con Bob Neal, ma adesso che era il Colonnello a fissare gli ingaggi era solo questione di tempo prima che mettessero sotto contratto l’artista in tutto e per tutto.
Quando Parker suggerì di organizzare un tour con Snow e i musicisti rock emergenti Bill Haley e i Comets, Snow accettò al volo l’idea. L’unico problema, disse Parker, era che avevano bisogno di soldi per promuovere la tournée. Suggerì di versare quindicimila dollari a testa in uno speciale conto condiviso per poi saldare i conti dopo il tour. Snow compilò per Parker un assegno corrispondente a quella cifra. Lo show fu fissato in sei, sette città e ogni esibizione fece il tutto esaurito, quando però Parker consegnò a Snow il bilancio, non indicava dove il Colonnello avesse destinato la propria parte di denaro iniziale.
Snow si sentì tradito, ma lasciò correre, in parte perché era impegnatissimo (si esibiva duecentocinquanta volte all’anno) e in parte perché semplicemente non voleva credere al peggio. Il rifiuto è il primo rifugio per i musicisti stanchi di viaggiare, la maggior parte preferirebbe dormire anziché litigare.
Le riserve nutrite da Snow nei riguardi di Parker furono messe in ombra dal successo che Elvis stava avendo con l’Hank Snow Jamboree. Era fantastico assistervi. Nonostante fosse il nome
principale nel programma, Snow rimase impressionato come tutti dalla strana capacità di Elvis di entrare in sintonia con il pubblico, perfino quando si arrivò al punto in cui dovette mettersi in secondo piano e lasciare che fosse Elvis a chiudere i concerti.
Talento a parte, Elvis era solo un ragazzo – aveva la stessa età di suo figlio, Jimmie – ed era impossibile non apprezzarlo, soprattutto per il modo in cui rispondeva a ogni domanda con un educato «sì, signore» o «no, signore». Nei mesi successivi, Snow lo ospitò spesso in casa sua, a Nashville, e anche quando la musica finì, continuò a ricordare volentieri Elvis e Jimmie nel giardino sul retro a lanciare un coltello contro un albero, uno dei passatempi preferiti dei teenager del Sud.
Una volta mandati in tournée Elvis e i Blue Moon Boys, Parker iniziò a lavorare con il cantante, dicendogli che meritava qualcosa di meglio rispetto a quello che già aveva. Conquistata la sua fiducia, insinuò che avesse bisogno di una band migliore. Elvis non ne voleva sapere, perché più di chiunque altro sapeva quanto fossero importanti Scotty e Bill nella fase creativa in studio. Parker però aveva messo gli occhi sul gruppo e anche se non era ancora il manager, stava complottando per farli fuori.
Erano in tour solo da poche settimane quando Parker avvicinò i membri della band di Hank Snow e chiese loro se fossero interessati a diventare il gruppo di Elvis. Non era la prima volta che faceva una cosa simile. Nel 1945 aveva cercato di istigare i membri della band di Eddy Arnold e, dato che non aveva funzionato, aveva deciso di pagarli con un fisso, il che aveva spinto i due elementi ad andarsene. La band di Hank Snow in ogni caso non era interessata al suggerimento di Parker. Era una proposta assurda istituire un gruppo country hard core: loro non suonavano rock’n’roll. Ne parlarono con Scotty e Bill, confermando rapidamente i loro sospetti su Parker.
Scotty ha raccontato: «Sapevamo fin dal primo giorno che il Colonnello non ci voleva tra i piedi. Andando avanti, divenne ovvio. Elvis mi ascoltava e a lui non faceva piacere avere attorno gli amici di Elvis».
Il gruppo di Hank Snow diede a Scotty e Bill anche un’altra informazione interessante: secondo alcune voci, il Colonnello era un immigrato clandestino. Per qualche motivo, la notizia non sorprese nessuno dei due. Finché avesse trovato loro degli ingaggi, però, non avrebbe avuto importanza la nazione da cui proveniva.
Quello che Scotty e Bill non notarono, all’epoca – come nessun altro fece, del resto – era quanto Memphis innervosisse Parker. Ne aveva paura. Non ci andava più di quanto fosse assolutamente necessario per i propri affari. Si potrebbero contare le volte in cui la visitò sulle dita di due mani, e cinque o sei erano state all’epoca della Royal American. Non risulta che vi abbia mai portato nemmeno sua moglie Marie, in cinquanta e più anni di matrimonio.
Per una di quelle ironie del destino tanto care agli storici, E.H. «Boss» Crump morì nel 1954 più o meno nel momento in cui Elvis e i Blue Moon Boys salirono sul palco per la loro prima esibizione al Louisiana Hayride. Pur segnalando un cambio culturale della guardia, ciò non influì sulla potente malavita di Memphis, che rimase forte come sempre.
A metà degli anni Cinquanta, Memphis non era più conosciuta come la Capitale degli omicidi d’America, eppure la quantità di crimini in città rimaneva sconcertante.
Quello che Parker non aveva imparato su Memphis quando vi si era recato con la Royal American lo avrebbe appreso dalla Dixie Mafia. Qualsiasi città in grado di fermare Carlos Marcello e Santo Trafficante dietro a una linea immaginaria, tracciata nel cuore del delta del Mississippi, avrebbe potuto fare quello che voleva di gente come Tom Parker… e lui ne era consapevole.

- fine prima parte -

- continua -
19/07/2023 22:51
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3. Il Colonnello scruta il suo regno selvaggio

- seconda parte -

A rendere unica la criminalità di Memphis era la capacità di influenzare la politica e di far agire il governo come fosse un proprio scagnozzo. Volevate problemi con l’Agenzia delle Entrate? Non dovevate che litigare con il gruppo di Memphis. Desideravate che qualcuno venisse fatto fuori? Il gruppo di Memphis se ne sarebbe occupato per vostro conto. Avevate un rivale con un grosso carico di eroina in arrivo? Qualcuno che avreste voluto rovinare in seguito a una retata dei federali? Be’, tutti sapevano chi chiamare.
Al contrario del gruppo di Memphis, però la Dixie Mafia non se la passava benissimo. Soprattutto a causa delle udienze del senatore del Tennessee Estes Kefauver sul crimine organizzato, Marcello ricevette il suo primo ordine di espulsione nel 1953, anche se due anni dopo si stava ancora difendendo con successo. Quell’evento, più di ogni altra cosa, spinse Parker a comportarsi con cautela nelle trattative con Memphis, soprattutto perché il suo caro amico Jimmie
Davis non era più governatore della Louisiana.
I primi mesi del 1955 furono tra i più emozionanti che Elvis avrebbe mai vissuto, anche se fosse per un’unica ragione: per la prima volta assaporò il vero successo di un tour. Ad accompagnarli in molti dei primi viaggi furono Bobbie Moore ed Evelyn Black, entrambe sbalordite dalla delirante adulazione che le donne presenti tra il pubblico riservavano a Elvis. Evelyn ha rammentato la volta in cui lei e Bobbie erano seduti sui gradini della palestra di un liceo, a guardare l’esibizione da quella che ritenevano essere una buona distanza di sicurezza. Ma quando lo show terminò, si scatenò l’inferno.
«C’era uno sciame di gente e noi iniziammo a scendere i gradini, e ce la facemmo a malapena a muoverci» ha raccontato ridendo. «Erano come una mandria impazzita.
Fu divertente, però. Quando Elvis salutò, gli strapparono la camicia e altre cose del genere. Fece persino un autografo sulla tetta di una signora.»
Tom Parker non fece una buona impressione a nessuna delle due.
«Era un uomo dal carattere duro, mi parve» ha detto Evelyn. «Non credo che stringesse legami personali con molti. Non l’ho mai visto sedersi a parlare con Scotty o con Bill.»
«A me sembrava assomigliare a un clown» ha affermato Bobbie. «Una volta faceva l’imbonitore in fiera e si vestiva in maniera adatta al ruolo. Aveva l’aspetto di un circense, ma si comportava come un uomo d’affari. Non l’ho mai visto ridere o divertirsi. Disse a Scotty che stava pagando un sacco di imposte sui redditi. E più aveva da pagare, più gli piaceva.»
Quando il tour dell’Hank Snow Jamboree si concluse, Parker inserì Elvis in spettacoli con altri artisti per i quali curava gli ingaggi, come il duca di Paducah e Mother Maybelle e le Carter Sisters.
June Carter, che in seguito divenne la moglie di Johnny Cash, ha ricordato di essersi seduta nel backstage a cambiare le corde della chitarra di Elvis, che trattava lo strumento con grossolanità: visto il modo in cui si accaniva sulle corde, era raro vederlo concludere un concerto senza che ne avesse rotte almeno un paio.
Fu durante uno di quegli spettacoli che Parker incontrò per la prima volta Gladys e Vernon Presley. Elvis e i Blue Moon Boys avevano girato avanti e indietro per l’Arkansas, suonando a Camden, Hope e Pine Bluff per poi arrivare a Texarkana per il concerto del venerdì sera. Il mattino dopo si sarebbero diretti a Shreveport per il loro impegno settimanale all’Hayride. A quanto pare, fu un incontro fugace, lungo quanto bastava a salutarsi e a prendere le misure. Voleva solo mettere un piede nella porta: la prima parte del piano era già in moto. Notando l’amicizia che si stava sviluppando tra Elvis e Hank Snow, chiese al socio di mettere una buona parola con Elvis sul suo ruolo come manager.
Snow fece quanto richiesto, in ogni occasione parlò bene di Parker come agente, raccontando a Elvis tutto il successo che aveva ottenuto con Eddy Arnold. Gli disse che quando il suo contratto con Bob Neal fosse scaduto sperava che avesse firmato con la loro agenzia, la Hank Snow Enterprise-Jamboree Attractions. Elvis rispose a Snow che gli sarebbe andato bene qualsiasi accordo che lui e Parker avessero trovato con i suoi genitori. Parker non aveva bisogno di altro.
Uno dei pochi gruppi non legati al Colonnello Parker che si unirono a Elvis in tour fu quello di Johnny Cash e i Tennessee Two. Cash fu buttato nel mucchio da Sam Phillips, che gli aveva fatto firmare un contratto d’incisione. La sua prima uscita, "Hey Porter", con "Cry, Cry, Cry" come lato B, era stato un grande successo, così come lo fu il successivo "Folsom Prison Blues".
June Carter rammenta che Elvis faceva suonare "Cry, Cry, Cry" al jukeboxe tutte le volte che si fermavano da qualche parte per pranzare o cenare. Quel disco gli piaceva così tanto che lo usava per accordare la chitarra.
June non aveva ancora incontrato il suo futuro marito, ma il fatto che la sua musica affascinasse Elvis fu sufficiente a farle venire voglia di conoscerlo; più avanti, quello stesso anno, incontrò Cash per la prima volta al Grand Ole Opry. I due rimasero insieme per sempre.
Il bassista dei "Tennessee Two" era Marshall Grant. Era stato in tour con Elvis durante i suoi primi mesi di carriera ed erano diventati amici; rimasero sempre in contatto nel corso degli anni. Grant diventò un manager di punta e per molto tempo indirizzò la carriera degli "Statler Brothers". Come era capitato a tutti gli altri, Grant rimase colpito dall’energia generata da Elvis sul palco. Era uno spettacolo per gli occhi. Chi invece non fece colpo su Grant fu l’uomo in agguato nell’ombra, Tom Parker.
«Non mi ha mai fatto un’impressione granché buona» ha raccontato. «Avrebbe dovuto stare con qualche circo chissà dove. È lì che aveva iniziato, tra galline e tacchini che ballavano. Penso che avrebbe dovuto rimanerci. Aveva sempre il cappello in testa e il sigaro cacciato in bocca e se ne andava in giro piuttosto tronfio, onestamente non ho mai nemmeno cercato di farmelo amico. C’era anche lui, tutto qui… Quando Elvis iniziò a chiudere i concerti insieme a Hank, iniziò tutto. In quel momento il Colonnello vide qualcosa in Elvis. Era lui a smuovere la gente dalle sedie e a far vendere la maggior parte dei biglietti del tour di Hank Snow. Fu allora che iniziò a lavorarsi Vernon.»
La parkerizzazione di Elvis Presley iniziò con maggiore forza
durante l’estate, quando il Colonnello mise in atto una serie di mosse subdole, la cui esecuzione richiedeva una precisione e una abilità perfette. La sua prima sfida fu farsi benvolere da Vernon e Gladys.
Iniziò con il piede giusto a Texarkana, poi vacillò negli incontri successivi durante il tour.
A Tampa, fece preparare per Vernon e Gladys dei documenti, che lo avrebbero reso «consulente speciale» di Elvis. Vernon era pronto a firmare, ma Gladys lo dissuase, dicendo che lei non aveva alcuna fretta. Infastidito, Elvis disse alla madre che il Colonnello Parker era la persona di cui aveva bisogno per gestire la propria carriera. Per superare l’ostacolo, Parker chiese l’aiuto di Hank Snow. La sua immagine pubblica era quella di un cristiano sulla retta via, che conosceva la differenza tra bene e male, e si sforzava di fare la cosa giusta sia in pubblico sia in privato. Quasi tutti lo vedevano così, Vernon e Gladys compresi. Ed era tutto sommato vero.
La seconda sfida di Parker fu svincolare Elvis da Sam Phillips e dalla Sun Records. Secondo logica, avrebbe voluto vederlo firmare per un’etichetta più importante, con sede a New York, e di certo questo era un elemento importante. Ancora di più, temeva che la criminalità di Memphis, verso la quale nutriva un salutare rispetto, decidesse di aggiungere Elvis alla vetrina dei trofei. Se ciò fosse accaduto, lui sarebbe andato per sempre, Parker lo sapeva.
Quell’estate ricevette una visita di Arnold Shaw, appena nominato manager della E.B. Marks Music Corporation di New York. Si incontrarono all’Hotel Andrew Jackson di Nashville per parlare di affari e Parker ne rimase tanto impressionato da invitarlo a cena a casa sua, un’iniziativa che prendeva di rado. Preferiva tenere Marie, la moglie, lontana dai contatti di lavoro, non la coinvolgeva quasi mai negli affari.
Parker gli fece ascoltare i dischi di Elvis sul fonografo dell’ufficio allestito nel garage, ma Shaw non aveva mai sentito parlare del cantante o della Sun Records. Una delle incisioni che il Colonnello
gli fece sentire fu Mystery Train, una canzone registrata a luglio.
Shaw la ascoltò con interesse ed espresse sorpresa nell’apprendere che il ragazzo fosse bianco. Considerato che sembrava un pezzo blues, aveva dato per scontato che il cantante fosse nero. Ne fu disorientato, come del resto considerò bizzarro che un manager di successo che si occupava di musica country parlasse con un accento olandese.
Parker gli disse che Elvis era sotto contratto con Bob Neal di Memphis, ma che si aspettava di assumere il controllo in tempi brevi. «Nessuno ha sentito parlare di lui a nord della linea Mason-Dixon, ma è il fenomeno più grande che abbia mai travolto il Sud, non lo dico per fregarti» disse a Shaw nel corso di una conversazione che quest’ultimo ricostruì anni dopo per "Billboard’s The World of Country Music".
«In Florida e in Georgia le ragazze gli strappano i vestiti di dosso.»
Parker aveva portato Vernon ed Elvis dalla propria parte, ma Gladys si preoccupava per tutte le critiche che suo figlio aveva ricevuto durante il tour in Florida e non era convinta che, con la sua
parlantina svelta, Parker avesse davvero a cuore il bene del ragazzo. Ecco perché Parker cercò di spingerli ad accettare un contratto che lo rendeva un «consulente speciale». Andando per gradi, sentiva di
avere maggiori possibilità di conquistare Gladys.
Hank Snow era l’asso nella manica di Parker: sapeva che, se c’era qualcuno in grado di controbilanciare le «cattive influenze» dell’industria musicale che preoccupavano Gladys, quello era Snow, con tutti i suoi discorsi sulla fede, la redenzione e l’imperituro amore del Dio cristiano. Parker era un genio della manipolazione, ma era consapevole del fatto che convincere una madre delle sue devote virtù fosse un’impresa che superava perfino i suoi notevoli talenti.
Già in luglio, secondo Snow, Parker stava discutendo con il dirigente e produttore della Rca Victor Steve Sholes per ottenere un contratto di registrazione per Elvis. Anche Snow telefonò diversevolte a Sholes per parlargli del cantante.
Sholes era un uomo ben piazzato, amichevole, con il volto rotondo; fin dagli anni Trenta era stato più volte in viaggio da New York a Nashville a caccia di talenti per la RCA. Prima di riuscire a convincere la RCA ad aprire una sede e uno studio a Nashville, aveva condiviso uno spazio lavorativo con la Chiesa presbiteriana. Quel rapporto si era concluso bruscamente quando un membro della congregazione aveva trovato una bottiglia di vodka vuota nel so studio e aveva accusato Sholes di essere un comunista.
Sholes, ad ogni modo, apprezzò quello che aveva sentito dire di Elvis. In un documento firmato da Parker, Snow, Bob Neal e Tom Diskin, l’assistente del Colonnello, i quattro uomini si accordarono su un’offerta che prevedeva il pagamento di diecimila dollari da parte di Parker e Snow in cambio dello scioglimento del contratto tra Elvis e la Sun Records, e di altri trentamila da pagare a persone non specificate per scopi non specificati.
Se dobbiamo prestare fede ad Hank Snow e agli altri che parlarono con Parker in quel periodo, da quando Neal aveva rilevato il contratto da Scotty non passarono molti mesi prima che il Colonnello si autoproclamasse persona di riferimento con cui discutere del futuro di Elvis. Solo uno sciocco avrebbe negoziato con un’etichetta discografica per un artista che non era sicuro di poter controllare e nessun dirigente di nessuna casa discografica avrebbe rischiato un’azione penale o civile per pratiche commerciali sleali contrattando con qualcuno che ritenevano non avesse il potere di parlare in vece del musicista. Di sicuro, né Parker né Sholes erano degli sciocchi.
È possibile, anche se non probabile, che Neal e Parker avessero raccontato a Elvis dei loro progetti, chiedendogli di non riferirli a sua madre, a Scotty o a Bill finché non fosse stato tutto sistemato.
È ugualmente possibile, ma non probabile, che Snow avesse contattato la RCA Victor, la sua stessa etichetta, per un artista che ancora non era sotto contratto con lui.
Ovviamente, Snow, la Rca Victor e tutte le altre persone coinvolte erano convinte che Parker, anche se non era in possesso di un regolare contratto con Elvis, ne controllasse il destino. E la sola persona che avrebbe potuto assicurarglielo era Bob Neal.
Per Elvis, Scotty e Bill, Neal era l’uomo più gentile che avessero mai incontrato. Aveva un figlio dell’età di Elvis e faceva da padre a tutti i ragazzi del gruppo. Per anni, Scotty rimase convinto che Neal si
fosse tirato indietro perché aveva percepito che si stava procedendo a un ritmo troppo pressante, non per via degli accordi stretti in precedenza con Parker.
La prima prova del fatto che Parker controllava Neal giunse in agosto, quando a D.J. Fontana fu chiesto di unirsi al gruppo. L’accordo che Scotty e Bill avevano con Elvis prevedeva che il cantante ricevesse il cinquanta per cento e loro due il venticinque ognuno. Scotty e Bill credevano che D.J. potesse aggiungere un non so che al gruppo, e dato che avevano iniziato a utilizzare un batterista in studio avrebbero avuto bisogno di lui a tempo pieno durante le tournée. Fino ad allora si era esibito con la band tutte le settimane all’Hayride e aveva presenziato ad alcune date del tour. Elvis però rispose che non poteva permettersi di pagare D.J. utilizzando il suo cinquanta per cento: avrebbe accettato se Scotty e Bill avessero acconsentito a pagare di tasca loro una parte del salario settimanale di D.J., che ammontava a cento dollari. Scotty e Bill furono d’accordo e D.J. fu assunto come membro stipendiato, a tempo pieno, della band.
Appena raggiunto l’accordo, Neal fece sedere Scotty e Bill per una chiacchierata. In quello che sarebbe stato tramandato come il più grande tradimento nella storia della musica popolare, Neal informò gli attoniti musicisti che anche loro da quel momento in poi avrebbero dovuto lavorare a stipendio.
«Ma siamo soci di Elvis nella band!» esclamarono.
«No,» ribatté Neal «non è così.»
«E la nostra percentuale?»
«Non esiste» li informò Neal, ricordando loro che non avevano nulla di scritto.
Scotty e Bill non sapevano degli accordi sottobanco tra Parker, Neal e Snow ma, di fatto, diedero tutta la colpa al Colonnello, dicendo a Neal che sapevano che dietro la faccenda c’era sicuramente lui. L’uomo negò che fosse opera di Parker.
«Divenne evidente che [l’accordo di collaborazione] era sleale, perché la star era Elvis, indipendentemente dal fatto che loro dessero un grande contributo» spiegò Neal nel 1971 allo scrittore Jerry Hopkins. «Io avevo un contratto con Elvis, non con Scotty e Bill. Loro non avevano alcun accordo con me o con la Sun.»
Scotty e Bill minacciarono di mollare, ma dato che era chiaramente un’offerta da prendere-o-lasciare, e che stavano vivendo l’esperienza più bella della loro vita in tour con Elvis, alla fine accettarono di suonare a stipendio. Avrebbero ricevuto duecento dollari alla settimana quando avrebbero lavorato e cento quando sarebbero stati fermi.
«Forse non era un salario soddisfacente per quello che stavamo facendo, ma per l’epoca lo era per un uomo comune» ha affermato Scotty. «Il problema è che un uomo comune non avrebbe avuto tutte le responsabilità che invece noi avevamo.»
L’affermazione di Neal che fosse tutta opera sua e non di Parker sarebbe sembrata più convincente se lui, il Colonnello e Snow non avessero agito in concorso in altre attività, come quando si erano rivolti alla RCA Victor. Inoltre, per puntare il dito contro Parker c’era un’altra ragione: aveva fatto più o meno la stessa cosa al gruppo di Eddy Arnold. C’era però una differenza tra far suonare con uno stipendio fisso la band di Arnold e farlo con quella di Elvis. Scotty e Bill erano essenziali per lo sviluppo del sound che rese Elvis unico e i tre avevano iniziato come soci, allo stesso livello.
Si può solo immaginare come si sentissero Scotty e Bill in quel momento. Per oltre un anno avevano suonato nei dischi di Elvis, condividendo l’emozione delle vendite in rapido aumento, anche se Elvis o la Sun Records non davano loro nemmeno un centesimo per incidere le canzoni. Non se ne preoccupavano perché avrebbero guadagnato dal loro venticinque per cento sulle esibizioni. Avevano ancora in mente un dialogo che Scotty aveva avuto con Elvis quell’estate, quando il cantante aveva offerto di versare loro una parte delle royalties che riceveva dalle vendite dei dischi. Quella promessa, insieme a una percentuale sui guadagni dei concerti, era bastata a sostenerli durante i momenti difficili del tour.
E adesso era tutto svanito, in un batter d’occhio. Non erano altro che lavoratori stipendiati e non avrebbero mai potuto sperare di beneficiare finanziariamente dal successo che sapevano essere vicino. Conoscevano solo una persona capace di una ruberia a un così alto livello e il suo nome era Colonnello Tom Parker.
Non senza difficoltà, lo stesso mese in cui Scotty e Bill vennero raggirati, Parker riuscì a convincere Vernon e Gladys a firmare il contratto che lo nominava di fatto «consulente speciale» di Elvis e
Bob Neal, per un intero anno. Il documento affermava che avrebbe ricevuto duemilacinquecento dollari l’anno, pagabili in cinque rate.
In quanto «consulente speciale», avrebbe avuto la facoltà di negoziare per conto di Elvis. Era l’accordo di cui avrebbe avuto bisogno prima di rivolgersi alla RCA Victor, quell’estate. Era l’accordo
che gli sarebbe servito per far entrare Elvis alla Rca Victor. Quantomeno, adesso era lecito.
Mentre Tom Parker si intrufolava sgomitando nella vita di Elvis, anche Sam Phillis si stava muovendo per conto suo. All’epoca in cui aveva messo in piedi la Memphis Recording Service, lavorava come tecnico per la stazione radio WREC. Con lui lavorava anche Marion Keisker, una presentatrice che andava in onda con un celebre talk-show, Meet Kitty Kelly. Per un po’, Phillips cercò di mantenere entrambi i ruoli. Quando arrivò al punto in cui divenne evidente che non riusciva a far tutto senza rischiare un crollo emotivo, mollò l’impiego alla stazione radiofonica per occuparsi a tempo pieno del suo studio di registrazione.
In soccorso giunse Marion, che lasciò la radio per lavorare per lui allo studio. Il ruolo ufficiale di Marion era quello di segretaria, ma era più una socia quando si trattava di far funzionare gli affari. Era stata Marion a scoprire per prima Elvis ed era stata lei a sfruttare la sua popolarità e l’esperienza nel campo dei media per promuovere gli artisti messi sotto contratto dalla Sun Records. Lavorava molto bene in squadra e, secondo alcuni, era innamorata persa di Sam.
L’unica persona che Marion non poteva soffrire era Tom Parker. Quando Elvis e i suoi genitori firmarono il contratto con Parker come «consulente speciale», nella testa di Marion suonò un campanello d’allarme. «Il Colonnello Tom si stava lavorando la famiglia da almeno un anno, nella maniera più raffinata e machiavellica possibile» raccontò a Hopkins alcuni anni dopo. «Non ci si poteva credere. La signora Presley, che il Signore l’abbia in gloria, era solo una madre, era quello che era, capisce. Il Colonnello andava da lei e diceva “Tuo figlio è il ragazzo migliore del mondo ed è tremendo il modo in cui lo stanno facendo lavorare”.»
Marion raccontò che era difficile sapere con precisione quando Parker mise gli occhi per la prima volta su Elvis: «So che iniziò a seguirlo a tutti i concerti e che passava moltissimo tempo con il signore e la signora Presley, in particolare dopo quello spettacolo a Jacksonville».
Quell’estate, quand’era ormai ovvio che il suo rapporto d’affari con Elvis stesse arrivando alla fine, Sam Phillips decise di fondare la prima stazione radiofonica tutta al femminile della nazione. Aveva una nuova lista di artisti che stavano risvegliando entusiasmo per conto proprio – Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e Carl Perkins – ma Phillips sembrava volere qualcosa di più dalla vita.
Kemmons Wilson era un imprenditore locale che, dopo un proficuo periodo da costruttore edile, aveva deciso di erigere una serie di motel chiamati Holiday Inn. Dopo tutti questi anni, la natura precisa dell’amicizia tra Wilson e Sam è ancora un po’ nebulosa, ma durante quell’estate Wilson gli offrì in prestito del denaro per avviare la stazione radiofonica.
Sam e Wilson stabilirono la sede della nuova stazione WHER, in un Holiday Inn sulla Terza Strada, a sud di Crump Boulevard. Con sorpresa di Marion, Sam la dislocò dallo studio alla stazione radio, perché facesse da annunciatrice e reporter. Marion non fu felice del trasferimento, ma a parte distruggere la porta d’ingresso dello studio, che tra l’altro aveva comprato con i propri soldi, tenne per sé quello che pensava, rinunciando al ruolo di cuore e anima della Sun Records.
Quando tutte le pedine furono al posto giusto, Tom Parker fece la sua mossa.
Per via dei suoi contatti con la RCA Victor, il Colonnello si era rivolto prima a loro parlando di rilevare il contratto di Elvis dalla Sun Records. L’etichetta discografica era interessata, ma al suo interno alcuni dirigenti si opponevano, ritenendo che l’artista non fosse nulla più di un appariscente cantante hillbilly, perciò affidarono la questione a Steve Sholes, il loro esperto di country e western. Quando divenne evidente che Sholes non avrebbe offerto quel che voleva, Parker parlò ai dirigenti di altre etichette discografiche, in particolare alla Columbia Records. In realtà, dopo aver saputo del successo suscitato da Elvis, fu la Columbia a cercare Parker.
A dirigere il dipartimento artisti e repertori della Columbia Records era Mitch Miller, un celebre direttore d’orchestra che si era fatto un nome come dirigente e produttore discografico grazie a musicisti del calibro di Pattie Page e Frankie Lane. Quando si iniziò a parlare di Elvis, Miller vantava un disco tutto suo al numero uno delle classifiche, "The Yellow Rose of Texas". Avvertendo che non poteva offrire più di quarantamila dollari per il contratto di Presley, Miller mandò a Nashville Bill Gallagher, direttore marketing della Columbia, e Dick Link, un altro dirigente, perché parlassero con Parker. Si trovarono nell’atrio dell’Hotel Andrew Jackson, uno dei luoghi d’incontro che il Colonnello preferiva.
Gallagher e Link sciorinarono il loro discorso, facendo notare che la Columbia era leader del settore e sottolineando l’abilità di Miller nel raggiungere la vetta delle classifiche, perfino con dischi suoi.
Parker ascoltò con attenzione, poi suggerì di incontrarsi di nuovo il giorno successivo.
Al bar dell’albergo, il mattino seguente, ad accompagnare Parker c’era anche Elvis. Sedettero e parlarono per un po’, poi Parker si congedò da Elvis, dicendogli che aveva bisogno di parlare d’affari con i ragazzi. Quando il cantante se ne fu andato, Gallagher disse a Parker che Miller aveva autorizzato un anticipo di quarantamila dollari se Elvis avesse firmato con la Columbia. Parker annuì, si fece una risata, poi gli disse che era totalmente fuori strada. Ci avrebbe
riflettuto sopra e si sarebbe fatto risentire. Non accadde mai.
Parker non sapeva molto di musica e non sembrava che gliene importasse. Conosceva però i contratti e le percentuali – e, naturalmente, nel gioco dei tre bicchieri sapeva sempre dove fosse quello vincente, su cui tutti puntavano gli occhi. La prima lezione che Parker imparò dopo essersi trasferito a Nashville era che il denaro vero si faceva nel settore del publishing. Aveva osservato Eddy Arnold guadagnare grazie ai diritti di pubblicazione quanto dalle vendite dei dischi, se non di più. La cifra con cui Parker doveva lavorare era di quarantamila dollari: trentacinquemila da pagare a Sam Phillips e cinquemila di anticipo per Elvis. La Columbia ne aveva offerti quarantamila. L'Atlantic venticinquemila. E la RCA venticinquemila. L’offerta della Columbia avrebbe fatto al caso loro, ma non prevedeva nulla in aggiunta per Parker.
Il Colonnello si recò così da "Hill and Range", una società di publishing di New York con cui aveva fatto affari quando aveva lavorato come manager di Arnold. Dato che sapeva che la "Hill and Range" era in buoni rapporti con la RCA, strinse un accordo collaterale con loro. Se avessero messo una parte dei quindicimila dollari rimanenti, necessari a chiudere l’accordo con Sam Phillips, Elvis avrebbe accettato di incidere solo canzoni di proprietà della loro
compagnia. In aggiunta a questo, Elvis avrebbe acconsentito a firmare con loro come autore.
La "Hill and Range" accettò l’accordo, anche se è ancora oggetto di discussione quanto di quei restanti quindicimila dollari misero loro e quanto fu fornito da un investitore rimasto dietro le quinte. Con quello che aveva imparato a Nashville, Parker si stava comportando in maniera previdente, poiché sapeva che se poi avesse fondato una compagnia di publishing con Elvis e avesse chiesto agli autori delle canzoni di far figurare Elvis come co-autore, avrebbe potuto fare milioni di dollari.
In retrospettiva, la decisione di Parker di accettare l’offerta della RCA fu la cosa migliore per la carriera di Elvis, anche se all’epoca non poteva saperlo. Dal settembre del 1955 al dicembre del 1959, la RCA piazzò quattordici canzoni al primo posto delle classifiche pop, molte delle quali incise da Elvis, mentre la Columbia ne piazzò solo quattro. Un contratto con la Columbia avrebbe potuto essere il bacio della morte.
Il 21 novembre 1955, tutte le persone coinvolte nell’affare – il Colonnello Parker, Elvis, Vernon e Gladys, Steve Sholes, Bob Neal, un rappresentante della "Hill and Range" e Hank Snow – si riunirono presso il "Memphis Recording Service" per mettere nero su bianco il contratto. Un fotografo immortalò Gladys che stringeva forte la sua borsetta nera mentre posava un bacio sulla guancia di Elvis, e quest’ultimo in piedi tra Hank Snow e il Colonnello Parker.
Non fu l’affare più grosso di Parker, ma fu quello che filò più liscio. Mentre l’estate mutava in autunno, dal suo legame con Elvis, Parker poteva vantare una parcella da consulente da duemilacinquecento dollari l’anno e una percentuale sugli ingaggi. Si era sistemato per la vita, e lo sapeva.
Sam Phillips si trovava nella medesima situazione. Aveva perso Elvis, ma dall’inizio delle trattative all’apposizione delle firme aveva guadagnato trentacinquemila dollari in contanti, ottenuto un prestito per una stazione radiofonica da Kemmons Wilson, e aveva ricevuto l’opportunità di acquistare i diritti di opzione sulle azioni dell’Holiday Inn, che lo avrebbero reso plurimilionario.
La notte prima della firma del contratto, Parker chiamò Snow e gli chiese di venire a Memphis per incontrare Vernon e Gladys e acquietare ogni paura legata al fatto che il loro figlio avrebbe firmato un nuovo contratto. Non è chiaro se gli disse che Elvis avrebbe siglato un nuovo accordo di management con la "Hank-Snow-Jamboree Attractions", quel giorno, o se Hank Snow lo diede semplicemente per scontato, ma quest’ultimo si recò a Memphis con l’idea che lui e Parker avrebbero iniziato una partnership con Elvis.
Dopo che il contratto fu siglato, Parker chiese a Snow se voleva tornare a Nashville con lui invece di fermarsi per la notte e prendere un volo il mattino successivo. Durante quelle tre ore e mezza in auto, Snow gli chiese come fosse andata. Parker gli disse che tutto era andato bene. Raccontò che era arrivato all’incontro con due contratti diversi, uno in ogni tasca del cappotto. Fortunatamente, aveva proprio quello giusto per l’occasione. Disse a Snow che avrebbero guadagnato così tanti soldi da poter andare in pensione subito.
Quel giorno Snow tornò a casa pensando che Parker avesse messo sotto contratto Elvis per la "Hank Snow-Jamboree Attractions". In verità, l’unico accordo che il cantante aveva firmato quel giorno era stato quello con la RCA. Il contratto a cui si riferiva era un accordo che aveva chiesto a Bob Neal di firmare, e che stabiliva che il 40% di commissioni congiunte che lui e Neal stavano ricevendo da Elvis sarebbe stato diviso in parti uguali fino a quando Parker fosse subentrato nel contratto, nel marzo del 1956. Per come stavano le cose, Neal riceveva il venticinque per cento e Parker il quindici.
Più Snow faceva domande sull’accordo, più Parker si metteva sulla difensiva, chiedendogli ripetutamente: «Non ti fidi del Colonnello?».
Quando Parker lo lasciò a casa sua, Snow provò una sensazione di grande disagio alla bocca dello stomaco. Dopo averci pensato su un po’, prese appuntamento con il suo avvocato e gli mostrò i bilanci d’esercizio che Parker gli aveva preparato. L’avvocato gli disse che era preoccupato, perché Parker non aveva formato una società per azioni per proteggere la loro partnership. Snow gli mostrò il rendiconto dell’accordo di Jacksonville, e l’avvocato suggerì di iniziare un’indagine sulle attività di Parker. Con riluttanza, Snow accettò.
Dopo aver ottenuto i documenti necessari da Jacksonville, esaminarono le cifre, concludendo che le vendite complessive dei biglietti erano state alterate e non erano incluse nel conto finale degli incassi. L’avvocato gli consigliò una riunione immediata con Parker, al fine di formare una società per azioni.
Nella sua autobiografia, Snow ricorda che l’avvocato gli disse: «Parker è un uomo pericoloso, e lei potrebbe andare incontro a guai seri con l’Agenzia delle Entrate, essendo socio al cinquanta per cento di questa agenzia».
Snow telefonò a Parker e gli chiese di andare a casa sua. Quando arrivò, Snow lo mise davanti alle sue preoccupazioni e insistette per formare una società per azioni. Parker non volle saperne. Secondo Snow, si infuriò e propose di sciogliere la partnership. Snow meditò per un momento su quel suggerimento, poi pose l’ovvia domanda: «E che ne sarà del nostro contratto con Elvis Presley?».
«Tu non hai nessun contratto con Elvis Presley» disse il Colonnello. «Elvis è legato esclusivamente al Colonnello.»
Parker stava dicendo il vero, ma si trattava solo di una mezza verità. Elvis non era legato ad Hank Snow, era vero. Ma non era nemmeno legato al Colonnello, anche se presto lo sarebbe stato. Il risultato di quel diverbio fu che Parker e Snow interruppero il loro rapporto d’affari. Forse era per quello che Parker aveva offerto a Snow un passaggio per tornare a Nashville, per gettare il seme del dubbio nella sua mente inducendo l’uomo a mettere fine alla loro collaborazione prima della firma di qualunque contratto con Elvis.
Snow uscì dall’incontro pensando che avrebbe semplicemente fatto causa a Parker per ottenere la propria parte del contratto, ma il suo avvocato glielo sconsigliò. Si può fare causa a qualcuno che ti ha imbrogliato, ma non si può denunciare qualcuno per averti convinto con l’inganno. Parker poteva avere raggirato Snow, ma lo aveva fatto lealmente, secondo regole stabilite generazioni prima dai membri dell’Assemblea Internazionale dei Giostrai.
Com’è comprensibile, l’incidente amareggiò Snow, che ancora oggi ha il dente avvelenato. Nella sua autobiografia scrisse che quando Elvis morì, nel 1977, guardò una registrazione preparata da Vernon per ringraziare tutti per la loro gentilezza in quel periodo di lutto: «Le sue parole erano piene d’emozione e mi parvero appropriate finché disse “Tom Parker era un uomo onesto”. Nel sentire quella frase, mi vennero i brividi».
Nel dicembre del 1955, meno di quattro settimane dopo lo storico cambio della guardia al Memphis Recording Service, gli amici di Parker della Louisiana arrivarono a Memphis insieme a decine di capi politici di alto rango provenienti da tutti e dodici gli Stati del Sud. Si radunarono all’Hotel Peabody, un elegante resort per proprietari di piantagioni del Delta, situato su Union Avenue, proprio in fondo alla strada in cui sorgeva lo studio di Sam Phillips.
C’erano il senatore Strom Thurmond della Carolina del Sud, il senatore James Eastland del Mississippi, vecchi e nuovi governatori della maggior parte degli Stati. Fu la più grande riunione di leader politici di destra e suprematisti bianchi mai organizzata.
L’incontro in se stesso era top secret e gli inviati dei giornali che cercarono di imbucarsi ricevettero un rude trattamento dalle guardie. Prima che la settimana si concludesse, i giornali di Memphis e il «The New York Times» diffusero la storia, identificando l’organizzazione dietro al raduno: la Federazione per un governo costituzionale. Quello che non sapevano era il vero scopo dietro a quell’incontro, motivo che non sarebbe stato rivelato per almeno altri quarant’anni. Quando tutti i pezzi si incastrarono al proprio posto, verso la fine degli anni Novanta, si scoprì che il gruppo si era radunato a Memphis per sviluppare un programma di lotta contro l’integrazione razziale nel Sud. Per ottenere quello scopo, crearono agenzie governative super-segrete capaci di intraprendere missioni sotto copertura. Il primo Stato a farlo fu il Mississippi, che nella primavera del 1956 diede vita alla Commissione per la sovranità del Mississippi. Seguì a ruota la Louisiana. Ex agenti dell’Fbi furono reclutati per organizzare e poi gestire la Commissione. Utilizzarono la Central Intelligence Agency, la Cia, come modello e, per quasi vent’anni, operarono in totale segretezza con l’aiuto illegale di una rete azionale di giornalisti suprematisti bianchi. Un legislatore del Mississippi descrisse la CIA come un «asilo per bambini», in confronto alla Commissione.
Le amicizie di Tom Parker in Louisiana e il suo titolo di Colonnello lo mettevano automaticamente in una posizione rispettabile agli occhi della Commissione. Non ci sono prove che Parker abbia mai contribuito finanziariamente o abbia mai partecipato in maniera attiva alle attività illegali, ma scoprì ben presto che la Commissione aveva il potere di distruggere la carriera di Elvis e si assicurò che il cantante non facesse nulla per offenderne i membri.
Nello specifico, ciò significò mitigare la fascinazione che Elvis provava per la cultura afroamericana. Se anche il cantante si fosse accorto di quello che stava capitando dietro le quinte, non lo confidò mai ai compagni di band, lasciando al Colonnello il lavoro sporco. Era troppo impegnato a diventare una superstar.
Dopo aver firmato con la RCA, Elvis e il suo gruppo tornarono in tour, suonando per fans sfegatati che sembravano adorarlo sempre di più, ogni giorno che passava. Anche Parker si mise in viaggio, ma non con Elvis: alla fine di novembre si recò a Chicago per partecipare al convegno della "Showmen’s League of America". Non aveva mai reciso i legami con il suo passato e continuò a partecipare a tali convegni per tutta la vita.
A Chicago andò a trovare il suo vecchio amico Carl Sedlmayr e suo figlio Carl Jr., che era a sua volta diventato amico intimo del Colonnello.
Mentre Parker si trovava al convegno a Toledo, in Ohio, Elvis fu coinvolto in una scazzottata con un marito geloso nel bar di un albergo. Quando l’uomo che aveva dato il via alla rissa fu rilasciato dalle autorità, disse ai giornalisti che Elvis lo aveva pagato per simulare lo scontro. Non era vero, ma la notizia conquistò le prime pagine, da una costa all’altra, e mise il cantante in imbarazzo. Gli inviati rintracciarono Parker al convegno e pretesero di sapere se Elvis stesse effettivamente prezzolando gente per far rissa, in modo da ottenere pubblicità per i concerti. I curiosi volevano la verità. Parker perse le staffe e inveì contro i giornalisti, con il volto rosso, gonfiandosi come un pallone, negando che l’artista fosse coinvolto in un qualsivoglia trucco. Una volta sbollito, sorrise, facendo ruotare il suo grosso sigaro tra le labbra e, con un’epifania da uomo di spettacolo, fu in grado di cogliere il lato positivo della faccenda: «Be’, almeno hanno scritto il nome di Elvis senza sbagliareBC
I primi tre mesi del 1956 furono belli pieni per Elvis: intraprese la sua prima sessione di registrazione con la RCA e fece le sue prime apparizioni televisive nello WStage ShowW della Cbs. Parker vedeva il ragazzo come materiale di prima qualità per televisione e film, e non perse tempo nell’utilizzare i contatti intrecciati all’epoca di Eddy Arnold per aprire a Elvis le porte di Hollywood.
Prima di tutto, però, aveva questioni importanti di cui occuparsi.
Il contratto di Bob Neal con Elvis scadeva a marzo e Parker ne fece redigere uno nuovo, nominandosi unico manager dell’artista. L’accordo specificava che per i suoi sforzi Parker avrebbe ricevuto una commissione del venticinque per cento. Incredibilmente, Neal si tirò fuori dal contratto senza problemi, avvalorando che lui e Parker l’avessero pianificato fin dal principio.
Neal lo spiegò così a Jerry Hopkins: «Mollai, semplicemente. L’unico bonus: ricevetti una piccola somma di commissioni e royalties per il periodo iniziale. Poi non ci furono ulteriori commissioni o azioni. Non ho chiesto nulla e non ho cercato di contrattare. Avrei potuto, ma non lo feci».
Una volta al posto di comando, Parker strinse la sua morsa su Scotty e Bill. Dette istruzioni alla RCA di smettere di fare riferimento a Scotty, Bill e D.J. con il nome di "Blue Moon Boys". Le loro fotografie furono eliminate dalle pubblicazioni promozionali. Comunicò anche agli organi d’informazione, in particolare alle riviste dei fans, che se i membri della band fossero mai stati raffigurati insieme a Elvis in uno qualsiasi degli impaginati, avrebbero potuto stare certi che avrebbero perso la loro collaborazione per i progetti futuri. Come se non fosse abbastanza, tolse la licenza fotografica a Bill Black, che vendeva foto di Elvis e del gruppo per venticinque e cinquanta centesimi l’una, realizzando un profitto di circa cinque centesimi a immagine. Parker si prese anche quel nichelino e se lo intascò.
Ad ogni modo, lui poteva anche avere scaricato i "Blue Moon Boys", Elvis però non lo aveva fatto. Quand’erano in tour, continuò a presentarli al pubblico per nome.
«Sapevamo che [Parker] non ci voleva tra i piedi» ha detto Scotty. «Gli diede molto fastidio quando decidemmo che volevamo alloggiare in un albergo diverso da quello di Elvis, per via dei fans. Sapeva che Elvis mi prestava ascolto da
sempre. Andando avanti divenne più evidente.»
Quando gli fu chiesto di descrivere il suo rapporto con Parker, D.J. disse: «Non avevo alcun rapporto con lui… non avevamo a che fare con il Colonnello. Se avevamo bisogno di qualcosa, andavamo direttamente da Elvis, ma lui non ne era contento. “Non preoccupatevi del Colonnello,” diceva Elvis “se ha detto che si occuperà di qualcosa, lo farà.” Non ci importava che cosa facesse il Colonnello».
La band accompagnò Elvis a San Diego, in California, dove parteciparono al "Milton Berle Show" dal ponte della "USS Hancock", una portaerei simile a quella su cui aveva prestato servizio Scotty al largo della Corea. Prima dello show, Elvis fece il suo primo provino cinematografico a Los Angeles. Parker aveva organizzato il tutto con il produttore cinematografico Hal Wallis, celebre per film come "Il mistero del falco" ("The Maltese Falcon") e "Casablanca". Dopo il provino, Parker ed Elvis volarono a San Diego per il programma di Berle, che andò a prenderli all’aeroporto; stavano lasciando l’auto quando lui tirò fuori dalla tasca il contratto e lo passò a Elvis. Prima che il cantante potesse prendere il foglio, Parker lo strappò di mano a Berle: non aveva il diritto di consegnare contratti direttamente al suo cliente.
Fu uno dei periodi più intensi per Parker. Non solo aveva procurato a Elvis un contratto cinematografico, gli aveva anche assicurato gli ingaggi migliori in televisione. In aggiunta al popolare show di Milton Berle, lo fece partecipare allo "Steve Allen Show" e all’"Ed Sullivan Show". Gli trovò anche un ingaggio a Las Vegas, la sua prima apparizione in città.
Con Elvis che stava rapidamente diventando il musicista più in voga d’America, Parker si mise in moto per recidere i vecchi legami che a suo parere avrebbero frenato l’ascesa dell’artista. Il primo fu il contratto con il "Louisiana Hayride". Era irragionevole da parte della direzione dell’Hayride aspettarsi che una stella delle proporzioni di Elvis onorasse un contratto che lo occupava ogni sabato sera, per giunta quasi gratis. Per svincolarsi dall’accordo, Parker accettò che Elvis suonasse a un concerto di beneficenza allo "Shreveport Coliseum", i cui proventi finirono per la maggior parte all’Hayride.
Elvis e Parker non erano gli unici pieni d’impegni, in quel periodo. Fu infatti quella primavera che l’FNI aprì il primo fascicolo su Elvis Presley. A dare il via all’azione fu un imprenditore di Memphis, la cui identità è ancora oggi protetta dall’FBI. L’uomo scrisse al direttore del Federal Bureau of Investigation, J. Edgar Hoover, per lamentarsi di Elvis e incoraggiarlo a utilizzare le leggi commerciali interstatali per agire.
«Ci sono persone che si fermeranno giusto prima della totale indecenza pur di trarre vantaggio dalle loro merci a spese del pubblico, e i giovani non sono in grado di distinguere tra il bene e il male» scriveva l’autore della
lettera.
Hoover rispose che in realtà l’FBI non aveva l’autorità per fare ciò a cui lo scrivente li esortava. Liquidò il reclamo, presto però da tutto il Paese sarebbe giunta una pioggia di lamentele, alcune delle quali si concludevano con minacce di morte rivolte all’artista. Prima della fine dell’anno l’FBI sarebbe stato parecchio coinvolto nella carriera di Elvis, con agenti operativi che spedivano regolarmente al direttore i loro messaggi in codice.
Passati pochi giorni dall’esibizione di Elvis al "Milton Berle Show", Parker annunciò che il ragazzo aveva firmato un contratto per tre film con la "Paramount Pictures". Per il primo, Elvis avrebbe ricevuto centomila dollari, centocinquantamila per il secondo e duecentomila per il terzo. Hal Wallis aveva voluto un impegno in esclusiva, ma Parker aveva salvaguardato il diritto di Elvis a girare un film all’anno per altre case cinematografiche.
Per i suoi sforzi, Parker raggranellò la bellezza di centododicimilacinquecento dollari di commissioni, il che significava che Elvis stava in pratica girando il primo film gratis.
Dopo un paio di settimane di tour, principalmente in Texas e New Mexico, Elvis e la band andarono a Las Vegas per un ingaggio di due settimane all’Hotel New Frontier. Il nome principale dello spettacolo era Freddy Martin con la sua orchestra, che progettava di eseguire una versione del musical di Broadway Oklahoma!. Per divertire il pubblico della cena era incluso anche il cabarettista Shecky Greene.
Sotto tutti i punti di vista, era un ingaggio bizzarro, che solo un ex giostraio con l’atteggiamento da fiera poteva immaginare come appropriato. Ad aggiungersi al carattere surreale dell’impegno c’era la denominazione che Parker scelse per Elvis. Per le folle di Las Vegas, sarebbe stato il primo «Cantante nucleare» d’America.
Elvis e la band sapevano che quelle due settimane sarebbero state lunghe. Gli spettatori della sala da mille posti erano educati e applaudivano ogni volta che la musica si interrompeva, ma non c’erano ragazze urlanti o fidanzati attaccabrighe a battere i piedi e a scatenare l’inferno insieme al gruppo. Il pubblico era composto per lo più da turisti di mezza età che erano andati allo spettacolo per mangiarsi una buona bistecca e sentire le loro canzoni preferite tratte da "Oklahoma!".
In molti definiscono quell’ingaggio un fallimento, ma né Scotty né D.J. se lo ricordano in quel modo. Per Scotty, nessuna esibizione era un fiasco se il locale era pieno e il pubblico applaudiva alla fine di ogni canzone. Per D.J. era lo stesso.
«Semplicemente, non erano abituati a quel tipo di intrattenimento» ha affermato, commentando la risposta educata degli spettatori. «Provammo tutto quello che era in nostro potere. Di solito, Elvis riusciva a portarli dalla sua parte.
Quella volta non funzionò.»
Parker salvò l’ingaggio chiedendo all’hotel di permettere a Elvis e al gruppo di suonare il sabato mattina in uno speciale concerto rivolto agli adolescenti, i cui proventi sarebbero stati devoluti a un campo da baseball locale. Fu magico. La stanza era piena zeppa di ragazzi urlanti che alla fine dello spettacolo assalirono Elvis facendo a brandelli la sua camicia. Un giornalista notò che una ragazzina ne stringeva un bottone come fosse un diamante.
Dato che Elvis non beveva né giocava d’azzardo, a Las Vegas ebbe poco da fare e passò la maggior parte del tempo al cinema o con gli amici. Concluso l’ingaggio, ripartì pensando che la Città del peccato non fosse la migliore vetrina per il suo talento. I media che si occupavano di intrattenimento sembravano d’accordo. «Qui non centra il bersaglio» commentò «Variety». Parker invece non avrebbe potuto pensarla più diversamente.
Dopo i concerti in Minnesota e in Wisconsin, Elvis e il gruppo tornarono a Memphis, dove Parker aveva fissato uno spettacolo all’Ellis Auditorium all’interno delle annuali celebrazioni del Cotton Carnival. Pare che Parker non presenziò al concerto, che includeva anche Hank Snow e i Jordainaires, a quanto sembra però quella stessa sera portò Elvis alla fiera della Royal American, per presentargli i suoi amici, i Sedlmayr.
«La gente si radunò, e [Parker] disse loro che il suo primo lavoro nel mondo dello spettacolo era stato come venditore di mele candite alla Royal American» ha ricordato Carl Sedlmayr Jr., contento di vedere un ex discepolo della fiera farsi un nome nello show business popolare. «Non cercò di nasconderlo, niente del genere.»
Forse approfittando del fatto che il Colonnello lo avesse personalmente introdotto in questo mondo, negli anni successivi Elvis si impegnò a visitare con regolarità la fiera della Royal American.
«Si cimentava nei giochi e se vinceva qualche premio lo regalava ai ragazzini che gli si affollavano intorno» ha detto Carl Jr.
Anche se 'Heartbreak Hotel' era al numero uno in America, quell’anno Elvis non fu la star del Cotton Carnival. Il nome di punta era il cantante e attore cinematografico Eddie Fisher. L’anno prima aveva sposato l’attrice Debbie Reynolds e furono probabilmente i forti legami che aveva Debbie con Memphis a renderlo il divo più richiesto del festival. L’anno seguente, Debbie Reynolds entrò nella storia diventando la prima artista donna a sbalzare Elvis dalla cima delle classifiche. Ci riuscì con la sua prima e unica hit, Tammy.
La controversia relativa alla sensualità di Elvis sul palco stava diventando il focus delle sue esibizioni, almeno per quanto riguardava i giornalisti, che sapevano sfruttare l’argomento per attirare l’interesse del pubblico. Tutto il clamore mediatico suscitato dall’argomento cominciò a preoccupare Elvis. L’ultima cosa che voleva al mondo era che sua madre pensasse che stesse portando in giro per il Paese una sorta di spettacolo erotico.
Secondo Scotty, Elvis non afferrava mai i riferimenti sessuali. Sul palco si limitava a fare quello che sapeva, muovendosi a ritmo di musica in qualunque direzione gli suggerisse il corpo.
Dopo il tour in Minnesota e in Wisconsin, un direttore di «La Crosse Register», giornale ufficiale della diocesi cattolica, scrisse una lettera al direttore dell’FBI J. Edgar Hoover, dichiarando che Elvis era un «pericolo conclamato per la sicurezza degli Stati Uniti». Anche se l’uomo ammetteva di non avere visto personalmente le sue esibizioni, diceva di aver inviato due giornalisti a seguire il secondo spettacolo di Elvis.
«Da resoconti su Elvis a opera di testimoni oculari, direi che è sia un tossicodipendente sia un pervertito sessuale» scrisse il direttore. «In ogni caso sono sicuro che debba essere tenuto d’occhio, soprattutto considerando la criminalità giovanile in aumento in ogni dove negli Stati Uniti. Pare sia circondato da un gruppo di agenti particolarmente aggressivi che sembrano controllarlo, da quel che dice il direttore dell’albergo.»
In seguito, quella stessa estate, a Jackson, nel Mississippi, un giornalista definì l’artista "Elvis the Pelvis".
Quando un autore di «TV Guide» gli domandò del soprannome, Elvis reagì stizzito, affermando che era una delle «espressioni più infantili» che avesse «mai sentito utilizzare da un adulto». A un reporter dell’«International News Service» dichiarò: «Non cerco affatto di essere sexy. È solo il mio modo di esprimermi mentre mi muovo».
Quanto di preciso la «sexy-steria» di Elvis che stava travolgendo la nazione fosse dovuta a giornalisti intraprendenti e quanto alle dichiarazioni ufficiose che Parker fece ai reporter non si scoprirà mai. Di certo, il Colonnello utilizzò la stampa a vantaggio del suo ragazzo. Misurava il successo in maniera piuttosto semplice: se una storia sui media portava soldi, era buona; se non portava soldi, era un scandalo oltraggioso e diffamatorio che minacciava la
democrazia. La controversia rispetto alla sensualità di Elvis era la migliore in assoluto, perché faceva arrivare all’ufficio di Parker migliaia di buste piene zeppe di soldi, tutte con richieste di fotografie del suo ragazzo, Elvis.
«A volte mi chiedono quale sia il segreto del successo di Elvis Presley» dichiarò Parker a un giornalista di «TV Guide». «Be’, non ho la risposta e non voglio nemmeno trovarla. Gli affari vanno già fin troppo bene.»
Alla fine dell’estate, Elvis era apparso per la prima volta all’Ed Sullivan Show e aveva ricevuto la sua prima minaccia di morte, su una cartolina spedita da Buffalo, nello stato di New York. Il messaggio anonimo diceva: «Se non la pianti con la tua merda, ti ammazzeremo».
L’FBI prese la minaccia seriamente e la inviò al laboratorio per analizzarla, ma quando parlarono del caso a Richard Moot, il procuratore federale di Buffalo, quest’ultimo li avvertì che se l’autore della lettera fosse stato identificato, lui avrebbe rinunciato a procedere. A quanto pareva, non tutti erano fans di Elvis Presley.
Ciò divenne ancora più evidente quando a novembre l’artista si recò a Louisville, in Kentucky, per un’esibizione. Il capo della polizia annunciò che non avrebbe permesso nessuna «contorsione oscena e lasciva che eccitasse il pubblico». Quando i giornalisti gli fecero domande su questa proibizione, il capo della polizia rispose: «Come potete dedurre, semplicemente non sono un suo ammiratore».
Molta dell’ostilità iniziale nei confronti di Elvis giunse da parte degli uomini. Le donne pensavano che i suoi movimenti sul palco fossero piuttosto forti. E l’adorazione non conosceva limiti di età. La moglie di Bill Black, Evelyn, disse che perfino sua madre amava Elvis. «Lo chiamava “il suo vecchio tesorino”» ha raccontato. «Elvis era un bravo ragazzo, davvero dolcissimo.»
"Fratelli rivali" ("Love Me Tender") fu più di un film, per Tom Parker. Fu un intero luna park, una cornucopia di opportunità e investimenti arrivata in un bel pacchetto regalo. Quando iniziò la produzione, in agosto, Parker era lì, al fianco del ragazzo.
Intitolato inizialmente "The Reno Brothers", era una storia alquanto semplice, con un sacco di azione ma senza musica, a parte quella normalmente utilizzata per le colonne sonore. Insieme a Elvis, nel film c’erano Richard Egan e
Debra Paget. Anche se il contratto cinematografico del cantante era con Hal Wallis alla "Paramount", Parker aveva esercitato la clausola di prestito del contratto per girare questo film, il primo di Elvis, per la "Twentieth Century-Fox".
Quando Elvis lesse per la prima volta il copione, non si parlava di eseguire canzoni. Il gruppo andò comunque a Hollywood con lui, perché Steve Sholes pensò di sfruttare l’occasione per incidere una nuova lista di canzoni per la RCA. Era un modo per prendere due piccioni con una fava. Come al solito, il Colonnello Tom Parker ne teneva d’occhio uno stormo intero. Se le canzoni fossero state aggiunte alla sceneggiatura, avrebbe significato abbinarle ai dischi e questo avrebbe voluto dire più soldi, soprattutto se le canzoni fossero state scritte dai compositori della "Hill and Range". In pratica era così che Parker considerava i film: un’opportunità per massimizzare i suoi investimenti.
Nel caso di "Fratelli rivali", vide un’occasione di seminare ulteriore zizzannia tra Elvis e la band. Quando si decise che Elvis avrebbe eseguito delle canzoni nel film, i ragazzi del gruppo diedero naturalmente per scontato che avrebbero lavorato alla colonna sonora. Con loro sorpresa, si sentirono chiedere di fare un provino per la "Twentieth Century-Fox".
«Nessuno ci disse che sarebbe stato un film western con dei brani hillbilly» racconta Scotty. «Nemmeno Elvis lo sapeva. Perciò facemmo una normale performance.»
Dopo l’audizione, il direttore musicale del film disse che non era ciò che stavano cercando. Voleva qualcosa con un taglio più country. Per accompagnare Elvis nella pellicola, avrebbero usato qualcun altro.
Scotty, Bill e D.J. rimasero basiti. Sapevano suonare musica country quanto chiunque altro, ma avevano dato ovviamente per scontato che il direttore musicale volesse che eseguissero il tipo di musica che Elvis aveva inciso. Il cantante disse loro di non preoccuparsi, che si sarebbe assicurato che venissero scelti per il film successivo.
L’incidente rese Parker raggiante. Prima si fosse liberato della band, meglio sarebbe stato. Così Elvis avrebbe capito che la star era lui e che senza Scotty, Bill e D.J. poteva cavarsela benissimo.
L’unica volta che Elvis si allontanò da Los Angeles durante le riprese di "Fratelli rivali", lo fece in settembre per volare a Tupelo, in Mississippi, per quello che sarebbe passato alla storia come l’Elvis Presley Day. Elvis e la band suonarono al "Mississippi-Alabama Fair and Dairy Show". Sul palco con Elvis salì il governatore del Mississippi J.P. Coleman, che consegnò a Elvis una pergamena d’onoreficenza e poi dichiarò quello stesso giorno l’Elvis Presley
Day.
Il Re del rock ’n’ roll, con indosso una camicia di velluto blu e dei mocassini bianchi, accettò l’onore con grande umiltà. Non è chiaro se Elvis lo sapesse, ma J.P. Coleman era il fondatore della Commissione per la sovranità del Mississippi, l’uomo che stabiliva le nomine della commissione appena istituita, nonché colui che predispose il programma iniziale delle operazioni segrete e sotto copertura dell’agenzia. I due furono fotografati insieme e il Colonnello Parker si assicurò che le immagini fossero diffuse da tutti gli organi d’informazione del Sud.
Elvis si esibì due volte, quel giorno, una volta a mezzogiorno e l’altra la sera, e cantò dal vivo "Love Me Tender", la canzone che dava il titolo originale a "Fratelli rivali". Era la prima volta che alla band veniva chiesto di suonare un brano che Elvis aveva registrato senza di loro. Che i membri del gruppo se ne rendessero conto o meno – Parker senza dubbio sapeva quello che stava facendo – quel concerto a Tupelo gettò i semi di uno scontento che si sarebbe inasprito per un anno intero, esplodendo poi sul medesimo terreno di scontro, con risultati quasi disastrosi.
Si è parlato molto del genio di Parker come promoter, ma non si è parlato neanche lontanamente a sufficienza delle sue doti di psicologo dilettante.

- fine capitolo 3 -
20/07/2023 21:06
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4. Il Re raggiunge la vetta a ritmo di rock’n’roll

All’apparenza, l’ufficio leva di Memphis non era diverso da tutti gli altri della nazione. Era composto da uomini nominati dal presidente sulla base delle raccomandazioni dei senatori e dei membri del congresso locali. Era compito loro stabilire chi si sarebbe arruolato nelle forze armate. In tempo di guerra, i membri dell’ufficio leva prendevano decisioni su questioni di vita e di morte ogni giorno, influenzando la vita di migliaia di cittadini di Memphis. In tempo di pace, tuttavia, quelle decisioni venivano compiute in un’atmosfera rilassata, di basso profilo, e la pressione che i membri percepivano era più indiretta e meno rovente.
Ciò che rendeva l’ufficio leva di Memphis diverso dagli altri degli Stati Uniti lo accomunava però con gli altri uffici del Sud. Le politiche razziali avevano sempre uno spazio importante. A meno che i ricchi proprietari di piantagione bianchi segnalassero una pericolosa scarsità di giovani neri per lavorare nei campi, gli uffici di leva del Sud tendevano a dare priorità maggiore al reclutamento di maschi di colore.
Dagli anni Quaranta, quando il Congresso aveva attivato la coscrizione, fino alla metà degli anni Cinquanta, le nomine per l’ufficio leva di Memphis furono controllate dall’apparato di Crump. Si trattava di incarichi assai desiderati per via del potere quasi illimitato che consentivano ai membri dell’ufficio leva di manipolare contratti d’affari, decisioni del tribunale e un mucchio di altre transazioni finanziarie. Uomini e donne disperati avrebbero accettato qualsiasi cosa pur di evitare il servizio militare ai loro figli, soprattutto se dai figli in questione dipendevano gli affari di famiglia.
E.H. Crump non aveva mai prestato servizio nell’esercito. In generale, ai maschi bianchi con un’influenza politica o sociale in città veniva chiesto di rado di farlo, a meno che, naturalmente, fossero molto patriottici o volessero fare un’esperienza nell’esercito, una categoria che comprendeva più rappresentanti di quanto si potrebbe pensare, perché la città era stata a lungo imbevuta di un profondo spirito nazionalistico.
All’inizio, il fascicolo del servizio di leva di Elvis Presley era una sorta di routine. Si iscrisse il 19 gennaio 1953, poco dopo il suo diciottesimo compleanno, all’ufficio del Selective Service System, che si trovava in South Main Street. L’indirizzo che fornì fu 698 Saffarans e come referente indicò suo zio Ed Smith, che viveva al numero 1534 di Mississippi Street, a Memphis. Affermò di essere alto un metro e ottantadue e di pesare sessantotto chili.
Il primo marzo l’ufficio leva gli spedì un questionario e, in base alle informazioni ricevute, lo classificò 1-Anf. Nessuno sapeva di preciso che cosa significasse: 1-A voleva dire che era disponibile per il servizio militare; Nf probabilmente era l’abbreviazione utilizzata dall’ufficio locale per indicare che stava ancora frequentando il liceo.
Era un brutto momento per le classificazioni 1-A. Si combatteva ancora nella guerra di Corea, anche se le trattative di pace erano in corso. Oltre venticinquemila militari americani erano caduti nel conflitto, in gran parte soldati di leva. Era scontato che Elvis dovesse andare in guerra. E pensare che il suo unico figlio in vita avrebbe potuto trovarsi in pericolo straziava Gladys. Il futuro si presagiva tetro.
Tuttavia, alcune settimane prima che Elvis si diplomasse, il fato intervenne con la firma di una tregua in Corea, che permise a Elvis di sfuggire alla minaccia del servizio militare in tempo di guerra. Avrebbe potuto aspettarsi di ricevere un foglio d’arruolamento l’anno successivo al diploma, ma dopo la tregua le forze armate si ritrovarono con soldati in eccesso e nessuno dei trentadue uomini registrati tra il primo e il 13 gennaio del 1953 dall’ufficio leva di
Memphis ricevette notifiche fino al gennaio del 1957.
Nel corso dell’estate del 1956, i giornalisti posero spesso a Elvis domande sulla leva, domandandosi come mai non indossasse l’uniforme. In agosto, il cantante disse a un reporter dell’«International News Service» che da tre anni non aveva notizie dall’ufficio leva, «e spero di non averne mai» aggiunse. Poco dopo aver rilasciato queste dichiarazioni, ricevette un questionario dell’ufficio leva, che domandava l’aggiornamento dei dati sulla sua salute e il suo stato civile. Avendo saputo grazie a una soffiata che Elvis aveva ricevuto il documento, un giornalista della «United Press International» chiese all’ufficio leva se stessero per inviare all’artista un foglio d’arruolamento.
Un portavoce dell’ufficio rispose: «I nuovi documenti sono stati firmati per aggiornare lo stato di Presley. Moltissimi giovani non segnalano cambi di indirizzo, di stato civile e altri dati, perciò inviamo questionari per accertare se abbiano persone a carico.»
«Sinceramente non sapevo che cosa significasse quel questionario» disse Elvis al giornalista. «Non mi hanno detto nulla di una… visita medica. Quando mi vorranno, sono pronto.»
Il Colonnello Tom Parker si trovava di fronte a un dilemma. Le ultime persone sulla terra con le quali voleva avere guai erano i portavoce dell’esercito degli Stati Uniti. Se avesse chiesto privilegi speciali per Elvis a un ufficio leva civile – e sapeva che per tenere il cantante lontano dall’esercito sarebbe bastata una telefonata all’ufficio locale – avrebbe potuto creare problemi tali da portare alla sua espulsione.
Allo stesso modo, un paio d’anni nell’esercito avrebbero potuto distruggere la carriera di Elvis. Il rock ’n’ roll aveva solo due anni. Quale nuova musica si sarebbe affermata in seguito? I giornalisti dicevano che non sarebbe durato ancora per molto, e anche se Parker non credeva mai a quello che leggeva sulla stampa, doveva almeno considerare l’eventualità che di tanto in tanto ci azzeccassero.
Elvis avrebbe potuto far parte dell’esercito per due anni, tornare e trovare l’America nel bel mezzo di una nuova moda musicale transitoria. A complicare tutto il resto c’era la vita personale di Parker, che, per la prima volta, stava interferendo con le sue decisioni negli affari. Negli anni passati dalla sua prima visita a Las Vegas, quando aveva organizzato l’ingaggio di Eddy Arnold, era tornato molte volte in quella città, non per via dell’intrattenimento
maestoso per cui era celebre, ma per le slot machine e i tavoli da gioco. L’unica passione della sua vita era proprio il gioco d’azzardo. Non abbiamo testimonianze su ciò che perse verso la fine degli anni Cinquanta, ma negli anni Sessanta le sue perdite ammontavano a un milione di dollari l’anno in un unico casinò, secondo i registri di tribunale. Nel 1957, doveva ormai aver gettato notevoli somme nel gioco d’azzardo.
Quando il «The Nashville Banner» pubblicò un articolo che alludeva ai suoi debiti di gioco, Parker rimase così sconvolto da compiere una mossa a cui in passato aveva deciso di non ricorrere mai, ovvero fare causa a un cittadino americano. Ardire a vie legali o mettersi nella posizione di essere denunciato avrebbe potuto dare il via a rivelazioni sul suo stato di immigrato clandestino. I direttori del «Banner» risposero che sarebbero stati felicissimi di difendersi in tribunale contro il Colonnello, ricordandogli che avrebbe dovuto portare davanti al giudice tutte le sue ricevute relative al gioco d’azzardo. Non sorprende che Parker non iniziò mai davvero la causa.
Secondo una teoria, il debito di Parker era così grande che la congrega che governava la città riscosse il favore esigendo un pezzo del contratto di Elvis. I contatti del Colonnello con i personaggi del crimine organizzato della Louisiana lo avrebbero aiutato ad allentare quella stretta, dato che Las Vegas e New Orleans erano collegate dalla stessa rete di Cosa Nostra, ma quando c’è di mezzo il denaro le amicizie possono aiutare solo fino a un certo punto.
Per quanto riguardava il servizio militare, Parker aveva tre possibilità: poteva fare quella telefonata all’ufficio leva e tenere il suo ragazzo lontano dall’esercito; poteva starsene con le mani in mano e permettere che Elvis venisse arruolato; oppure poteva fare in modo che Elvis scegliesse di arruolarsi e ricevesse un incarico allettante.
In precedenza, quell’anno, «Billboard» aveva pubblicato un articolo basato su fonti confidenziali, che prevedeva che Elvis si sarebbe arruolato a dicembre. L’articolo diceva che sarebbe entrato nei Servizi speciali e avrebbe potuto esibirsi durante tutta la durata della leva.
Per quanto riguardava i suoi debiti di gioco, Parker aveva solo due scelte: poteva concedere la porzione del contratto di Elvis che i suoi creditori chiedevano, qualsiasi essa fosse, e poi sedersi a guardare la fortuna che si era immaginato finire in fumo; oppure poteva temporeggiare quanto bastava a pagare i suoi debiti, tenendo così il ragazzo lontano dalle grinfie dei suoi creditori.
Quello che serviva a Parker era un posto dove congelare Elvis finché lui fosse stato in grado di pagare i debiti. Un posto dove sarebbe stato al sicuro e i suoi creditori non avessero potuto raggiungerlo. Un posto dove non avrebbe dato l’impressione di essersi nascosto.
Per accontentare Parker, l’ufficio leva di Memphis fece in modo che la visita medica preliminare all’arruolamento di Elvis fosse privata. Parker non voleva che il cantante passasse quello che aveva passato lui. Non voleva una stanza piena di turbolente reclute di Memphis a guardare il suo prodigio americano nudo come un verme. Non voleva che un dottore afferrasse le parti intime del suo ragazzo di fronte ad altri uomini (a quell’epoca i medici non indossavano i guanti di gomma e massaggiavano vigorosamente il pene per scovare possibili omosessuali).
Fin dall’inizio, Parker era stato geloso delle persone vicine a Elvis. Era geloso di Scotty e Bill perché viaggiavano con lui e dormivano nella sua stessa stanza. Era geloso delle donne con cui Elvis usciva, il che era sempre fonte di dispute. Anni dopo, June Juanico, una ragazza del Mississippi che Elvis aveva frequentato durante l’estate, disse che Parker si arrabbiava sempre – tanto da sbattere le porte – quando li coglieva insieme. E lei non fu l’unica a percepire ostilità da parte sua: Parker reagiva sempre così nei confronti delle donne di Elvis.
Come gli era stato ordinato, Elvis si presentò alla visita medica privata pre-arruolamento il 4 gennaio del 1957. Ad accompagnarlo al Kennedy Veterans Hospital di Memphis, dove una volta aveva suonato per promuovere il suo primo disco, c’erano una ballerina di Las Vegas di nome Dotty Harmony, che stava passando le vacanze di Natale con lui, e uno dei suoi amici di Memphis, Cliff Gleaves. Quando parcheggiarono fuori dall’ospedale la Cadillac color crema di Elvis, furono accolti da un esercito di giornalisti e fotografi. Elvis indossava una giacca rossa e pantaloni neri. Intimidita dalla folla, Dotty decise di aspettare in macchina. Prima che Elvis riuscisse a entrare nell’edificio, i fotografi gli chiesero di posare sui gradini con un sergente dell’esercito e un ufficiale dell’aeronautica militare.
La marina non aveva inviato un rappresentante. Uno dei fotografi, ansioso di scattare una foto provocante, chiese a Elvis di invitare in ospedale anche Dotty.
«No, signore, preferirei di no» rispose lui. «Dotty non ha nulla a che fare con questa situazione.»
All’interno, fu accolto dal dottor Leonard Glick, che lo informò che avrebbe eseguito lui la visita. Appena alle spalle di Elvis scalpitava una frotta di fotografi. Visibilmente infastidito dal gruppo, il cantante disse al medico che aveva immaginato non ci sarebbero stati fotografi durante l’esame.
«Questo dipende da lei» rispose Glick. Elvis disse ai fotografi che sarebbe stato felice di posare per loro una volta finita la visita.
«Ehi, che ne dice di uno scatto senza la camicia?» urlò uno di loro. All’improssivo, mentre Elvis si dirigeva verso la saletta delle visite, un gruppo di circa venti adolescenti sfrecciò verso di lui da un corridoio laterale, ma prima di poter raggiungere il cantante il personale militare le spinse da parte.
Quando uscì dalla saletta, Elvis raccontò ai giornalisti che la visita era andata più o meno come se l’era aspettata. Dopo che ebbe risposto alle loro domande (i reporter si mostrarono particolarmente interessati ai suoi risultati nel test d’intelligenza), Elvis accettò di firmare autografi e posare per le foto. Fu allora che invitò Dotty nell’edificio.
Dotty, Cliff e il sergente dell’esercito brindarono a Elvis con due tazze e una bottiglietta, mettendosi in posa per un fotografo. Quando le chiesero se Elvis fosse in forma, Dotty diede loro la risposta che volevano: «Dal punto di vista medico è un ottimo esemplare».
La cosa che pareva interessare di più ai giornalisti era che cosa Elvis avrebbe fatto delle sue caratteristiche basette, una volta reclutato nell’esercito. Elvis scansò il problema, ma lo scrittore di Memphis Robert Johnson, che curava una rivista intitolata «16: The Magazine For Smart Girls», disse che non riteneva che tagliare le basette sarebbe stato un problema per Elvis: «Una volta ha fatto intendere che non ama più le sue basette come un tempo».
Uno degli ufficiali delle Forze speciali presenti dichiarò a Johnson che l’esercito «non avrebbe corso il rischio di fare pasticci» rasandogliele.
Elvis concesse a giornalisti e fotografi tutto il tempo che volevano, poi mentre stava lasciando l’ospedale un’infermiera gli passò accanto di corsa e gli toccò la giacca, tra i gridolini deliziati delle sue amiche, che avevano formato lungo il corridoio un’inamidata linea bianca d’attacco.
Dopo la visita medica, Dotty fece ritorno a Las Vegas ed Elvis prese un treno per New York con Scotty, Bill e D.J. per la loro terza e ultima partecipazione all’Ed Sullivan Show. Elvis trovava difficile credere che il Colonnello gli permettesse di arruolarsi. Per uscire da quell’intoppo sarebbe bastasta una telefonata. Non era un grosso problema.
L’idea che il Colonnello lo lasciasse entrare nell’esercito era così improbabile che Scotty non perse neanche un secondo a pensarci. Nessuno credeva sarebbe successo. Dopo la partecipazione all’Ed Sullivan Show, Elvis e il gruppo tornarono a Memphis per una settimana, prima di dirigersi a Hollywood per iniziare a lavorare al successivo film del cantante, "Amami teneramente" ("Loving You").
Con sorpresa di tutti, l’ufficio leva tenne una conferenza stampa per annunciare che Elvis aveva superato la visita di leva preliminare all’arruolamento.

Nei suoi primi anni di carriera, spesso il cantante parve preoccupato per il suo rapporto con il Colonnello. Scotty ha raccontato: «Viaggiavamo insieme nella stessa macchina, Elvis riferiva qualcosa che il Colonnello aveva detto, e io rispondevo “Elvis, devi prendere una posizione e dire quello che pensi. Non c’è nulla di male se vi mettete a discutere di qualcosa”. Lui replicava “Oh, be’, ho un accordo con lui. Io canto e lui cura gli affari”. Borbottava e brontolava sulla faccenda per un giorno o due, ed era tutto. Andava avanti e obbediva, anche se non era quello che voleva lui».
Quando a Scotty, Bill e D.J. fu chiesto di comparire in "Amami teneramente", Scotty sentì che Elvis era venuto in loro soccorso. Anche se Scotty apprese come stavano davvero le cose solo anni dopo: era stato Kanter, e non Elvis, a inserirli nel film. Kanter scrisse perfino delle battute per loro. Tuttavia, il cantante fece sì che Scotty, Bill e D.J. suonassero nella colonna sonora. In quell’occasione, i ragazzi del gruppo intuirono che Elvis stava tenendo testa al Colonnello per loro e lo apprezzarono, perché sapevano quanto fosse difficile per lui dire di no al vecchio.
Per il Colonnello Tom Parker, i film erano un mezzo per ricavare maggiori guadagni dalla musica di Elvis. Non aveva mai pensato che Elvis potesse sfondare come attore. Quando alcuni critici stroncarono "Fratelli rivali", Parker decise che i futuri film avrebbero dovuto avere più canto e meno dialoghi.
La recitazione di Elvis nel suo primo film possiede una certa energia grezza che avrebbe potuto svilupparsi in qualcosa di speciale per gli schermi cinematografici. Quello che né Elvis né Parker presero in considerazione, quando il film uscì, furono i pregiudizi culturali nei confronti degli abitanti del Sud diffusi tra i critici. Rileggendo quelle prime recensioni, è evidente che la maggior parte di coloro che scrissero articoli negativi sul film ce l’aveva con Elvis non perché le sue doti di recitazione avessero bisogno di affinarsi, ma perché era originario del Sud. Non ne apprezzavano l’accento. Forse pensando a questo dettaglio, per il film successivo, "Amami teneramente", Wallis scelse un regista del Sud: Hal Kanter, nato a Savannah, in Georgia. Era la sua seconda pellicola; in precedenza aveva diretto la commedia con George Gobel e Diana Dors, "Mia moglie… che donna!" ("I Married a Woman)" per la RKO. Aveva anche
scritto la sceneggiatura per "La rosa tatuata" ("The Rose Tattoo") di Tennessee Williams. Era considerato in grado di tradurre il fascino del Sud in un immaginario comprensibile anche per il resto della nazione.
Prima che iniziassero a girare "Amami teneramente", Parker e il produttore Hal Wallis raggiunsero un accordo: le ambizioni recitative di Elvis avrebbero dovuto cedere il passo alla musica. Wallis aveva realizzato la maggior parte delle commedie musicali di Dean Martin e Jerry Lewis, e sapeva giusto qualcosina su come rafforzare l’immagine degli artisti. Non avrebbe dato torto a Parker. Una volta disse che lo riteneva «un genio» perché cavava tutto quello che poteva da Elvis, e lui lo sapeva bene, perché Parker cavava tutto quello che poteva anche dal magnate del cinema, par suo. Ogni volta che Wallis credeva di avergli preso le misure, il vecchio Colonnello si inventava qualche nuova trovata. Per esempio, quando stavano negoziando il contratto, Parker suggerì che Elvis avrebbe dovuto ricevere un extra se avesse indossato vestiti di sua proprietà. Wallis accettò, perché lo studio aveva un reparto costumi e sapeva che non c’erano molte possibilità che Elvis indossasse qualcosa di proprio. Una volta che Wallis ebbe acconsentito, Parker disse che avrebbero dovuto stabilire una cifra, un ammontare, per ciò che il suo ragazzo avrebbe ricevuto in quella situazione. Ormai, Wallis si stava stufando di parlarne. «Dunque, diciamo che pagherete venticinquemila dollari ogni volta che capita» disse il Colonnello.
«Venticinquemila!»
Parker tenne duro e Wallis accettò la cifra. Si sarebbe assicurato che Elvis portasse solo quello che c’era in quel maledetto reparto.
Come la maggior parte della gente che lavora nel cinema e nell’industria discografica, Wallis credeva che un piccolo dettaglio non contasse, per il successo di un progetto, quanto la visione complessiva. Parker era del tutto diverso: quei piccoli particolari erano praticamente tutto.
Hal Kanter ha riportato che il Colonnello limitava le sue visite sul set di "Amami teneramente" a brevi conversazioni con Presley.
«Avevo la sensazione che Elvis fosse un po’ in soggezione di fronte a lui, e che in fondo non gli importasse» afferma Kanter. «Ma potrebbe darsi che sia perché mi sentivo io così e lo stavo proiettando sul cantante. Il Colonnello Parker era il truffatore più esperto dai tempi di Barnum. Era affidabile quanto un uragano. Non sapevi mai quando avrebbe colpito.»
Indipendentemente dalle sue doti in campo musicale, Kanter considerava Parker un intralcio per la carriera di Elvis come attore.
«Non gli interessava davvero il copione. Gli interessava di più quante canzoni sarebbero apparse sullo schermo.»
Quando Parker scoprì che Kanter era l’autore della sceneggiatura di "Amami teneramente", gli chiese se fosse stato interessato a scrivere insieme a lui la sua autobiografia. Il Colonnello disse: «Se lo farai, il titolo ce l’ho… Quanto costa se è gratis?».
«Inutile dire che quel libro non lo scrissi mai» ha concluso Kanter.
Una volta, Parker si presentò sul set con un pugno di salsicce fatte in casa. Kanter lo osservò distribuirne un po’ ai presenti, quando però si avvicinò a lui con le salsicce in mano, non gli offrì di condividere quelle prelibatezze campagnole. «Mi offrì di comprarne un po’» ricorda Kanter ridendo. «Incredibile! Gli altri si arrabbiavano con lui, ma a me divertiva.»
Per anni, dopo "Amami teneramente", Kanter ricevette biglietti di auguri per Natale, firmati da Elvis e dal Colonnello.
«Era sempre legato a Elvis a doppio filo» ha raccontato. «Avevo la sensazione che fossero altri a pagare quei biglietti di Natale.»
Una volta, durante le riprese di uno dei film successivi del cantante, Parker venne sul set a osservare. Rimase in disparte, in ombra, nessuno si accorse della sua presenza. All’improvviso, Parker notò qualcosa dall’altra parte della stanza e attraversò rapido il set, passando proprio davanti alla telecamera. Tutto s’interruppe di colpo.
«Il ragazzo sta indossando un orologio di sua proprietà» disse Parker, passando il sigaro da un angolo della bocca all’altro. «Vedete… eccolo lì al polso. Questo vi costerà altri venticinquemila dollari.»
Il Colonnello e i ragazzi del gruppo si disprezzavano a vicenda, ma era Parker, creatore del Re, e non i membri della band, creatori del mito, ad avere il potere di esprimere quel disprezzo. Quando il proprietario di un rivenditore di automobili Chrysler di Los Angeles si offrì di fornire ai ragazzi delle macchine nuove, se avesse avuto il permesso di farsi pubblicità dicendo che i membri della band di Elvis guidavano le sue autovetture, Parker disse di no. Lo stesso
accadde con la RCA, che si offrì di fornire alle famiglie dei musicisti degli elettrodomestici, in cambio del diritto di sfruttare il fatto che utilizzavano i suoi prodotti. Parker non volle neanche sentirne parlare: no, no, no.
Per nessun motivo Parker avrebbe mai concesso un dito ai ragazzi del gruppo. Erano impiegati pagati duecento dollari alla settimana e nient’altro. Non contava quanti dischi vendesse Elvis, a quanti film prendesse parte, quanti concerti tenesse, i membri della band avevano comunque uno stipendio di duecento dollari alla settimana a meno che, naturalmente, non fossero in studio, aiutassero a registrare canzoni per le pellicole cinematografiche o suonassero in tour; in quel caso di dollari a settimana ne ricevevano solo cento. Era fonte di immensa gioia per Parker che i membri della band guadagnassero meno dei camerieri personali e dei membri dell’entourage di Elvis, chiamati in seguito «la Mafia di Memphis».
«Oh, sì, bisognava tenerlo d’occhio» ha detto D.J. «Non voleva che fossimo “la band”. Diceva: “Non pagate i ragazzi, altrimenti vorranno più soldi. Ne troveremo altri”. Se non fosse stato per Elvis, ce ne saremmo andati all’epoca di 'Heartbreak Hotel'. Al Colonnello non importava.»
«Faceva in modo che le persone con cui faceva affari si guardassero sempre alle spalle: “Che cosa combinerà adesso?”» ha raccontato Scotty. «Non era uno sciocco; era doppiamente scaltro. Sapeva considerare tutte le angolazioni. Avrebbe speso cento dollari per poterti superare di uno e poterci scherzare sopra. Gli piaceva vincere. A volte, trattando per un accordo, otteneva la cifra che voleva e poi diceva: bene, per me è okay; il mio ragazzo cosa ci guadagnerà invece?»
Mentre si trovavano a Los Angeles per filmare "Il delinquente del rock and roll" ("Jailhouse Rock"), Elvis e la band entrarono in studio per registrare dei nuovi singoli e un album di Natale per la RCA. Era da oltre un anno che discutevano con il cantante della realizzazione di un disco di pezzi strumentali. Presley avrebbe suonato il piano e si sarebbero chiamati i "Continentals". L’idea di fare qualcosa di nuovo emozionava Elvis, soprattutto perché avrebbe avuto il ruolo di un anonimo pianista. Sarebbe stato come fare l’agente segreto. L’ultimo giorno delle registrazioni alla RCA, rimasero in studio per iniziare a lavorare sulle strumentali. Sapevano già che cosa volevano fare ed era da diverse settimane che provavano le canzoni. Tuttavia, prima che si mettessero all’opera, Parker mandò a dire che non potevano tenere quella sessione d’incisioni. Lui non l’aveva approvata ed Elvis semplicemente non lavorava a progetti che non avessero la sua approvazione. Scotty, Bill e D.J. rimasero attoniti. In cerca di sostegno guardarono Elvis, che però non disse nulla e si riparò dietro il muro protettivo del suo entourage. Bill sbatté il basso elettrico nella
custodia. Ma la prima emozione che colpì Scotty non fu la rabbia: fu la delusione provocata dal fatto che una persona a cui lui teneva e di cui si fidava non lo avesse spalleggiato in un momento critico. Elvis lasciò lo studio senza mai davvero scusarsi o offrire spiegazioni. Quello che diceva Parker era legge. E non era negoziabile.
Sulla via del ritorno a Memphis, Scotty e Bill guardarono in faccia la loro reale situazione. Erano dei turnisti pagati duecento dollari a settimana e non sarebbero mai stati altro. Non avrebbero mai ricevuto royalties per il lavoro compiuto sui dischi di Elvis e Parker non avrebbe mai permesso loro di registrare insieme a Presley niente che non coinvolgesse anche lui. Se non avessero cominciato come soci di Elvis, avrebbero potuto avere una prospettiva diversa. La musica che avevano creato al "Memphis Recording Service", quella che aveva catapultato Elvis tra le celebrità, era stata frutto di uno sforzo comune. Il cantante non era arrivato in studio con una manciata di canzoni pronte. Non aveva
detto «Ragazzi, sto per inventare il rock’n’roll, ecco cosa dovete fare». Al contrario, la magia realizzatasi in studio era stata il risultato della collaborazione di tre uomini, ciascuno dei quali aveva dato il proprio contributo. La voce spettava a Elvis e a lui solo, ma la musica… beh, quella era un’altra storia.
Scotty e Bill ebbero una lunga conversazione con le mogli. Avevano fatto tutti sacrifici affinché Elvis raggiungesse il successo. Bobbie gli aveva prestato la macchina e aveva perfino viaggiato per promuovere presso le stazioni radio le loro prime uscite. Bobbie ed Evelyn avevano sopportato le lunghe assenze dei loro uomini durante i tour nella speranza che le incertezze, la mancanza di soldi e le difficoltà un giorno terminassero. Scotty e Bill ebbero il compito ben poco invidiabile di informare le mogli che il loro sogno non era altro che quello, una parvenza di speranza senza alcuna base solida. Tutti attribuirono la colpa della situazione al Colonnello. Fino al suo arrivo, ogni cosa era filata liscia. Dopo diversi giorni di riflessione, decisero di mettere Elvis di fronte alla realtà della loro disperata situazione. Entrambe le famiglie avevano debiti, e più accompagnavano il cantante lungo il suo cammino più i loro debiti aumentavano. Scotty e Bill decisero di inviare a Elvis le loro lettere di dimissione. Parlarono con D.J. di licenziarsi tutti e tre insieme, ma il batterista fece notare che, a differenza loro, lui era stato assunto fin dall’inizio
come turnista e non aveva i loro stessi motivi di lamentela. Disse però che non li avrebbe biasimati se si fossero licenziati. Quando ricevette le loro raccomandate, Elvis si trovava ancora a Los Angeles. Le loro dimissioni furono per lui un assoluto shock. Fece vedere le lettere a tutti i membri del suo entourage. Quando lo stupore iniziale passò, si infuriò, accusando Scotty e Bill di slealtà. Quando cercò di parlarne a Parker, saggiamente quest’ultimo rispose che non erano affari suoi. Steve Sholes gli disse di assumere un’altra band. A lui Scotty e Bill non erano comunque mai piaciuti. Poteva trovare per Elvis i migliori musicisti di New York o di Los Angeles, che non parlassero con l’accento strascicato del Sud. Il cantante non sapeva che cosa pensare. Quando tornò a Memphis, chiamò Scotty e gli chiese come avrebbe potuto convincerli a tornare a lavorare con lui. Scotty gli disse che non avrebbero voluto mollare, ma avevano bisogno di una ricompensa concreta per i loro sforzi. La loro prima preoccupazione, spiegò il chitarrista, era riuscire a pagare i loro debiti. Se Elvis avesse dato loro un forfait di diecimila dollari a testa per estinguere i debiti contratti mentre erano in tour con lui, nonché un aumento di cinquanta dollari a settimana, sarebbero stati felici di tornare al lavoro. Elvis rispose che ci avrebbe pensato su. Nel frattempo, Scotty e Bill parlarono ai giornalisti della loro situazione. Pensavano di essere nel giusto e volevano raccontare la loro storia perché non volevano che i fan credessero che stavano abbandonando Elvis. Per quanto riguardava i fans poteva essere una buona mossa, ma servì solo a esacerbare il loro rapporto con il cantante, che stava rapidamente peggiorando. Vedere le sue faccende private sulla stampa lo mise solo in ulteriore imbarazzo e lo spinse tra le braccia del Colonnello, in attesa, che gli disse di non preoccuparsene; lo avrebbe aiutato a trovare nuovi compagni due volte più bravi di Scotty e Bill.
Invece di richiamare il chitarrista per discutere ancora, Elvis incontrò Bill Burk, giornalista del «The Memphis Press-Scimitar», e inviò la sua replica a Scotty e Bill attraverso una lettera aperta che fu pubblicata sul giornale. Così, augurò ai suoi turnisti buona fortuna, dicendo loro addio.
«Se fossi venuto da me, avremmo potuto risolvere la faccenda» disse Elvis, indirizzando le sue dichiarazioni a Scotty. «Mi sarei sempre preso cura di te. Ma sei andato dai giornali cercando di mettermi in cattiva luce, invece di rivolgerti a me in modo che potessimo sistemare le cose.»
«Capii più tardi, quando Parker venne coinvolto, che non c’era modo di aggiustare tutto» ha dichiarato Scotty. «Tutte le volte che leggo di questa storia, si sostiene che Elvis disse che mollammo perché volevamo più soldi e riconoscimenti. Non volevamo affatto riconoscimenti. Volevamo solo delle gratifiche, suppongo, per poter mettere da parte qualcosa in banca.»
Quando lesse le dichiarazioni del cantante sul giornale, Scotty seppe che poteva trarne solo due conclusioni: o Elvis stava mentendo, cercando di fare una bella figura sulla stampa oppure il Colonnello Parker non gli aveva mai riferito delle molte volte in cui aveva richiesto un necessario aumento nel corso degli anni. Conosceva Elvis troppo bene per pensare che avrebbe mentito in una situazione del genere. Anche se Scotty, Bill e D.J. erano da tempo consapevoli dell’inimicizia nutrita da Parker nei loro confronti, non avevano mai voluto credere che il Colonnello avesse effettivamente nascosto qualcosa a Elvis. Adesso sapevano che Parker stava giocando pesante.
Con in programma un’esibizione alla fiera di Tupelo il mese seguente, Elvis iniziò le audizioni per trovare chitarristi e bassisti che rimpiazzassero Scotty e Bill. La speranza che i due nutrivano di salvare la situazione fu distrutta dalle lettere che Vernon spedì loro, con le quali le dimissioni venivano accettate. Quella per Scotty includeva un assegno di ottantasei dollari e venticinque centesimi, a saldo per i servizi svolti come chitarrista di Elvis.
Adesso che conoscevano la loro posizione, Scotty e Bill non persero tempo e cercarono nuovi lavori. La prima offerta che ricevettero fu un ingaggio di sedici giorni alla Fiera statale del Texas, a Dallas. Il contratto prevedeva che facessero quattro spettacoli al giorno, dal cinque al venti ottobre. Ricevettero milleseicento dollari e i funzionari della fiera rimborsarono tutte le spese. Era più del doppio di quello che guadagnavano lavorando per Elvis. Per rimpiazzare Scotty e Bill, il cantante assunse due musicisti di Nashville, Hank Garland alla chitarra e Chuck Wiginton al basso. Quando i Jordanaires arrivarono per l’impegno a Tupelo e scoprirono che Scotty e Bill erano stati rimpiazzati, rimasero sbalorditi. Non avevano saputo nulla del litigio. Gordon Stoker dei Jordanaires notò che quel giorno Elvis era alquanto agitato. Una volta sentita la storia di come Scotty e Bill se ne erano andati, non gli ci volle molto a capire che cosa fosse successo.
«Il Colonnello teneva Elvis all’oscuro di un sacco di cose» ha raccontato. «Non gli diceva tutto quello che avrebbe dovuto.»
Dopo il concerto di Tupelo, Elvis disse a D.J. che senza Scotty e Bill non era lo stesso. Con un importante tour già fissato per Los Angeles e San Francisco, Elvis prese posizione con il Colonnello, come di rado capitava: gli disse che rivoleva Scotty e Bill. Parker scaricò l’onere sul suo assistente Tom Diskin, che chiamò i due musicisti al loro ritorno dal Texas, chiedendo loro di unirsi di nuovo alla band. Acconsentì a pagarli mille dollari a testa per quattro concerti. Scotty e Bill accettarono a condizione che tutte le esibizioni future fossero trattate su base giornaliera. Al Colonnello stava bene.
Rividero Elvis per la prima volta al "Civic Auditorium" di San Francisco. Lui si comportò come se tra loro non fosse accaduto nulla. Anzi, era così euforico che quella fu una delle esibizioni più memorabili della sua carriera. Quando in chiusura suonarono "Hound Dog", come sempre, Elvis scese dal palco per rockeggiare vicino a un cane di gesso, mentre novemila fans esultanti scuotevano le fondamenta dell’edificio.

- fine prima parte -

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22/07/2023 12:17
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4. Il Re raggiunge la vetta a ritmo di rock’n’roll

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Nel dicembre del 1957, appena una settimana prima di Natale, Elvis ricevette una visita inaspettata a Graceland, la casa che aveva da poco comprato a Memphis. Si trattava di Milton Bowers, presidente dell’ufficio leva locale. Nominato durante l’era Crump, Bowers ricopriva quel ruolo dal 1943. Come «Billboard» aveva previsto, disse a Elvis che stava arrivando il suo turno: presto avrebbe ricevuto l’ordine di presentarsi per una visita medica preliminare all’arruolamento.
Che un membro dell’ufficio leva andasse a casa di una potenziale recluta non era mai successo, ma fu solo il primo di numerosi gesti preferenziali compiuti a favore dell’artista dall’ufficio e dall’esercito. L’esperienza militare di Elvis non avrebbe avuto nulla di conforme alle regole.
Dopo la visita di Bowers, avvenuta poco prima di Natale, il Colonnello Parker sapeva di avere esaurito il tempo a disposizione. Diverse branche dell’esercito lo avevano contattato per offrire un accordo speciale se Elvis si fosse arruolato. I militari avevano già deciso che i suoi servigi come artista sarebbero stati più utili di quelli da soldato semplice. A Parker la cosa non piaceva. Non voleva che l’esercito traesse vantaggio dalle doti musicali del ragazzo.
Parker permise che Elvis si arruolasse, ma per alleviare la pressione che gli stavano facendo i suoi creditori doveva fare in modo che sembrasse un arruolamento obbligatorio e che non ci fosse nulla da fare per impedirlo. Parker non voleva dare l’impressione che stesse cercando di far uscire Elvis dal Paese: sarebbe stata una cosa assai dannosa per la sua salute.
Per far funzionare il piano, a Parker serviva la collaborazione dell’ufficio leva di Memphis. Dei trentadue uomini registrati insieme a Elvis tra il primo e il 13 gennaio 1953, a nove fu ordinato di presentarsi per le visite mediche pre-arruolamento (tra questi non figurava Elvis); tra loro, cinque vennero arruolati e quattro respinti. Di quel gruppo di trentadue uomini, quattordici, tra i quali il cantante, entrarono nelle forze armate, il che significa che nove
scelsero di arruolarsi.
Le pratiche del Selective service riguardanti Elvis contengono un’annotazione scritta a mano che potrebbe corrispondere sia a Enl, enlisted, cioè arruolato come volontario, sia a Ind, inducted, reclutato per coscrizione, ma la pratica di Elvis è coerente con quelle degli uomini che si arruolarono volontari e sotto la dicitura non vi sono note che indichino quando effettivamente gli iscritti furono chiamati per le visite preliminari. La pratica del Selective service di Elvis mostra che l’artista si arruolò volontario e non fu mai reclutato per coscrizione.
A quanto pareva, la sua visita privata, molto pubblicizzata, all’ospedale dei veterani era stata organizzata per consentire che si arruolasse come volontario nelle forze armate. A quel punto della sua carriera, il Colonnello si prendeva cura di tutto quello che riguardava Elvis. Esercitando quello che forse è il più grande potere mai esercitato da un manager, a quanto pare lo fece arruolare nell’esercito degli Stati Uniti… e glielo disse dopo, come gli avrebbe comunicato un ingaggio o un nuovo contratto cinematografico. «Farai un tour nel Nord-est… poi finirai quel film… poi, oh, giusto, quasi mi dimenticavo, a quel punto entrerai nell’esercito per due anni. Rendi orgoglioso il vecchio Colonnello, chiaro?»
Piuttosto che rischiare di perdere la sua partecipazione nel contratto di Elvis, Parker giocò il tutto per tutto e rischiò che fosse il cantante a perdere la sua carriera. Se non poteva farne parte lui, che senso aveva che ne avesse una? Per Parker, era tutto o niente. Per accontentarlo, l’ufficio leva di Memphis scrisse una lettera di coscrizione per Elvis. Dissero che preferivano non spedirgliela e gli chiesero se non gli sarebbe dispiaciuto passare dall’ufficio a ritirarla di persona. Ben consapevoli delle severe leggi delle poste americane, non volevano commettere una frode postale. A Elvis stava bene. Dopo aver ritirato la lettera, si fermò al "Memphis Recording Service". Sam Phillips non c’era, ma Jack Clement, che allora gestiva lo studio, sì. Elvis gli disse che era stato chiamato alle armi e gli mostrò la lettera. Clement ebbe la netta impressione che fosse felice di fare il militare.
«Be’, tanto vale che mi diverta» disse il cantante.
Con amici e parenti, Elvis mostrò un atteggiamento diverso. In realtà non voleva andare sotto le armi, e spesso cadeva nello sconforto solo a parlarne. Vernon non aveva molto da commentare in merito, ma Gladys pensò che fosse un destino peggiore della morte. Era da un po’ che Elvis non parlava faccia a faccia con il Colonnello, perciò andò in automobile fino a Nashville per dargli di persona il suo regalo di Natale, una piccola auto sportiva rossa della Isetta. Caricò il veicolo su un camion e guidò lui stesso, con due membri del suo staff che lo seguivano a bordo di una Lincoln. Quando arrivò a casa del Colonnello, ad attenderlo c’era una folla di giornalisti e fotografi. Non è chiaro se li avesse invitati Parker perché voleva fare pubblicità alla chiamata per il servizio militare di Elvis oppure perché voleva che ci fossero testimoni nel caso il cantante si fosse fatto prendere dalle emozioni.
«Oh, non è un tesoro quel ragazzo?» disse Parker ai giornalisti. Riuscì perfino a farsi salire le lacrime agli occhi. «Avrebbe potuto spedire qualcosina e basta.»
Su richiesta di Parker, Elvis indossò una tenuta militare a beneficio dei fotografi. Fece del suo meglio per mostrarsi allegro come al solito, ma come a volte succede durante i servizi fotografici fu un successo solo parziale. Semplicemente, non ci mise il cuore. Gordon Stoker dei Jordanaires arrivò durante il servizio fotografico e disse a Elvis che quella sera si sarebbero esibiti al "Grand Ole Opry": aveva voglia di andare con loro? Quando il cantante
rispose che non aveva niente da mettersi, Gordon si offrì di accompagnarlo in un negozio di vestiti da uomo. Con sua sorpresa, Elvis acquistò uno smoking e scarpe nere eleganti. Come succedeva sempre con Parker, quel giorno il Colonnello aveva chiesto a Stoker di passare da lui per un secondo fine. Il Colonnello voleva che invitasse Elvis all’Opry perché uno dei suoi sodali, Dub Albritten, aveva appena messo sotto contratto una ragazzina della Georgia, che sarebbe stata presente. Era una bambina minuta, ma pareva molto promettente.
Quella sera, all’Opry, Elvis posò per alcune fotografie insieme alla bimba prodigio di Albritten, la tredicenne Brenda Lee. Fu proprio la spinta che serviva all’uomo per sostenere il lancio della sua nuova stella. Brenda ricorda Parker al lavoro dietro le quinte per aiutare Albritten con la sua carriera. Dà il merito al Colonnello per averle dato una mano a conquistare il suo primo ruolo cinematografico.
«Trovavo che [Parker] fosse un tipo gentile… mi piaceva» afferma Brenda. «Era fatto a modo suo. Vestiva come voleva e non gli importava del giudizio altrui. Immagino avesse abbastanza autostima da essere la persona che voleva e non badare molto al fatto che gli altri fossero d’accordo o meno. Era un genio del marketing. Anche Dub era un genio, ma lo era in maniera molto più riservata.»
Elvis lasciò Nashville senza mai sapere che Parker lo aveva sfruttato per promuovere la carriera di Brenda Lee e senza ottenere soddisfazione da lui per la storia della leva. Il Colonnello aveva preso una decisione e non c’era altro da aggiungere. Fare entrare Elvis nell’esercito era un tiro sporco, ma il peggio doveva ancora arrivare.
Tre giorni dopo Natale, Parker annunciò che l’ufficio leva di Memphis aveva concesso a Elvis una dilazione di sessanta giorni in modo da consentirgli di finire le riprese di "La via del male" ("King Creole"). Sia Elvis sia la Paramount avevano richiesto una proroga. Parker assicurò ai giornalisti che non sarebbe stata estesa.
«Non ci sono motivi per cui quando la dilazione sarà terminata non debba arruolarsi» affermò Parker. «E non credo che Elvis prenderebbe in considerazione di richiederne un’altra, perché so cosa intende fare.»
Proseguì spiegando ai reporter che Elvis progettava di continuare a incidere dischi durante il servizio militare.
«Fisseremo le date per le registrazioni insieme alla Rca, nei week end» disse a Richard Allen di «The Commercial Appeal». «Questa dilazione gli permetterà di completare il film della Paramount, in cui compariranno parecchie canzoni che terranno il pubblico concentrato su Elvis per un bel po’.»
Quando Elvis ricevette la notizia della dilazione, insieme a lui c’erano due showgirl di Las Vegas che erano passate a trovarlo facendo una tappa nel loro viaggio verso New York, dove volevano fare un provino al Copa Cobana. Elvis e le due donne, la diciannovenne Kathy Gabriel di Cleveland, in Ohio, e la ventiduenne Hanner Melcher, austriaca, posarono per una foto che le agenzie di stampa usarono per accompagnare il pezzo sulla notizia della proroga. Gabriel fu identificata come miss Ohio e Melcher come miss Austria.
A mostrare molto interesse per quella fotografia fu l’FBI, che aprì un fascicolo sulle donne e il loro rapporto con Elvis. Gli agenti riferirono che il cantante le aveva incontrate al Tropicana, mentre si trovava a Las Vegas. Melcher era diventata oggetto di un’indagine dell’FBI su richiesta del Servizio immigrazione e naturalizzazione. Il motivo preciso per cui ciò fosse successo non è mai stato spiegato. Gli agenti dell’FBI ricostruirono i movimenti delle donne dal Nevada a Memphis e poi a New York, ma né l’una né l’altra, e nemmeno Elvis o il Colonnello Parker, furono mai informati dell’indagine. Si può solo immaginare la reazione del Colonnello se avesse saputo che il Servizio immigrazione stava ficcando il naso ai margini del suo mondo segreto.

Nel gennaio del 1958, Elvis e la band si recarono a Hollywood per lavorare alla colonna sonora di "La via del male". Per allora, Parker aveva provveduto a far sì che gli autori Jerry Lieber e Mike Stoller della "Hill and Range" ricevessero in anticipo una copia della sceneggiatura, affinché potessero scrivere canzoni che funzionassero per le singole scene.
In pratica, Elvis non aveva voce in capitolo per quanto riguardava la musica del film. Mentre lo stavano girando, Parker inviò a Lieber un nuovo contratto. Quando Lieber aprì la busta, pensò che fosse un errore: conteneva solo un foglio bianco con lo spazio per fargli apporre la firma. Telefonò a Parker per comunicarglielo, ma il Colonnello gli disse che non c’era alcun errore.
«Ma sul foglio non c’è nulla» protestò lui.
«Non preoccuparti, lo compileremo poi» disse Parker.
A Lieber e Stoller non servì altro. Non lavorarono mai più con il Colonnello; non si presero più nemmeno il disturbo di rivolgergli laparola.
Dopo aver completato i lavori al film, il cantante e la band tornarono in treno a Memphis, anche se Elvis divenne irrequieto, a Dallas scese e noleggiò un gruppo di Cadillac in modo che potessero continuare al volante. Quando arrivò a Graceland trovò un giornalista ad attenderlo. Elvis gli disse che aveva appena terminato il migliore film della sua carriera e progettava di rimanere a Memphis finché fosse venuto il momento di unirsi all’esercito.
«La sua fama avrebbe risentito del periodo sotto le armi?» gli chiese il giornalista.
«Magari lo sapessi» rispose Elvis.
Durante gli ultimi giorni da civile, chiamò i vecchi amici e disse loro addio. Scoppiò in lacrime, chiedendosi: «Perché io?».
Stranamente, comprò alla sua ragazza una macchina nuova e fece dei favori ad altri amici, ma mancò di prendere qualsiasi misura in favore della band durante la sua assenza, anche se prima di partire telefonò ai ragazzi. Di fatto, Scotty, Bill e D.J. erano andati a ingrandire le fila dei disoccupati.
Quando giunse il momento per Elvis di presentarsi al comando per l’arruolamento, Parker partì in auto da Nashville per andare a salutarlo. Era arrivato un telegramma del governatore del Tennessee Frank Clement, che lodava Elvis in quanto «giovane disposto a servire il suo Paese quando chiamato a farlo». Parker voleva che il cantante lo leggesse alla folla radunata fuori, ma Elvis non accettò e se lo cacciò in tasca.
Mentre Vernon e Gladys piangevano, il Colonnello sfilò tra le persone che gli facevano gli auguri reggendo palloncini che pubblicizzavano il film con Elvis Presley che presto sarebbe uscito nelle sale, "La via del male". Aveva ormai pienamente ripagato qualunque debito avesse con l’esercito degli Stati Uniti.
Quando Elvis partì per svolgere l’addestramento di base a Fort Chaffee, in Arkansas, il Colonnello Parker lo accompagnò, alla testa di una processione di giornalisti, fotografi e circa un centinaio di fan. Parker continuava a dare di gomito a Elvis davanti alle macchine fotografiche. A un certo punto, suggerì al cantante di indossare insieme all’uniforme un cravattino in stile western. No, signore, rispose Elvis, facendogli educatamente notare che farlo lo avrebbe messo nei guai. Perché non lo metteva il Colonnello, quel cravattino? Parker ignorò il suggerimento e, da maestro dell’arte di sviare l’attenzione qual era, abbaiò ai fotografi di smetterla di fotografarsi a vicenda.
Elvis non si trovava a Fort Chaffey da un bel po’ quando gli venne detto che sarebbe stato assegnato alla Seconda divisione corazzata di Fort Hood, vicino a Killeen, in Texas. Parker non voleva stringere con l’esercito altri accordi se non quelli assolutamente necessari, ma finché Elvis non si fosse trovato al sicuro fuori dal Paese, il Colonnello sapeva che avrebbe dovuto risolvere una certa quantità di problemi. Quando scoprì una scappatoia nei regolamenti
dell’esercito che permetteva alle reclute con parenti che dipendevano da loro di vivere fuori dalla base, fece in modo che Elvis avesse una residenza privata abbastanza grande da ospitare lui, suo padre e sua madre.
Gladys non era troppo contenta di trasferirsi in Texas. Il trasferimento peggiorò solamente il dolore che provava per l’arruolamento del figlio. Non si sentiva bene e le sue crisi di alcolismo si verificavano sempre più spesso. Aveva una malattia del fegato, ma tutti, compresa lei, erano così presi dalla partenza di Elvis che nessuno notò con quale allarmante velocità la sua salute stesse peggiorando.
Il Colonnello seguì il cantante a Fort Hood, poi tornò a Nashville dopo che un vero colonnello – e per di più donna – lo rimise in riga. Non è che non avesse nulla a cui dedicare tempo. Era un uomo impegnato. Gestire i soldi di Elvis era un lavoro a tempo pieno. Si vantò con i giornalisti di Nashville che anche ora che il cantante era partito i suoi guadagni sarebbero rimasti gli stessi. Con un nuovo film in uscita e le vendite dei dischi che continuavano, Elvis non
doveva preoccuparsi di restare a bocca asciutta, e lui nemmeno. Prestare servizio nell’esercito era più o meno un lavoro da orario d’ufficio, per Elvis, che passava il tempo che doveva alla base – si guadagnò il rango di tiratore scelto con la carabina calibro, ma alla fine della giornata tornava a casa da Vernon e Gladys e viveva per lo più come aveva fatto a Memphis.
Alcuni degli altri soldati erano risentiti per il trattamento speciale di cui godeva e a volte lo insultavano. La maggior parte però pareva capire la pressione cui era sottoposto.
Il Colonnello gli fece visita alcune volte, di solito con in mano qualche contratto, ma era ovvio che voleva tenersi alla larga dalla base. Elvis si comportava in maniera gentile con Parker, quand’era lì, ma quando se ne andava girava per casa sbattendo i piedi e imprecando, chiaramente furioso per qualcosa che il Colonnello gli aveva detto.
In giugno, Elvis aveva ormai completato l’addestramento di base e aveva ottenuto i requisiti per una licenza di quattordici giorni. Tornò a Memphis con i suoi genitori e poi si recò a Nashville, dove il Colonnello aveva organizzato una sessione di registrazione. Per la prima volta da quando avevano iniziato insieme nello studio di Sam Phillips, Scotty e Bill non furono invitati a incidere. D.J. sì, ma non fu utilizzato come batterista principale.
La scelta ferì Scotty e Bill. Entrambi avevano bisogno di denaro. Da gennaio, gli unici guadagni di Scotty per quell’anno erano derivati dal lavoro svolto sulla colonna sonora di "La via del male", che ammontavano a poco più di duemila dollari.
Quando la licenza terminò, Elvis e i suoi genitori tornarono a Fort Hood. Gli era già stato detto che sarebbe stato dislocato in Germania e Gladys fu sconvolta al pensiero di doversi trasferire in un Paese straniero. Quando si avvicinò la fine dell’addestramento, Elvis mise Vernon e Gladys su un treno per Memphis. Progettava di ottenere un’altra licenza e passare del tempo con loro a Graceland prima di attraversare l’oceano.
Il giorno dopo il ritorno di Vernon e Gladys a Memphis, la donna fu ricoverata in ospedale per epatite in stato avanzato. I dottori si accorsero che era grave e telefonarono a Elvis, dicendogli che doveva tornare a casa. All’inizio, il permesso di partire gli fu negato. Sconvolto, chiamò l’ospedale ogni ora per avere aggiornamenti sulle condizioni della madre. Disse che se non avesse ricevuto presto l’autorizzazione a partire lo avrebbe fatto lo stesso.
Dopo aver sentito che Elvis stava parlando di assentarsi senza permesso, il medico di Gladys chiamò il comandante e lo pregò di autorizzare il cantante. L’ufficiale scelse la linea dura e disse al medico che non poteva fare nulla che inducesse i media a ritenerlo responsabile di concedere a Elvis un trattamento speciale. Il medico, che aveva passato cinque anni e mezzo nell’esercito, disse all’ufficiale che se non avesse concesso a Elvis la licenza avrebbe parlato lui con i giornalisti e gli avrebbe «fritto per bene le palle».
Al cantante venne prontamente concessa l’autorizzazione a partire. Arrivato a Memphis, Elvis si recò subito all’ospedale, dove trovò la madre in condizioni migliori di quelle che si era aspettato. Dopo diverse ore di visita, lasciò Vernon all’ospedale e andò a dormire a Graceland. Il mattino dopo ritornò dalla madre e vi rimase parecchie ore. Il terzo giorno, al mattino presto, gli telefonarono a Graceland per informarlo che la donna era mancata. Elvis reagì alla morte di Gladys come tutti si erano immaginati: fu travolto dal dolore. Quando i giornalisti arrivarono a Graceland, trovarono Elvis e Vernon seduti sui gradini dell’ingresso, abbracciati, noncuranti del fatto che fossero presenti altre persone. Quando gli arrivò la notizia del decesso di Gladys, Parker accorse da Nashville e si prese l’incarico di occuparsi dei preparativi per il funerale. Elvis voleva che si tenesse a Graceland, ma il manager rifiutò la sua
proposta e insistette che si svolgesse in una cappella. Oltre quattrocento persone affollarono la piccola cappella per ascoltare la funzione, e oltre seimila sfilarono per vedere la bara; all’esterno, sessantacinque agenti di polizia ricevettero l’incarico di controllare la folla. Tutti, a quanto pareva, erano lì a confortare Elvis nell’ora del bisogno. Tutti, cioè, tranne i due uomini con cui si era messo in cammino sulla lunga strada verso la gloria, Scotty e Bill.

Le ultime settimane a Fort Hood prima che Elvis partisse per l’Europa, trascorsero in maniera confusa per tutte le persone coinvolte. La morte della madre del cantante moltiplicò l’angoscia che era montata per l’intero anno tra i suoi familiari e amici. Il Colonnello andò a trovare Elvis presso la casa che aveva preso in affitto a Killeen numerose volte, per discutere con lui delle future uscite per la RCA, senza trattenersi più di quanto fosse assolutamente
necessario. Per la prima volta, Parker aveva davvero del lavoro da sbrigare nell’ufficio dentro al garage, a Madison. Per uno o due anni aveva raccontato ai giornalisti di avere uno staff di venti o trenta persone per gestire tutta la posta che arrivava. Era una bugia, ma adesso che Elvis stava lasciando il Paese il minuscolo ufficio veniva inondato di lettere e cartoline. Non gli andava di ignorarle, dato che, nei casi migliori, potevano racchiudere dei contanti, e in quelli peggiori gli avrebbero fornito indirizzi da aggiungere alla sua lista di contatti cui inviare la pubblicità per il merchandising.
Dato che per l’esercito era prassi utilizzare i treni per spedire gruppi numerosi di soldati in diverse zone del Paese, il programma prevedeva che Elvis ne prendesse uno vicino a Fort Hood e viaggiasse fino al terminal dell’esercito di Brooklyn, nello stato di New York. Il Colonnello Parker viaggiò sul treno con lui, distribuendo saluti ipocriti ai pezzi grossi dell’esercito con lo stesso entusiasmo mostrato agli spettatori della fiera quasi trent’anni prima.
Il problema peggiore dei militari, concluse Parker, era che non pensavano abbastanza in grande. Quando il Colonnello apprese che il treno non sarebbe passato da Memphis, convinse l’esercito che avrebbe dovuto compiere una deviazione e attraversare la città per raccogliere appieno i benefici della pubblicità, frutti ormai maturi e in attesa di essere raccolti. Come risultato, l’esercitò modificò il percorso e organizzò una sosta di un’ora a Memphis per fare rifornimento. Ad attendere Elvis e il Colonnello (ormai i due erano inseparabili ovunque fossero presenti i fotografi) c’erano gli amici del cantante e altri giornalisti. Quando infine il treno giunse a New York, oltre cento reporter e
fotografi si erano radunati, insieme a dirigenti della RCA, Vernon, Anita Wood, la ragazza che il cantante stava frequentando con regolarità, e vari ufficiali dell’esercito, tutti quanti all’apparenza sopraffatti dal trambusto.
Prima che Elvis avesse il permesso di parlare con i giornalisti, un portavoce dell’esercito spiegò le regole di base. Per i primi quindici minuti, ai fotografi sarebbe stato concesso di scattare foto, poi Elvis avrebbe risposto alle domande. Il cantante si sarebbe imbarcato con otto amici scelti tra i soldati con i quali aveva condiviso il viaggio in treno. Tutti si sarebbero fermati sulla passerella per farsi fotografare. Infine, un gruppetto di giornalisti avrebbe potuto salire a bordo per pochi minuti.
Per tutto il tempo, il Colonnello Parker sorrise, raggiante. Era meglio di qualsiasi cosa avesse mai visto alle fiere. Quei ragazzoni dell’esercito sapevano come mettere su un bel trambusto senza perdere tempo, quando volevano.
Elvis baciò una soldatessa del Women’s Army Corps, il corpo femminile dell’esercito, scelta dai militari per l’occasione, e dopo avere posato per i fotografi si sedette per rispondere alle loro domande.
«La sua famiglia verrà in Germania con lei?»
«L’iniziale “A” del suo secondo nome sta per?…»
«Com’è andato il viaggio in treno?»
«Venderà Graceland?»
«Come ha ottenuto quelle medaglie?»
«Quand’è stata l’ultima volta che si è innamorato?»
«C’è qualcosa che vorrebbe dire su sua madre?»
Questa domanda dovette strappare una smorfia al Colonnello. Era stato capace di proteggere Elvis dalle domande su Gladys e non sapeva come avrebbe reagito. Sarebbe stato tremendo se fosse scoppiato a piangere in uniforme. I bravi soldati non frignano. Con sollievo di Parker, Elvis se la cavò bene.
«Insomma, tutti amano la propria madre, ma io sono figlio unico e lei mi è stata accanto per tutta la vita, sempre. E non ho solo perso una madre, è stato come perdere un’amica, una compagna, qualcuno con cui parlare…»
L’assurdità di tutta quella situazione dovette colpire Parker come un mucchio di mattoni in testa. Quand’era arrivato in America, il rock’n’roll non esisteva. Adesso finiva in prima pagina. Non riusciva a capacitarsene. Quello che Elvis faceva sul palco, a lui non sembrava neanche musica. Quand’erano in tour, i commenti spontanei che faceva sui fans del cantante, soprattutto sulle fans, svelavano l’assoluto disprezzo che provava nei loro confronti. Per lui P.T. Barnum aveva ragione: ogni minuto nasce un fesso (e la maggior parte porta la gonna).
La conferenza stampa durò quasi un’ora. Una volta conclusa, Elvis mise in spalla una sacca da viaggio presa in prestito e salì con fatica la passerella mentre la banda dell’esercito americano si lanciava in un’entusiastica versione di "Tutti Frutti". In effetti, salì su quella passerella per otto volte, in modo che i fotografi e i cameramen del cinegiornale potessero ricavare tutto il materiale di cui avevano bisogno. A seguire Elvis a bordo fu il Colonnello Parker. Si chiusero nell’archivio della nave, dove Elvis registrò un messaggio natalizio per i suoi fans. Seguì un’altra conferenza stampa, durante la quale Elvis trasmise ai giornalisti dei messaggi per i fans.
Quando gli ultimi reporter se ne andarono, Elvis e il Colonnello ebbero qualche minuto tutto per loro. Parker non avrebbe rivisto il cantante per un anno e mezzo, ma non c’era bisogno di farglielo sapere in quel momento. Il ragazzo aveva già abbastanza preoccupazioni.
Mentre la nave si allontanava dal porto, il Colonnello rimase sulla banchina, con il viso rotondo illuminato da un sorriso a trentadue denti, insieme a oltre duemila persone urlanti; mentre Elvis dal ponte rispondeva salutando con il braccio, sempre più piccolo di momento in momento, replicò lo stesso gesto. La banda dell’esercito americano suonò "Hound Dog", "Don’t Be Cruel" e "All Shook Up". Fu un gran bello spettacolo, quanto qualsiasi altro presentato dalla "Royal American" nel circuito fieristico. Lo rese orgoglioso di essere quasi un americano.
Tornato a Madison, dopo aver sbrigato l’incombenza della posta, Parker tenne una conferenza stampa, durante la quale annunciò che Elvis avrebbe guadagnato un milione di dollari entro la fine del 1958 e probabilmente la stessa cifra l’anno successivo. Elvis Presley era una macchina fabbrica-soldi, disse ai giornalisti, e con lui a badare ai suoi affari tutto stava andando bene.

Ogni anno che passava, la moglie di Parker, Marie, sembrava avere un ruolo sempre minore nella sua vita. Avevano un matrimonio non tradizionale, a dire poco. Forse la loro vita privata rimarrà per sempre un mistero, ma per coloro che lavoravano con Parker lei era la sua invisibile partner. In pubblico non si mostrò mai affettuoso con lei e dato che non avevano hanno bambini non è certo che abbiano mai avuto rapporti sessuali. Le poche fotografie di Marie esistenti mostrano un volto gentile, intelligente. Negli anni della vecchiaia, avrebbe potuto fare da modella per un manifesto sulla nonna dell’anno.
Con Elvis fermo, il Colonnello aveva un gran daffare. Si prese cura di quello che poteva, poi partì, lasciando Tom Diskin a presidiare i telefoni.
Mentre Elvis era nell’esercito, Parker aveva bisogno di farsi vedere in pubblico. L’ultima cosa al mondo che voleva era che la gente pensasse che si stesse nascondendo.
Una delle prime cose che fece Diskin, su suggerimento di Parker, fu chiamare i giornalisti e comunicare che Elvis aveva firmato un contratto per realizzare una serie di speciali televisivi per la ABC-Tv. Non era vero, ma le agenzie di stampa ripresero la notizia e il nome di Elvis finì sui giornali in tutto il Paese. Parker sapeva che la maggior parte dei giornali non avrebbe ritenuto necessario chiamare la ABC-Tv per verificare. Il lavoro della stampa era riferire ai lettori ciò che le persone dicevano; che tali dichiarazioni fossero vere o false non era poi così importante.
Parker arrivò in Louisiana, dove essere un Colonnello contava qualcosa, e dove il suo amico Jimmie Davis si stava preparando a candidarsi di nuovo alla carica di governatore. Gli animi si stavano surriscaldando in tutto il Sud, a causa degli sforzi compiuti dal governo federale per accelerare l’integrazione razziale nelle scuole.
Era un’epoca di grande violenza e complotti, nella vita reale; era più importante chi, non che cosa, si conosceva, anche se ciò che si sapeva poteva rappresentare una minaccia per l’incolumità.
Jimmie Davis e il suo amico Leander Perez si trovavano nell’occhio del ciclone, con il fronte della turbolenza che lambiva Carlos Marcello e la Dixie Mafia, la Commissione per la sovranità del Mississippi e i Consigli cittadini formati interamente da bianchi. A New Orleans, a catalizzare le notizie era Aaron Kohn, un pubblico ministero che aveva fatto di tutto per avviare un’azione legale contro Marcello, ormai famoso con il soprannome di Dixie Godfather, padrino del Sud. Non essendo riuscito a ottenere il sostegno dell’FBI contro l’obiettivo che aveva preso di mira, affrontò la questione da un’angolazione diversa, rinviando a giudizio i pubblici ufficiali accusati di accettare tangenti dalla Dixie Mafia.
Dalla Louisiana, Parker andò a Tampa, dove fece visita ai vecchi amici e si riposò prima di recarsi a Los Angeles per parlare un po’ di affari con Abe Lastfogel, il rappresentante personale di Elvis alla William Morris Agency. Su richiesta del Colonnello, Lastfogel gli fece fare il giro della città e lo presentò a tutte le persone giuste. Come al solito, Parker stava tramando qualcosa. Uno dei favori che il Colonnello chiese a Lastfogel fu di organizzare qualcosa con Frank Sinatra, cantante melodico e idolo degli anni Quaranta, la cui carriera aveva alquanto patito l’arrivo del rock’n’roll. I commenti che Sinatra aveva rilasciato in pubblico su Elvis erano stati tutti negativi, ma Parker aveva la sensazione che non avrebbe fatto lo schizzinoso di fronte a un contratto d’affari che avrebbe portato benefici a entrambi.
Si diceva che Sinatra avesse legami con la mafia di Las Vegas. Forse il Colonnello aveva informazioni specifiche su quei legami o forse si era fatto guidare dalle voci che aveva sentito. Se Parker doveva una grossa somma di denaro ai casinò controllati dalla mafia – e sembra fosse questo il caso, soprattutto dato che il "Frontier", dove Elvis era stato ingaggiato l’ultima volta che si era esibito a Las Vegas, fu tra quelli che successivamente l’FBI aveva scoperto avere connessioni con la criminalità organizzata – un accordo con Sinatra per uno special in televisione sarebbe stato non solo un perfetto mezzo per il ritorno di Elvis: avrebbe anche aiutato a distogliere dal Colonnello l’attenzione dei casinò.
Parker aveva motivo di preoccuparsi. La percezione pubblica della criminalità organizzata, con le versioni cinematografiche che mostravano tizi nerboruti e con il naso rotto che si scatenavano mitragliatrice alla mano, era lontanissima dalla realtà. Di solito, i mafiosi di Las Vegas attuavano comportamenti violenti solo gli uni contro gli altri e contro chi non pagava i debiti.
Dopo aver fatto quello che poteva a Los Angeles, Parker si fece un giro a Las Vegas, per un po’ di riposo e relax – e perché pensassero che avrebbe pagato il dovuto – poi tornò a Madison, dove si preparò a promuovere le nuove uscite di Elvis per la RCA. I primi singoli lanciati dopo che Elvis era entrato nell’esercito furono "I Got Stung" e "One Night". Uscirono a novembre; "I Got Stung" arrivò in nona posizione a dicembre, poi sparì rapidamente. "One Night" andò meglio, arrivando a dicembre in terza posizione.
Con i dischi di Elvis che svanivano dalle classifiche, al Colonnello dovettero venire dubbi sul fatto di averlo mandato in Germania, soprattutto alla notizia che "The Chipmunk Song" era il disco numero uno in America. Parker chiamò il suo amico Al Dvorin e gli chiese se avesse idee su come far circolare il nome di Elvis. Dvorin sapeva come fare. Lo chiamarono l’Elvis Presley Midget Fan Club, il fan club dei nani.
Dvorin dichiarò: «Avevo dovuto formare un gruppo di nani per la compagnia aerea Continental Airlines, per la presentazione della loro nuova flotta di jet. Il Colonnello mi chiese se potevo fare lo stesso per l’Elvis Presley Midget Fan Club. Presi Bobby Powers e, non saprei, dieci o dodici nani e creai il [fan club] pescando dal mio ufficio. Li sistemammo in un albergo di Chicago per la RCA e li facemmo sfilare per tutto l’hotel, poi lungo Dearborn verso Madison. Fu bellissimo. Avevamo i nani più carini del mondo a lavorare per noi!»
Il Colonnello dovette passare qualche nottata insonne durante le vacanze di Natale. Si era tenuto stretto il contratto di Elvis e aveva impedito che cadesse in mani sbagliate… ma a quale prezzo? Era la cosa più crudele che un manager avesse mai fatto a un musicista… Oppure la più furba.

- fine capitolo 4-
22/07/2023 12:17
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5. Non più in disparte, di nuovo sotto i riflettori

Tra tutte le preoccupazioni che Elvis aveva, essere trattato come un normale soldato non era un problema. In qualche modo, l’esercito americano assunse il ruolo e perfino la personalità del Colonnello Tom Parker.
Quando la nave di Elvis, la "Uss General Randall", arrivò, le banchine erano occupate da centinaia di fans urlanti che volevano vedere il Re del rock’n’roll. Come da tradizione, donò il sangue, insieme a molti altri soldati, poi fu portato a Bad Hauheim, dove era di stanza la Settima armata americana. Con lui c’erano suo padre e sua nonna, Minnie Mae Presley, e diversi membri del suo entourage di Memphis. Il giorno dopo il suo arrivo, l’esercito organizzò una conferenza stampa per Elvis, dando così un nuovo significato all’espressione «in servizio».
L’esercito chiarì fin dal principio che il cantante avrebbe ricevuto un trattamento speciale, mentre era sotto le armi. Nel giro di dieci giorni gli fu permesso di lasciare la base e trasferirsi in una casa con tre camere da letto, affittata a Bad Hauheim. La divideva con Vernon, Minnie Mae e un corpo scelto di compagni di Memphis, che si alternavano tra loro. Arredò la casa con un pianoforte e numerosi televisori e riempì il frigo di hamburger, bacon e panini dolci del Sud fatti in casa in abbondanza. L’esercito americano si stava occupando di Elvis a meraviglia.
Nel frattempo, in Tennessee, il vero manager del cantante faceva quello che poteva per portarne avanti la carriera. Se qualcuno doveva assumersi la responsabilità delle relazioni pubbliche di Elvis, tanto valeva che fosse l’esercito americano; Parker era sicuro che lo avrebbero reso orgoglioso.
Nel febbraio del 1959, la RCA pubblicò un nuovo album di Elvis, intitolato "For LP Fans Only". Conteneva dieci canzoni, tutte vecchie di almeno un anno. Una, "Playing For Keeps", era apparsa sul lato B di "Too Much". Quattro dei brani erano usciti in origine per la "Sun Records".
Quando Elvis si era arruolato, l’unica cosa su cui il Colonnello e la RCA avevano concordato era stata la commerciabilità del vecchio materiale realizzato dall’artista. Parker sosteneva che qualsiasi cosa avessero pubblicato sarebbe arrivata in cima alle classifiche. Si sbagliava. "For LP Fans Only" finì presto nel dimenticatoio e per la prima volta da quando la RCA aveva rilevato il suo contratto, Elvis non aveva brani in classifica. Parker convocò una conferenza stampa per riferire ai giornalisti che stava progettando un ritorno «bomba», per l’anno successivo, nelle televisioni a circuito chiuso di un centinaio di città in tutto il Paese. Come prevedeva, i media riportarono diligentemente le dichiarazioni senza preoccuparsi di verificarne l’accuratezza.
Verso la fine di marzo, Parker fu chiamato dall’ufficio legale della RCA perché avevano ricevuto una lettera inquietante con il timbro postale di Canton, in Ohio. L’anonima missiva affermava che un soldato dell’Armata rossa di stanza nella Germania dell’Est progettava di assassinare Elvis Presley.
«Ha ricevuto ordine di ucciderlo, anche se dovesse far saltare in aria l’albergo o la casa dove lui e suo padre vivono» sosteneva l’autore della lettera. «Vi prego, vi prego, non prendete questo messaggio come uno scherzo perché Dio mi è testimone, tutto quello che ho scritto è vero.»
Valutato il contenuto della lettera, Parker disse alla RCA di non preoccuparsene. Disse che assomigliava alle missive che una donna dell’Ohio aveva inviato a lui e sulle quali poi aveva indagato l’FBI.
«È una matta» disse Parker, e chiarì di non voler proprio essere coinvolto.
Ciò nonostante, la RCA contattò la sede newyorkese del Federal Bureau, che procedette facendo eseguire una perizia calligrafica sulla lettera. La donna a cui si riferiva Parker si era fatta ricoverare spontaneamente in un istituto psichiatrico dopo essere stata interrogata in altre occasioni dall’FBI. Il Bureau aveva trasmesso i risultati di quell’indagine al procuratore di Cleveland, che si era rifiutato di perseguire la donna per via del suo stato emotivo.
Quando l’FBI paragonò la calligrafia della donna con quella della lettera che la RCA aveva trasmesso loro, le due non combaciarono. Il caso fu rinviato al bureau di Memphis, che non si mostrò interessato a seguirlo; il direttore dell’FBI, J. Edgar Hoover, tuttavia, prese la minaccia abbastanza sul serio da riportarla al vice-capo di stato maggiore dei Servizi segreti militari.
In un biglietto, Hoover scrisse: «Trasmettiamo quanto sopra per vostra informazione. Questo Bureau non condurrà ulteriori indagini in merito».
Il Colonnello Parker manteneva un atteggiamento strano nei confronti delle minacce di morte che stavano cominciando a giungere con crescente regolarità. Aveva passato tutta la vita a evitare ogni contatto con l’FBI e altri rappresentanti delle forze dell’ordine. Non aveva comunicato al Federal Bureau of Investigation nessuna delle minacce che aveva ricevuto ed era riluttante a parlare di quelle che avevano ricevuto gli agenti. Se volevano uccidere Elvis, che lo uccidessero. Non erano affari suoi o almeno così pareva pensare. Prendersi cura degli affari era sì compito suo e a dargli davvero sui nervi, quel mese, non erano le minacce di morte, ma ciò che vedeva quando guardava le classifiche. A marzo, il disco in posizione numero otto nella classifica del country era "Tragedy" di Thomas Wayne, una canzone prodotta da Scotty Moore per la sua nuova etichetta discografica, la "Fernwood Records". Thomas Wayne si chiamava in realtà Thomas Wayne Perkins ed era il fratello del bassista di Johnny Cash, Luther Perkins. Con la sua voce mozzafiato, da baritono, veniva presentato dai disc jokey come il nuovo Elvis Presley. Inoltre, nel disco suonava Bill Black, che presto si sarebbe guadagnato le prime pagine come leader dei "Bill Black Combo".
Per Scotty, "Tragedy" fu un bel colpo. Solo tre singoli incisi a Memphis erano giunti così in alto nelle classifiche pop: "Blue suede shoes" di Carl Perkins, "Great Balls of Fire" e "Whole Lot of Shakin’ Going On" di Jerry Lee Lewis. Nessuno dei dischi che Scotty aveva registrato con Elvis per la Sun Records era mai arrivato tanto in alto.
Forse per rigirare un pochino il dito nella piaga, Scotty inviò una copia di "Tragedy" al Colonnello Parker, insieme a un gentile bigliettino firmato «Scotty Moore, vice presidente della Fernwood Records».
Il Colonnello rispose con una lettera indirizzata a «Scotty Moore, vice presidente», nella quale scrisse che era «solo giusto» congratularsi con lui per il suo successo. La lettera piacque così tanto a Scotty che la conservò.

Durante il periodo di servizio in Germania, Elvis visse fuori dalla base, nella casa affittata a Bad Nauheim. Ogni mattina indossava l’uniforme e una delle sue guardie del corpo lo portava in auto alla base. Lui era felice di fare tutto quello che gli veniva richiesto. Per lo più, si trattava solo di mettersi l’uniforme e girare in jeep agitando il braccio per salutare la gente. Qualsiasi progetto avesse avuto inizialmente l’esercito per Elvis, venne modificato dopo la lettera minatoria. Non importava che a scriverla fosse stata una fan impazzita: li aveva spinti a rendersi conto che per alcune persone Elvis era simbolo del capitalismo americano. Se qualcuno lo avesse ucciso per fini politici, l’evento avrebbe potuto avere ripercussioni internazionali, destabilizzando la fragile tregua della Guerra fredda in Europa.
Da quel momento in poi, l’interesse per Elvis cambiò sensibilmente. I piani alti si assicurarono che i soldati, suoi compagni, lo tenessero d’occhio. Vivo, era una manna dal cielo per l’esercito, in termini di pubbliche relazioni. Morto, era un potenziale disastro militare e politico. Quando si rese conto che l’esercito non gli avrebbe chiesto di fare nulla di pericoloso, come capitava ai soldati nei film o come quello che aveva fatto Scotty quando aveva prestato servizio in marina, in Cina, durante la Rivoluzione comunista, Elvis si rilassò e si adatto alla vita militare. Senza dubbio, il noioso protocollo non era un problema per lui: era da tutta la vita che si rivolgeva agli estranei
dicendo «sì, signore» e «no, signore».
Dagli Stati Uniti arrivava un flusso costante di visitatori ed Elvis usciva con gli amici la sera e nei fine settimana di licenza. Andò a un concerto di Bill Haley and the Comets a Francoforte e posò per i fotografi insieme a Haley, in camerino. Senza il Colonnello a scuotere il dito al suo indirizzo in segno di disapprovazione, il cantante si concesse di lasciar i capelli bassi sulla testa per la prima volta da quando era diventato una star.
Una cosa di cui non doveva preoccuparsi era trovare compagnia il sabato sera. A casa sua, le donne andavano e venivano di continuo. Le sue coetanee o quelle più grandi di lui non avevano molte chance. Elvis preferiva le ragazze più giovani… in effetti, le teenager. Per un po’ frequentò una sedicenne tedesca, poi fu avvistato con una serie di ragazzine. Da quando era morta sua madre, aveva l’ossessione di avere sempre intorno compagnia femminile.
Anita Wood, che il cantante aveva frequentato con regolarità prima di attraversare l’oceano, ottenne un passaporto e fece tutte le vaccinazioni necessarie per poterlo andare a trovare, ma quando il Colonnello venne a conoscenza dei suoi piani, le proibì di partire, dicendo che sarebbe stata cattiva pubblicità, perché la stampa straniera avrebbe fatto credere che si stavano per sposare.
Quando Parker sentì raccontare quello che Elvis faceva fuori dalla base, si sentì a disagio, perché era un brutto momento, quello in cui stava iniziando ad avere dubbi. Fino a quel punto, il suo atteggiamento era stato «tenere giù le mani» dai momenti di svago del cantante, ma quando, a giugno, apprese che Elvis e i ragazzi di Memphis avevano noleggiato un aereo per andare a Parigi, inviò in Germania Ben Starr, avvocato della "Hill and Range", per tenerli lontani dai guai.
In assenza del cantante, il Colonnello si tenne impegnato fissando ingaggi per il suo vecchio cliente Eddy Arnold, ma a Elvis non ne parlò mai. Fu in quel periodo che nacque l’amicizia di Parker con il senatore texano Lyndon Johnson. Come si incontrarono rimane un mistero. Lo scenario più probabile è che l’assistente di Johnson, Walter Jenkins, avesse incontrato Parker nell’ambito dei suoi stretti legami con i gestori dei distributori automatici del Texas. In seguito, Jenkins sarebbe sfuggito a un’approfondita inchiesta congressuale solo attraverso le battaglie legali condotte dietro le quinte da Abe Fortas di Memphis.
Verso la fine del 1959, il rapporto del Colonnello con Lyndon Johnson era abbastanza solido da far sì che Parker e Eddy Arnold ricevessero l’invito a partecipare a un barbecue presso il ranch di Johnson in Texas. L’evento era in onore del presidente messicano Adolfo Lopez Mateos. Diverse settimane dopo, il Colonnello scrisse a Walter Jenkins chiedendo di poter avere una delle fotografie di gruppo scattate alla festa. Jenkins rispose che non aveva la foto che Parker voleva, ma avrebbe cercato di trovarla. Il mese seguente, Johnson scrisse un biglietto personale al Colonnello.
«Lady Bird e io saremo sempre grati a te e a Eddy per aver reso memorabile la visita del presidente Lopez Mateos» disse Johnson. «Spero che le nostre strade si incrocino di nuovo in futuro e che ti sentirai sempre libero di chiamarmi in ogni momento in quanto tuo amico, e per qualsiasi cosa.»
Il Colonnello Parker non stava conducendo una doppia vita: ne stava conducendo una tripla. Per molti anni di seguito avrebbe tenuto una corrispondenza regolare con Lyndon Johnson e Jenkins, scrivendo anche una volta al mese. Spesso inviava regali o dischi. A volte forniva consigli, come quando aveva dato a Johnson il suo parere sulla grafica dei biglietti da visita della sua campagna elettorale.
Per quanto riguardava Elvis, a preoccupare di più il Colonnello non erano le feste scatenate, l’alcol e gli scherzi infantili, bensì la sua brama di ragazzine. Sapeva che, se gli fosse sfuggita di mano, avrebbe potuto distruggergli la carriera. Nel corso degli anni, il Colonnello fu accusato di moltissime cose, ma non di dare la caccia alle gonnelle.
Fu verso la fine della sua permanenza in Germania che Elvis incontrò la ragazzina che più avrebbe preoccupato il Colonnello. Priscilla Beaulieu era la figliastra quattordicenne di Joseph Beaulieu, un capitano dell’aeronautica militare. Beaulieu pensò che l’artista ventiquattrenne fosse troppo vecchio per sua figlia, ma non le proibì di uscire con lui. Elvis frequentò regolarmente Priscilla durante le vacanze di Natale, ma non smise di uscire anche con altre ragazze. Fu a quell’epoca che iniziò a interrogarsi sul proprio aspetto: stava iniziando a dimostrare la sua età? Aveva ancora in viso i segni dell’acne adolescenziale e i butteri sembravano farsi ogni anno sempre più evidenti. Alla fine di novembre, Elvis iniziò delle cure per la pelle con un uomo di nome Johannes, che gli aveva scritto tempo prima, quello stesso anno, dal Sud Africa, dove abitava. Presentandosi come specialista della cura della pelle e massaggiatore, si offrì di annullare tutti i suoi impegni e volare in Germania per somministrare a Elvis i suoi trattamenti. Convinto che Johannes fosse un medico, uno specialista in dermatologia, Elvis accettò di sottoporsi alle cure.
«Mi sento onorato e assai privilegiato di essere stato scelto per questo importante compito» scrisse Johannes prima di lasciare il Sud Africa. «Sono anzi assolutamente entusiasta della mia missione e le assicuro che, come vedrà presto, farò meraviglie per la sua pelle.»
Elvis riceveva i suoi trattamenti a casa e, secondo un resoconto preparato per J. Edgar Hoover dal comando della polizia militare dell’esercito, erano indirizzati a viso e spalle. A quanto pareva, Johannes forniva a Elvis le sue cure ogni notte. L’artista passava talmente tanto tempo con lui che Priscilla, che frequentava Elvis da circa un mese, si lagnò di essere trascurata e Vernon, che compilava gli assegni per pagare le cure, si lamentò che stavano costando
troppo. Le fatture di un mese di trattamenti ammontavano a quindicimila dollari, più o meno l’equivalente di tutti gli stipendi che Scotty e Bill avevano ricevuto nei primi tre anni di lavoro per Elvis.
La vista dei due uomini che salivano le scale e sparivano dietro porte chiuse ogni sera stava iniziando a mettere a disagio tutti gli abitanti della casa. I trattamenti continuarono per quasi un mese, poi si interruppero bruscamente quando l’entourage di Elvis lo informò che Johannes aveva tentato avances omosessuali con alcuni di loro. Furioso, Elvis ordinò a Johannes di andarsene da casa sua. L’uomo ebbe un accesso di collera e strappò un album di fotografie di Elvis. Minacciò di rovinargli la carriera e di divulgare la sua relazione con la quattordicenne Priscilla Beaulieu. Disse al cantante di essere in possesso di fotografie e video incriminanti che lo mostravano in «situazioni compromettenti».
I fascicoli dell’FBI non indicano se Elvis chiese consiglio al Colonnello in merito all’incidente, ma è quasi certo che lo fece. Riguardo all’omosessualità, Parker era di mentalità molto aperta. Aveva incoraggiato l’amicizia di Elvis con l’attore Nick Adams, che all’epoca si diceva fosse omosessuale. Durante le due settimane di ingaggio al Las Vegas Frontier, Parker aveva spinto Elvis a stringere amicizia con il pianista Liberace, esuberante artista della città. In
effetti, Liberace influenzò lo stile di Elvis nel vestire, nel corso degli anni successivi al loro incontro a Las Vegas, secondo Scotty Moore, che non sapeva che Liberace fosse gay.
«Pensavo fosse tutta scena» ha affermato. «Ecco quant’ero ingenuo.»
Anziché preoccuparsi di quello che Johannes gli avrebbe fatto, Elvis andò all’attacco e presentò una relazione al capo della polizia militare. Raccontò agli investigatori la sua versione degli eventi e riferì che Johannes aveva minacciato di rivelare un suo coinvolgimento in «situazioni compromettenti».
«Presley ci garantisce che è impossibile, perché non si è mai trovato in alcuna situazione compromettente» riferì nel suo rapporto il maggiore Warren Messner, capo del ramo investigativo dell’esercito. «Presley sostiene che [Johannes] soffra di disturbi mentali. L’affermazione si basa sulle crisi che [lui] ha avuto in merito alle affermazioni riguardanti le terapie d’urto a cui si stava sottoponendo.»
Johannes non fu mai perseguito e l’esercito finì per fare da mediatore tra il massaggiatore e il cantante. Nel rapporto indirizzato al direttore dell’FBI, un portavoce dell’esercito affermò di voler evitare qualsiasi pubblicità sulla faccenda, dato che Elvis era stato un «soldato eccellente e non aveva causato alcun problema all’esercito durante il suo periodo di servizio.»
Elvis acconsentì a pagargli duecento dollari per l’ultimo trattamento ricevuto e altri trecentoquindici per il biglietto aereo per Londra. Johannes accettò il denaro, ma non se ne andò come aveva promesso. Pretese invece altri duecentocinquanta dollari, che Elvis pagò. Secondo la relazione preparata per l’Fbi, Johannes partì per Londra il 6 gennaio a bordo del Volo 491 della British European Airway.
Prima di andarsene, Johannes inviò a Elvis una lettera scritta a mano, nella quale gli augurava «ogni successo e felicità» per il futuro. Disse di avere deciso di non fargli causa su consiglio di un avvocato tedesco.
«Hai perso tua madre e dato che questo è il tuo secondo anno nell’esercito e hai dovuto patire molto nella vita, ti capisco e ti perdono» scrisse nella lettera.
L’ultima volta che fu avvistato, Johannes stava cercando di entrare negli Stati Uniti.

Il primo marzo 1960, il giorno prima della partenza di Elvis dalla Germania, l’esercito tenne per lui una conferenza stampa in una palestra di Bad Nauheim. Il Colonnello si era organizzato in modo da sfruttare l’occasione per annunciare che il lavoro sul suo nuovo film, "Cafè Europa" ("G.I. Blues"), sarebbe iniziato non appena fosse tornato alla vita da civile.
Con sua sorpresa, una delle prime persone che Elvis vide entrando nella palestra fu una vecchia amica, Marion Keisker. Era entrata nell’aeronautica nel 1957 dopo un alterco con Sam Phillips e si era costruita una nuova vita nell’esercito. L’industria musicale, secondo il suo giudizio, era una delle imprese «più schifose, più sporche e dove volano più coltellate alla schiena!» di cui avesse mai fatto parte. Adesso era il capitano Marion Keisker.
«Ciao, tesoro» disse lei.
Sentendo la sua voce, Elvis si voltò.
«Marion!» esclamò, incapace di credere ai suoi occhi. «In Germania! E da ufficiale! Ti do un bacio o ti faccio il saluto?»
«Entrambe le cose, in quest’ordine!» rispose lei, poi si tuffò tra le sue braccia.
Scandalizzato, l’ufficiale per le pubbliche relazioni dell’esercito diede a Marion una strigliata, minacciando di farla processare dalla corte marziale.
«Mi aspettavo senz’altro questo tipo di comportamento dai giornalisti, ma non da un membro delle forze armate» disse.
Marion spiegò che si trovava lì per seguire la conferenza stampa per la stazione televisiva delle forze armate, ma quella spiegazione non convinse l’ufficiale dell’esercito. Pretese che se ne andasse, ma lei, da testarda bellezza di Memphis qual era, si rifiutò categoricamente. Fu in quel momento che intervenne Elvis, spiegando in maniera educata all’ufficiale che non si sarebbero trovati lì quel giorno se non fosse stato per il fiuto con cui Marion sapeva riconoscere il talento. Per Elvis, era stato il saluto perfetto.

Il Colonnello Parker era iperattivo fin dal primo dell’anno. Elvis non entrava nella Top Venti delle classifiche fin da quando "A Big Hunk o’Love" era arrivata al primo posto nell’agosto del 1959. Il pezzo forte nelle classifiche erano i "Bill Black Combo", la cui grintosa "Smokie-Part 2", destinata a finire nei juke-box, era entrata nella Top Venti a gennaio.
Mentre Elvis era assente dalle scene, la musica era cambiata moltissimo. Nuovi idoli come Frankie Avalon, Paul Anka e Bobby Darin avevano conquistato le classifiche pop. Il rock’n’roll puro, nato con la "Sun Records", era caduto in disgrazia presso il pubblico. La "Sun Records" non aveva prodotto una hit da Top Venti fin dal luglio del 1958, quando Johnny Cash era entrato in classifica con "Guess Things Happen That Way". Jerry Lee Lewis si era rovinato da solo
per via del suo matrimonio con la cugina adolescente. D
iverse settimane prima del congedo di Elvis, circolarono voci su un piano del Colonnello Parker di fare delle copie dei documenti di congedo e venderle ai fans. Per porre fine ai pettegolezzi, Parker chiamò Malcolm Adams di «The Commercial Appeal» a Memphis per smentire quella che chiamò una «storiella da svitati».
«È ridicolo! Non ci saremmo inventati una roba del genere neanche se avessimo potuto.»
Quando il giornalista gli chiese se Elvis stesse pensando di cambiare il suo stile vocale, Parker disse che non aveva motivo di ritenere che lo avrebbe fatto.
«Certo, maturando potrebbe. Elvis è un artista di talento. Non cerco mai di dirgli come cantare o quali canzoni scegliere.»
La settimana dopo Charles Holmes, un reporter di «The Commercial Appeal» in apparenza rimasto insoddisfatto dalla risposta del Colonnello, scrisse un pezzo sul ritorno nello show business dell’artista «in esilio». Alla fine dell’articolo, il giornalista chiedeva: «Riconquisterà la sua posizione di rilievo nel capriccioso mondo discografico o cinematografico? Lo sapremo presto».
Dal punto di vista del Colonnello Parker, il rock’n’roll vecchio stile aveva fatto il suo tempo. Nelle classifiche vedeva arrivare bei ragazzi che cantavano brillanti composizioni in stile newyorkese, che passavano con servile facilità in televisione e nei film. Non capiva molto di musica, ma capiva a istinto, di pancia, per che cosa i fessi avrebbero pagato – e lui aveva come cliente il bel ragazzo più celebre di tutti i tempi. Sapeva che cosa doveva fare.

C’era in corso una tormenta quando Elvis e altri settantanove soldati arrivarono alla base aeronautica McGuire di Fort Dix, in New Jersey, a bordo del velivolo militare Dc-7. Per alcuni fu la peggiore tempesta di neve dell’anno. Ad attendere Elvis c’erano la cantante Nancy Sinatra e una folla di giornalisti e fotografi. A seguire il suo ritorno per la "Mutual Broadcast Network" era l’attrice Tina Louise. A dirigere l’attività mediatica c’era il Colonnello Tom Parker, che disse ai reporter che per il resto dell’anno l’artista aveva impegni in televisione e al cinema pari a oltre ottocentocinquantamila dollari e si aspettava di guadagnare altri «milioni» prima che l’anno terminasse. Rigirandosi in bocca il grosso sigaro a, Parker affermò che Elvis aveva guadagnato un milione e seicentomila dollari durante il periodo nell’esercito. Poi, riflettendo meglio su quanto aveva detto, dichiarò ai giornalisti:
«Per favore, badate bene di specificare che il governo riceverà il novantuno per cento in tasse. Elvis non è milionario».
Quando fu rivelato che l’ultimo assegno dell’esercito per il cantante sarebbe ammontato a centonove dollari e cinquantaquattro centesimi, Parker fece notare che anche di quelli il governo avrebbe rivendicato il novantuno per cento, il che significava che dell’ultimo assegno dell’esercito Elvis avrebbe portato a casa in realtà nove dollari e ottantasei centesimi.
Durante la conferenza stampa di due ore – che i militari stavano diventando bravi a organizzare… troppo bravi, si direbbe – Elvis rispose alle domande dei giornalisti con la solita onestà e cordialità.
«Come sono le ragazze tedesche, rispetto a quelle americane?»
«Sono donne, in entrambi i casi» rispose lui.
«Beve, o fuma?»
«No, e non mastico tabacco.»
«Che cosa pensa dei nuovi cantanti che le fanno concorrenza nell’ambiente?»
«Quando ho iniziato sono stato fortunato a svoltare. Se altri ragazzi ce la faranno, meglio per loro.»
«È stato detto che il rock ’n’ roll sta scomparendo. Che cosa ne pensa?»
«Non lo abbandonerò mai, finché la gente lo apprezzerà. Saranno le persone a far sapere quando è ora di cambiare. Non potrei mai assumermi io il compito [di cambiarlo].»
«È mai stato innamorato?»
«Ho creduto di esserlo. Una o due volte.»
Dopo la conferenza stampa, Parker incontrò Elvis e gli disse che cosa aveva organizzato per lui fino a quel momento. Gli riferì anche che cosa dovevano fronteggiare, per quanto riguardava la concorrenza. Per essere competitivo, Elvis avrebbe dovuto limare alcuni dei suoi spigoli e attrarre un pubblico più maturo.
«Non riesco ancora a credere di essere qui» disse Elvis a una folla di circa cinquanta giornalisti e centocinquanta fans, quando arrivò nella stazione ferroviaria di Memphis. Era mattina presto, prima dell’ora di colazione per la maggior parte della città, e la neve cadeva come quando era giunto a Fort Dix. Più tardi, quel pomeriggio, durante una conferenza stampa a Graceland, Elvis dichiarò di non essere riuscito a dormire durante il viaggio in treno, durato
ventiquattro ore, perché era emozionatissimo di tornare a casa. Disse di avere fame, ma che non riusciva a smettere di camminare per casa abbastanza a lungo per poter mangiare.
Uno dei giornalisti gli chiese di posare per una foto insieme a uno degli orsacchiotti della sua collezione. Elvis rifiutò educatamente, dicendo che non sarebbe stato bene che un uomo appena tornato dall’esercito coccolasse un peluche. Non era vero che il cantante possedesse una collezione di orsacchiotti. Su quella presunta passione erano circolate diverse storie, ma erano state tutte inventate dal Colonnello Parker, che la considerava un piano di merchandising. Una volta arrivò addirittura a comprare a Elvis un orsacchiotto e a metterglielo sul letto per farlo vedere ai fotografi. Il Colonnello pensava che la bugia degli orsacchiotti fosse spassosa; Elvis invece ne era imbarazzato ed evitava l’argomento ogni volta che poteva.
Il Colonnello gli concesse due settimane prima di rimettersi al lavoro, ma un articolo apparso sul numero del 14 marzo della rivista «Life» arrivò a dipingere a tinte fosche le prospettive di Elvis di riconquistare la corona di Re del rock ’n’ roll. La pubblicazione citava queste dichiarazioni dell’artista: «Voglio diventare un bravo attore, perché non si può costruire un’intera carriera solo sul canto. Guardate Frank Sinatra. Fino a quando non ha aggiunto la
recitazione al canto si è trovato a scendere la china».
Il Colonnello in persona non avrebbe saputo esprimersi meglio. Elvis chiamò Scotty, Bill e D.J. e chiese loro se volessero unirsi a lui per un’imminente sessione di registrazione a Nashville e per la sua prima apparizione pubblica da quando era tornato, uno speciale televisivo insieme a Frank Sinatra. Scotty e D.J. risposero che sarebbero stati felici di partecipare a entrambe, ma Bill, ancora risentito per come Elvis aveva gestito le cose, disse che era troppo
impegnato a suonare con i "Bill Black Combo".

- fine prima parte -

- continua -
24/07/2023 23:04
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- seconda ed ultima parte -

Elvis si presentò alle registrazioni a Nashville con addosso l’uniforme dell’esercito e usando il nome Sivle Yelserp (Elvis Presley al contrario). Le prenotazioni delle sue prime uscite dopo l’arruolamento avevano già superato la soglia del milione e la sessione non preoccupava molto il Colonnello. Avrebbe potuto infilare nelle custodie dei dischi del pesce marcio e venderne comunque un milione.
A preoccupare Parker era l’immagine di Elvis post-servizio militare e l’imminente speciale televisivo con Frank Sinatra. Presley non lo sapeva, ma era a un punto cruciale della sua carriera. Il Colonnello, figura sempre ambigua, era diventato perfino più imperscrutabile, durante l’assenza di Elvis, immergendosi sempre più nelle correnti sotterranee del gioco d’azzardo di Las Vegas.
Dato che non aveva suggerito cambiamenti nel suo contratto con Elvis, è possibile presumere che fosse riuscito a sfruttare i due anni di esilio del cantante per districarsi dalle sue difficoltà legate al gioco.
Alcuni potrebbero criticare il Colonnello per avere congelato Elvis in un momento critico della sua carriera, ma così facendo potrebbe averla in effetti prolungata. Parker viveva nel presente, ma a incantarlo era il futuro.
Una delle caratteristiche degli americani che colpivano il Colonnello era la capacità in apparenza innata di intrattenere il pubblico. Durante la sua campagna presidenziale, Harry Truman lo aveva fortemente impressionato per la volontà di utilizzare i treni per attirare potenziali elettori ai suoi comizi. L’amico Jimmie Davis aveva utilizzato il medesimo mezzo nella sua campagna per la carica di governatore.
Quando Elvis, Scotty, D.J. e i Jordanaires lasciarono Memphis su un treno diretto a Miami per registrare lo speciale televisivo con Sinatra, il Colonnello prese in prestito una pagina dal libro della campagna di Harry «Filo da torcere» Truman e dalla campagna mediatica demagogica Let’s Party di Jimmie Davis. Preavvisò ogni villaggio, paese e città lungo il tragitto, dicendo ai giornalisti quando il treno li avrebbe attraversati. Come risultato, durante il percorso ci fu quasi sempre una fila di fans a sbracciarsi per il ragazzo. Ogni volta che il treno si fermava, il Colonnello portava Elvis sulla banchina della carrozza panoramica per salutare gli ammiratori. Sembrava fosse candidato a una carica politica, da come si accattivava la benevolenza delle persone.
Quando giunsero a Miami, si registrarono presso l’Hotel Fontainebleau. Il primo punto all’ordine del giorno, per il Colonnello, era l’incontro con i membri dei fan club che li avevano seguiti a Miami. Li ringraziò per essere rimasti fedeli a Elvis mentre era in servizio e poi vendette loro del materiale pubblicitario del Re.
L’ultima volta che lui ed Elvis erano stati in quella città era stata per l’esibizione alle Olimpiadi del 1957. In quell’occasione, aveva indossato un grembiule mettendosi a vendere fotografie di Elvis nell’atrio. Questa volta adottò un approccio più sofisticato, lo fece senza grembiule.
La registrazione dello speciale televisivo era programmata nella sala da ballo dell’albergo; sarebbe poi stato mandato in onda più avanti. Allo spettacolo avrebbero partecipato anche Nancy Sinatra, Joey Bishop, Peter Lawford e Sammy Davis. A spalleggiare tutti, Elvis compreso, c’erano Nelson Riddle e la sua orchestra di quarantadue strumenti.
Musicalmente, lo show segnò la fine dell’esperimento di Elvis con il rock’n’roll. Il Colonnello aveva deciso che il futuro del cantante stava nella musica con pesanti orchestrazioni, quel sound ricco da grande band con archi che Sinatra aveva reso famoso. Il rock’n’roll non passava molto bene sul grande schermo e, come già aveva visto con i suoi occhi, non era compatibile con le vibrazioni di Las Vegas.
Il Colonnello aveva organizzato l’ingaggio di Miami anche per motivi politici. Era sommerso di debiti con i potenti di Las Vegas e il legame con Sinatra era un ingrediente fondamentale. Aveva lavorato sodo per entrare in contatto con lui ed era sicuro che quel collegamento avrebbe pagato. Poco prima che lo show andasse in onda, il 13 maggio, Sammy Cahn, che lo aveva co-prodotto, dichiarò al giornalista del «The New York Times» Murray Schumach che aggiungere Elvis allo spettacolo era stata un’idea di Sinatra.
«Un giorno eravamo seduti a interrogarci sul prossimo show» disse Cahn. «All’improvviso, di punto in bianco, Frank fece: “Che ne dite di Elvis Presley?”. Sinatra è fatto così. Fa quello che vuole.»
Le recensioni dello show non furono lusinghiere nei confronti di Elvis. Il critico del «The New York Times» John Shanley scrisse: «Anche se Elvis è diventato sergente dell’esercito, come cantante non ha mai smesso di essere imbarazzante. Non c’è stato niente di moralmente riprovevole, nella sua performance; è semplicemente stata orribile». Tuttavia, Shanley riconobbe, seppur con riluttanza, che il pubblico della sala da ballo aveva riservato al Re l’applauso più fragoroso.
Qualunque fossero i meriti musicali dello spettacolo, Elvis era stato introdotto nella luccicante Hall of Shame, la galleria della vergogna di Las Vegas. Era la seconda volta che il Colonnello offriva come volontario il suo cliente per un servizio che andava oltre il suo dovere.
Tornato a Memphis, Elvis era un uomo diverso. Divenne evidente quando lui, Scotty e D.J. si recarono a Nashville per incidere la colonna sonora di "Cafè Europa". La tematica del film era che prestare servizio nelle forze armate era uno sballo. I pubblicitari della MGM idearono una campagna basata sulla nuova immagine creata per Elvis, quella del ragazzo tipico americano che tutte le mamme e i papà sarebbero stati felici che le loro figlie portassero a casa. Era un’immagine in contrasto diretto con quella da cattivo ragazzo del "rock’n’roll", adottata da Elvis prima di andare sotto le armi. Non c’è dubbio che il motore dietro il nuovo look del cantante fu il Colonnello Parker, ma è ovvio che Elvis non obiettò. Forse c’entrò con la morte di sua madre e il desiderio di fare qualcosa che credeva avrebbe fatto piacere anche a lei. O forse lo aveva sempre avuto in mente.
Quando entrarono in studio per realizzare la colonna sonora, Scotty si rese conto che il nuovo Elvis non sarebbe stato una fase temporanea. L’osservazione trovò conferma quando apprese che il Colonnello non aveva programmato una tournée di concerti per il cantante. La mancanza del tour fu una sorpresa, per Scotty, e anche brutta, dato che la "Fernwood Records" era fallita e lui faticava a guadagnarsi da vivere.
La nuova immagine, invece, non giunse inaspettata. Scotty aveva sempre pensato che la loro musica fosse più orientata verso il pop che verso il rock’n’roll. Se Elvis doveva portare una corona, secondo lui doveva essere quella di Re del pop, non quella di Re del rock’n’roll. La storia avrebbe dato ragione a Scotty, ma a quell’epoca c’era una grande confusione, quando si cercava di etichettare la musica di Elvis.
Per la RCA niente di tutto questo aveva importanza: la prevendita del suo disco successivo aveva già ottenuto un milione e quattrocentotrentamila ordini.
"Cafè Europa" sarebbe stato l’ultimo film con Scotty e D.J. Fu concesso loro di recitare la parte dei compagni di band nel film, senza battute da pronunciare, e dovettero indossare pantaloni corti in stile bavarese e farsi truccare le gambe.
A Elvis la musica nel film non piacque, ma cantò quello che gli venne detto di cantare, perché il Colonnello lo aveva convinto che se voleva davvero diventare un attore di alto livello, allora doveva collaborare con lo studio.
Durante le riprese, Elvis ricevette numerose visite inaspettate, organizzate dal Colonnello, che compresero il re e la regina del Nepal e i sovrani della Thailandia. Entusiasta di essere stato introdotto nella ristretta cerchia delle
famiglie reali del mondo, Elvis telefonò a Liberace per raccontarglielo.
Quando Elvis tornò a Memphis, quell’estate, le riviste lo stavano attaccando per aver abbandonato il rock’n’roll. Sulla copertina di «Movie Mirror» spiccava il titolo «Il Re del rock’n’roll è morto!».
A preoccupare Elvis più degli attacchi mediatici era l’imminente matrimonio di Vernon con Dee Stanley, una donna più giovane che suo padre aveva conosciuto in Germania. Che Vernon si risposasse così presto dopo la morte di Gladys sconvolse Elvis, e si rifiutò di partecipare alle nozze.
Negli anni che avevano portato all’arruolamento di Elvis nell’esercito, i problemi del Colonnello erano stati per lo più di natura finanziaria e logistica. L’unico membro della famiglia a nutrire scetticismo riguardo alle sue intenzioni era stata Gladys e, con la sua morte, Parker credette di aver superato un grosso ostacolo.
Il ritorno di Elvis però portò tutta una nuova serie di problemi che il Colonnello non aveva previsto. Teneva Vernon nel taschino e l’uomo avrebbe fatto qualsiasi cosa gli avesse chiesto, probabilmente perché il Colonnello era venuto a sapere che aveva scontato una pena al penitenziario Parchman, in Mississippi. Il Colonnello usava le informazioni come un delinquente di strada usa un rasoio: come spaventosa minaccia più che come un’arma effettiva. Quell’alleanza
però avrebbe perso valore se Vernon avesse allontanato Elvis risposandosi così presto.
In più c’era Priscilla. Quando apprese che in Germania Elvis aveva frequentato una quattordicenne, Parker andò su tutte le furie, rievocando la carriera distrutta di Jerry Lee Lewis come esempio di quello che può succedere quando entrano in scena delle ragazzine.
Una preoccupazione altrettanto grande per il Colonnello era la nuova amicizia stretta da Elvis con il cantante soul James Brown. Si erano incontrati all’Hotel Continental a Hollywood, dove si erano messi a cantare insieme al pianoforte. Elvis disse al Colonnello che voleva registrare un disco con la band di James Brown, ma lui replicò che qualsiasi progetto con degli afroamericani era fuori questione.
Parker non era un razzista convinto, quanto meno non apertamente, ma la sua base di potere allargata era costruita su solide fondamenta di razzismo. Il suo amico Jimmie Davis era stato rieletto governatore della Louisiana e i dibattiti che erano sul punto di emergere in quello Stato, in Mississippi e in Tennessee si erano già fatti più violenti. Davis parlava di convocare la milizia statale per occuparsi di quelli che definiva «amanti dei negri».
L’insediamento di Davis coincise con il rientro di Elvis. Uno dei suoi primi atti fu incaricare il principale finanziatore, Leander Perez, di formare una commissione segreta basata sul modello del Mississippi. Mentre questo accadeva, il pubblico ministero di New Orleans, Aaron Kohn, stava continuando a indagare sui legami di Marcello con il governo.
Nel frattempo, stava emergendo un’altra figura chiave. Diversi mesi prima dell’insediamento di Davis, Kohn si recò a Washington per parlare con il consigliere capo della commissione del Senato Robert F. Kenedy che aveva il compito di investigare sulla corruzione nella classe operaia e tra i dirigenti. Gli fece un resoconto di quanto stava accadendo nel Sud, soprattutto perché a influenzare gli eventi era Marcello. Kennedy prese appunti e lo ringraziò per essere arrivato fin lì.
«Posso assicurarle che, presto o tardi, ci occuperemo del signor Marcello» affermò Kennedy.
Il Colonnello Parker era consapevole della gravità della situazione. Inorridito, aveva visto il senatore del Tennessee Estes Kefauver, nemico giurato dei suoi amici in Louisiana, dare il bentornato a casa a Elvis rendendogli omaggio sul «Congressional Record». Il Colonnello non poteva permettere che segnali contrastanti giungessero alle persone sbagliate. Elvis avrebbe dovuto fare attenzione alle persone con le quali veniva visto e fotografato. Gli afroamericani erano fuori discussione.
Non sapremo mai quanto di tutto ciò il cantante sapesse, anche se quando ripensiamo al momento in cui l’artista iniziò a mostrare i primi sintomi della paralizzante paura che lo avrebbe tormentato in seguito, di solito lo colleghiamo con il suo ritorno dall’esercito.

Non appena concluse "Cafè Europa", Elvis si tuffò subito in un altro film, "Stella di fuoco" ("Flaming Star"). Era la storia di un uomo di razza mista, figlio di un bianco e di una donna indiana, che viene coinvolto nelle Guerre indiane degli anni Settanta del Diciannovesimo secolo. Il personaggio di Elvis tenta di fare da paciere, ma alla fine muore (dopo aver cantato quattro canzoni).
Il Colonnello cercò di far cantare Elvis a cavallo, un’idea già sfruttata al cinema con profitto da Roy Rogers e Gene Autry, ma Elvis rifiutò e tentò di recitare la parte in maniera relativamente normale. Con sua grande gioia, "Cafè Europa" uscì mentre stava ancora filmando "Stella di fuoco" e si dimostrò in fretta la più grande attrazione del decennio al box-office. L’album della colonna sonora ("G.I. Blues", dal titolo originale del film) vendette oltre tre milioni di copie e rimase in testa alle classifiche per quasi tre mesi.
Dopo aver completato i lavori sul film, in ottobre, Elvis si recò a Nashville a registrare un disco gospel, "His Hand in Mine", poi tornò a Hollywood per iniziare a girare il terzo film di quell’anno, "Paese selvaggio" ("Wild in the Country"), con Hope Lange e Tuesday Weld come coprotagoniste.
Per tutta l’estate fino all’autunno visse episodi maniaco-depressivi, durante i quali si comportava in maniera violenta nei confronti del suo entourage e di se stesso. Si ingozzava di cibo, soprattutto di cibo spazzatura e passava giorni senza lavarsi. Le donne erano una costante fonte di conforto, per quanto temporaneo, ed Elvis andò a letto con tutte le aspiranti carrieriste, le attrici e le assistenti costumiste che poteva, condividendo quelle in eccesso con i membri del suo staff, che avevano già fatto circolare la voce che il modo migliore di arrivare al cantante era passare dal loro letto. Aveva sempre usato il trucco per gli occhi, perfino i primi giorni alla "Sun Records", adesso però si tingeva i capelli di un nero scurissimo, un look che collegava con gli idoli delle matinée della sua infanzia.
Elvis stava crollando, ma per quale motivo? Aveva superato relativamente bene la morte della madre, mentre era sotto le armi, e aveva retto a quella prova del fuoco. Da quando era stato congedato, i suoi film e dischi vendevano bene. Da dove arrivava quindi tutta quella pressione? In breve, l’unica ipotesi sensata è che, dopo il suo ritorno negli Stati Uniti, il Colonnello Parker avesse condiviso con lui i suoi segreti.
A Natale, Elvis aveva ormai disperatamente bisogno di qualcuno in cui confidare, una persona da cui potesse ricevere approvazione incondizionata. E l’unica da cui sentiva di poterla ottenere era la ragazzina che aveva conosciuto in Germania, Priscilla Beaulieu. Aveva persuaso i suoi genitori a farla venire a Los Angeles affinché potesse accompagnarlo durante le riprese di "Paese selvaggio". Durante le vacanze natalizie, la portò a Memphis e la fece alloggiare nell’ala est di Graceland, dove Priscilla rimase con Vernon e Dee. La ragazza tornò in Germania il 2 gennaio, dopo aver passato tutta la notte con Elvis per festeggiare l’anno nuovo.
Quando l’artista fu di nuovo a Los Angeles per riprendere a lavorare al film, discusse con il Colonnello, prima per Priscilla, che spaventava a morte l’agente per via della sua tenera età, poi per quello che avrebbe cantato nel film. A Elvis era stato detto che non avrebbe dovuto farlo e quando vennero aggiunti dei brani si rifiutò di eseguirli.
Il Colonnello non moderò i termini: disse a Elvis che le canzoni significavano più soldi per il film nel suo complesso e lui non aveva altra scelta che obbedire. L’artista cantò i brani, poi si rivalse su di lui telefonando ai genitori di Priscilla per chiedere che la figlia si trasferisse a Memphis per vivere a Graceland insieme a lui. Sottolineando che la figlia aveva solo quindici anni, in ogni caso, i genitori rifiutarono.
Una volta concluse le riprese del film, Elvis fece ritorno a Memphis per qualche settimana di riposo. Aveva lasciato l’esercito da più di un anno e in tutto quel tempo non aveva fatto neanche un concerto. La sua unica esibizione pubblica da tre anni a quella parte era stata la registrazione dello speciale televisivo con Sinatra. Elvis telefonò al Colonnello e gli disse che aveva bisogno di presentarsi di nuovo davanti a un pubblico dal vivo, per la sua sanità mentale se non per altro. Lo implorò di fissargli un ingaggio. Disse che avrebbe contattato i ragazzi del gruppo. Come sempre, Scotty gli disse di contare su di lui. Circa sei mesi prima aveva trovato un lavoro sicuro come capo della produzione presso il "Recording Service" di Sam Phillips. Dopo aver diretto diverse sessioni di registrazione con l’irascibile Jerry Lee Lewis, era più che pronto a suonare di nuovo dal vivo.
D.J. e i Jordanaires furono ugualmente entusiasti. A dire ancora una volta di no fu Bill Black, impegnato con il suo gruppo. Aveva messo a segno una grandissima hit nel 1960, con una versione strumentale di "Don’t Be Cruel" e la sua musica ritmata e sciolta godeva di enorme successo tra gli studenti universitari in vena di fare festa.
Il Colonnello in realtà non voleva che Elvis si esibisse di nuovo dal vivo, ma dato che non poteva proibirgli di farlo, sfruttò al meglio quella che considerava una brutta situazione organizzando un concerto di beneficenza all’Ellis Auditorium di Memphis. Fece in modo che Elvis suonasse due volte e facesse una comparsata a un pranzo da cento dollari a portata: tutti i proventi sarebbero andati a varie associazioni di beneficenza, compreso un fondo per il latte
destinato ai bambini bisognosi e a un asilo nido. Elvis pagò di tasca propria le spese generali dei concerti. Il Colonnello si assicurò che gli venisse dato il merito per le sue opere buone: gettare monete ai bambini poveri aveva sempre fatto bene agli affari, qualsiasi tipo di affari. Aveva però un secondo fine, che lo spingeva a organizzare il concerto in quel modo. Il messaggio era chiaro: Elvis poteva suonare dal vivo tutte le volte che desiderava, se era quello di cui aveva bisogno, ma non gli sarebbe stato permesso di guadagnare dalle esibizioni. Al contrario, avrebbe dovuto pagare di tasca sua, per il piacere di esibirsi davanti a un pubblico.
Elvis era talmente abbattuto che non gliene importava nulla. Aveva bisogno di esibirsi, perfino se avesse dovuto pagare per farlo.
Lo spettacolo finì per rivelarsi l’evento sociale dell’anno. Il governatore del Tennessee Buford Ellington lo proclamò la Giornata di Elvis Presley e andò ai concerti insieme al sindaco di Memphis, Henry Loeb.
La RCA mandò un rappresentante a onorare l’artista per avere venduto settantacinque milioni di dischi. Durante una conferenza stampa di quarantacinque minuti, Elvis si scusò per non avere tenuto concerti di recente, sottolineando che girare film assorbiva tutto il suo tempo.
«Sono tre anni che non salgo su un palco» disse. «Ho quasi dimenticato le parole di una delle mie canzoni.»
Quando gli chiesero se esibirsi di nuovo lo rendeva nervoso, Elvis rispose di sì, ma non in maniera paragonabile a come si era sentito durante la recente performance con Frank Sinatra.
«Non solo ero nervoso. Ero paralizzato.»
I giornalisti gli posero una gran quantità di domande: notarono che era diventato più conservatore – «Sono un po’ più vecchio, sapete» – ebbero da ridire sulle basette – «Per un po’ sono andate bene, ma poi si diventa grandi» – alla fine tornavano sempre sui concerti dal vivo. Quando gli chiesero se avesse altre tournée in programma, la risposta di Elvis rivelò quanto si erano allontanati lui e Parker per quanto concerneva gli obiettivi di carriera a lungo termine. Elvis affermò: «Il Colonnello Parker vi risponderà meglio. Credo che dovrò fare un tour in Europa…»
Ovviamente, il cantante aveva già parlato con Parker di una tournèe europea. Altrettanto ovviamente, era rimasto perplesso quando il Colonnello aveva reagito con freddezza. La sua dichiarazione alla conferenza stampa sembrava diretta più a Parker che ai giornalisti presenti.
Scotty ha ricordato le performance di quel giorno come di un «Elvis vecchio stile». Suonarono i primi pezzi, quelli che avevano reso Memphis famosa e lo fecero con la vecchia energia, quel loro modo di comunicare senza parole, perfino quando si trovavano travolti da un autentico uragano musicale. In alcuni momenti, Elvis parve insicuro, si avvicinò a Scotty tra una canzone e l’altra per consultarlo sulla successiva, ma è evidente che l’emozione di trovarsi ancora sul palco gli aveva dato nuova carica. Come pezzo finale suonarono "Hound Dog", la loro conclusione preferita. Elvis cadde in ginocchio e diede al pubblico tutto quello che aveva.
Scotty disse che il pubblico «si sentì male». Bill Burk, giornalista di Press-Scimitar, concordò con lui: il giorno dopo scrisse:
«Quando il Re ha chiuso con "Hound Dog", il più popolare dei suoi pezzi, la gente è impazzita».
Tutto andò come il Colonnello aveva pianificato, se non fosse che, con sua sorpresa e dispiacere, Elvis fu invitato ad andare a Nashville la settimana successiva per accettare un premio dell’Assemblea del Tennessee: fu reso Colonnello onorario di quello Stato. In completo nero e con un’aria un po’ incredula, Elvis salì sul podio degli oratori nella Camera dei rappresentanti e accettò il premio con la sua solita umiltà. Mescolate ai legislatori c’erano dozzine di ragazzine – le sorelle, le figlie, le madri, le amiche di amici dei legislatori, che avevano sfruttato i loro contatti per vedere il Re in persona… e quando Elvis lasciò la stanza, scoppiò una completa baraonda: una folla urlante di
giovani donne lo inseguì fuori, nel corridoio. Soli con i loro pensieri, conciliati dalla quiete dell’augusta camera, i legislatori del Tennessee meditarono sul vero significato del potere.
«Adesso sono Colonnello anch’io» disse Elvis a Parker, punzecchiandolo sul vivo.

Il piano del Colonnello prevedeva che Elvis girasse tre film all’anno. Ciò garantiva a Parker un guadagno di settecentocinquantamila dollari all’anno solo per quelli. Aggiungendo il ricavato delle royalties e della pubblicazione dei dischi, la cifra raddoppiava o addirittura triplicava.
Se Elvis avesse fatto quello che voleva lui e fosse andato in tournèe, i guadagni di Parker avrebbero subito una significativa riduzione. I tour richiedevano un costoso supporto logistico e quelle spese sarebbero state dedotte prima che lui potesse incassare la sua commissione. Quelle che riceveva per i film e le royalties dei dischi erano sicure, invece, venivano consegnate in somme corpose senza deduzioni e arrivavano con la regolarità della ruota di una roulette.
Grazie al concerto di Memphis, il Colonnello apprese una lezione. Gli show di beneficenza valevano milioni in pubblicità gratuita e in gratitudine, ed erano uno scudo fiscale e legale conveniente per le spese sostenute in nome della carità.
Il nuovo film di Elvis, "Blue Hawaii", sarebbe stato girato in esterni e il Colonnello decise di organizzare un altro concerto di beneficenza, destinando i proventi al monumento che era stato proposto per commemorare la "Uss Arizona", la nave da guerra che i giapponesi avevano affondato a Pearl Harbor.
La notizia fu musica per le orecchie di Elvis. Chiamò i ragazzi della band, che acconsentirono tutti al viaggio, a eccezione di Bill. Elvis li avrebbe pagati di tasca sua, ma ne sarebbe valsa la pena per salire di nuovo su un palco davanti a un pubblico. Per Scotty, che aveva trascorso un periodo a Pearl Harbor con la marina, rappresentava l’occasione di tornarvici.
Che Marie partecipasse al viaggio sorprese tutti: Parker non aveva l’abitudine di includerla nelle sue attività. Perché la portò in questo viaggio, mentre l’aveva esclusa da moltissimi altri, non è chiaro. Parker era una vecchia volpe. Tutto quello che faceva lo nascondeva sotto strati di autocelebrazione e mosse per distrarre l’attenzione altrui. Quando intraprendeva trattative d’affari, avere a che fare con il suo avversario in maniera trasparente non era contemplato. C’era sempre qualcosa sotto. Una volta negoziò un contratto cinematografico multimilionario per Elvis, ma non accettò la sudata offerta finale fino a quando il suo oppositore non aggiunse un posacenere che si trovava lì vicino come incentivo ulteriore.
Uno dei suoi collaboratori, che ha rifiutato di comparire ufficialmente tra gli intervistati, disse che Parker aveva un sistema di segnali segreti che usavano durante le trattative per i contratti. Il Colonnello affidava al socio il ruolo di fautore dell’accordo e sedeva accanto a lui oppure di fronte, dall’altra parte del tavolo, senza aprire bocca di fronte all’avversario. Permetteva al complice di fare tutti i discorsi necessari, ma aveva sempre il controllo, gli pestava i piedi sotto il tavolo: un colpetto per dire no, due per dire sì, e tre per chiedere una pausa e consultarsi.
Quando il Colonnello e Marie arrivarono a Honolulu a bordo del transatlantico Matsonia, vennero accolti da Duke Khanamoku, campione di nuoto e attore part-time che si occupava ufficialmente di dare il benvenuto in città. Parker era avvolto fino al mento dai lei, le ghirlande di fiori, ma permise a Khanamoky di mettergli in testa un cappello con altri fiori. Mise molta enfasi sulla raccolta fondi per la Uss Arizona. Dichiarò ai giornalisti che si aspettava di raggranellare duecentomila dollari per il progetto, che ne richiedeva un milione. Ammiragli e generali, grati, si strinsero intorno a Parker, ansiosi di sentirlo parlare ancora di ciò che avrebbe fatto per loro. Il Colonnello disse che erano i custodi del mondo libero e meritavano la gratitudine di tutte le mamme e tutti i papà del continente; ammiragli e generali gli diedero pacche sulla schiena e si bevvero tutti i luoghi comuni come latte da una ciotola. Poi Parker disse che aveva qualcosa per ciascuno di loro.
Il Colonnello aprì il baule che aveva fatto arrivare da Los Angeles. Ammiragli e generali osservarono ansiosi Parker infilare le mani nel baule e rovistare cerimonioso, sollevando e spostando oggetti, finché alla fine trovò quello che stava cercando. Diede a ciascuno un piccolo calendario tascabile e li ringraziò per i sacrifici che stavano compiendo per il loro Paese.
Quando chiesero se potevano avere dei biglietti omaggio per il concerto, Parker disse che era fuori discussione. Dato che era per beneficenza, tutti dovevano pagare. Perfino Elvis aveva comprato il proprio biglietto, disse, il che era vero, visto che il Colonnello aveva convinto l’artista che il dovere civico gli imponeva di pagare la propria parte. Però ci sarebbe stata un’area speciale per i pezzi grossi dell’esercito e della marina e non sarebbe costata nemmeno un
centesimo in più dei normali cento dollari a biglietto.
Quando ammiragli e generali lasciarono la stanza, il Colonnello sollevò il coperchio del baule per mostrare a un disc jockey locale il suo tesoro: la cassa era piena di fotografie venti per venticinque, a colori, di Elvis: vivaci, patinati, costosi souvenir. Aveva consegnato ad ammiragli e generali la paccottiglia che pensava meritassero e aveva tenuto il meglio per le vendite al concerto.
Sotto gli occhi del disc jockey, contò due biglietti e li diede all’autista di colore che gli era stato assegnato. I biglietti omaggio piazzavano l’autista dritto tra i pezzi grossi: sarebbe stato l’unico nero presente. Che spasso sarebbe stato!
Dato che era Elvis a pagare per tutto, il Colonnello rimpolpò lo spettacolo con uno dei suoi ex clienti, la cabarettista country Minnie Pearl (e probabilmente si prese una commissione sui soldi che il cantante le diede). Quando aveva detto a Elvis che se voleva suonare dal vivo avrebbe dovuto pagare lui, non stava scherzando. Raggiunto da Scotty e D.J., i Jordanaires, Boots Randolph al sax e Floyd Cramer al piano, Elvis regalò alle quattromila persone che componevano il pubblico una delle sue migliori performance di sempre, secondo Scotty, sorpreso di vederlo esibirsi per quasi un’ora. Incedeva sul palco, cadeva in ginocchio, intrattenendo gli spettatori come se fossero ancora adolescenti. Sarebbe stata la sua ultima esibizione per i successivi otto anni.
Alla fine del concerto, il Colonnello saldò i conti con il comitato per il monumento commemorativo. Fonti diverse forniscono differenti cifre in relazione al ricavato. Secondo l’autore Jerry Hopkins, il comitato ricevette quarantasettemila dollari, più altri diecimila da Elvis e dal Colonnello; un’altra fonte sostiene che Parker gli diede solo cinquemila dollari. Qualunque ammontare si scelga, è comunque notevolmente inferiore ai duecentomila che il Colonnello aveva promesso ai giornalisti e meno di quanto furono pagati i quattromila biglietti che totalizzarono il tutto esaurito.

Dopo il concerto di beneficenza, la band rientrò, ma Elvis e il Colonnello rimasero a Honolulu per girare "Blue Hawaii". Era la storia di un uomo che tornava dal servizio militare e iniziava a lavorare per un’agenzia turistica, contro il parere dei genitori. Le coprotagoniste erano Angela Lansbury, nel ruolo di sua madre, e Joan Blackman in quello della sua amata. La controparte di Elvis avrebbe dovuto essere Juliet Prowse, che però fu sostituita all’ultimo minuto, con enorme dispiacere del suo fidanzato, Frank Sinatra, che ritenne l’avessero trattata ingiustamente.
A cinquantadue anni, il Colonnello Parker stava vivendo una seconda giovinezza. Sul set fu una continua piaga, interrompendo le riprese con domande inutili e, secondo Jerry Hopkins, in albergo fece la figura dell’idiota: costruì un microfono finto con un portasigari in alluminio e girò per l’atrio intervistando la gente fingendosi un inviato di Rete Ananas.
Parker convinse due dei disc jockey locali a indossare enormi costumi da pupazzo di neve nell’atrio dell’hotel. Disse loro che avrebbero dovuto farlo per diventare membri della «Lega dei Pupazzi di Neve», e che solo così avrebbero ricevuto l’ammissione ufficiale; attese però cinque anni prima di inviare loro le tessere. Con pupazzo di neve, naturalmente, intendeva un giostraio capace di battere il banco. Nel caso di Parker, «neve» era un termine
improprio, perché con lui tutto era invariabilmente nero, come il carbone della West Virginia da cui diceva di provenire.
«È davvero strano» disse Ron Jacobs, uno dei disc jockey. «Io lo adoro, quello strambo figlio di puttana.»
Dopo aver terminato le riprese di "Blue Hawaii", Elvis fece ritorno a Memphis per qualche settimana, poi si recò in Florida a girare "Lo sceriffo scalzo" ("Follow That Dream"). Ormai era un attore di cinema a tempo pieno. Quando giunsero in Florida, stabilirono il quartier generale al Paradise Motel vicino a Crystal River, una piccola cittadina a circa ottanta chilometri a nord di Tampa. Secondo il programma, la maggior parte delle scene sarebbero state filmate a Crystal River o nei dintorni e vicino a Port Paradise, ma alcune vennero fissate a Tampa, cosa di cui Parker fu felicissimo perché così ebbe l’occasione di andare a trovare i vecchi amici. Uno di questi era Frank Connors, ex cantante della band di Abe Lyman e annunciatore della radio Nbc. Quando Parker venne a sapere che la figlia ventitreenne di Frank, Sharon, una Phi Beta Kappa laureata all’Università di Chicago, voleva fare l’attrice, fece in modo che ottenesse il ruolo della segretaria in "Lo sceriffo scalzo".
Quando i giornalisti di Tampa rintracciarono Sharon e parlarono con lei della sua grande occasione, la ragazza si mostrò ottimista in merito al suo futuro di attrice:
«Della recitazione mi piace la varietà… [e] vorrei tanto interpretare Lady Macbeth».
Nel corso delle riprese, il titolo provvisorio fu "What a Wonderful Life" ("Che vita meravigliosa"). Solo una volta completati i lavori il titolo fu cambiato in "Follow That Dream" (letteralmente "Insegui i tuoi sogni"; in
italiano, divenne comunque "Lo sceriffo scalzo"). La sceneggiatura era basata su un romanzo di Richard Powell, "Vacanze matte". Era una reinterpretazione dei campagnoli alla Li’l Abner e il personaggio di Elvis, assediato da giovani donne e incerto su come comportarsi con loro, combatte per i diritti di un occupante abusivo che rifiuta di abbandonare il suo terreno.
Il film fu prodotto dai "Mirisch Brothers" in associazione con la "United Artists". I "Mirisch Brothers" avevano alle spalle già due grandi successi, "A qualcuno piace caldo" e "L’appartamento", e i funzionari della Florida non si risparmiarono per agevolare la produzione della pellicola. Venne poi fuori che, secondo alcuni abitanti, lo Stato era andato troppo oltre. Ad agosto, i giornali dello Stato riportarono una notizia della «Associated Press», secondo la quale la Commissione per lo sviluppo della Florida aveva versato ai "Mirisch Brothers" ottomila dollari presi dai fondi pubblici per aiutare la produzione del film. Esempio tipico fu quello del «Tampa Tribune» che titolò: «La Florida
paga ottomila dollari per il film di Elvis».
Parker reagì scagliandosi contro i giornali. «Se lo Stato sta pagando a Presley ottomila dollari per venire qui, noi quei soldi non li abbiamo visti» dichiarò a un giornalista del «Tampa Tribune». «So che i giornali non possono decidere come gli abbonati interpretino i loro articoli, ma oggi una signora si è presentata da Elvis, a Inverness, e gli ha detto che non sapeva che lo Stato dovesse pagargli le spese. La parte buffa è che la Florida non sta pagando a Presley
proprio niente. È lo studio che dovrebbe ricevere quel denaro. Per venire qui noi percepiamo uno stipendio, niente di più, niente di meno.»
Era il Colonnello Tom al meglio, nel ruolo di un personaggio di W.C. Fields: alzava la voce, ruotava il sigaro, gridava all’oltraggio per la follia dei semplici mortali che volevano ostacolare il progresso dell’arte. Lo Stato rimase sbalordito da quelle critiche. Il governatore della Florida Farris Bryant difese le azioni dell’agenzia dicendo che era un investimento meritevole e che avrebbe promosso il turismo.
In soccorso del governatore giunse il «Tampa Tribune», che dichiarò in un editoriale: «È vero, forse alcuni di noi ritengono che il valore di Elvis Presley come cantante o attore sia inferiore a ottomila dollari. Ma questo non c’entra nulla con la faccenda».
Il giornale sottolineò che i "Mirisch Brothers" stavano spendendo mezzo milione di dollari per girare il film e che il compito principale della commissione era promuovere le nuove imprese, «…[e] tutte le volte che la Commissione per lo sviluppo potrà far arrivare mezzo milioni di dollari spendendone ottomila, l’affare sarà stato buono.»
Il Colonnello Parker affermò di essere rimasto sconcertato da tutta la faccenda.
«Vi dico una cosa» dichiarò ai reporter. «Se tutto questo fango aumenterà, i produttori di Hollywood ci penseranno due volte prima di tornare a girare un film in Florida. A nessuno piace trovarsi invischiato in un match politico, ed è questo che sembra essere successo.»
Parker ebbe l’ultima parola e il putiferio scemò quasi alla stessa velocità con cui si era scatenato. Naturalmente, dietro c’era più di quello che si poteva cogliere a prima vista. Il Colonnello non si avventurava mai nel manicomio
mediatico senza una buona ragione e senza avere la sensazione di avere il controllo. L’intero episodio, o quanto meno il coinvolgimento di Parker, era stato evidentemente pensato come cortina di fumo per nascondere ciò che voleva davvero ottenere dallo Stato della Florida: la protezione legale.
La sceneggiatura di "Lo sceriffo scalzo" prevedeva una scena in cui finti mafiosi conducevano attività di gioco illegali con vere roulette e tavoli da blackjack. Per filmare la scena, i "Mirisch Brothers" avevano bisogno dell’equipaggiamento adatto. Dato che all’epoca il gioco d’azzardo era illegale in Florida, i cineasti chiesero l’aiuto di Parker. Ottenere le roulette e i tavoli da gioco non fu un problema, per lui. Nessuno sa per certo da dove venisse quell’attrezzatura, ma la fonte più probabile furono i magazzini di Tampa di proprietà dei Trafficante. Parker non voleva che sul set piombassero la polizia locale o quella statale, perché avrebbero preteso di sapere da dove arrivasse quell’equipaggiamento illegale. Un battaglione di agenti delle forze dell’ordine diretto ai magazzini dei suoi amici di Tampa non avrebbe portato nulla di buono. La baraonda sorta sugli ottomila dollari investiti dalla Florida nel film, di cui i "Mirisch Brothers" non avevano mai avuto bisogno, collegò il governatore e lo Stato al progetto in maniera tale da garantire che il set non sarebbe stato perquisito e non sarebbero stati fatti commenti sull’attrezzatura da gioco.
Che il Colonnello avesse ordito questa strategia o che ne avesse semplicemente approfittato in seguito importa meno del fatto che fu capace di sfruttare funzionari statali e media a proprio vantaggio. Uno sviluppo interessante fu che Elvis decise di annullare una visita a Tampa per le scene che avrebbero dovuto essere girate sulla Causeway, per le quali si utilizzarono invece delle controfigure. Non voleva avere nulla a che fare con la città del suo manager. Gran parte della copertura mediatica si era concentrata per diverse settimane sul rapporto dell’artista con Parker, inducendo Art Sarnow, l’addetto alle relazioni stampa del film, a dichiarare ai giornalisti: «È vero che Presley fa molto affidamento su Tom Parker, ma non è uno stupido ragazzotto. Dimostra di avere parecchio buon senso anche da solo».
Tenersi alla larga da Tampa era il modo con cui Elvis manifestava quel buon senso.
L’aprile successivo, "Lo sceriffo scalzo" fu proiettato in un cinema di Ocala, e spinse l’entusiasta direttore della Commissione per lo sviluppo a proclamare che il film avrebbe «venduto la Florida in tutto il mondo». Dell’attrezzatura da gioco, nessuno disse una parola.

Nel 1962, le trame dei film di Elvis stavano ormai cominciando ad assomigliarsi tutte e la musica stava diventando così monotona da inorridire i fans della prima ora. "Pugno proibito" ("Kid Galahad") parlava di ragazze e boxe, e "Cento ragazze e un marinaio" ("Girls! Girls! Girls!") parlava di ragazze e ragazze. E così via.
Hal Wallis della Paramount non fingeva mai che quei film fossero qualcosa di più che una delizia per gli ormoni del pubblico femminile americano. Lui e il Colonnello concordavano al cento per cento su quello che stavano facendo, e
anche se spesso dichiarava che avrebbe preferito fare un patto con il diavolo in persona, confessava di nutrire rispetto per Parker, che descriveva come «grosso e rude».
«Ci accordavamo con una stretta di mano, ma arrivavamo a ettere tutto nero su bianco quattro o cinque mesi dopo» ha accontato agli archivisti dell’Università metodista del Sud prima della sua morte, avvenuta nel 1986. «Facevamo film con quella stretta di mano. E ogni volta lui manteneva la parola data. Si assicurava che Elvis si presentasse sempre.»
Tra tutte le cose su cui il Colonnello e Wallis concordavano, la più importante era il giudizio sul potenziale di Elvis nel campo della recitazione: nessuno dei due credeva avesse chance di diventare un attore vero. Per loro, era un personaggio canterino da cartone animato, in grado di riempire i cinema quanto Duffy Duck o Biancaneve. Ecco uno dei motivi per cui Wallis continuava a cambiare i registi dei film con Elvis. Quelli bravi, come Hal Kanter, vedevano il potenziale di Elvis e volevano svilupparlo, ma poi sbattevano contro un muro. A differenza di altri registi che lavorarono con il cantante, Kanter colse un barlume di curiosità intellettuale che richiedeva solo un po’ di lavoro.
«Elvis sembrava uno studente di cinema» racconta Kanter. «Era un appassionato di film. Voleva fare un buon lavoro in qualsiasi cosa si cimentasse. Avevo l’impressione che se fosse stato un camionista, avrebbe voluto essere il miglior camionista in circolazione.»
Elvis riceveva costantemente offerte più succose, come il ruolo di Chance Wayne in "La dolce ala della giovinezza" ("Sweet Bird of Youth") di Tennessee Williams, il ruolo da coprotagonista insieme a Barbra Streisand in "È nata una stella" ("A Star is Born"), e una parte in "West Side Story", ma il Colonnello non gli permetteva di accettarle.
«Avrebbe potuto diventare un grande attore e forse essere ancora con noi oggi» ha sostenuto Scotty Moore. «Avrebbe potuto recitare anche quand’è ingrassato. Guardate Marlon Brando. È ancora un grande attore. Se a Elvis fosse stata data una chance, il cinema gli avrebbe regalato un’altra strada.»
Quando si trattava della carriera di Presley, il Colonnello era fissato su una sola visione e non permetteva di deviare dalla formula consolidata dei musical. La ragione per cui il Colonnello era avverso ai concerti è comprensibile: la percentuale che ricavava dalle esibizioni dal vivo includeva troppe spese generali. Ma i motivi delle decisioni che prese in altri campi rimangono un mistero.
Francis Preston, capo della Broadcast Music, Inc., una delle maggiori compagnie di licensing musicale del Paese, cercò per anni di convincere Parker a far firmare Elvis con la BMI, in modo che ottenesse le royalties dalle canzoni a suo nome. Il Colonnello non ne volle sapere e con sconcerto di Preston rifiutò categoricamente.
«Se gli scrivevi lettere le buttava via, se andavi a parlargliene si comportava come se il denaro non gli servisse» racconta Preston. «Solo dopo la morte di Elvis se ne occupò Priscilla.»
I film venivano sfornati secondo i programmi e con tutti quei soldi gravati da poche spese generali l’unico problema del Colonnello era gestire la vita privata di Elvis, il quale, però, contro il suo parere, telefonò di nuovo ai genitori di Priscilla e organizzò il suo trasferimento negli Stati Uniti perché vivessero insieme. Questa volta promise che si sarebbe preso cura di lei e chiese alla propria nonna e alla sua matrigna, Dee, di spiegare ai genitori della ragazza che l’avrebbero tenuta d’occhio e l’avrebbero iscritta a uno dei licei cattolici di Memphis.
Priscilla arrivò quando Elvis si trovava ancora a Los Angeles a girare "Cento ragazze e un marinaio". L’artista si era accordato perché la giovane alloggiasse con un venditore di Cadillac del luogo e la moglie di quest’ultimo, ma in seguito la portò via offeso quando scoprì che il commerciante forniva a Liberace automobili di qualità superiore.
In autunno, Priscilla si installò al sicuro a Graceland e si iscrisse al liceo, con grande sollievo del Colonnello, il quale riteneva che la relazione di Elvis con la ragazzina si potesse gestire meglio a Memphis. Parker era consapevole del fatto che se i media di Los Angeles avessero saputo che l’artista conviveva con Priscilla, sarebbero andati a nozze con la notizia. La stampa era stata una rovina per Jerry Lee Lewis quando aveva sposato un’adolescente, in questo caso sarebbe stato dieci volte peggio considerato che non erano sposati.
Priscilla era una bomba a orologeria. Agli occhi di Parker, la predilezione di Elvis per le ragazzine era una debolezza… e lui disprezzava le debolezze altrui. Non è un atteggiamento raro, tra le persone che a loro volta hanno una
personalità tendente alla dipendenza.

Mentre il 1962 si avvicinava alla fine, il Colonnello apprese che il suo amico Lyndon Johnson, che era stato promosso a vice presidente, stava programmando un viaggio a Los Angeles, così gli propose di alloggiare a casa sua, a Palm Springs. Alla fine, Johnson non ebbe tempo di recarvicisi; quando tornò a Washington, però, scrisse due righe al Colonnello per ringraziarlo dell’offerta: «Lo apprezzo davvero e magari capiterà un’altra occasione. Lo spero».

- fine seconda ed ultima parte-
24/07/2023 23:05
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6. Cosparso di pece e paillettes, Hollywood style

Nel 1963, l’anima creativa di Elvis Presley era stata ceduta a Hollywood dal Colonnello Parker, che vedeva sempre più la musica come un grosso intralcio alla carriera cinematografica del suo cliente. Per come la vedeva lui, il valore della musica di Elvis stava nella sua adttabilità a mezzo promozionale dei film. Nel suo futuro c’era Hollywood, da llore, così come in quello di Parker, da manager.
Lui e Marie lasciarono la loro abitazione a Nashville – la conservarono progettando di convertirla un giorno a museo dei tesori e dei reperti del Colonnello – e comprarono delle case a Bel Air e Palm Springs, in California.
Avendo bisogno di sostituire il suo squallido ufficio nel garage, Parker convinse la Paramount a fornirgli una suite di cinque stanze. Ricoprì le pareti di fotografie di Elvis e delle locandine dei suoi film. Un ufficio era interamente dedicato alle foto autografate di celebrità del mondo dello spettacolo e della politica. Nel suo ufficio privato c’erano dozzine di miniature di elefanti e pupazzi di neve di varie dimensioni e sulle pareti erano appesi gli ttestati di merito ricevuti nel corso degli anni. La sua scrivania era coperta da piccole statuine e vicino c’era un cestino della spazzatura ricavato da una zampa di elefante.
La soglia oltre la quale il Colonnello si annoiava era bassa. La suite dei suoi uffici divenne presto un parco giochi più che un luogo d’affari. Sempre appassionato di gadget, Parker aveva fatto installare degli altoparlanti grazie ai quali poteva restare seduto alla scrivania nel suo ufficio e tuonare ordini in un microfono che faceva giungere le sue parole in tutti gli altri.
Secondo l’attore Jon Hartman, che lavorò nella sua sede per un breve periodo negli anni Sessanta, era raro che il Colonnello mobilitasse lo staff esprimendo comandi a voce. Aveva fatto sistemare vicino al microfono una trombetta che si azionava schiacciando un bulbo di gomma, come quelle usate dai clown del circo, e la strizzava tutte le volte che voleva convocare il personale… Peee! Peee! Peee!
In un’intervista con l’autore Jerry Hopkins, Hartman raccontò che i membri dello staff dell’ufficio erano sempre tesi quando c’era Parker. «Ci chiamava facendo suonare la trombetta e tutti dovevamo accorrere» disse. «La strizzava davanti al sistema di altoparlanti e la suonava finché tutti arrivavano sull’attenti. Era un gioco a cui partecipavamo, il gioco di Elvis Presley.»
Ad eccezione della sua assistente di lungo corso Trude Forsher, la maggior parte delle persone che lavorarono per Parker in quegli anni erano maschi. Non pareva avere bisogno di impiegate donne. Gli uomini che lavoravano per lui erano tutti imparentati grazie a matrimoni oppure collegati da rapporti precedenti, a eccezione dei giovanotti assunti come stagisti tramite l’agenzia di William Morris. La maggior parte rimase per poco tempo.
Il primo film di Elvis del 1963 fu "L’idolo di Acapulco" ("Fun in Acapulco"); come coprotagonista partecipò Ursula Andress, un’attrice svedese che aveva recitato al fianco di Sean Connery in "Agente 007–Licenza di uccidere" ("Dr. No"), il primo film di James Bond. Alcune scene della pellicola furono girate ad Acapulco, nessuna delle quali però con Elvis, che recitò tutte quelle che lo coinvolgevano agli studi Paramount. Secondo i pettegolezzi, durante le riprese Elvis ebbe una tresca con la Andress, ma se fu così la relazione non proseguì dopo che il film fu completato.
"L’idolo di Acapulco" parlava di un ex trapezista, interpretato da Elvis, che dopo un incidente sulla fune inizia a lavorare come bagnino ad Acapulco. Dei film realizzati fino a quel momento dopo il congedo dall’esercito, aveva la trama più solida. Elvis vi cantò circa una dozzina di canzoni, ma non vennero pubblicati singoli tratti dalla pellicola e lui dovette accontentarsi di un altro disco d’oro per la colonna sonora. Gli diede qualcosa da appendere alle pareti di
Graceland, ma non grande soddisfazione.
Elvis non aveva abbandonato il sogno di diventare un attore serio, ma a sua insaputa Parker e Hal Wallis non avevano alcuna intenzione di offrirgli quell’occasione. Il Colonnello siglò con Wallis un nuovo accordo che legava l’artista alla Paramount per altri tre anni, fino al 1966. La formula Elvis stava dando frutti e Parker non vedeva motivo di mettere a rischio qualcosa di sicuro con una scommessa senza profitto.
A differenza di Hal Kanter, secondo il quale le doti recitative di Elvis avrebbero potuto essere coltivate, Wallis non credette mai che l’artista avesse il talento per diventare un attore serio. Negli anni successivi alla morte di Elvis, Wallis dichiarò agli intervistatori che sentiva di averlo spinto fino al limite, nel campo della recitazione. Non aveva mai avuto intenzione di utilizzarlo come attore serio, quantomeno non in senso tradizionale. Il valore di Elvis, dichiarò Wallis, risiedeva nella sua identità di stella del rock’n’roll e nella sua carismatica presenza scenica. La chiave del successo di un film con lui, affermò, era una trama che gli permettesse di cantare qualche canzone, flirtare con una ragazza graziosa e poi vivere per sempre felice e contento. L’idea era far uscire dal cinema gli spettatori sorridenti e raggianti come piccioncini, in modo che potessero sentirsi bene con se stessi.
Sfortunatamente, ciò non permetteva a Elvis di star bene con se stesso. Il rock’n’roll, quel figlio bastardo nato da lui, Scotty e Bill in una calda notte di Memphis e spedito per il mondo ad arrangiarsi, lo stava lasciando indietro. Nel 1963, Bobby Vee, Steve Lawrence, i Beach Boys e Jan and Dean lo avevano scalzato dalla cima delle classifiche e anche se le sue colonne sonore diventavano invariabilmente disco d’oro, non era la stessa cosa. Non lo era e basta.
Il fedele Scotty lo accompagnava in studio per suonare durante le sessioni di registrazione, ma non era quasi mai il chitarrista solista e la musica che incidevano somigliava poco a quella che avevano creato i primi tempi. Scotty sapeva che non stavano registrando grande musica, ma gli pagava lo stipendio – un centinaio di dollari ogni tanto – e questo qualcosa valeva. Divenne un’abitudine come un’altra. Era un lavoro noioso, sia in studio sia sul set, ed Elvis sfuggiva dalla realtà con abbuffate di cibo, sesso e droghe. Nel suo libro Elvis e io, Priscilla scrisse che Elvis aveva iniziato a far uso di droghe prima di arruolarsi. Prendeva sonniferi per superare la notte. E mentre si trovava di stanza in Germania cominciò ad assumere anfetamine per rimanere vigile durante il giorno.
A giugno, Priscilla si diplomò al liceo cattolico femminile Immacolata Concezione. Per festeggiare Elvis le regalò una Corvair. Finita la scuola, la ragazza non sapeva bene che cosa dovesse fare nella vita. Così imitò molte altre giovani che si trovano in quella situazione: si iscrisse a un corso di danza. Più o meno nello stesso periodo, Elvis fece una delle sue rare visite a Parker, nella sua casa di Bel Air. Il motivo della visita non è chiaro, ma il momento in cui avvenne sembra indicare che fu per discutere della relazione con Priscilla. Parker era sempre più preoccupato per quello che considerava un potenziale incubo per le pubbliche relazioni. La natura della discussione rimase
apparentemente senza soluzione, perché la condizione di Priscilla a Graceland rimase quella che era. Nonostante tutti i tentativi di crescere il più in fretta possibile e assumere un ruolo legittimo nella vita pubblica di Elvis, rimaneva la bimba-giocattolo di una star del cinema.

Per il suo film successivo, "Viva Las Vegas", Elvis girò in esterni. La città lo affascinava, nonostante fosse stato accolto in maniera tiepida agli inizi della carriera; provava una meraviglia infantile di fronte all’assortimento di «peccati» presente nella zona della Bible Belt; tutti sfoggiati alla luce del giorno in uno stato di apparente immunità.
Parker era contentissimo. Non aveva mai smesso di andare a Las Vegas; il film gli diede un’altra scusa per alimentare la sua sempre crescente dipendenza dal gioco d’azzardo.
"Viva Las Vegas" era la storia di un pilota di auto da corsa che cerca di trovare i soldi per un nuovo motore. La sua coprotagonista era Ann-Margret, una splendida rossa che aveva fatto il botto con il film "Ciao, ciao Birdie", una parodia su una stella del rock proveniente dal Sud che veniva arruolata nell’esercito.
Durante le riprese in esterni, i giornalisti chiesero a Elvis cosa ne pensasse. Lui rispose di non avere visto "Ciao, ciao Birdie", o almeno non tutto, e che non sapeva abbastanza del film da poterlo commentare.
Ad ogni modo le scene vennero filmate in numerose località di Las Vegas e dintorni, ma quelle nell’albergo furono girate all’Hotel Tropicana e all’Hotel Flamingo. Durante le riprese, Parker apparve visibilmente scontento, anche se nessuno sapeva mai di preciso perché. Litigò spesso con il produttore della pellicola, Jack Cummings; una volta quest’ultimo rifiutò di lasciare che fosse Parker a scegliere la squadra di sicurezza utilizzata per il film. Ma non vinse quasi mai, perché Cummings era il genero di Louis B. Mayer ed era abituato a fare a modo suo.
La prima conferma che Elvis usciva anche con altre donne Priscilla l’ebbe mentre lui si trovava a girare il film a Las Vegas. Era ovvio che lui e Ann-Margret avevano una tresca, nella suite presidenziale dell’Hotel Sahara, ma le persone che avevano a che fare con la compagnia cinematografica erano discrete e salvaguardavano la privacy di Elvis. A squarciare il velo che lo proteggeva fu il reporter di cinema Bob Thomas della «Associated Press», che scrisse un articolo sulla loro relazione.
«È una notizia che farà impazzire il pubblico più giovane… Elvis Presley e Ann-Margret hanno una storia» scrisse Thomas. «Si tengono per mano. Scompaiono in camerino tra una ripresa e l’altra. Pranzano insieme in privato.»
Quando Thomas interrogò Ann-Margret sulla relazione, lei rispose: «Di questo non voglio parlare».
L’articolo di Thomas uscì sul «The Memphis Press-Scimitar», ed è lì che Priscilla apprese la notizia; ne rimase devastata. Aveva forse sospettato che Elvis frequentasse altre donne, ma non ne aveva mai avuto la certezza. Vederlo scritto sul giornale lo rese ancora più doloroso.
L’articolo fu uno shock anche per Elvis, che aveva sempre contato sul fatto che la stampa tenesse i particolari delle sue attività extralavorative sul vago, sul generico. Il pezzo di Thomas gli aprì gli occhi. Aveva sempre pensato che la verità della sua relazione con Priscilla fosse in qualche modo protetta dal relativo isolamento di Memphis; adesso sapeva che le informazioni sulle sue storie circolavano in entrambe le direzioni, dentro e fuori da quella città, e
per la prima volta cominciò a comprendere i motivi della preoccupazione di Parker.

A novembre, l’assassinio del presidente John F. Kennedy sconvolse il Colonnello così come il resto della nazione. La buona notizia fu che il suo amico Lyndon fu promosso allo Studio ovale. Adesso era amico intimo del presidente! Meno di una settimana dopo il trasferimento di Johnson alla Casa Bianca, il Colonnello gli inviò un regalo di benvenuto nella nuova dimora – il carro coperto che era il suo marchio di fabbrica – per commemorare un’occasione assai speciale.
Quando iniziò la produzione di "Il monte di Venere" ("Kissin’ Cousins"), il decimo film di Elvis da quand’era rientrato dalla Germania, entrò in scena un nuovo produttore della MGM: Sam Ktzman, un amministratore spilorcio noto come "Re delle sveltine", per via della sua inclinazione a concludere i film in due settimane o anche meno.
La sua pellicola più recente era "Hootenanny Hoot", un musical, e quando iniziarono i lavori su "Il monte di Venere" lui si stava occupando di "Your Cheatin’ Heart", la storia della vita di Hank Williams.
Il Colonnello pensò che fosse una manna dal cielo, perché più velocemente si realizzava un film meno soldi si spendevano nella produzione. Secondo i termini del piano di condivisione dei profitti di Parker con lo studio, ciò significava che gli sarebbero finiti più soldi in tasca (lui ed Elvis ricevevano il cinquanta percento dei profitti). Per esempio, "Il monte di Venere" ebbe un budget di un milione e trecentomila dollari. Il film fu realizzato con seicentomila,
il che significò che Elvis e Parker ricevettero la differenza di settecentocinquantamila. Dopo l’uscita della pellicola, poi, incassarono il cinquanta per cento dei profitti ricavati al botteghino.
Gene Nelson, il regista che Katzman scelse per il film, raccontò che tutti gli studi cinematografici di Hollywood stavano inviando copioni a Elvis. «In effetti, alcuni di noi dovettero rimanere in attesa» disse agli autori di Elvis Up Close Rose Clayton e Dick Heard. «Qualcuno andava a proporre un progetto al Colonnello Parker, che diceva sempre “Non mi interessa di che cosa parla la sceneggiatura. Se potete pagare in anticipo e il venticinque per cento [o quello che
era] lo facciamo”.»
Dato che vedeva il cantante come un ragazzotto di campagna, Katzman affidò allo sceneggiatore Gerald Adams il compito di scrivere per lui una storia originale che prendesse in giro quelle che secondo Katzman erano le radici country di Elvis. In verità, l’artista non sapeva nulla della vita campagnola, avendo abitato in città per tutta la vita. La caratterizzazione di Katzman rifletteva non poco pregiudizio culturale nei confronti degli abitanti del Sud e in quell’epoca non era insolito. Il vincitore del premio Nobel William Faulkner, nato e cresciuto non lontano dalla città natale di Elvis, Tupelo, nel corso della sua carriera sperimentò lo stesso tipo di pregiudizio.
A Nelson la sceneggiatura di Adams non piacque e disse a Parker che voleva apportare dei cambiamenti. Il Colonnello gli disse che aveva in mente un cammello che sarebbe stato perfetto per il film. All’idea di servirsene Nelson esitò, ma dedicò molto tempo a riscrivere la sceneggiatura. Una volta conclusa, ne inviò una copia a Parker, pensando forse che sarebbe stata una buona idea avere il parere di un abitante del Sud, visto che il Colonnello aveva sempre millantato che le sue radici affondavano nella Virginia Occidentale. Insieme al copione Nelson allegò un biglietto nel quale espresse il desiderio che il Colonnello leggesse la sceneggiatura prima che venisse passata a Elvis. Parker rispose a sua volta con un biglietto: se Nelson voleva che valutasse la sceneggiatura, gli sarebbe costato altri venticinquemila dollari. In seguito, quando Nelson lo interrogò in merito, Parker rispose che lui ed Elvis non sapevano nulla su come si facevano i film. E disse che a loro interessava solo infilare nella pellicola abbastanza canzoni da riempire un album.
Parker era stato sincero. Voleva un film che facesse soldi. Come ciò potesse accadere, era un problema delle compagnie cinematografiche. Il lavoro del regista era utilizzare sceneggiature che sfruttassero il filo conduttore «Elvis, ragazze, divertimento e canzoni», dimostratosi proficuo, e inserire nel film abbastanza brani da fornire alla Rca il materiale per un disco.
Nelson fece quello che aveva fatto la maggior parte dei registi che lo avevano preceduto; ciò che avrebbe fatto anche chi arrivò dopo di lui: inviò una copia della sceneggiatura a Freddie Bienstock della "WHill and Range" di New York. Il lavoro di Bienstock era esaminare i punti in cui il regista voleva utilizzare delle canzoni e poi assegnarle agli autori della scuderia "Hill and Range". Gli autori avrebbero scritto diversi brani per ciascuna scena suggerita e avrebbero realizzato delle demo da mandare al regista, che avrebbe scelto quelle che preferiva.
Il materiale che Elvis riceveva da incidere sembrava peggiorare di anno in anno, ma il cantante sentiva di non poterci fare nulla.

Al compimento dei ventinove anni, Elvis era così demoralizzato per la sua carriera che si rifiutò di festeggiare il suo compleanno. Ancora un anno e ne avrebbe avuti trenta. Nessun rocker era mai arrivato a quella veneranda età. I suoi peggiori timori lavorativi si concretizzarono meno di una settimana dopo il suo compleanno, quando il «The Memphis Press-Scimitar» pubblicò un articolo che lo criticava per aver abbandonato il rock’n’roll e aver realizzato così tanti film scadenti.
Elvis aveva sempre giustificato l’abbandono della musica come una mossa per far crescere la sua carriera, che lo avrebbe elevato a un grado più alto di celebrità, ma adesso sapeva che era solo una menzogna. A peggiorare le cose, ogni volta che accendeva la radio sentiva uno stile di rock’n’roll che gli era letteralmente estraneo. La canzone più trasmessa quel mese era "I Want to Hold Your Hand" dei Beatles. Alla fine del mese sarebbe arrivata in prima posizione in
America. Elvis aveva abdicato il trono del rock’n’roll a un gruppo di stranieri post-adolescenti e ne era consapevole. E questo gli causava una sofferenza insostenibile.
Dal punto di vista degli affari, le decisioni del Colonnello Parker di solito erano proficue, ma a volte sembrava fuori fase. All’inizio del 1964 consigliò a Elvis di comprare il Potomac, lo yacht presidenziale usato un tempo dal presidente Franklin D. Roosevelt, a cinquantacinquemila dollari, per poi donarlo all’ospedale St. Jude di Memphis.
Il Potomac era di proprietà della Hydro Capital di Newport Beach, in California, che aveva investito sulla nave duecentocinquantamila dollari e l’aveva spostata al porto di Long Beach a Los Angeles. Per quale motivo una compagnia che aveva investito un quarto di milione di dollari per rimettere a nuovo una nave avrebbe dovuto venderla per cinquantacinquemila e la natura del rapporto tra la compagnia e il Colonnello Parker rimangono ancora oggi un mistero.
Una volta acquistata la nave, Elvis la consegnò all’uomo di spettacolo Danny Thomas, principale benefattore del St. Jude, che raccontò ai giornalisti di sentirsi come se stesse «giocando a ping pong» con un manufatto storico. Spinto dai reporter a dichiarare che cosa avrebbe fatto il St. Jude della nave, Thomas disse che probabilmente l’avrebbero venduta come rottame e per meno dei soldi spesi da Elvis per acquistarla.
Il cantante non si sentì meglio con se stesso quando il «The Memphis Press-Scimitar» definì la nave una «cattedrale nel deserto».
Che cosa avesse di preciso in mente Parker non è certo e forse non lo sapremo mai; qualunque asso avesse nella manica quasi di sicuro avrebbe prodotto un guadagno su un secondo – e terzo – livello, nascosto con abilità e pensato per sostenere qualcuno che non era Elvis. Era semplicemente così che agiva. Niente lo rese più evidente delle sue macchinazioni per ridistribuire i guadagni che l’artista otteneva dalle canzoni che registrava a proprio nome sotto
l’ombrello della "Hill and Range" e da varie strategie di merchandising. Per esempio, Elvis possedeva il quindici per cento della "Songman Music", ma Parker ne possedeva il quaranta; Bienstock aveva il quindici per cento, George Parkhill della RCA il quindici, e Tom Diskin un altro quindici. In pratica, il motivo per cui Parker coinvolgeva così tante persone nei guadagni di Elvis era per risparmiare denaro per se stesso. Quando aveva bisogno di fare qualcosa, invece di pagare una persona per farlo, creava una nuova compagnia di publishing e gliene dava una percentuale. Così, alla fine, era Elvis a pagare per tutto.
Ad aggiungersi alle preoccupazioni e alle insicurezze del cantante ci furono una serie di eventi e sventure che coinvolsero i suoi amici nonché nuove minacce alla sua sicurezza personale. In gennaio Elvis ricevette una cartolina con il timbro postale di Huntsville, in Alabama, indirizzata al «Presidente Elvis Presley». Vi si leggeva: «Il prossimo della mia lista sei tu». Sotto quell’avvertimento c’era un elenco di cinque nomi: il primo era quello di Elvis, tra gli altri figuravano Johnny Cash, il governatore dell’Alabama George Wallace e il Presidente JBJ (sic).
Vernon portò la cartolina all’ufficio di Memphis dell’FBI, ma quando gli agenti del Bureau la mostrarono al procuratore federale di Buffalo, questi disse che non riteneva fosse perseguibile all’interno del diritto federale sull’estorsione. Più che per la minaccia rivolta a Elvis, l’FBI sembrava preoccupato per il riferimento al Presidente JBJ. Le iniziali erano abbastanza simili a quelle del presidente Lyndon B. Johnson da spingere il Bureau a considerare la cartolina una potenziale minaccia contro di lui e a occuparsene di conseguenza. La cartolina fu esaminata dal laboratorio dell’FBI, che non trovò alcuna corrispondenza con altre lettere anonime registrate. Né c’erano una filigrana identificativa sul biglietto o calchi di scrittura apposta su altri fogli rimasti impressi sulla cartolina, che sarebbero serviti a identificare l’autore della lettera. Il caso fu passato ai Servizi segreti e le autorità ignorarono la minaccia che riguardava Elvis. Come sempre, Parker si tenne alla larga da tutto questo.
Nel frattempo, il chitarrista nonché amico di Elvis, Scotty Moore, stava avendo a sua volta dei problemi. Mentre supervisionava il lavoro dello studio di Sam a Nashville, il produttore Billy Sherril, che lavorava lì con lui, gli chiese di realizzare un album di pezzi strumentali. Era da parecchio che il chitarrista stava parlando di quel progetto con Sam, ma quest’ultimo lo aveva sempre scoraggiato. Quando Sherrill si offrì di produrre l’album e poi ottenne un
contratto dalla "Epic Records", Scotty colse al volo l’occasione. Il disco fu intitolato "The Guitar That Changed the World" e comprendeva molte delle prime hits incise da Scotty insieme a Elvis, tutte in versione strumentale.
Scotty raccontò dell’album a Sam, la cui reazione però non fu quella che il chitarrista si era aspettato: lo licenziò in tronco. Scotty si trasferì a Nashville, ulteriore segno, per Elvis, che il suo mondo si stava lentamente sgretolando. Sperando che il Colonnello Parker lo avrebbe aiutato con il disco, Scotty gli inviò un acetato della registrazione con un biglietto che diceva che sarebbe stato «un onore» se Parker avesse scritto le note di copertina.
Parker chiese a Tom Diskin di rispondere. In una lettera, l’assistente scrisse che il Colonnello non avrebbe potuto aiutarlo con le note di copertina perché c’erano «restrizioni che non consentivano l’uso del nome di Elvis insieme a un altro disco commerciale».
Diskin restituì l’acetato a Scotty e promise che quando fosse uscito avrebbe acquistato il disco. Disse anche: «Devi ammettere che è il migliore sostegno».
Fu uno schiaffo in faccia, un colpo che il Colonnello non ebbe il fegato di sferrare di persona, ma Scotty non ne rimase minimamente sorpreso. Quando aveva chiesto a Parker di scrivere le note di copertina, aveva tralasciato un ingrediente fondamentale: non aveva incluso i soldi, niente assegni o vaglia.

Ogni anno i film sembravano peggiorare. Il primo del 1965 fu "Avventura in Oriente" ("Harum Scarum"), un concentrato di sciocchezze senza senso diretto da Gene Nelson e prodotto da Sam Katzman. Al fianco di Elvis recitava Mary Ann
Mobley, ex miss America proveniente dal Mississippi.
Appena concluso quello, il cantante iniziò a lavorare su "Frankie e Johnny" ("Frankie and Johnny"), un film dal budget migliore per la MGM, prodotto da Edward Small e diretto da Frederick de Cordova, che in seguito divenne meglio conosciuto come produttore del "Tonight Show" di Johnny Carson.
Toccò poi a un’altra pellicola per la Paramount, "Paradiso hawaiano" ("Paradise, Hawaiian Style"), prodotto da Hal Wallis e diretto da Michael Moore. Anche se alcune delle scene furono girate negli studi Paramount, la maggior parte fu realizzata alle Hawaii durante le prime due settimane di agosto, concedendo così a Elvis di allontanarsi dalla soffocante calura di Memphis e dall’isolamento del suo stile di vita hollywoodiano. Sfortunatamente, le Hawaii non ebbero sul cantante l’effetto calmante che tutti avevano creduto. Elvis ebbe improvvisi sbalzi d’umore e scoppi di rabbia e per due giorni non si presentò sul set per via di quelli che i suoi assistenti descrissero come «crampi allo stomaco». Il suo comportamento sul set fu così inappropriato che l’editorialista Hedda Hopper fu spinta a scrivere un articolo critico su di lui; fu in effetti la prima volta che qualcuno sottolineava la natura sempre più eccentrica del suo carattere. Il comportamento insolito e imprevedibile di Elvis sul set di "Paradiso hawaiano" fu in seguito attribuito alle sostanze stimolanti e tranquillanti che assumeva regolarmente e al crollo della sua carriera discografica. Entrambi i fattori ebbero forse un ruolo, ma è più plausibile che a provocare il suo comportamento fu la notizia che a Bill Black era stato diagnosticato un tumore al cervello. Bastava menzionare quella malattia per instillare la paura nell’animo dei creativi. Cantanti, scrittori, pittori, chiunque si guadagnasse da vivere grazie alle proprie doti creative sapeva che era il modo peggiore per andarsene. Che fosse toccato a uno dei "Blue Moon Boys" originali, una persona con la quale aveva iniziato la carriera, sconvolse Elvis.
Anche se Presley non fosse rimasto affezionato a Bill – e tutto fa pensare che gli volesse ancora bene, nonostante Bill rifiutasse di continuare a lavorare per lui – la diagnosi fu un colpo troppo personale per essere accantonata come una delle sfortune che capitano nella vita. Il tasso di guarigione dalla chirurgia al cervello non era elevato nel 1965, e la diagnosi di quel tipo di cancro veniva di solito considerata una condanna a morte. Quando Elvis apprese
della malattia di Bill, andò a trovarlo a casa sua. Prima di andarsene, prese da parte la moglie di Bill, Evelyn, e le chiese di non offendersi se non avesse partecipato al funerale, perché sentiva che la sua presenza avrebbe messo in secondo piano quello che avrebbe dovuto invece essere un rito solenne. Evelyn rispose che capiva.
Quando Elvis tornò dalle Hawaii, il Colonnello Parker stava iniziando a preoccuparsi per il benessere emotivo del suo cliente. Decise di iniziare una campagna di pubbliche relazioni progettata per accarezzare il suo fragile ego e concentrare nuova attenzione dei media su di lui in quanto superstar. La prima cosa che fece fu organizzare un incontro con i Beatles.
Il manager della band inglese, Brian Epstein, era rimasto in contatto con Parker per oltre un anno nel tentativo di fissare l’incontro. Elvis non era interessato. Guardare la popolarità dei Beatles eclissare la sua lo aveva abbattuto e non voleva avere nulla a che fare con loro. Tutte le volte che Parker aveva risposto picche a Epstein, l’aveva sempre fatto inviandogli regali da parte di «Elvis e il Colonnello». Una volta mandò dei vestiti da cowboy e dei veri
revolver a sei colpi.
Mentre Elvis concludeva "Paradiso hawaiano", i Beatles iniziarono il loro secondo tour americano esibendosi allo Shea Stadium di New York davanti a cinquantacinquemila fan. Era il pubblico più numeroso della storia per un concerto rock e i media furono inondati da articoli sulle buffonate di Paul, John, George e Ringo. Come avevano fatto nel corso della tournée americana del 1964, suonarono di nuovo all’Hollywood Bowl.
Elvis contattò il Colonnello per organizzare un incontro. Per i Beatles, Elvis era un idolo e non avevano idea che fosse risentito per il loro successo: volevano solo conoscere il Re del rock’n’roll.
Questa volta Parker persuase Elvis che incontrarli era nel suo migliore interesse. Quando i Beatles arrivarono a casa sua, Presley li accolse sulla porta. Indipendentemente dai sentimenti personali nei confronti della loro musica e del loro stile di vita così diverso da quello americano, recitò la parte dell’ospite cortese. Sullo sfondo, un juke-box alternava canzoni di Elvis ad altre dei Beatles. Era presente anche il Colonnello, che tirò via tutto allegro la
copertura da una roulette per mostrare ai musicisti inglesi il suo giocattolo preferito. Dopo un inizio carico di imbarazzo (i Fab Four ed Elvis rimasero seduti a fissarsi senza spiccicare parola per un tempo che parve infinito), tutti si rilassarono e prima che le quattro ore di visita si concludessero improvvisarono insieme diverse canzoni, compresa "I Feel Fine" dei Beatles, sulla quale Elvis suonò il basso.
Andandosene, invitarono Presley ad andare a trovarli la sera seguente (lui rispose di sì, ma poi non lo fece) e ricevettero dei regali simbolo dell’apprezzamento di «Elvis e il Colonnello»… piccoli carri coperti che si accendevano quando le lampadine alimentate a batteria venivano attivate. Come doni, non erano belli quanto i costumi da cowboy che avevano ricevuto in precedenza, ma era il pensiero a contare.
Vedere come il pubblico reagiva ai Beatles aumentò ancora di più la determinazione del Colonnello a riportare il suo ragazzo sotto i riflettori. Poco dopo che la band inglese se ne fu andata, Parker aiutò «Variety» e il «Saturday Evening Post» a comporre articoli che proclamassero Elvis una grande stella del mondo dello spettacolo. Le testate basarono tale valutazione sui guadagni stimati nel 1965.
«Variety» calcolò gli introiti di Elvis da tutte le fonti dell’anno tra i quattro e i cinque milioni di dollari, con i guadagni dovuti ai film che ammontavano da soli a due milioni e settecentomila.
Per la prima volta, Parker permise che si parlasse di cifre rivelando i guadagni di progetti specifici. Per "Avventura in Oriente", Elvis ricevette un milione di dollari, oltre al quaranta per cento degli utili netti. Per "Frankie e Johnny" ricevette seicentocinquantamila dollari, oltre al cinquanta per cento degli utili netti.
«Variety» sostenne che le royalties di Elvis per quell’anno sarebbero ammontate a trecentomila dollari, escluse le royalties derivate dal publishing e i soldi degli ingaggi per le esibizioni.
Sulla falsariga ispirata da Parker si mosse il giornalista di spettacolo del «The Memphis Press-Scimitar» Edwin Howard. «Non credo che, a eccezione forse dei Beatles, nel mondo dello show business qualcun altro farà compagnia a Elvis nella fascia dei cinque milioni di dollari» scrisse Howard. «E non dimenticatevi… tutto quello che fanno loro va diviso per quattro. Elvis, come il resto di noi, può essere grato che non ne esistano quattro, di lui.»
Era proprio il messaggio che Parker voleva che il pubblico ed Elvis, soprattutto, sentissero. Presley non stava incidendo dei dischi da hits come i Beatles, ma c’era passato, lo aveva fatto, e si era spostato a un grado più elevato di celebrità, un grado che si misurava dalle dimensioni degli assegni e non dal numero di spettatori radunati alla sua porta.
All’inizio parve che il piano di Parker potesse funzionare. Poi, all’inizio di ottobre, Bill Black entrò in coma. La notizia fu riportata dai giornali di Memphis, che pubblicarono degli articoli per ripercorrere il successo che il bassista trentanovenne ed Elvis avevano avuto negli anni Cinquanta. Dovette essere una doccia fredda per Elvis, che non solo doveva affrontare la morte incombente di un amico, ma anche l’imminente fine della sua carriera da cantante. Il modo in cui descrissero il successo riscosso da Bill insieme a Elvis dava l’impressione che fosse accaduto tantissimo tempo prima.
Dopo aver ripreso conoscenza per un breve periodo, Bill morì il 22 ottobre. Evelyn e gli altri membri della famiglia avevano vigilato costantemente al suo capezzale, ma quando giunse la fine Bill era solo nella sua camera. Erano andati tutti in mensa a prendere qualcosa da mangiare, soprattutto per le insistenze delle infermiere: volevano che si mantenessero in forze.
Elvis non partecipò al funerale, ma invitò Scotty, D.J. e le loro mogli a Graceland subito dopo il servizio religioso per poter piangere insieme il defunto. In seguito, Elvis andò a porgere le sue condoglianze a Evelyn. Al suo fianco c’era Priscilla, che sembrava l’unica a capire veramente che cosa stesse passando il cantante.
Sentendo che i benefici della sua azione pubblicitaria stavano svanendo, Parker diede altro gas al motore delle pubbliche relazioni passando a Dick Kleiner, giornalista di Hollywood, una storia che fu venduta ai giornali di tutto il Paese. Questa volta Parker rivelò informazioni sulle somme che Elvis donava in beneficenza (trentacinquemila dollari solo alle organizzazioni benefiche di Memphis), gli stipendi che pagava a dodici assistenti e guardie del corpo (diecimila dollari l’anno, secondo l’articolo), la quantità di automobili e motociclette che possedeva e il lussuoso camerino che gli forniva la Paramount (con due frigoriferi, uno dei quali solo per il gelato).
L’articolo di Kleiner si concentrava anche sull’adorazione che i fans riversavano su Elvis. Raccontò di quella volta in cui il cantante venne tenuto in ostaggio per un’ora a New Orleans dentro un ascensore, bloccato da sei ragazze che avevano legato e imbavagliato l’operatore del mezzo. Sembrava che il Colonnello stesse dicendo: vediamo come faranno i Beatles a battere questa!
Quello che Parker voleva dimostrare a Elvis stesso e a un mondo che sembrava impazzire per i Beatles e altri gruppi emergenti britannici, come i Rolling Stones, era che sul trono della musica americava sedeva una leggenda più grande e significativa.
La mossa pubblicitaria non funzionò. Né con il pubblico, e nemmeno con Elvis, che stava diventando sempre più cupo nei riguardi della propria carriera e sorprendentemente indifferente al Colonnello. Il giornalista di «The Commercial Appeal» James Kingsley aveva sentito dire che il Colonnello aveva intenzione di andare in pensione e che Elvis stava cercando un nuovo manager. Chiamò Parker e domandò se le voci fossero vere. Neanche per sogno, balbettò il Colonnello. L’ultima cosa che aveva in mente era la pensione. Disse che anche Elvis lo aveva chiamato per quei pettegolezzi. Secondo il giornale, il Colonnello disse a Elvis: «Sono le solite voci, ragazzo. Se mai decidessi di ritirarmi, saresti tu il primo a saperlo. Puoi scommetterci».

Nel marzo del 1966, mentre girava "Voglio sposarle tutte" ("Spinout"), Elvis ricevette una visita sul set: Lynda Bird Johnson, figlia del presidente Lyndon Johnson, e il suo ragazzo, l’attore George Hamilton. Nessuno sapeva bene cosa pensare, a eccezione del Colonnello Parker, che era sempre un passo avanti a tutti. Elvis si vantò che fossero venuti a trovarlo, si era assicurato che tutti vedessero quant’era diventato importante. Fu cortese con i suoi ospiti, ma non
così tenero con chi lavorava al film. Alcuni lo definivano insopportabile. Naturalmente, dietro quella visita c’era di più di quel che si poteva vedere a un primo sguardo.
Il principale consigliere dietro le quinte di Johnson era Abe Fortas, originario di Memphis, che proprio lui aveva nominato giudice della Corte Suprema l’anno precedente. Fortas era per Johnson ciò che Diskin era per Parker: un confidente di fiducia, l’unica persona su cui potesse contare perché facesse quello che serviva, qualsiasi cosa fosse.
Dato che per un giudice della Corte Suprema consigliare un presidente in carica su temi politici sensibili era una violazione della dottrina sulla separazione dei poteri, Johnson e Fortas tenevano segreta la loro relazione di lavoro. Il legame di Fortas con Elvis aveva avuto inizio a Memphis; il cantante era cresciuto ai margini di Beale Street, facendo esperienza della violenta e disonesta vita notturna che prosperava nel quartiere.
Uno dei compagni di scuola più giovani con cui aveva frequentato il liceo Humes di Memphis era stato un ragazzo tarchiato di nome Alan Fortas. Crescendo, Alan divenne un ottimo giocatore di football, probabilmente grazie alla sua stazza, e si fece una reputazione da duro. Elvis lo assunse come guardia del corpo e compagno di viaggio nel 1958 e gli fornì diverse pistole che doveva portare con sé o tenere a portata di mano nell’eventualità che fosse chiamato a difendere il Re. Alan Fortas era il nipote di Abe Fortas. Il collegamento tra Johnson, Fortas e Parker era significativo.
Quando Lynda Bird si presentò sul set di "Voglio sposarle tutte", Abe Fortas aveva stretto legami con una compagnia coinvolta in varie operazioni dei casinò di Las Vegas. La "Great American" aveva sede in Nevada ed era connessa al "Thunderbird Hotel", la cui licenza era stata revocata nel 1955 a causa dei collegamenti con il crimine organizzato. Fortas faceva parte del consiglio di amministrazione.
Gli investigatori dell’FBI stavano anche indagando sul coinvolgimento (attraverso il giudice William Douglas) che sospettavano avesse con la Fondazione Parvin, la quale deteneva le azioni di un casinò di Las Vegas associato al boss criminale della Florida Meyes Lansky (che era un collaboratore di Santo Trafficante).
Anche se Lynda Bird fu ovviamente tenuta all’oscuro rispetto alle implicazioni della sua visita, il suo arrivo a sorpresa era stato calcolato per fare impressione su qualcuno. Forse Parker l’aveva organizzata per colpire chi deteneva certi interessi nel gioco d’azzardo di Las Vegas, verso cui era sempre più indebitato; o forse era stato chi deteneva interessi nel gioco d’azzardo a organizzare l’incontro per impressionare Parker. Entrambe le interpretazioni
rappresentavano un problema per Elvis.
Al Colonnello Parker era sempre piaciuto esplorare il lato oscuro della vita americana. I primi giorni si era trattato di un brivido a poco prezzo, prima che l’ossessione per il gioco d’azzardo gli sfuggisse di mano, ma adesso la posta in gioco era assai più alta. La malavita ci stava andando pesante in modi che negli anni Trenta o Quaranta sarebbero stati inconcepibili.
Negli anni che seguirono all’assassinio del presidente Kennedy, Carlos Marcello fu citato pubblicamente come possibile co-cospiratore dell’omicidio. Nel 1966, Marcello era ormai riconosciuto come uno dei boss mafiosi più ricchi e potenti negli Stati Uniti. Sotto la guida del procuratore generale Robert Kennedy, nel 1964 il Dipartimento di Giustizia riuscì con successo a ottenere il rinvio a giudizio di Marcello, accusato dell’assassinio di testimoni del governo. I procuratori federali non riuscirono tuttavia a ottenere la condanna.

Elvis tornò a Memphis dopo aver concluso la lavorazione su "Voglio sposarle tutte" e di nuovo venne travolto da una campagna orchestrata da Parker. Si parlava di costruire un monumento di Elvis Presley a Memphis.
Uno dei membri del consiglio cittadino affermò: «Elvis Presley… ha portato molta buona pubblicità al nostro territorio. Credo che la città e la contea dovrebbero intervenire e fare qualcosa per lui».
La preoccupazione del Colonnello nei riguardi del futuro di Elvis e di quello del loro rapporto si può comprendere dalla decisione di far trasmettere alle stazioni radiofoniche di Memphis un omaggio a Gladys Presley per la festa della mamma. Il primo a informare Elvis dei progetti del Colonnello fu un giornalista di Memphis, raccontando in un articolo che dodici stazioni della zona avrebbero mandato in onda il tributo, uno spettacolo di mezz’ora che sarebbe stato proposto anche da altre radio di Tampa, San Francisco, Los Angeles e Palm Springs. Il reporter scrisse: «Tua madre, che ti ha cresciuto superando i difficili giorni della giovinezza, ti ha visto diventare ricco e famoso. Non ha fatto in tempo a vedere il rispetto che ti sei guadagnato come persona con la tua condotta pubblica».
I benefici effetti maturati grazie allo show per la festa della mamma furono però cancellati dalla notizia che il "Cotton Carnival" del 1966 avrebbe presentato dei manichini di cera dei Beatles. Elvis aveva sempre avuto un debole per il "Cotton Carnival" perché era stato uno dei suoi primi sostenitori, un luogo dove aveva trascorso dei bei momenti, ma che i Beatles, e per di più in versione di cera, fossero proclamati stelle dello show era assolutamente deprimente.
La Royal American non aveva idea di quanto Elvis si accalorasse per i Beatles. Carl Sedlmayr era morto fin dal Cotton Carnival precedente e suo figlio, Carl Jr., aveva preso in mano la gestione della fiera. Le ultime due visite della Royal American a Memphis non erano state prive di polemiche. Un anno, lo show femminile non aveva avuto il permesso di aprire. Un altro anno, la Royal American era stata criticata da un veterano disabile che si era lamentato che i funzionari della fiera gli avevano fatto pagare dieci dollari per poter vendere le proprie merci. Il Cotton Carnival del 1966 a Memphis era il primo di Carl Jr., in qualità di nuovo capo; e lui voleva dare un’immagine moderna alla fiera. A questo scopo, i Beatles erano perfetti.
Sull’onda dell’indignazione seguì una recensione del nuovo film di Elvis, "Paradiso hawaiano". John Knott, il critico cinematografico di «The Commercial Appeal», attaccò ferocemente l’artista in una recensione dal titolo: «La recitazione di Elvis zoppica ancora dopo 10 anni, 12 film».
Knott fece notare che al suo arrivo fuori dal cinema c’era la fila di gente in attesa, una rarità per una proiezione pomeridiana, poi minimizzò l’importanza del film e disse che la sua star aveva «un pochino di doppio mento». Knott scrisse: «I suoi film non sono cambiati: poca recitazione, poca trama».
Per certi versi, sembrava che lo stesso Colonnello stesse andando in pezzi. La frequenza dei suoi viaggi a Las Vegas era aumentata, così come le perdite ai tavoli da gioco. Nel 1966, il gioco d’azzardo era ormai una dipendenza conclamata per lui. L’unico aspetto della sua vita privata a essere sotto controllo era il suo matrimonio e ciò ebbe probabilmente un ruolo fondamentale nel grado di stabilità che riuscì a mantenere di fronte al comportamento imprevedibile di Elvis.
Verso la fine dell’anno, il Colonnello si recò a Memphis per parlare con il cuore in mano all’artista, che da un bel po’ non aveva dischi in classifica. I film portavano ancora profitti, ma nessuno sapeva per quanto ancora sarebbe durata. A preoccupare davvero Parker erano i cinque anni di relazione con Priscilla. La fama del cantante era troppo fragile, troppo incerta per resistere sul lungo periodo, perché potesse correre il rischio che la sua storia con una
minorenne venisse allo scoperto e fosse sfruttata da giornalisti affamati di notizie. La stampa lo avrebbe distrutto, proprio come aveva fatto con Jerry Lee Lewis.
Il Colonnello non ebbe peli sulla lingua: Elvis doveva liberarsi della ragazza, doveva rimandarla a vivere da mamma e papà, oppure doveva sposarla e farne una donna onesta. Secondo alcuni resoconti, Parker propendeva per il matrimonio. Probabilmente pensava che avrebbe calmato Elvis, fornendogli la stabilità che aveva ricavato lui stesso dal proprio matrimonio. L’amore o il sesso comunque non avevano nulla a che vedere con la questione. Era una decisione d’affari.
Quando il Colonnello fu tornato in California, Elvis si decise a chiedere la mano di Priscilla. Aveva investito troppo tempo e sentimento in quella relazione per scioglierla. Qualche giorno prima di Natale, mentre era sola nella sua stanza, Priscilla sentì bussare alla porta; poi udì una voce, la voce di Elvis, dirle che aveva bisogno di parlarle di una cosa. All’inizio lei lo prese in giro, facendogli usare la parola d’ordine infantile che avevano escogitato. Alla fine, lui cedette. «Occhi di fuoco», disse. Una volta nella stanza, le disse di chiudere gli occhi. Quando Priscilla li riaprì, Elvis era in ginocchio con una scatolina di velluto in mano. Le mostrò l’anello che conteneva, poi le disse che si sarebbero sposati.
Priscilla non riusciva a credere a quello che vedeva. «Il nostro amore non sarebbe stato più un segreto» scrisse nella sua autobiografia Elvis e io. «Sarei stata libera di viaggiare in pubblico come signora Elvis Presley senza timore di ispirare titoloni scandalistici. E la cosa più bella è che gli anni di struggimenti e timore di perderlo a causa di una delle tante ragazze che si proponevano di continuo per prendere il mio posto erano finiti.»
Elvis e Priscilla si accordarono per sposarsi in primavera.

Il Colonnello Parker, il più improbabile esperto di nozze, ebbe l’incarico di organizzare il tutto. Informare Elvis del suo imminente matrimonio non era la sola novità che il Colonnello aveva in serbo per il suo cliente, quando prima di Natale lo andò a trovare a Graceland.
A partire dal 2 gennaio 1967, la percentuale percepita dal Colonnello come manager sarebbe cresciuta dal venticinque al cinquanta per cento, tranne che per il publishing (lì sarebbe rimasta al venticinque). In due anni, tutte le altre percentuali dell’«impresa musicale» sarebbero salite al cinquanta.
Quando il Colonnello lo informò della modifica, c’erano solo loro due – e non si scambiarono lettere né vennero stesi documenti chiarificatori – perciò la spiegazione che Parker diede di quel cambiamento e la reazione di Elvis potrebbero non essere mai rivelate. Di certo, il cantante non poté esserne molto felice. La commissione standard di un manager dell’ambiente era tra il dieci e il quindici per cento, con esempi isolati che arrivavano al venticinque. Non si era mai sentito di commissioni al cinquanta per cento, nell’industria dello spettacolo, ma nelle rare occasioni in cui capitavano rappresentavano vere collaborazioni tra cliente e manager: in quei casi, anche il manager dava al cliente il cinquanta per cento dei propri introiti. L’esempio più famoso era l’accordo tra il manager Ken Greenspan e gli artisti Steve Lawrence e Edie Gorme. Greenspan riceveva metà dei loro profitti; Steve e Edie metà dei suoi.
Insolito, ma giusto.
Il Colonnello non offrì a Elvis nulla del genere. Secondo il suo piano, Parker si teneva tutto quello che guadagnava e si prendeva metà di quello che guadagnava Elvis. Era una situazione senza precedenti.
Perché il cantante acconsentì a un accordo del genere? Alcuni lo spiegano affermando che la sua carriera era messa talmente male che Elvis sentì di non avere scelta, sottolineando che i suoi dischi non erano più dei successi. Se voleva continuare a guadagnarsi da vivere, avrebbe dovuto dare al Colonnello tutto quello che chiedeva, ma è un’argomentazione che non sta in piedi. Il reddito di Elvis per il 1965, secondo i resoconti giornalistici che il Colonnello stesso aveva orchestrato, ammontava tra i quattro e i cinque milioni, compresi i quasi tre milioni derivati dagli ingaggi cinematografici. Difficile dire che Elvis fosse destinato all’ospizio per poveri. Quell’anno realizzò tre pellicole: "Avventura in Oriente", "Frankie e Johnny" e "Paradiso hawaiano". Nel 1966, ne fece altre tre: "Voglio sposarle tutte", "Fermi tutti, cominciamo daccapo!" ("Double Trouble") e "3 fusti, 2 bambole e… 1 tesoro" ("Easy Come, Easy Go"). L’anno dopo, quello in cui il nuovo contratto divenne effettivo, girò tre film: "Miliardario… ma bagnino" ("Clambake"), "A tutto gas" ("Speedway"), "Stay Away, Joe".
Dunque, che cosa aveva in mente il Colonnello? Nel 1967, le sue perdite al gioco d’azzardo erano sconcertanti. Nel giro di un paio di anni, Alex Shoofey, il direttore generale dell’Hotel International, avrebbe affermato pubblicamente che le perdite del Colonnello nel suo albergo ammontavano a un milione all’anno. E quello era un solo hotel. In quel momento il reddito annuale di Elvis ammontava mediamente tra i quattro e i cinque milioni di dollari, la commissione al venticinque per cento avrebbe fruttato al Colonnello tra il milione e il milione e duecentocinquantamila dollari l’anno, a malapena sufficienti a coprire le sue perdite in un unico albergo.
Una possibile spiegazione data dal Colonnello a Elvis per giustificare la modifica contrattuale potrebbe essere stata che aveva debiti che superavano quanto riusciva a guadagnare e aveva bisogno di una percentuale maggiore dei guadagni dell’artista per avere abbastanza denaro di che vivere. Forse fu sincero con Elvis e gli disse che era nei guai.
La seconda possibilità – nonché quella più probabile, in base ai dati disponibili – è che Parker perse la commissione al venticinque per cento o direttamente con una puntata oppure come risultato dei debiti di gioco accumulati, in
favore di chiunque detenesse le sue cambiali a Las Vegas. È improbabile che nel 1958 avesse rivelato a Elvis che era quello il motivo per cui lo aveva fatto entrare nell’esercito, perché alla sua età non avrebbe capito; adesso però era più grande e aveva avuto il tempo per comprendere come funzionava davvero il mondo. Questa volta avrebbe spiegato a Elvis chi possedeva adesso il venticinque per cento del suo contratto e a meno che lui non ricevesse un ulteriore venticinque per cento non sarebbe riuscito a continuare a fargli da manager.
Se Elvis avesse protestato, il Colonnello avrebbe potuto dire «Ti ho perso lealmente». Se Elvis avesse suggerito di rivolgersi alle autorità, il Colonnello avrebbe potuto ribattere «E da chi andrai? Hanno portato la figlia del presidente a trovarti, ecco quanto sono potenti. Non puoi rivolgerti a qualcuno più in alto del presidente».
Se Elvis avesse espresso timori per la propria sicurezza, il Colonnello avrebbe potuto rispondergli che faceva bene ad avere paura. Avrebbe sottolineato che la sua guardia del corpo più fidata, Alan Fortas, era il nipote di Abe Fortas. «Alla resa dei conti, da chi prenderà ordini?»
Si può solo immaginare come dovette sentirsi Elvis. Sappiamo ora che tra dicembre e gennaio iniziò a soffrire di periodi prolungati di depressione. Non parlò mai con il suo entourage del nuovo contratto con il Colonnello, ma raccontò a
Marty Lacker, secondo gli autori Rose Clayton e Dick Heard, che stava subendo pressioni per sposare Priscilla. Di tutti i posti in cui Elvis e la ragazza avrebbero potuto sposarsi, Las Vegas era il più inappropriato, ma essendo incaricato di organizzare la cerimonia il Colonnello Parker, che cosa ci si sarebbe potuti aspettare? Naturalmente, Las Vegas era il luogo in cui si trovava più a suo agio.
Fissato il matrimonio per il primo maggio 1967, Elvis e Priscilla si recarono a Los Angeles diversi giorni prima di quella data per esaminare il programma che il Colonnello aveva stabilito per loro. Dato che temeva che la stampa venisse a sapere nelle nozze imminenti, Parker fece in modo che usassero come quartier generale una casa di Palm Springs.
Il giorno prima del matrimonio, li fece andare a passare la notte a Palm Springs (uno stratagemma per sviare i giornalisti). Il mattino seguente si svegliarono prima dell’alba e volarono a Las Vegas con un Learjet prestato da Frank Sinatra, arrivarono all’ufficio del segretario comunale poco prima che aprisse e ottennero la licenza matrimoniale. Da là corsero all’Hotel Aladdin, dove un giudice ebreo li sposò nella suite privata del proprietario dell’albergo, Milton Prell.
Insieme a Elvis e Priscilla, nella suite c’erano il Colonnello e Marie; Vernon e Dee; la madre e il patrigno di Priscilla, il maggiore Beaulieu e signora; i due testimoni, Joe Esposito e Marty Lacker (con le rispettive mogli); il suo vecchio amico George Klein; e uno sparuto gruppetto di altre persone. Alan Fortas e gli altri membri della cosiddetta Mafia di Memphis non erano stati invitati.
Subito dopo il matrimonio, il Colonnello scortò Elvis e Priscilla a una conferenza stampa, durante la quale Elvis rispose a domande sulla sua vita privata. Da lì andarono a un ricevimento, la cui lista degli ospiti era composta per lo più da amici e soci d’affari del Colonnello. «Vorrei avere avuto la forza, all’epoca, di dire “Un attimo, questo è il nostro matrimonio, fan o non fan, stampa o non stampa. Lasciateci invitare chi ci pare e celebrare dove ci pare”»
scrisse Priscilla nella sua autobiografia. «Sembrò che la cerimonia fosse già finita non appena iniziata.»

Dopo una rapida luna di miele, Elvis tornò al lavoro, completando nel 1967 tre film: "A tutto gas", "Miliardario… ma bagnino" e "Stay Away, Joe".
Chiarì a Priscilla che lui avrebbe vissuto da solo per la maggior parte del tempo a Los Angeles e da lei ci si aspettava che badasse al focolare di Graceland. Quando scoprì di essere incinta, Priscilla provò sentimenti contrastanti. Aveva aspettato tantissimo di diventare sua moglie, e rendersi conto che per gran parte del loro primo anno insieme come marito e moglie lei sarebbe stata in dolce attesa la riempiva di terrore. Una volta, senza mai effettivamente usare la parola aborto, discusse con Elvis di quella possibilità. Lui le disse che era una sua decisione, e che l’avrebbe sostenuta. Priscilla scelse di avere la bambina.
Dopo la nascita di Lisa Marie – il secondo nome di Lisa derivava da quello della moglie del Colonnello, Marie, appunto – scoprì con orrore che Elvis aveva perso interesse nei confronti della sua sessualità. Quando lo affrontò
discutendo del fatto che non fosse interessato ad avere rapporti con lei, lui le disse che aveva paura di farle male e voleva aspettare finché il suo fisico fosse tornato normale. Sarebbero passati mesi prima che facessero di nuovo l’amore.
Nel novembre nel 1967, Mary Ann Mobley, che aveva recitato al fianco di Elvis in due dei suoi film, "Pazzo per le donne" e "Avventura in Oriente" – ed era diventata amica intima del Colonnello Parker – ricevette prestigiosi visitatori dal Mississippi: Erle Johnston, capo della Commissione per la sovranità del Mississippi, il governatore dello Stato Paul B. Johnson, e un agente della polizia stradale. Il direttore della Commissione, Johnston, aveva scritto all’attrice, originaria del Mississippi, diverse settimane prima, avvisandola della visita e chiedendole di accompagnarli durante la loro permanenza a Los Angeles. Lei aveva prontamente accettato. La donna e il suo futuro marito, l’attore Gary Collins, cenarono con loro e li portarono a visitare la città.
La Commissione, che era più un’agenzia di spionaggio segreta autorizzata a far succedere brutte cose alle persone di colore che un’agenzia statale, era particolarmente preoccupata per la posizione che alcuni attori del cinema e della televisione avevano assunto a favore dell’integrazione razziale.
Quando tre membri del telefilm "Bonanza" cancellarono delle comparsate in Mississippi, menzionando la questione razziale, la Commissione intraprese una campagna segreta contro quello show. Forse la Commissione aveva solo voluto
rendere nota la sua presenza, o magari aveva voluto recapitare un messaggio al Colonnello in merito ai legami di Elvis con gli artisti neri. Non era un’organizzazione da prendere alla leggera.
Dopo circa quattro mesi dalla visita della Commissione a Los Angeles, l’attivista per i diritti civili Martin Luther King fu assassinato a Memphis nel Motel Lorraine, appena un paio di isolati di distanza dal luogo dove era nato Abe Fortas. A Memphis e in altre settantanove città scoppiarono disordini. Quando la Guardia nazionale riuscì a riportare l’ordine, erano ormai morte ventinove persone e oltre duemila erano rimaste ferite.
Elvis era avvilito. Lyndon Johnson aveva annunciato di recente che non si sarebbe candidato a un secondo mandato. Con la sua influenza sulla comunità dei neri e la sua opposizione alla guerra del Vietnam, King era diventato potenzialmente cruciale nelle elezioni imminenti. Che una figura così potente fosse stata uccisa a colpi di pistola ad appena pochi minuti d’automobile da Graceland rese Elvis pienamente consapevole di quanto lui stesso fosse vulnerabile nei confronti dei suoi nemici.
Il cantante disse al Colonnello che doveva fare qualcosa, che doveva esprimersi contro l’ingiustizia – doveva partecipare. Parker gli disse di tenere la bocca chiusa. Martin Luther King era servito a far sì che Johnson non si candidasse per la rielezione. Stava rompendo le uova nel paniere. Stava rendendo nervosi i sindacalisti della Teamsters Union, perché avevano investito i loro fondi per la pensione con i mafiosi che gestivano i casinò di Las Vegas e le loro fortune erano legate al fatto che il Partito democratico controllasse la Casa Bianca. King era stato un cane sciolto e si era fatto dei nemici nei posti sbagliati, pagando a caro prezzo l’essersi impicciato degli affari altrui.
In effetti, l’assassinio di King andava a vantaggio del Colonnello, confermando gli avvertimenti che faceva a Elvis: nessuno era così potente da non poter essere fatto fuori. A parte le questioni politiche, il Colonnello non era noto per nutrire grande rispetto per gli afroamericani. Non li assumeva mai, non lavorava mai con loro, non prese mai parte ad alcuna causa che potesse andare a vantaggio della loro lotta per l’uguaglianza dei diritti.
Parker faceva tutto il possibile per impedire a Elvis di essere associato agli afroamericani. Danneggiavano gli affari, o almeno così credeva lui.

In precedenza, quello stesso anno, il Colonnello Parker aveva annunciato che Elvis avrebbe realizzato uno speciale televisivo per la NBC-Tv, il primo dai tempi di quello con Sinatra del 1960. Sarebbe stato registrato a giugno e sarebbe andato in onda durante le vacanze di Natale. Quando la NBC contattò il Colonnello per proporre lo show, gli venne presentato come un tradizionale speciale natalizio con canzoni a tema; Steve Binder, però, assunto come produttore e direttore, aveva idee diverse. Voleva realizzare uno spettacolo con un taglio grintoso e rock’n’roll, che avrebbe riproposto il «vecchio» Elvis.
Quando apprese che Binder voleva allontanarsi dal collaudato tema natalizio, il Colonnello perse le staffe. «All’inizio la NBC e il Colonnello mantennero la posizione: “Eseguirà ventiquattro canzoni natalizie e dirà ‘Buon Natale a tutti’”» raccontò Bones Howe, il direttore musicale dello spettacolo, intervistato dalla rivista «Musician».
«Finalmente, durante una delle riunioni, iniziammo a parlare con Elvis. E fu parecchio problematico, ma le ruote cominciarono a girare. Il Colonnello non era uno scemo.»
Alla fine il Colonnello cedette e permise a Binder di realizzare lo show a modo suo, ma pretese che contenesse almeno un brano natalizio. Binder accettò, poi eliminò quella canzone all’ultimo minuto senza avvisarlo.
Dopo aver parlato con Binder e le altre persone coinvolte nella produzione dello show, Elvis si emozionò all’idea di realizzarlo. Su suggerimento di Binder, chiamò Scotty Moore e D.J. Fontana e chiese loro di suonare con lui nello spettacolo. Entrambi accettarono. Elvis la vide come l’occasione di riconquistare i fans che aveva perso in favore dei Beatles e dei Rolling Stones. La prospettiva di trovarsi faccia a faccia con i nuovi titani del rock’n’roll lo terrorizzava, ma sapeva che si trattava di quel momento o mai più, e per quanto negli ultimi mesi fosse stato depresso, non era caduto così in basso da non voler risalire.
Quando Scotty e D.J. arrivarono allo studio di Burbank rimasero sorpresi di vedere Elvis. Era dimagrito, più tonico e sembrava aver rispolverato il vecchio entusiasmo che lo aveva reso famoso i primi tempi. Lo andarono a trovare in camerino, ripercorsero le canzoni che avrebbero suonato nella parte «dal vivo» dello spettacolo. Binder spiegò a Scotty e D.J. che si sarebbero esibiti su un piccolo palco grande quattro metri e mezzo per quattro metri e mezzo, di fronte a un pubblico seduto su tre lati.
Più tardi, quella sera, Elvis invitò tutti a cena a casa sua. Presentò con orgoglio Lisa Marie, anche se non la tenne in braccio e parve impacciato. Priscilla arrivò a casa tardi, ben dopo mezzanotte, e tutti videro e percepirono la tensione tra lei ed Elvis.
Quando la moglie di Scotty, Emily, chiese a una delle guardie del corpo che cosa stesse succedendo, lui le spiegò che Priscilla era con Mike Stone, un istruttore di karate che Elvis aveva conosciuto alle Hawaii il mese precedente e a cui aveva chiesto di insegnare a Priscilla quell’arte marziale.
Dopo cena, Elvis disse a Scotty e D.J. che voleva parlare con loro in privato. Andarono in una delle camere da letto, al riparo da occhi e orecchie dell’entourage. Elvis si fidava dei ragazzi di Memphis che componevano il suo staff, ma sapeva che alcuni di loro facevano rapporto al Colonnello. Elvis chiese a Scotty e a D.J. se volessero fare un tour in Europa. I due non riuscirono a credere alle loro orecchie. Per anni avevano desiderato che Elvis facesse una tournée nel Vecchio Continente, ma il Colonnello aveva categoricamente bloccato il progetto. Ovviamente, questa volta Elvis stava pianificando una scappatoia per aggirarlo. Ecco perché aveva voluto parlare con loro in privato, in modo che il Colonnello non fosse a conoscenza della cosa finché non fosse stato troppo tardi per fermarla. Scotty e D.J. risposero che sarebbero stati contentissimi di farlo.
Elvis chiese a Scotty se avesse ancora lo studio a Nashville. Quando il chitarrista rispose di sì, il cantante gli domandò che ne pensava di entrare in studio per un paio di settimane a porte chiuse, solo per vedere che cosa avrebbero potuto tirare fuori. Ancora una volta, Scotty rispose di sì, rendendosi conto che le intenzioni di Elvis di tornare alle sue radici di musicista erano serie.

- fine prima parte -
-continua -
25/07/2023 17:49
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6. Cosparso di pece e paillettes, Hollywood style

- continua -
- seconda ed ultima parte -


Elvis provò con Scotty, D.J. e Charlie Hodge per circa una settimana, ripassando le canzoni che avrebbero potuto eseguire. Binder disse loro di mettersi a suonare qualsiasi brano avessero voglia. Voleva che emergesse un senso di spontaneità. Durante le prove, il Colonnello Parker mantenne un basso profilo, ma fece sentire la sua presenza. Fuori dalla porta del suo camerino piazzò due guardie in giacca rossa con cappelli di pelliccia. I due uomini erano stati mandati dalla William Morris Agency su richiesta di Parker, secondo Bones Howe, e nelle intenzioni avrebbero dovuto sembrare guardie di Buckingham Palace. Fuori dal camerino di Elvis c’era una singola guardia seduta su una sedia.
Prima che iniziasse il primo spettacolo – Binder voleva realizzarne due, facendo entrare un pubblico nuovo per il secondo – il Colonnello girò per la stanza per controllare gli spettatori. Aveva portato alcuni dei suoi uomini: Tom Diskin, per esempio. L’organizzazione non lo convinse, quindi suggerì che le ragazze giovani presenti, soprattutto quelle carine, venissero spostate accanto al palco. Pensava che sarebbe stata una buona idea se alcune di loro si fossero sedute proprio sul bordo del palcoscenico.
Tra il pubblico sedeva il venticinquenne Paul Pichter, il manager di una band soul composta da musicisti bianchi di Philadelphia, i "Soul Survivors". Lichter stava preparando uno show con più band insieme al promoter e manager Sid Bernstein, che all’epoca rappresentava uno dei nuovi gruppi più in voga del Paese, gli "Young Rascals". Dato che Bernstein era amico intimo del Colonnello, ricevette diversi biglietti per lo spettacolo, ma quando cercò di darli ai suoi collaboratori, non poté farlo.
«All’epoca non era fico essere un fan di Elvis» ricorda Lichter. «Gli altri ragazzi rifiutarono gentilmente, ma io colsi al volo l’occasione».
Per lo spettacolo, Elvis indossò un completo di pelle nera, cosa mai fatta prima, anche se molti sembravano collegarlo al look pelle nera, forse per l’influenza delle altre icone degli anni Cinquanta James Dean e Marlon Brando. Prima di salire sul palco, Elvis disse di essere nervoso. «E se non gli piaccio?» chiese.
Poco prima dell’inizio, il Colonnello Parker entrò tranquillo nel camerino e disse a tutti di lasciarlo solo con Elvis. Dopo pochi minuti, i due riemersero. Elvis si muoveva sulla punta dei piedi come un pugile professionista. Il nervosismo gli era passato. Qualunque cosa gli avesse detto il Colonnello, lo aveva trasformato.
Ad accompagnare Elvis sul piccolo palco c’erano Scotty alla chitarra elettrica, Charlie Hodge a quella acustica e D.J., che si mise in grembo una custodia di chitarra e la suonò con le bacchette della batteria. Fuori dal palco e lontano dalle telecamere c’era qualcuno che suonava il basso elettrico. Più avanti, Elvis avrebbe chiesto a Scotty di scambiare con lui le chitarre, un cambio che strappò una smorfia a D.J., il quale sapeva quanto fosse difficile Scotty quando si trattava della sua costosa Gibson.
Sul palco con Elvis c’era anche Alan Fortas, vestito con gli stessi completi bordeaux dei musicisti, ma senza dover fare altro se non starsene seduto lì dando le spalle alle telecamere. Nessuno sembrava sapere perché Fortas fu scelto per sedersi sul palcoscenico. Forte per mandare un messaggio ai nuovi investitori di Elvis o forse proprio su loro richiesta. O magari era lì su richiesta di Elvis stesso, per proteggerlo dal destino toccato a Martin Luther King.
L’esibizione del cantante, durante entrambi i concerti, fu una delle migliori della sua carriera. Quando lo show fu trasmesso, più avanti quello stesso anno, i critici si profusero in lodi su di lui e rinominarono la trasmissione "Comeback Special", lo Speciale del ritorno. Il giornalista del «The New York Times» Jon Landau scrisse che c’era qualcosa di «magico» nel vedere un uomo che si era smarrito «ritrovare la strada di casa».
La maggior parte degli americani era d’accordo: Elvis aveva riconquistato la corona.
Dopo lo show, Paul Lichter andò dietro le quinte con Bernstein a conoscere il Colonnello ed Elvis. Il suo incontro con il cantante fu fugace.
«Sono molti anni che apprezzo la tua musica» disse, ed Elvis replicò con un «grazie mille». E, anche se parlò con il Colonnello Parker per poco tempo, gli fece una notevole impressione.
«Metteva tantissimo in soggezione e aveva una personalità molto, molto forte» racconta Lichter. «Aveva quegli occhi grigio-acciaio che sembravano scrutarti l’anima. Non c’era dubbio che fosse la persona più importante nella stanza.
Prima di fare un gesto, tutti guardavano lui. Non avevo dubbi che fosse lui a governare la nave.»

Concluso il lavoro sullo speciale televisivo, il Colonnello sentiva che sarebbe stato un successo, ma non ne avrebbe avuto la certezza fin quando non fosse stato trasmesso.
Quasi subito Elvis iniziò a girare un nuovo film, "Live a Little, Love a Little". La sua relazione con Priscilla era tesa e, secondo alcuni resoconti, lui iniziò a frequentare altre donne.
Per Elvis, il mondo non era un posto amichevole né particolarmente tenero. Il suo unico vero alleato, Priscilla, si stava lentamente allontanando da lui.
Metà dei suoi profitti andavano a qualcun altro e solo Dio sapeva chi riceveva quella seconda commissione del venticinque per cento che il Colonnello aveva voluto.
Elvis sentiva davvero che la sua vita era in pericolo, soprattutto dopo il secondo assassinio dell’anno, quello che aveva eliminato Robert Kennedy dalla campagna presidenziale. Non contava che la polizia avesse accusato dell’omicidio un cecchino solitario, Elvis sapeva che Robert Kennedy era stato nemico di Frank Sinatra fin da quando aveva ingrandito la divisione per la lotta al crimine organizzato del Dipartimento di Giustizia portandola a sessanta membri e aveva ordinato un rapporto che documentasse i presunti legami con la mafia di Sinatra. Quel rapporto di diciannove pagine elencava i collegamenti tra l’artista e dieci capi mafiosi. Fu per le lamentele di Bobby su Sinatra che Jack Kennedy si tirò indietro dalla sua amicizia con l’uomo di spettacolo.
Alla fine dell’estate, Elvis aveva terminato di girare "Un uomo chiamato Charro" ("Charro!"), per il quale si era fatto crescere la barba e aveva interpretato il ruolo di un pistolero. Durante le riprese, fu intervistato sul set da Vernon Scott per la «United Press International». Scott notò che la sua «postura curva e impacciata» era svanita ed espresse sorpresa nel vedere il cantante trentatreenne così in forma. Notò anche che il Colonnello Parker non era presente sul set.
«Si vede raramente [Parker] in pubblico con Elvis» scrisse Scott. «Entrambi vanno per la propria strada.»
Elvis si trovava a Los Angeles, in preparazione per il terzo film dell’anno, "Guai con le ragazze" ("The Trouble with Girls"), quando sua zia, a Graceland, ricevette una telefonata da qualcuno che disse che Elvis era rimasto ucciso in un incidente aereo. La persona al telefono disse che il corpo di Elvis si trovava all’agenzia di pompe funebri Manning-Dunn di Louisville, nel Kentucky. Quando sua zia chiamò, le dissero che non avevano idea di che cosa stesse parlando. Non sapevano nulla di un incidente aereo e di sicuro il corpo di Elvis non era lì. Si può solo immaginare la reazione del cantante quando la zia lo chiamò a Los Angeles: «Caro, mi hanno detto che eri morto».
L’ufficio dell’FBI di Louisville venne coinvolto nel caso e scoprì che una centralinista si era insospettita quando la persona che aveva chiamato le aveva fornito un numero scorretto. La centralinista rintracciò la chiamata in corso e la fece risalire a una cabina telefonica fuori da un supermercato di West Louisville.
Il rapporto dell’FBI definisce la zia di Elvis «estremamente sconvolta» per l’incidente. Sia il dipartimento di polizia di Louisville sia il Federal Bureau tentarono di localizzare la persona che aveva fatto quella telefonata, arrivando al punto di sorvegliare la casa di un sospettato, ma il colpevole non fu mai arrestato.
La gente poteva dire quello che voleva di lui – che era paranoico, che aveva reazioni eccessive a periodi burrascosi – ma Elvis stava ricevendo telefonate moleste e minacce di morte, e quell’anno aveva già visto in due distinte occasioni cosa poteva succedere a figure pubbliche che sfidavano lo status quo. Non è paranoia, se qualcuno sta davvero cercando di colpirti.
Le elezioni di novembre, che videro il repubblicano Richard Nixon sconfiggere il democratico Hubert Humphrey, dovettero lasciare Elvis in uno stato di confusione, perché non aveva modo di sapere che effetto avrebbero avuto su di lui. L’uomo del Colonnello, Lyndon Johnson, stava per lasciare l’incarico, ma aveva nominato Abe Fortas di Memphis affinché rimpiazzasse Earl Warren come presidente della Corte Suprema.
In estate si era discusso sul fatto che il Congresso non avrebbe approvato la nomina di Fortas. Che effetto avrebbe avuto su di lui? Non lo avrebbe saputo finché non avesse visto che cosa sarebbe successo a Fortas. Elvis si sentiva come un animale in trappola.
In un modo o nell’altro il Colonnello venne a sapere che Elvis aveva parlato con Scotty e D.J. di una tournée europea e di una sessione nello studio di Scotty a Nashville. In precedenza, quello stesso anno, Elvis aveva dichiarato ai giornalisti che voleva fare quel tour. Il Colonnello non avrebbe mai permesso che accadesse. Se lui non poteva lasciare il Paese, non lo avrebbe fatto nessuno.
Tornati a Nashville, Scotty e D.J. attesero notizie sul tour.

- fine seconda ed ultima parte -
25/07/2023 17:50
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7. Las Vegas stringe il cappio

Incoraggiato dal successo dello special televisivo della NBC, Elvis si preparò a registrare un nuovo album. La sessione seguente era fissata per gennaio a Nashville, ma questa volta Elvis non voleva registrare il disco lì, probabilmente perché aveva parlato con Scotty Moore di inciderlo nel suo studio. Nessuno sembra sapere perché non proseguì insieme a Scotty: la probabile ragione è che il Colonnello Parker si oppose. Per anni, il Colonnello aveva risposto picche a qualsiasi richiesta che coinvolgesse Scotty o Bill. Marty Lacker, un altro dei ragazzi di Memphis che Elvis aveva conosciuto al liceo, aveva di recente iniziato a collaborare con Chips Moman degli "American Recording Studios". Moman aveva costruito lo studio dopo essersi allontanato dalla famiglia della "Stax Records" e per diversi anni aveva prodotto una serie spettacolare di successi con artisti come Wilson Pickett, Neil Diamond, Dusty Springfield, i Gentrys e B.J. Thomas. Nel 1969, Chips Momam era il produttore più richiesto d’America.
Lacker parlò con Elvis di registrare il suo prossimo disco per la RCA presso lo studio "American Recording", con Chips Moman in qualità di produttore. A Elvis l’idea piaceva: non solo lo sganciava da Scotty, ma lo collegava anche a un produttore noto. Aveva inoltre un altro motivo per incidere a Memphis. Sorprendentemente, nessuno dei dischi che aveva registrato in quella città era mai arrivato in prima posizione. Che un uomo identificato così tanto con la musica di Memphis non avesse mai inciso un album da numero uno proprio lì era motivo di imbarazzo, per lui. A parte ciò, non incideva a Memphis dal 1955 e voleva fare un altro tentativo.
Non fu altrettanto facile per Lacker convincere Moman. Elvis non produceva hit da anni, obiettò il produttore. Perché doveva interrompere il lavoro con artisti che stavano sfornando successi per collaborare con qualcuno che non lo stava facendo? Ci volle un po’, ma alla fine Lacker lo persuase a lavorare con il Re. Il Colonnello Parker era furioso. Invece di andare a Memphis a supervisionare la sessione, inviò Tom Diskin e Freddie Beinstock della "Hill and Range". Il Colonnello nutriva ancora un sano timore per la città e ci andava solo quando era assolutamente necessario.
La rivista «Billboard» prese atto della sessione di Memphis e riuscì a ottenere che un giornalista andasse in studio a intervistare Elvis.
«È qui che è iniziato tutto, per me» affermò il cantante, che non aveva mai permesso a un reporter di entrare in studio con lui (era stato Moman a invitare il giornalista). «È bello tornare a incidere a Memphis.»
Il Colonnello Parker non sapeva nulla di Moman, a parte che era giunto a Memphis in autostop dalla Georgia quand’era adolescente e si era fatto un nome come chitarrista, produttore e giocatore d’azzardo di notevole bravura. Fu quest’ultima dote che il Colonnello avrebbe apprezzato quando Diskin e Beinstock informarono Moman, dopo che erano già state incise numerose canzoni, che Elvis avrebbe dovuto avere una fetta del publishing dei due brani che Moman aveva portato alla sessione. Era una tangente standard in quel campo. A quell’allusione, Moman si stizzì.
«Vi dirò una cosa» fece, correndo il rischio. «Se la pensate così, chiuderò immediatamente la sessione e considererò quei due pezzi dei demo molto costosi.»
Diskin e Beinstock riferirono al Colonnello il messaggio. Moman aveva messo Parker con le spalle al muro. Se avesse sollevato un polverone sulla faccenda, Elvis avrebbe scoperto che il Colonnello intimidiva con le maniere forti publisher e autori delle canzoni per costringerli a cedere i loro diritti, e lui sentiva che Parker avrebbe preferito evitarlo. Anche se il Colonnello avesse insistito e Moman avesse concretizzato la minaccia di andarsene, sarebbe stata per lui una perdita accettabile: aveva altri artisti in attesa di registrare. Avrebbe solo dovuto dire: «Avanti il prossimo».
Ad ogni modo, Elvis venne a sapere quello che stava succedendo. Andò da Momam e gli chiese come potessero risolverla. Il produttore fu diretto: la gente del Colonnello, i publisher, dovevano andarsene dallo studio.
«Consideralo fatto» rispose Elvis.
Di fronte al coinvolgimento del cantante nella disputa, il Colonnello si ritirò dalla partita. Disse a Diskin di lasciar perdere e che si sarebbe assicurato che le due canzoni verso le quali Moman aveva un interesse economico – "Suspicious Minds" e "In the Ghetto" – non uscissero mai. C’era più di un modo per spellare un poveraccio della Georgia. Il Colonnello amava dire: «Non posso impedirti di iniziare, ma posso impedirti di finire».
Chips Moman e Steve Binder furono le uniche due persone ad avere la meglio sul Colonnello in un accordo. Binder ci riuscì superandolo con eleganza sulle specifiche dello speciale televisivo. Moman lo fece superandolo nel bluff – una mossa da giocatore d’azzardo, pura e semplice.
Le sessioni di registrazione all’American finirono per essere le migliori della carriera di Elvis fin dai primi lavori nello studio di Sam Phillips. Da quella sessione nacquero "Suspicious Minds", "Kentucky Rain", "Gentle on My Mind", "Any Day Now" e "In the Ghetto". Per la prima volta nella sua carriera, Elvis aveva un produttore che lo spingeva a dare il meglio. La maggior parte delle tracce fu preregistrata dalla 837 Thomas Street Band di Moman, cosicché quando Elvis arrivò in studio, il produttore dedicò le proprie energie a lavorare con il cantante sulle linee vocali.
«Quando ci si metteva, poteva essere in una giornata buona o cattiva» racconta Moman. «Se era cattiva, era meglio lavorare un altro giorno. Molte persone non comprendono come riuscii a fargli fare così tante registrazioni… gli facevo cantare un pezzo venti o trenta volte, ancora e ancora. Gli chiedevo di ripetere e sistemare piccoli versi che non gli riuscivano. Ma lui lo faceva senza problemi.»
Alcuni membri dell’entourage di Elvis interpretarono la sua collaborazione con Moman come un segno di debolezza e lo rimproverarono per questo.
«Perché permetti a quel tizio di bistrattarti?» chiesero.
Alcuni sembravano considerare l’etica del lavoro di Elvis in qualche modo svilente della loro stessa mascolinità. Il loro comportamento era strano, ma in difesa del cantante va detto che lui li ignorò del tutto.
Priscilla non lo aveva mai visto così emozionato di registrare. Spesso portava a Graceland le cassette con il lavoro della giornata per fargliele sentire. Ascoltavano le canzoni a ripetizione, ed Elvis sottolineava eccitato quello che preferiva di ciascuna.
Scotty Moore, D.J. Fontana e i Jordanaires non furono invitati alle incisioni. Scotty venne a sapere delle registrazioni quando lo lesse sul giornale. Fu una notizia sconcertante, perché aveva aspettato pazientemente che Elvis si facesse risentire per il tour mondiale e l’imminente sessione nel suo studio di Nashville. Ora sapeva che quella sessione non avrebbe mai avuto luogo.
Più avanti, quel mese, giunse notizia che Elvis avrebbe suonato a Las Vegas. Scotty venne contattato per suonare con il cantante, ma quando chiese della tournée mondiale, gli venne detto che non ce ne sarebbe stata una.
Scotty, D.J. e i Jordanaires avevano tutti trovato un lavoro stabile negli studi di Nashville, e filarsela a Las Vegas per un paio di settimane avrebbe voluto dire dover cancellare delle sessioni di registrazioni già in programma. Si riunirono, calcolarono quello che avrebbero perso cancellando quegli impegni se avessero suonato a Las Vegas e poi girarono la cifra al Colonnello. Se li avesse rimborsati di quelle perdite, sarebbero stati felici di andare in Nevada. La reazione di Parker non fu del tutto inaspettata: respinse l’offerta e formò una nuova band guidata dal chitarrista James Burton, un rispettato turnista di Los Angeles.
La delusione per le registrazioni che non si verificarono mai e per il tour mondiale che non divenne mai realtà, e il rifiuto del Colonnello Parker di pagare adeguatamente lui e gli altri per l’ingaggio di Las Vegas provocò una tale frustrazione in Scotty da spingerlo a riporre la chitarra e smettere di esibirsi per ventiquattro anni. Non avrebbe mai più rivisto Elvis.

Quasi subito dopo avere concluso le registrazioni all’American, Elvis iniziò a lavorare a un nuovo film, "Change of Habit", al fianco di Mary Tyler Moore e Ed Asner. Incoraggiato dalla qualità delle sue nuove canzoni, disse al Colonnello Parker che per un po’ non voleva girare altre pellicole. Il suo contratto con la MGM scadeva con "Change of Habit". Sarebbe stato un buon momento per prendersi una pausa e concentrarsi sulla sua musica. Con riluttanza, Parker acconsentì. Promise di fare del suo meglio per promuovere l’imminente impegno a Las Vegas.
In primavera, Elvis non riceveva altro che buone notizie. "In the Ghetto" era entrata nella Top Ten, la prima volta in oltre tre anni, e il suo disco "From Elvis in Memphis" veniva acclamato dai critici come il suo lavoro migliore da anni.
Insieme a questo giunsero notizie dal fronte politico. In maggio, nel bel mezzo di uno scandalo, il giudice della Corte Suprema Abe Fortas fu costretto a dimettersi, in seguito alla pubblicazione di resoconti secondo i quali aveva accettato denaro da un appaltatore della Difesa. Stavano venendo alla luce informazioni sui legami di Fortas con i casinò di Las Vegas e il senatore Robert Griffin del Michigan, che guidava le proteste contro la nomina di Fortas a presidente della Corte Suprema, rivelò che in conseguenza di quell’opposizione aveva ricevuto minacce di morte. In effetti, la situazione era perfino peggiore di quanto apparisse sulla stampa. L’FBI stava indagando su Fortas per un’ampia gamma di crimini, compresi corruzione, intralcio alla giustizia e pratica forense illegale.
Elvis non aveva nessuno con cui parlare davvero di quegli sviluppi, a eccezione del Colonnello Parker, e probabilmente aveva timore di sollevare l’argomento con lui. Elvis era in cima al mondo: la sua musica stava avendo successo, il nuovo presidente sembrava aver strappato le zanne agli squali di Las Vegas, e lui si sentiva di nuovo il rocker di una volta. Così pensò che l’incubo fosse finito.
Per gli standard di Las Vegas, l’Hotel Las Vegas International era una gigantesca mostruosità. Situato in un terreno di sessantatré acri, aveva trenta piani e offriva millecinquecentodiciannove stanze ammobiliate secondo tre stili diversi: spagnolo, francese e italiano. All’ultimo piano c’era una grande sala dove gli ospiti potevano ballare alla musica di un’orchestra, ma il fiore all’occhiello dell’albergo era il salone da esposizione, lo Showroom International, da duemila posti.
L’International era stato ideato dal finanziere Kirk Kerkorian, che aveva raccolto i sessanta milioni di dollari necessari a costruire quello che fu definito «il casinò più grande del mondo». Con mille slot machine, dodici tavoli da craps e trentadue da blackjack, distribuiti su oltre nove chilometri quadrati di superficie, meritava facilmente quel titolo.
L’International era il secondo hotel con casinò posseduto da Kerkorian a Las Vegas. Nel 1967 aveva acquistato il famigerato Hotel Flamingo di Bugsy Siegel per dodici milioni e mezzo di dollari. Kerkorian aveva un passato in affari con la MGM e grazie a quel collegamento conosceva il Colonnello Parker, ma il suo legame più diretto veniva da Alex Shoofey, l’uomo che aveva assunto per dirigere l’albergo.
Shoofey giunse all’International dall’Hotel Sahara, doveva aveva lavorato per Milton Prell, vecchio amico del Colonnello. Las Vegas non era altro che un’enorme famiglia allargata nella quale tutti erano imparentati in un modo o nell’altro attraverso collegamenti precedenti.
Dopo che Elvis aveva comunicato al Colonnello Parker che non voleva realizzare altri film – e nessuno alla MGM o alla Paramount lo supplicò di cambiare idea (i risultati delle sue pellicole al botteghino erano calati drasticamente durante gli anni Sessanta, caratterizzati da una forte coscienza sociale e, più spesso, le nuove uscite venivano relegate nei drive-in) – si recò a Las Vegas per scoprire che tipo di accordo potesse ottenere e se ne andò con un contratto con l’International.
L’inaugurazione ufficiale dell’hotel era fissata per il primo luglio. Shoofey pensò che Elvis sarebbe stato perfetto per lanciare il nuovo albergo, ma il Colonnello Parker non era d’accordo e si oppose. Elvis era ingrassato troppo e aveva bisogno di più tempo per rimettersi in forma. Shoofey chiese al Colonnello che ne pensava di un’apparizione di Barbra Streisand il mese prima di Elvis. A Parker l’idea piacque.
«Facciamo andare prima la ragazza» disse.
Elvis fu ingaggiato per venti giorni, due spettacoli a sera, all’International; la prima esibizione fu fissata per il 31 luglio e sarebbe iniziata alle otto e un quarto. Il secondo spettacolo era previsto per mezzanotte. Insieme a Elvis si sarebbero esibiti il cabarettista Sammy Shore e il gruppo femminile delle Sweet Inspirations.
Mentre Elvis si mise a dieta e fece esercizio nel corso del mese che precedeva l’ingaggio a Las Vegas, rendendo assolutamente sgradevole la vita a Graceland con un’infinita raffica di scatti d’ira, il Colonnello Parker si accampò a Las Vegas, dove percorse la città come aveva fatto infinite volte nel periodo trascorso alla Royal American: affisse migliaia di locandine, attaccandole a pali della luce, edifici e taxi, e fece inserire pubblicità a tutta pagina sui quotidiani locali.
Quando Elvis arrivò a Las Vegas, la settimana prima dell’inizio del suo ingaggio, fu accolto da oltre seimila telegrammi giunti da tutto il mondo. A dargli il benvenuto c’erano anche Frank Sinatra e sua figlia Nancy, che dopo aver raggiunto la prima posizione in classifica nel 1966 con "These Boots Are Made for Walkin’", aveva fatto parecchia strada, per quanto riguardava la carriera, da quando lo aveva accolto a New York al suo ritorno dalla Germania.
Incredibile a dirsi, Priscilla non aveva mai visto il marito in concerto. Lui le chiese di non andare alle prove, quella settimana, in modo da non rovinarsi l’impatto della serata d’apertura. La tennero all’oscuro di quanto si faceva alle prove, ma non poté ignorare il crescente senso d’anticipazione che percepiva in albergo e in città. L’enorme portata dell’incursione pubblicitaria del Colonnello la scioccò.
Elvis sapeva di dover fare bene. Il rock’n’roll era cambiato, da quella calda notte d’estate a Memphis in cui lui, Scotty e Bill lo avevano fatto venire alla luce. A trentaquattro anni, sapeva di non poter competere con i giovani artisti come i Beatles e i Rolling Stones. Molti americani della generazione under trenta quel mese avrebbero partecipato a un enorme festival a Woodstock, New York.
L’ultima volta che Elvis si era esibito a Las Vegas, il pubblico era composto per lo più da trentenni, fino agli ultra cinquantenni; era stato gentile, ma preferiva chiaramente la musica della generazione precedente. Elvis aveva lasciato la città pensando di aver fatto fiasco.
In questo caso, il pubblico apparteneva ancora alla stessa fascia d’età e ancora una volta preferiva la musica della generazione precedente… solo che ora si trattava della musica di Elvis Presley. Las Vegas era finalmente al passo con il Re.

Quando salì sul palco per esibirsi alla serata d’apertura del suo ingaggio, Elvis non sapeva che cosa aspettarsi. La stanza era zeppa di celebrità e giornalisti.
Il cantante disse al pubblico: «È la prima volta che suono dal vivo da nove anni a questa parte e potrebbe essere l’ultima, non so».
Poi si tuffò nel suo repertorio come gli artisti della New Wave si sarebbero in futuro tuffati tra il pubblico. Cantò con abbandono, eseguendo un misto di brani vecchi e nuovi, compresa la sua hit del momento, "In the Ghetto". Era esattamente quello che la gente era venuta a sentire e vedere.
Un reporter dell’«Associated Press» scrisse:
«Ci sono state tutte quelle rotazioni che ricordavamo da quando Presley lanciò se stesso e il rock’n’roll nel 1956. A gambe larghe, ha scosso quella sinistra, ha mosso la testa facendo svolazzare i capelli
come paglia nera, ha roteato la chitarra, poi una spinta finale da un lato, con il corpo che vibrava tutto, come un martello pneumatico».
Per la maggior parte, le recensioni del concerto d’apertura furono estremamente entusiaste.
«Dall’istante in cui Elvis ha iniziato "Jailhouse Rock", scrisse John Carpenter per il «Los Angeles Free Press», «né io né nessun altro dei presenti abbiamo avuto dubbi su chi fosse il grande capo del rock». Robert Christgau scrisse per il «Village Voice» che «… per sedici canzoni, Presley ci ha riunito tutti, fricchettoni scatenati e conservatori stagionati, e tutti abbiamo reagito alla stessa cosa: lui».
In un articolo per il «Chicago Sun Times», Kathy Orloff scrisse: «Elvis è il Re, lunga vita al Re».
«Newsweek» attribuì al Colonnello Parker il successo di Elvis e ipotizzò che l’International lo stesse pagando un milione di dollari per l’ingaggio (una stima sbagliata di circa settecentocinquantamila). La rivista si meravigliò della sua «capacità di resistenza» e commentò che era «difficile credere che avesse trentaquattro anni e non più diciannove».
Dopo il primo spettacolo, Elvis tenne una conferenza stampa, durante la quale gli fu chiesto se volesse fare altri concerti dal vivo una volta terminato l’impegno a Las Vegas.
«Spero davvero di farne» disse Elvis. «È quello che voglio. Vorrei suonare in tutto il mondo.»
Lord Sutch della "Lord Sutch Enterprises" disse a Elvis che era venuto a offrirgli un milione di sterline per un’esibizione di due concerti al Wembley Empire Stadium, in Inghilterra.
«Dovrà chiedere a lui» rispose Elvis, lanciando un’occhiata al Colonnello Parker, seduto lì vicino in un cappotto bianco cosparso di adesivi con la scritta «Elvis in Person».
«Le dispiacerebbe ripetere, per favore?» disse Parker.
Lord Sutch espresse di nuovo la sua offerta.
«Faccia il versamento» replicò Parker.
«D’accordo, me ne occuperò» disse Lord Sutch. Poi si rivolse a Elvis: «Le piacerebbe esibirsi in Inghilterra?».
«Assolutamente sì, dato che abbiamo ricevuto moltissime richieste» rispose il cantante. «E presto, visto che abbiamo ripreso a suonare dal vivo.»
Alla fine della conferenza stampa, il Colonnello Parker si alzò e disse ai giornalisti che ora potevano farsi tutti una foto con Elvis.
«Ma se ci mettete troppo» li avvertì «dovrò farvi pagare gli straordinari».
Dopo i commenti di Elvis sul tour in Europa, il Colonnello Parker iniziò subito a organizzarne uno in America, che avrebbe tenuto troppo impegnato il cantante per fargli pensare di lasciare il Paese.
Se il ragazzo voleva andarsene in giro a mescolarsi con la gente comune, il Colonnello si sarebbe assicurato che lo facesse con la gente comune americana.
Alla fine del mese di concerti, l’International annunciò che gli spettatori erano stati centounomila e cinquecento. Con il prezzo minimo fissato a quindici dollari, significava che l’albergo aveva guadagnato un milione e mezzo di dollari solo dalla vendita dei biglietti ed escludendo gli introiti derivati da casinò, ristoranti e camere prenotate.
Abile stratega come sempre, a metà del periodo d’ingaggio il Colonnello Parker fece sapere a un giornalista di sua fiducia del «The Commercial Appeal» di Memphis che Elvis aveva ricevuto un’offerta di cinque milioni di dollari per dieci anni di contratto da un albergo concorrente. Senza identificare la fonte dell’informazione, il giornale pubblicò un articolo contenente la smentita del Colonnello Parker.
«Siamo felici di come stanno le cose al momento» disse. «I prossimi dieci anni sono un periodo lungo a cui pensare.»
La notizia fu ripresa da «United Press International» e rimbalzò di nuovo a Las Vegas, dove fu pubblicata dai giornali locali. Abboccando allo stratagemma pianificato dal Colonnello, l’International offrì a Elvis un contratto da un milione di dollari per cinque anni, nello specifico con due ingaggi all’anno, ciascuno dei quali di cinquantasette spettacoli. Solo perché il Colonnello aveva venduto l’anima a Las Vegas non voleva dire che non potesse battere in astuzia la città a ogni occasione.
Anche così, comunque era un brutto affare per Elvis. L’International offriva centoventicinquemila dollari a settimana, meno di quello che ricevevano altre stelle importanti quanto lui.
Sottraendo la commissione del cinquanta per cento, metà di quel salario da un milione di dollari l’anno sarebbe rientrata a Las Vegas attraverso il Colonnello, che invariabilmente perdeva ai tavoli da gioco. La morale della favola era che Elvis era diventato uno schiavo a contratto. Per quella schiavitù avrebbe ricevuto cinquecentomila dollari l’anno, tra il cinquanta e il novanta per cento dei quali sarebbero finiti allo Zio Sam in tasse.
Il Colonnello lo aveva fatto passare da cantante di cabaret da cinquantamila dollari l’anno a uno da duecentomila. A Memphis c’erano avvocati e commercialisti che guadagnavano di più preparando dichiarazioni dei redditi.

Tornato a casa, a Memphis, Elvis si rilassò crogiolandosi sotto i raggi del suo successo. L’ingaggio di Las Vegas lo aveva sfinito; per tutto il tempo trascorso lì aveva fatto fatica a dormire. Nei mesi successivi al rientro a Memphis, arrivarono altre buone notizie. "Suspicious Minds", la canzone che il Colonnello aveva cercato di far eliminare dal disco, era giunta in vetta alle classifiche, la prima canzone ad arrivare al numero uno in oltre sette anni.
Quando Elvis tornò all’Hotel International, nel gennaio del 1970, per la prima delle apparizioni previste due volte all’anno, si era deciso di spezzettare gli ingaggi in gruppi da un paio di settimane. Il primo sarebbe iniziato il 26 gennaio e il secondo il 23 febbraio, concedendogli così uno stacco di altre due settimane per riprendere fiato.
«Variety» definì il suo spettacolo «l’essenza del teatro kabuki», riferendosi ai pugni da karateka altamente stilizzati e ai movimenti teatrali sul palco, che sembravano tutti progettati per trasmettere drammaticità alla musica suonata da una band che «Rolling Stone» descrisse come «insipida e professionale».
Alla serata d’apertura era presente Dean Martin, che Elvis omaggiò accennando il suo grande successo "Everybody Loves Somebody". Lo show fece il tutto esaurito come previsto, ma Elvis parve a malapena accorgersene. Eseguiva il compitino senza convinzione. Più di ogni altra cosa, era orgoglioso della propria professionalità.
Ma a chi lo circondava parve preoccupato. Quando parlava al pubblico, tra un pezzo e l’altro, a volte si lamentava di essere ingrassato e di non riuscire più a entrare nei costumi di scena. Altre volte sciorinava ai fans prediche religiose inquiete e sbrigative.
Come promesso, il Colonnello Parker si teneva impegnato organizzando una tournée. Il primo concerto fu a Houston, in Texas, dove aveva fissato per Elvis tre serate allo Houston Astrodome, con due spettacoli ciascuna. Quelle performances, che iniziarono appena quattro giorni dopo la conclusione del secondo periodo di due settimane all’International, resero Elvis esausto e depresso.
Elvis tornò a Memphis e si fece ricoverare all’ospedale Battista per tre giorni, durante i quali venne a sapere di avere un glaucoma all’occhio. Temendo di diventare cieco, cadde in una depressione ancora più profonda. Per gran parte di marzo e aprile passò il tempo per lo più a dormire, lasciando la camera da letto solo per brevi periodi, per giocare con Lisa Marie.
Durante le loro conversazioni telefoniche, il Colonnello lo esortava a tornare in studio per registrare del nuovo materiale. Aveva pubblicato due album dal vivo incisi durante i precedenti ingaggi a Las Vegas, ma la RCA, incoraggiata dal successo di "Suspicious Minds", era impaziente di avere nuovo materiale realizzato in studio.

Quell’estate, il cantante si recò di nuovo a Nashville per incidere i pezzi destinati a un nuovo disco intitolato "Love Letters from Elvis". Tornare all’American Recording Studio di Memphis gli suscitava sentimenti contrastanti. Moman era un supervisore severo ed Elvis non era sicuro che sarebbe stato in grado di fiorire in quell’ambiente in quel periodo della sua vita. Il Colonnello Parker aveva detto chiaro e tondo che era contrario a qualsiasi futura collaborazione di Elvis con Moman.
Quando Elvis tornò a Las Vegas, in agosto, per la seconda parte di impegni dell’anno, si rese conto che non sarebbe diventato cieco e fu alquanto più rilassato. Sfortunatamente, la tregua dalle sue afflizioni emotive fu breve. Circa una settimana prima della conclusione dell’ingaggio, nel primo pomeriggio, il Colonnello Parker ricevette una telefonata al suo ufficio presso l’International. La persona all’altro capo della linea disse che quel weekend Elvis sarebbe stato rapito. Il Colonnello non denunciò la telefonata alla polizia; chiamò invece Gregory Hookstratten, il suo avvocato a Los Angeles. Il giorno dopo, di mattina presto, la moglie di una delle guardie del corpo di Elvis ricevette una telefonata a casa sua, a Los Angeles, da un uomo che disse di voler parlare con suo marito. Disse che la notte seguente Elvis sarebbe stato «ammazzato». Quarantacinque minuti dopo, l’uomo, che parlava con l’accento del Sud, telefonò di nuovo dicendo che il killer aveva una pistola con il silenziatore, definendolo «pazzo». Per cinquantamila dollari in banconote di piccolo taglio, disse, avrebbe rivelato l’identità dell’assassino. Anche questa telefonata fu riferita all’avvocato del Colonnello Parker, che la notificò all’FBI.
Il Bureau inviò a Las Vegas degli agenti e ordinò di proteggere ventiquattr’ore su ventiquattro Priscilla e Lisa Marie, che all’epoca aveva tre anni, presso la dimora dei Presley a Los Angeles. A Elvis fu ordinato di rimanere nella sua stanza salvo durante il concerto.
Quella sera Elvis si esibì come da programma, tranne che per un’imponente forza di sicurezza composta da agenti dell’FBI, addetti alla sicurezza dell’albergo e l’esercito privato di Elvis composto dai ragazzi di Memphis, ben armati. Su richiesta di Hookstratten, John O’Grady, un detective del dipartimento di polizia di Los Angeles con il quale in un’epoca più tranquilla Elvis aveva stretto amicizia, volò a Las Vegas per fargli da principale guardia del corpo. Dell’uomo che aveva telefonato non si seppe più nulla.
Il resto dell’ingaggio all’International si svolse senza incidenti, ma Elvis uscì scosso dall’episodio.

Elvis non aveva nuovi film in programma e si divideva tra dischi e apparizioni pubbliche. Avendo del tempo a disposizione, iniziò a fissarsi sul Colonnello Parker e tutti i guai che il vecchio gli aveva attirato addosso. A Las Vegas aveva appreso che si era sbagliato pensando che le dimissioni di Abe Fortas fossero presagio di fortune a venire. Era ancora vincolato a Las Vegas quanto prima. L’unica differenza era che adesso avrebbe lavorato forse per appena cinquantamila dollari l’anno.
Con l’avvicinarsi delle vacanze, Elvis perse ripetutamente le staffe. Nessuno sopportava di stargli intorno. La sua relazione con Priscilla stava cadendo a pezzi. Lui non apprezzava né se stesso né nessun altro.
Meno di una settimana prima del Natale del 1970, Priscilla entrò in salotto, a Graceland, e sorprese Elvis e Vernon impegnati in un’accesa discussione sul Colonnello Parker.
«Porca puttana, papà, chiamalo e digli che ne abbiamo abbastanza» disse Elvis, secondo quanto scrisse Priscilla nella sua autobiografia. «Straccia quel maledetto contratto e io gli pagherò qualsiasi percentuale gli dobbiamo.»
Vernon gli chiese se fosse sicuro di volerlo fare.
«Certo che sì, cazzo» rispose Elvis.
Furioso, Elvis lasciò Graceland. Senza dire a Priscilla o a Vernon dove stesse andando, guidò fino all’aeroporto di Memphis e, usando il nome Jon Burrows, comprò un biglietto aereo per Washington D.C. All’arrivo si sentiva malato e forse un po’ spaventato, perché era la prima volta che viaggiava da solo, e senza mai lasciare l’aeroporto di Washington comprò un biglietto per Los Angeles.
Durante uno scalo a Dallas, telefonò a Jerry Schilling, un amico che aveva lavorato per lui a Memphis e si era poi trasferito in California per costruirsi una carriera come manager. Gli disse che aveva bisogno del suo aiuto per organizzare un incontro con il presidente Nixon. Schilling era impegnato con un progetto cinematografico, ma era difficile rispondere di no a Elvis e dopo che l’artista ebbe riposato per un paio di giorni partirono insieme per Washington.
Sull’aereo, insieme a loro, c’era il senatore della California George Murphy. Durante il lungo viaggio senza scalo, Elvis finì a parlare con lui e gli disse che si stava recando nella capitale per incontrare il presidente con la speranza di ottenere delle credenziali come agente federale. Disse a Murphy, un repubblicano, che l’abuso di droghe diffuso nell’industria dello spettacolo lo turbava e voleva intervenire in qualche modo.
«Ha un appuntamento?» chiese Murphy.
«No, signore» rispose Elvis.
Murphy gli suggerì di scrivere una lettera al presidente, dicendo che gliel’avrebbe consegnata lui stesso. Incoraggiato dall’interesse del senatore, Elvis scrisse una lettera di cinque pagine indirizzata a Nixon, nella quale spiegava chi era e diceva che desiderava incontrarlo per discutere «dei problemi che la nostra nazione si trova ad affrontare». Disse che voleva offrire volontariamente i propri servigi al presidente.
«Non desidero ricevere un titolo o un incarico fisso» scrisse. «Potrei fare maggiormente del bene, e lo farò, se fossi nominato genericamente agente federale.»
Prima della partenza da Los Angeles, Schilling aveva telefonato a Graceland e aveva informato Vernon e Priscilla dei progetti di Elvis. I due furono d’accordo che avesse bisogno di rinforzi. A incontrarli a Washington fu mandato Sonny West, insieme ad altre cinque guardie del corpo e all’amico di lunga data di Elvis Bill Morris, ex sceriffo della contea di Shelby.
Elvis ottenne l’incontro desiderato con il presidente. Entrando nella Casa Bianca, disse alle guardie dei Servizi segreti che portava in regalo a Nixon una "Colt 45" commemorativa. Gli fu concesso di raggiungere senza problemi lo studio ovale con un’arma. Il presidente posò per farsi fotografare insieme a Elvis e, dopo aver parlato con lui per un po’, accettò di fargli avere un distintivo dall’ufficio del Bureau of Narcotics and Dangerous Drugs (l’agenzia governativa che si occupa di narcotici e sostanze pericolose).
Elvis era euforico. Alla fine dell’incontro, scandalizzò il presidente, che non aveva fama di persona affettuosa, salutandolo con un abbraccio improvviso. Poi lo guardò negli occhi e scoppiò in lacrime.
Incoraggiato dal benvenuto ricevuto alla Casa Bianca, Elvis chiese a Bill Morris di organizzare un incontro simile con il direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover. Dall’albergo, Morris telefonò all’ufficio del direttore, spiegandogli il motivo per cui chiedeva un incontro e dicendo di essere l’ex sceriffo della contea di Shelby a Memphis.
Uno degli assistenti di Hoover lo informò della richiesta con un biglietto e ricordò al direttore che in merito all’insolita istanza dell’artista aveva già telefonato anche il senatore Murphy. Dopo avere riesaminato il fascicolo su Elvis, l’assistente disse: «Malgradola sincerità e le buone intenzioni, senza dubbio Presley non è il tipo di individuo che il direttore vorrebbe incontrare. Al momento è noto che porta i capelli lunghi fino alle spalle e si permette di indossare ogni tipo di abiti insoliti».
L’assistente suggerì invece di organizzare una visita all’edificio per Elvis e il suo entourage, avvertendoli che un incontro con il direttore non sarebbe semplicemente stato possibile.
Elvis tornò a Memphis con quello che voleva: foto pubblicitarie insieme al presidente Nixon, l’attenzione della stampa a livello nazionale in merito all’incontro e, cosa più importante di tutte, credenziali che lo identificavano come agente federale. Negli anni, si è cominciato a considerare quel viaggio una fonte di imbarazzo per la reputazione dell’artista come Re del rock’n’roll. La colpa è stata attribuita a motivi di ogni tipo, dall’abuso di droghe alla presunta avversione verso i Beatles. Ovviamente, interpretazioni del genere sono ingiuste e infondate. L’uso che faceva Elvis di stimolanti e tranquillanti era drasticamente aumentato, in anni recenti, ma incolpare del viaggio sostanze che ne alteravano l’umore è un’esagerazione. Né rappresentano una spiegazione credibile i resoconti che parlano della presunta ostilità nutrita da Elvis nei confronti dei Beatles.
Elvis si sentiva tradito dal Colonnello Parker, che aveva prosciugato metà dei suoi introiti. Era di questo che lui e Vernon stavano discutendo quando Priscilla era entrata nella stanza. Elvis voleva pagare per liberarsi del Colonnello e farlo sparire dalla sua vita. L’idea di scontrarsi con il vecchio spaventava a morte Vernon. Quando quel giorno Elvis lasciò Graceland furioso e se ne andò dritto all’aeroporto, a quanto pare non aveva altro in mente che raggiungere l’unica persona di cui sentiva di potersi fidare: il presidente degli Stati Uniti. Nixon si era opposto alla mafia di Las Vegas e aveva rovinato Abe Fortas. Per come la vedeva lui, il presidente era il solo ad avere il potere di liberarlo dal groviglio in cui ora si trovava invischiato. Mentre il volo di un’ora e mezza da Memphis e Washington si trasformava in un viaggio di diversi giorni, Elvis ebbe il tempo di riflettere sulla faccenda. Non voleva realmente ritrovarsi coinvolto in un’indagine federale, né voleva sul serio mettere nei guai il Colonnello Parker. Quello che desiderava ottenere dall’incontro con Nixon era essere collegato a lui pubblicamente, nonché il distintivo. Magari tutto ciò sarebbe bastato a proteggerlo dai lupi che ululavano alla sua porta.
La gita a Washington rivela che Elvis stava combattendo per sopravvivere. Le recenti minacce di morte e rendersi conto di essere diventato uno schiavo a contratto lo avevano messo sotto stress. Ingollava stimolanti e calmanti, ma non era il pazzoide drogato che è stato descritto. Salire su un aereo, volare a Washington e chiedere di incontrare il presidente e il direttore dell’FBI non vuol dire essere matti: non se si ha come manager il Colonnello Tom Parker.

Mentre Elvis si preparava all’ingaggio di gennaio 1971 presso l’International, il Colonnello Parker era impegnato a organizzare progetti per tenere occupato il suo cliente. Il suo rapporto con Elvis traballava e sentire il cantante parlare con i giornalisti di una tournée di concerti oltreoceano lo turbava.
In quel periodo, Parker ed Elvis comunicarono poco. Non avrebbero potuto avere caratteri più diversi – e i loro personali sistemi di valori erano agli antipodi – ma la loro reazione a quella che stava diventando una situazione insopportabilmente stressante per entrambi fu simile: Elvis si ritirò ancora di più nel mondo in continua espansione delle sue prescrizioni mediche, nutrendo la dipendenza recentemente acquisita con un infido misto di stimolanti e calmanti; il Colonnello Parker si ritirò nell’isolamento di velluto blu del casinò, dove si smarrì alla luce fluorescente del mondo fantastico di Colpo Grosso, alimentando una dipendenza che gli costava quasi ventimila dollari alla settimana. In quel momento delle loro vite, le dipendenze autodistruttive erano forse l’unica cosa che i due avevano in comune.
Mentre si trovava a Las Vegas, il comportamento di Elvis divenne sempre più imprevedibile, e la sua dipendenza dalle droghe si fece evidente a tutti coloro che lo circondavano, compreso il Colonnello, che non alzò mai un dito per porvi fine. Vedeva l’uso di droghe da parte di Elvis esattamente come i proprietari degli strip club consideravano l’uso di droghe da parte delle ballerine: non gliele fornivano, perché sarebbe stato illegale, ma nemmeno le facevano smettere. Un Elvis sotto farmaci faceva bene agli affari; lo teneva lontano dai guai.
Completati i cinquantasette spettacoli all’International, Elvis si ritrovò esausto per lo stress fisico di doversi esibile due volte al giorno e demoralizzato per il deterioramento del suo matrimonio; il Colonnello tuttavia lo spinse a registrare altre canzoni per la RCA e dopo una sola settimana di riposo a Graceland il cantante si recò a Nashville a lavorare sul materiale per un nuovo album.
Elvis trascorse in studio la maggior parte della primavera e dell’estate. Il Colonnello Parker rimase a Las Vegas, dove lavorò nella suite di tre stanze che gli era stata data al quarto piano dell’International. Poi tornò in Nevada a luglio, per un’altra serie di esibizioni, solo che questa volta furono all’Hotel Sahara Tahoe di Stateline. Elvis tenne ventotto concerti, fermandosi spesso, durante le esibizioni, per leggere ad alta voce passi dalle Bibbie che il pubblico gli porgeva.
Appena concluso l’ingaggio al Sahara Tahoe fu ora di ritornare all’International per altri cinquantasette spettacoli consecutivi, solo che l’albergo non si chiamava più così: adesso era il Las Vegas Hilton, essendo stato acquistato da Barron Hilton del prestigioso gruppo di hotel omonimi. All’inizio, Barron Hilton si adirò nell’apprendere che il Colonnello Parker si era trasferito nell’albergo e aveva ricevuto spazio gratuito per l’ufficio, alloggio e servizio in camera. Elvis suonava nell’hotel solo per otto settimane all’anno. Perché il suo manager avrebbe dovuto essere accudito in maniera così prodiga tanto a lungo? Quando gli venne spiegato che Parker non era solo un eccentrico agente di artisti ma anche uno dei migliori clienti del casinò, per qualcosa come un milione di dollari all’anno, Hilton fece rapidamente i conti: l’hotel stava pagando Elvis un milione di dollari l’anno per esibirsi e il Colonnello Parker stava perdendo altrettanto ai tavoli da gioco. Così cambiò idea su Parker e gli stese il tappeto rosso. Se voleva, poteva avere addirittura l’intero quarto piano.
A novembre, il Colonnello Parker aveva fissato una serie di spettacoli unici nei centri civici e negli auditorium da Minneapolis in Minnesota a Tuscaloosa in Alabama. Elvis si esibì con il tutto esaurito e la maggior parte dei critici pubblicò recensioni estatiche.
La rivista «Rolling Stone» scrisse: «La magnificenza della performance di Elvis sta nel fatto di presentarlo come Re… È il solo e unico artista che possa godere di una cosa simile, e noi con lui».
Per la prima volta da anni, nell’ambiente c’era fermento intorno a Elvis. Tra le persone attirate dai profitti economici della risollevata carriera dell’artista c’era Paul Lichter, un giovane imprenditore che aveva conosciuto Elvis e il Colonnello dietro le quinte dello speciale televisivo del ritorno, nel 1968. Lichter era rimasto in contatto con Elvis e il Colonnello, a cominciare dalla serata di apertura dell’artista a Las Vegas nel 1969, quando un amico della RCA Records gli aveva chiesto di consegnare al cantante diversi dischi d’oro. Era una trovata pubblicitaria, ne era consapevole, ma avrebbe fatto girare la sua fotografia nell’ambiente e gli avrebbe fornito un’altra scusa per parlare con Elvis e il Colonnello.
Arrivato all’albergo, il Colonnello Parker gli disse di andare nella sua stanza e aspettare lì la sua telefonata.
«Eccomi per la prima volta a Las Vegas, e piuttosto emozionato di esserci… passai il primo giorno e mezzo nella mia stanza» ha raccontato. «Mi disse che se non avessi risposto alla sua telefonata avremmo chiuso.»
Lichter temeva che avrebbe perso la chiamata se avesse lasciato la stanza. Ordinò il servizio in camera e mentre il casinò ai piani di sotto vibrava di attività e le perfide malie di Las Vegas procedevano a tutta velocità senza di lui, Lichter guardava la televisione seduto vicino al telefono, in attesa che squillasse. Quando finalmente giunse la telefonata, corse di sotto e fu scortato, superendo due guardie armate, in una stanza dove Elvis e il Colonnello stavano tenendo banco con una torma di giornalisti e fotografi. Consegnò i dischi d’oro a Elvis e rimase lì in piedi per due minuti, stringendo mani nel divampare delle luci stroboscopiche, poi fu scortato fuori dalla stanza. Era finito tutto con la stessa rapidità con cui era iniziato.
Più tardi, Elvis lo invitò nella sua suite. Durante la presentazione, Elvis gli aveva chiesto di dov’era e quando lui aveva risposto Philadelphia, al cantante aveva ricordato qualcosa. Voleva una Cadillac station wagon come quella che aveva acquistato Dean Martin e aveva sentito dire che l’unico posto in cui le si poteva trovare era Philadelphia. Pensava che Lichter potesse aiutarlo a comprare l’automobile.
Dopo quell’incontro iniziale – Elvis lo invitò a rimanere all’hotel per un mese, con tutte le spese pagate – Lichter decise di lasciare le imprese di management e tuffarsi nell’impresa Elvis Presley.
Quando il cantante ricominciò ad andare in tour, Lichter si mise in viaggio a sua volta, vendendo per venticinque dollari l’iscrizione al suo nuovo "Elvis Presley Unique Record Club". Per avere fotografie destinate agli iscritti al club e a una rivista bimensile, il «Memphis Flash», assunse una squadra di fotografi che seguisse Elvis in tournée. Gli scattavano foto mentre andava e veniva da luoghi pubblici e Lichter le usava per le sue pubblicazioni.
Il Colonnello Parker non vedeva di buon occhio gli sforzi di Lichter e chiese al suo avvocato di inviargli lettere di minaccia, che il destinatario ignorò. Aveva ogni diritto di scattare foto a Elvis in luoghi pubblici e sapeva che il Colonnello non poteva fare nulla per impedirglielo.
Un giorno, mentre Lichter si stava rilassando nella piscina dell’Hilton, Tom Diskin, che aveva già incontrato in precedenti occasioni, andò da lui e gli disse che il Colonnello voleva parlargli.
«Il suo ufficio era l’intero quarto piano dell’albergo, una cosa che intimidiva di per se stessa» ha raccontato Lichter. «Quando mi recai all’incontro, disse “Tu mi piaci, e mi ricordi me stesso. Non posso impedirti di iniziare, ma posso impedirti di finire”. Lo ringraziai, ma compresi che non stavo facendo nulla di male, così andai avanti.»
Al Dvorin, che aveva fatto la storia del rock’n’roll di quel periodo quando aveva iniziato a scandire i concerti di Elvis con la memorabile frase «Signore e signori, Elvis ha lasciato l’edificio», osservava con spasso le battaglie promozionali tra Lichter e Parker.
«Lichter divertiva il Colonnello» ha riportato. «Un giorno mi disse “Se non lavorassi all’interno, sarei il primo a darmi da fare dall’esterno”.»
Il Colonnello Parker considerava gli imprenditori come Lichter dei contrabbandieri, anche se tecnicamente non lo erano. Scattavano foto in luoghi pubblici e le vendevano alle riviste o in libretti fuori dai locali dove Elvis suonava, sul suolo pubblico. Era tutto completamente legale, ma al Colonnello non piaceva l’idea che altri guadagnassero grazie alla popolarità del suo cliente, soprattutto se lui non riceveva una fetta dei profitti. La prima reazione del Colonnello Parker era far spedire ai contrabbandieri lettere di minaccia dal suo avvocato. A volte funzionava. A volte no.
Con l’espandersi del problema durante i primi anni Settanta, Parker scelse una posizione più difensiva, facendo in modo che prima di ogni esibizione degli annunciatori informassero il pubblico che nel corso dell’evento non sarebbero state permesse fotografie o registrazioni professionali. In seguito, tali restrizioni furono stampate sui biglietti stessi.
La battaglia raggiunse il culmine nel 1975 all’Omni Theater. Come al solito, Lichter aveva piazzato all’esterno i suoi uomini, a distribuire volantini della sua merce su Elvis Presley. All’insaputa di Lichter, Parker aveva assoldato un gruppo di motociclisti come guardie di sicurezza al concerto. I venditori furono strattonati e i volantini gettati per strada. Poi la faccenda si fece brutta: qualcuno sparò.
«Volavano pallottole, bum, bum, bum» racconta Lichter. «Non sto dicendo che fu il Colonnello il responsabile, ma quei motociclisti pazzi che aveva assunto sì, senza dubbio. Perciò la piantammo. I soldi sono soldi, ma i proiettili sono proiettili.»
Nel corso della sua battaglia con il Colonnello, Lichter rimase amico di Elvis e spesso incontrò Parker dietro le quinte o in camerino.
«Non mostrò mai reazioni al fatto che mi stava spedendo quelle lettere» ha spiegato Lichter. «Anni dopo mi disse che non era mai stato lui. Sostenne che fosse stato Vernon.»
Alla considerazione, Lichter si è fatto una risata: «No, era sempre stato il Colonnello, fin dall’inizio».
Dopo la morte di Parker, la sua vedova, Loanne, chiese a Lichter se volesse il fascicolo che il Colonnello aveva preparato su di lui. A quanto risultò, aveva conservato un dossier dettagliato con ritagli di giornali e altre informazioni. Lichter ne rimase impressionato.

All’inizio del 1972 divenne evidente che Elvis stava crollando. Quando il cantante scoprì che da tre anni Priscilla aveva una relazione con Mike Stone, l’istruttore di karate, lei si trasferì a Los Angeles con Lisa Marie. Elvis ebbe una reazione violenta e minacciò di uccidere Stone. Le sue abbuffate emotive furono talmente intense da spaventare perfino le sue agguerrite guardie del corpo. Le sue esibizioni dal vivo vennero criticate per le sue crisi di nervi e le sue lunghe prediche sconclusionate.
Elvis disse al Colonnello Parker di rivolgersi agli avvocati perché inoltrassero la richiesta di divorzio. Sia per Elvis sia per il Colonnello Parker, la vita divenne un completo incubo, con l’artista che si curava con tranquillanti come Quaalude e Percodan e passava lunghi intervalli di tempo senza mangiare. La reazione del Colonnello fu accelerare le registrazioni e il programma della tournée. Era l’ultima cosa di cui aveva bisogno Elvis, ma, per essere corretti nei confronti di Parker, il manager potrebbe avere pensato che mantenere il cantante sotto gli occhi dei fans avrebbe fatto bene al suo equilibrio emotivo.
Nel giro di un mese dalla conclusione dei cinquantasette spettacoli che fecero il tutto esaurito al Las Vegas Hilton, Elvis fu di nuovo on the road. Da aprile fino al primo agosto, quando tornò all’albergo per sessantatré concerti, si esibì quasi costantemente, suonando a Buffalo, Detroit, Dayton, in Virginia, a Indianapolis, in Carolina del Nord, Georgia, Florida, Arkansas, Texas, New Mexico, nello stato di New York, a Milwaukee, a Chicago e nel Kansas.
Ad aprile, quando Elvis aveva cominciato il tour, Barron Hilton si era recato dal Colonnello Parker con un’offerta che non poteva rifiutare. L’hotel gli avrebbe pagato cinquantamila dollari per tre anni per avvalersi dei suoi servizi di «consulente artistico e pubblicitario». In cambio di questo nuovo titolo di consulente, di cui Elvis pare non sia mai venuto a conoscenza – certamente non lo autorizzò mai, come aveva fatto per altri accordi stretti dal Colonnello – Parker accettò di mantenere il cantante sotto contratto con l’albergo per la medesima parcella da un milione di dollari l’anno. Per Elvis era un pessimo affare; altri artisti di Las Vegas guadagnavano molto di più.
In una lettera indirizzata al Colonnello Parker, che stabiliva i dettagli dell’accordo, Barron Hilton disse che apprezzava i suoi sforzi per conto dell’hotel.
«È nostra convinzione che gli sforzi da lei compiuti per pubblicizzare gli Hotel Hilton in tutta la nazione abbiano portato enormi benefici e vorremmo avvalerci dei suoi servigi per aiutarci a sponsorizzare i nostri alberghi in futuro» scrisse. «Siamo ansiosi di stabilire una collaborazione lunga e proficua per ambo le parti con una persona davvero eccezionale.»
Indipendentemente da come Parker e Hilton descrissero il loro piccolo accordo, rappresentava un evidente conflitto d’interessi che un manager facesse da consulente stipendiato a chi ingaggiava il suo cliente. Chiunque abbia dimestichezza con le pratiche commerciali di Las Vegas la definirebbe una bustarella. L’albergo aveva a disposizione Elvis a tariffa scontata e Parker tirava acqua al suo mulino guadagnandoci.
Tenendo banco dal suo ufficio al quarto piano dell’Hilton, il Colonnello rimase sorpreso quando un giorno Alex Shoofey, che era rimasto dopo che l’albergo era passato di mano, gli fece conoscere un promoter giapponese, il quale disse di voler organizzare un concerto nel suo Paese. A queste parole, il Colonnello si irrigidì e replicò che la mattina seguente avrebbe dovuto trovarsi due milioni di dollari sulla scrivania. L’uomo sorrise e gli disse che non c’era problema. Una volta constatato che sarebbe riuscito a ottenere i soldi, il Colonnello disse che non voleva recarsi in Giappone. Quello che voleva in realtà era girare un film. Che ne pensava di dare un milione di dollari a lui per mettere in piedi quel progetto? Il denaro sarebbe andato tutto a lui. Che ne pensava di questo? Ancora una volta, il giapponese acconsentì. Un milione di dollari andava bene. Davanti a un incredulo Shoofey, Parker disse all’orientale di scordarselo. Non era interessato a fare un bel niente fuori dai cari vecchi Stati Uniti. Alla fine, Shoofey accompagnò fuori dall’ufficio il perplesso gentiluomo giapponese.

Con l’avvicinarsi del 1973, il Colonnello Parker organizzò un’agenda fitta per Elvis, a partire da gennaio, con la trasmissione dal vivo via satellite di Elvis, "Aloha from Hawaii", che si stimò fosse vista da un miliardo e mezzo di persone. Gli era venuta l’idea di un concerto di novanta minuti alle Hawaii mentre stava guardando la visita del presidente Nixon in Cina, trasmessa via satellite. Osservando Nixon accolto dai suoi ospiti cinesi, di fronte al pubblico televisivo di tutto il mondo, gli si accese una lampadina e, da manager qual era sempre stato, pensò «Elvis… satellite… Hawaii».
Lo show fu un successo gigantesco e per la prima volta mostrò Elvis al pubblico di Giappone, Thailandia, Estremo Oriente, Cina e Australia. Solo nel Paese del Sol Levante, lo spettacolo catalizzò il novantotto per cento di share televisivo. Il giorno seguente, la registrazione del concerto fu rimandata in onda in ventotto nazioni europee.
Ancora una volta, il vecchio, scaltro Colonnello (ormai sessantatreenne) fece la storia, stavolta cogliendo l’enorme potenziale pubblicitario della nuova tecnologia. Se la rete internet fosse esistita allora, senza dubbio l’avrebbe utilizzata in modi nuovi e creativi per promuovere la carriera del cantante. Qualunque fossero i suoi difetti, di sicuro aveva talento per questo.
Nel giro di una settimana dal concerto alle Hawaii, il Colonnello mandò Elvis a Las Vegas a fare le prove per una serie di cinquantaquattro esibizioni al Las Vegas Hilton. Alla fine dell’ingaggio, Elvis chiese al Colonnello del tempo libero: era fisicamente ed emotivamente esaurito. Parker gli suggerì di andare a ricaricare le batterie a Memphis per quattro settimane.
Nel frattempo, organizzò un programma di concerti senza sosta, a partire da un’esibizione a Phoenix, in Arizona, in aprile, per continuare fino a giugno. Prima della fine dell’anno, Elvis si sarebbe esibito centosessantanove volte in venti città. Sarebbe stato un programma pesante per un giovanotto in buona salute, ma per il trentasettenne Elvis in quelle condizioni fisiche fu straziante e al limite dell’abuso da parte del manager.
Mentre Elvis era in tournée, il Colonnello Parker mise in atto una nuova trama. Il primo marzo 1973 firmò una misteriosa serie di accordi con la RCA Records, vendendo alla casa discografica le registrazioni originali di Elvis e i diritti su tutte le royalties derivate, in quello che viene solitamente definito «contratto di acquisizione». È un accordo che i manager siglano di solito per gli artisti che si stanno ritirando e non si aspettano di vivere abbastanza da godere dei proventi derivati dal piano delle royalties effettivo in quel momento. Oppure per chi non ha eredi a ricevere le royalties pagate dopo la sua morte. Era un modo per chiudere il capitolo Elvis Presley.
Gli accordi furono venti in tutto. Il primo impegnava Elvis a un nuovo contratto discografico di sette anni con la RCA Records. Il suo attuale contratto sarebbe durato ancora due anni, e il motivo per firmarne uno nuovo non si è mai capito del tutto. Il secondo accordo trasferiva i diritti delle registrazioni originali di Elvis e le sue royalties alla RCA Records per cinque milioni di dollari.
Il terzo accordo era tra la RCA, Elvis Presley e "All Star Shows", la compagnia che il Colonnello aveva fondato per sfruttare le possibilità di merchandising legate alla carriera del cantante. Secondo i termini di quel contratto, la RCA acconsentiva a pagare a Elvis e alla "All Star Shows" centomila dollari allo scadere del nuovo contratto discografico di sette anni.
Il quarto accordo era tra la RCA, la RCA Record Tours (la compagnia che aveva assunto la futura moglie di Parker, Loanne) e la "All Star Shows". Secondo i termini di quel contratto, la RCA accettava di utilizzare il Colonnello Parker «nella pianificazione, nella promozione e nel merchandising» dei tour concordati con Elvis Presley. Per quei servizi, la RCA avrebbe versato alla "All Star Shows" 675.000 dollari, con 75.000 pagabili il primo anno e 100.000 a ogni successivo anno. In più, la RCA Records Tour accettò di dare alla "All Star Shows" 675.000 dollari pagabili secondo lo stesso piano delineato dalla casa discografica.
Il quinto accordo, firmato dalla RCA, dalla "All Star Shows" e dal Colonnello, stabiliva che la prima avrebbe pagato alla seconda 50.000 dollari nel corso di cinque anni per i servigi di Parker.
Elvis firmò il contratto, ma non ne ricavò alcun vantaggio economico.
Il sesto accordo fu tra la "All Star Shows" e la RCA Record Tours e stabilì che la prima era vincolata a fornire i servigi del Colonnello Parker per assistere la seconda nella pianificazione e nella promozione dei concerti organizzati secondo l’accordo riguardante i tour. Per quelle prestazioni, la RCA Records accettò di versare alla "All Star Shows" 350.000 dollari, pagabili nel corso di sette anni, 50.000 dollari l’anno.
L’effetto complessivo dei sei accordi fu che Elvis Presley ricevette in totale 4.650.000 dollari e il Colonnello Parker 6.200.000, con un ulteriore 10% che gli sarebbe stato versato dagli utili netti dei concerti organizzati dalla RCA Records Tour.
All’epoca, Elvis rientrava in una fascia di reddito che pagava il 50% in tasse, il che significava che dall’acquisizione del lavoro di tutta la sua vita il cantante ricavò 2.325.000 dollari.
La posta in gioco era il catalogo delle oltre 700 canzoni da classifica di Elvis, che avrebbero fornito quasi certamente una rendita vitalizia.
Fu uno spudorato tradimento dei migliori interessi a lungo termine dell’artista. Elvis siglò alcuni dei documenti, ma nulla indica che comprese quello che stava firmando.
L’anno seguente, Parker strinse un altro strano accordo con la RCA. Secondo i termini di quel contratto, la RCA accettava di distribuire un disco intitolato "Having Fun on Stage with Elvis", inciso per l’etichetta di Parker, la "Boxcar Enterprises". Il contratto prevedeva un anticipo di 100.000 dollari, pagabili a Parker, e royalties di cinquanta centesimi ad album. A quanto pare, Elvis non ricevette nulla di
quell’anticipo. Con quegli accordi, il Colonnello Parker trattava il cantante come se fosse già morto e sepolto, e come se non avesse eredi che avrebbero potuto beneficiare della sua eredità.
Quando gli fu chiesto del contratto di acquisizione tra la RCA e il Colonnello Parker, Jean Aberbach, che lavorava per Freddie Beinstock alla "Hill and Range", disse allo scrittore Albert Goldman che la vita di Parker, a quel punto, era ormai controllata dalla sua dipendenza dal gioco d’azzardo. Aberbach, che aveva uno stretto rapporto d’affari con il Colonnello, dichiarò:
«Fu costretto a fare molte cose che altrimenti avrebbe potuto non fare. Fu costretto a muoversi in direzioni che non avrebbe percorso altrimenti».
Per quanto riguardava l’acquisizione, Aberbach disse che «di sicuro quadrava con il bisogno di trovare denaro, perché ci sono persone con le quali non è possibile rimanere in debito».

- fine prima parte -
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[Modificato da marco31768 26/07/2023 17:12]
26/07/2023 17:05
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- seconda parte -
- continua -

Il 1973 non fu solo un anno cruciale nella carriera di Elvis, fu anche un punto di svolta per il crimine organizzato. L’Hotel Flamingo si dichiarò colpevole di legami clandestini con il mafioso Meyer Lanksy. Tre anni dopo l’FBI avrebbe fatto irruzione allo Stardust in cerca di prove di un collegamento con la mafia. La vecchia leggenda che la mafia fosse stata sradicata da Las Vegas non era altro che quello: una leggenda.
La città era cambiata radicalmente da quando il Colonnello Parker aveva valutato per la prima volta il suo potenziale nel campo dello spettacolo, negli anni Quaranta, quando faceva da manager al cantante country Eddy Arnold. All’epoca, Las Vegas era poco più che una fermata dell’autobus per i figli devoti del Selvaggio West. Fu solo quando il Flamingo aprì, nel 1947, sotto la guida del mafioso Bugsy Siegel, che il crimine organizzato strinse la città in un morsa.
Nel corso degli anni Cinquanta i Teamsters investirono milioni di dollari con la mafia di Chicago, che li incanalò a Las Vegas, di solito attraverso Meyer Lansky, per finanziare la costruzione di nuovi casinò. Verso la fine degli anni Sessanta, quando Howard Hughes iniziò a comprare casinò dagli investitori collegati alla mafia, girava voce che l’imprenditore avesse messo fuori gioco la mafia. Niente avrebbe potuto essere più lontano dalla verità. Anche se la mafia aveva venduto a Hughes, i saggi ragazzi che guidavano le operazioni rimasero nei casinò. Il vero guadagno della gestione di un casinò era sempre consistito nei soldi ricavati facendo la cresta sui proventi di ogni serata e poi consegnati in sacchetti di carta marrone ed esentasse ai boss mafiosi. Negli anni Settanta, a cambiare fu il modo in cui il denaro veniva gestito. Al posto dei sacchetti di carta marrone vennero i conti bancari off shore.
L’obiettivo era il medesimo: salvaguardare enormi depositi in contanti dagli sguardi indiscreti degli Fbi e dei procuratori federali. Una volta che il denaro era stato depositato nelle banche off shore,poteva essere incanalato di nuovo in affari legali gestiti dalla mafia per mezzo di trasferimenti legali come assegni e vaglia.
Per indagare sull’utilizzo delle banche off shore operato dal crimine organizzato e altri cosiddetti reati da «colletti bianchi», il Dipartimento di Giustizia organizzò un’enorme operazione segreta chiamata Strike Force. Gli investigatori di almeno nove città ne facevano parte: New York, Miami, Jacksonville, Memphis, Boston, Houston, Milwaukee, Indianapolis e Charlotte nella Carolina del Nord.

- continua -
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28/07/2023 18:42
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- seconda parte -
- continua -


All’inizio, quattro uomini attirarono l’attenzione della Strike Force: Nigel Winfield, Lawrence Wolfson, Frederick Pro e Philip Kitzer, che si credeva fossero collegati alla Fratellanza, The Fraternity, un’organizzazione segreta senza una struttura rigida, composta da circa trenta-quaranta tra i migliori truffatori al mondo. Comunicavano gli uni con gli altri via telefono, telex, posta e visite personali allo scopo di fornirsi aiuto a vicenda in varie truffe e speculazioni remunerative.
Per diversi anni, l’FBI aveva tenuto d’occhio le attività di Wolfson con le famiglie mafiose di New York e New Jersey. Alla metà degli anni Settanta, Wolfson, cinquantotto anni, si era trasferito a Miami, dove, secondo un articolo pubblicato sul «Miami Herald» del 15 dicembre 1977, fu visto al Miami Heart Institute incontrare Sam «l’Idraulico» DeCavalcante, ritenuto capo della famiglia mafiosa del New Jersey, e Sebastian «Buster» Aloi, membro della famiglia criminale di Joseph Columbo, di New York. Dei quattro, era Frederick Pro ad avere il passato più interessante. Veterano delle forze armate, un tempo aveva studiato per diventare sacerdote nel seminario di St. Charles a Landsdowne, in Pennsylvania.
Nella primavera del 1976, Winfield ricevette una soffiata, quasi certamente da qualcuno vicino a Elvis e venne così a sapere che l’artista possedeva un Lockheed Jetstar che non veniva utilizzato. I tentativi di vendere l’aeromobile, gli venne detto, non avevano avuto successo. Dato che doveva ancora seicentomila dollari per il velivolo, Elvis era ansioso di farci qualcosa.
L’anno precedente, Vernon si era occupato di far comprare a Elvis un lussuoso Boeing 707 che un tempo era appartenuto al finanziere fuggitivo Robert Vesco, poi indagato per cospirazione allo scopo di congelare un’indagine della Commissione per i titoli e gli scambi sulle sue finanze. Elvis versò un deposito di settantacinquemila dollari per l’aereo e dichiarò ai giornalisti che l’avrebbe utilizzato per gli imminenti voli d’affari in Europa e nell’Estremo Oriente. Poco dopo il compimento dell’accordo, Elvis ricevette un telegramma anonimo da Panama con la minaccia di dirottare l’aereoplano. Quella minaccia, unita al sequestro del velivolo da parte delle autorità del New Jersey incentivarono Elvis a ritirarsi dall’affare.
Diversi mesi dopo, Elvis acquistò un aeroplano a turboelica Gulfstream, valutato un milione e duecentomila dollari, per regalarlo al Colonnello Parker, e un Conair 880 da centonove passeggeri per se stesso. Il Gulfstream fu consegnato a Parker, che non amava volare e lo vendette subito. L’omaggio fu descritto come un gesto di buona volontà, ma più probabilmente fece parte dell’accordo d’acquisto del Conair 880. All’epoca, il Colonnello aveva ormai detto a Vernon che se lui ed Elvis avessero mai smesso di collaborare, il cantante sarebbe stato in debito con lui di una somma considerevole in commissioni non pagate. Molto probabilmente Elvis comprò il Gulfstream a un prezzo scontato. Dato che veniva valutato un milione e duecentomila dollari, avrebbe potuto sostenere che quella cifra, e non il prezzo effettivo, fosse un pagamento per i suoi debiti con Parker.
Siccome in anni recenti Winfield aveva parlato con Vernon Presley in merito alla vendita di altri velivoli (verosimilmente durante le trattative per il Gulfstream, il Conair e il Boeing 707), gli telefonò e gli disse che voleva presentargli un uomo che poteva risolvere i suoi problemi con la Tristar. Quell’uomo era Frederick Pro.
Per come lo descrisse Winfield durante la chiamata, sembrava un buon affare. Il 24 giugno 1976, Winfield, Pro, Wolfson e altri tre uomini volarono a Memphis per incontrare Vernon e due degli avvocati di Elvis a Memphis, Beecher Smith e Charles Davis. Secondo i termini dell’accordo di vendita-affitto proposto dagli uomini, sarebbe avvenuto quanto segue: loro avrebbero acquistato da Elvis il Jetstar prendendo in prestito il denaro sufficiente dalla Chemical Bank di New York per saldare il debito di 600.000 dollari, e avrebbero fatto apportare migliorie al velivolo alzandone il valore a quasi un milione di dollari. Poi lo avrebbero affittato nuovamente a Elvis per sette anni alla cifra mensile di sedicimila e settecentocinquantacinque dollari. In cambio, Elvis avrebbe subaffittato loro il velivolo per diciassettemila e settecentocinquantacinque dollari al mese, così il cantante avrebbe guadagnato mille dollari al mese.
Il giorno dopo, Vernon accettò l’offerta. Pro prese le chiavi del Jetstar e partì per New York. Subito dopo il decollo, Pro contattò Kitzer sul telefono terra-aria del velivolo per fargli sapere che sulla
faccenda dell’aereo aveva fregato Elvis. In precedenza Kitzer aveva detto a Pro che ottenere l’aeromobile sarebbe stata una «missione impossibile».
Pro rinfacciò a Kitzer quella che secondo lui era la più grande truffa del mondo e gli disse che per completarla avrebbe avuto bisogno di usare le sue banche off shore. Non fu mai chiarito il motivo per cui era così importante ottenere il Jetstar ma, tenuto conto dei soggetti coinvolti, senza dubbio non fu per guadagnare dalla somma di denaro relativamente piccola messa in campo.
A ottobre per Beecher Smith fu chiaro che Vernon era stato preso in giro. Smith lesse un articolo del «Wall Street Journal» secondo il quale l’FBI stava indagando sui collegamenti tra il crimine organizzato e numerose banche off shore. Uno degli istituti bancari menzionati nel pezzo era il Mercantile Bank and Trust di Kitzer.
Smith conosceva la banca perché Pro aveva emesso assegni da quella banca per alcune delle spese collegate all’affare del Jetstar. Armato di quell’informazione, Smith si recò nell’ufficio del procuratore federale a Memphis, facendo così avviare un’indagine dell’FBI sugli uomini coinvolti nel raggiro del Jetstar.
All’insaputa di Smith, lui e Vernon erano incappati ignari nel bel mezzo di un’indagine della Strike Force. Quando gli agenti del Federal Bureau of Investigation si recarono a Graceland, nell’ottobre 1976, per interrogare Elvis e Vernon in merito alla truffa, il cantante, che era stato in tour per la maggior parte dell’anno, mostrò loro il distintivo che Nixon gli aveva dato e si offrì di aiutarli come poteva.
Gli agenti gli chiesero dei loro contatti con Pro e gli altri, ma non rivelarono mai a Elvis e Vernon che si erano trovati coinvolti in un’investigazione sul crimine organizzato a livello mondiale.

Nella primavera del 1977 Elvis e il Colonnello Parker erano in conflitto aperto. Il «The Nashville Banner» pubblicò un articolo secondo il quale il Colonnello era pronto a vendere il contratto di management di Elvis. Citando fonti vicine al cantante e non ben identificate, il giornale affermava che Parker avesse preso quella decisione per ragioni «di salute ed economiche». Si disse che certi «imprenditori» della costa occidentale avevano espresso interesse per il contratto.
«Il Colonnello non è necessariamente in bancarotta» sosteneva la fonte. «Ha solo bisogno di un po’ di denaro, tipo un bel milione o giù di lì, la cifra che ha perso solo a dicembre.»
Il giornale affermò che il Colonnello avesse chiuso gli uffici a Los Angeles e Las Vegas e stesse reindirizzando tutte le richieste d’affari a quello nel garage di Madison. Il reportage era coerente con quello
che Sam Thompson, guardia del corpo di Presley, raccontò agli autori Charles Thompson e James Cole. Quella primavera il Colonnello gli aveva detto che avrebbe venduto il contratto di management perché Elvis «portava parecchi guai… e stava diventando un problema più grande di quanto valesse».
Parker smentì sia il servizio del giornale sia le affermazioni di Thompson, ma se era vero che le sue perdite mensili al gioco d’azzardo erano cresciute fino a un milione di dollari, come riportato dal «The Nashville Banner», allora era probabilmente sul punto di perdere la sua parte del contratto di management con Elvis. Se fosse successo, a quel punto l’unica maniera in cui avrebbe potuto spiegare perché non era più coinvolto nella rappresentanza del cantante sarebbe stata «vendere» quel contratto a chi deteneva la rimanente quota del venticinque per cento.
A metà estate, Elvis era un assoluto disastro. Pesava quasi centodiciotto chili e il suo aspetto sconvolse i fans e chi non lo vedeva da qualche anno. Entrava e usciva dagli ospedali per una serie quasi ininterrotta di malattie. Dato che si stava curando per depressione e ansia – il suo medico personale, il dottor George Nichopoulos, gli prescrisse ottomila e ottocentocinque pastiglie di anfetamine, sedativi e narcotici i primi sette mesi dell’anno, secondo una successiva indagine della polizia – durante le sue apparizioni pubbliche spesso parlava biascicando e il suo comportamento sul palcoscenico divenne sempre più imprevedibile e interrotto da riflessioni senza senso di tenore religioso.
Nonostante le sue condizioni, quell’anno il Colonnello Parker gli fissò cinquantacinque esibizioni dal vivo. Dato che i concerti producevano un incasso di oltre centomila dollari l’uno, ciò andava a sommarsi al guadagno di cinque milioni e mezzo, spese e tasse escluse. Il Colonnello lo fece viaggiare quasi ininterrottamente da metà febbraio fino alla fine di giugno, quando concluse il tour con un’esibizione alla Market Square Area di Indianapolis, nell’Indiana.
Dopo il concerto, Elvis e diversi altri componenti del gruppo si ammalarono e passarono la notte in ospedale. A Graceland, Presley tentò di riprendersi. Era gravemente malato, ma continuò ad assumere pastiglie dimagranti per perdere peso. Passò la maggior parte di luglio a dormire, lasciando di rado la camera da letto. All’inizio di agosto si rimise in sesto abbastanza a lungo da andare al parco di divertimenti Libertyland per partecipare a una festa privata per Lisa Marie. Un paio di giorni dopo prese parte a una proiezione privata del nuovo film di James Bond, "La spia che mi amava", in un cinema di Memphis. Fu visto con un’arma automatica PK Walther, ma non era una cosa insolita: portava quasi sempre con sé un assortimento di pistole, che nascondeva sotto la giacca, nelle tasche e negli stivali.
Di tutto quello che Elvis aveva per la testa – la salute che peggiorava, il libro-verità pubblicato di recente da tre delle sue ex guardie del corpo, il divorzio da Priscilla e l’incapacità di sistemarsi in un’altra relazione, il monotono programma di concerti, i litigi con il Colonnello – a preoccuparlo di più era probabilmente l’indagine della Strike Force, che procedeva a passo di lumaca. Diversi mesi prima erano stati mandati a New York con Phillip Kitzer due agenti sotto copertura, che si fingevano scagnozzi della malavita. Con quella copertura, che sembrava uscita dai film di James Bond che Elvis amava tanto, i tre presero un volo della National Airlines da Miami a New York. I tre non sedettero vicini sull’aereo, non si parlarono né mostrarono di conoscersi. Arrivati a New York portarono avanti lo stesso trucco e si registrarono all’Hotel Mayflower, dove i due agenti sotto copertura si separarono da Kitzer e incontrarono un agente dell’Fbi. Kitzer portò i due in un’altra camera dell’albergo, dove conobbero Frederick Pro. A quest’ultimo Kitzer disse che i due uomini erano «ragazzi che era utile conoscere» e sarebbero riusciti a risolvere qualsiasi problema che Pro avesse con «la squadra», intendendo le famiglie mafiose di New York e del New Jersey. Fu durante quell’incontro che Pro rivelò la portata delle operazioni a livello mondiale e scherzò su come avessero «fregato» Elvis ottenendo il suo Jetstar.
In base alle conversazioni che si svolsero al Mayflower, tutte registrate dall’agente dell’FBI, i direttori della Strike Force conclusero che sarebbero riusciti a portare il caso Pro-Kitzer-Wolfson di fronte al procuratore federale di Memphis perché venisse aperto un procedimento penale.
I fascicoli dell’FBI non indicano quante informazioni vennero trasmesse a Elvis e Vernon, ma quasi certamente vennero avvisati che i procuratori sarebbero presto comparsi di fronte alla giuria per chiedere il rinvio a giudizio. In quel momento avrebbe potuto rendersi necessario che entrambi testimoniassero di fronte alla giuria. Di sicuro, al processo stesso sarebbe stata necessaria la loro testimonianza.

Dato che il successivo concerto di Elvis in programma sarebbe stato a Portland, in Maine, il 17 agosto, il Colonnello Parker vi si recò in anticipo per sistemare i materiali pubblicitari. Aveva sempre creduto fermamente nel valore economico delle licenze di vendita ai concerti. Assegnava più valore alle chincaglierie smerciate durante gli eventi che ai contenuti musicali dell’esibizione.
Il 15 agosto, Elvis trascorse del tempo con Lisa Marie, che era passata per una breve visita, ma quando la bambina andò a dormire lui rimase alzato tutta la notte a giocare a racquetball con la sua ragazza del momento, Ginger Alden. Alle sei del mattino del 16 agosto, in casa erano andati tutti a dormire tranne Elvis e Alden; lei gli disse di averne abbastanza e che si sarebbe messa a letto. Elvis disse che non era pronto ad andare a riposare. A quanto pare, l’ultima persona a vederlo quel mattino fu Alden. Andando a letto, lo vide dirigersi in bagno.
«Non addormentarti» disse lei.
Più tardi, quel pomeriggio, il Colonnello Parker ricevette una telefonata nella sua suite d’albergo a Portland: Elvis era morto.

- fine capitolo 7-

[Modificato da marco31768 04/08/2023 14:40]
04/08/2023 14:39
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8. Il Re è morto: lunga vita al manager

Mentre Elvis veniva portato di corsa all’ospedale Battista, l’assistente del procuratore federale Hickman Ewing si trovava presso la corte federale di Memphis per perseguire il boss dei nightclub topless con
l’accusa di possesso di cocaina e armi da fuoco. Una delle principali notizie dei giornale del mattino aveva riguardato il processo. Trattandosi di sesso, pistole e droga, il pubblico aveva dimostrato un notevole interesse. I cittadini di Memphis parevano incapaci di credere che qualcuno potesse insinuare che delle donne, delle brave donne della loro città, si fossero spogliate a pagamento. Una cosa
simile non era possibile che accadesse nella loro Memphis, sostenevano, e di certo non vicino alla casa del Re, dimostrazione ulteriore che uno dei prerequisiti necessari per vivere in una metropoli con la lungimiranza di autodenominarsi Bluff City, era la capacità di negazione.
Per il biondo Ewing, divenuto celebre negli anni Novanta come capo del procuratore speciale Kenneth Starr nell’indagine su Whitewater in Arkansas, Baldwin, con i suoi capelli scuri e la parlantina persuasiva, era la più evidente rappresentazione del male.
«Durante una pausa, intorno alle tre del pomeriggio, qualcuno entrò nell’aula di giustizia e disse che avevano portato Elvis in ospedale e che era morto» ha ricordato Ewing. «Baldwin, che non mi aveva mai
rivolto la parola in tutta la sua vita, venne da me e disse “Beh, signor Ewing, detesto menare gramo al vecchio Elvis, ma almeno per qualche giorno distoglierà l’attenzione pubblica su di me”… e così
fu. Qualche giorno dopo, la giuria lo dichiarò colpevole».
Ewing non lo diede mai a vedere a Baldwin, ma le autorità federali furono prese alla sprovvista dall’improvvisa morte di Elvis. Ewing era coinvolto nel caso Jetstar e nel giro di qualche settimana il suo ufficio sarebbe comparso di fronte alla giuria per il rinvio a giudizio.
Dopo essere stato informato della morte di Elvis, il Colonnello Parker telefonò subito a Vernon Presley. Gli disse che sarebbe arrivato a Memphis per il funerale, ma che prima di farlo avrebbe dovuto sbrigare alcuni affari. I due avrebbero dovuto collaborare per assicurarsi che gente senza scrupoli non tentasse di lucrare sulla morte del cantante. Si potevano fare ancora un mucchio di soldi e sarebbe stata un’orribile vergogna se la famiglia ci avesse rimesso nel momento del lutto.
Prima di lasciare il Maine, Parker telefonò alla RCA e si mise in contatto con i dirigenti. Alla luce del decesso di Elvis, avrebbero dovuto delineare nuovi accordi promozionali e di marketing. Un mese dopo, Parker ricevtte il contrto presso la All Star Shows a Madison: la RCA avrebbe conservato i servigi del Colonnello almeno fino all’ottobre del 1979 pagandolo 675.000 dollari.
Temendo che venditori non autorizzati ma rapidi capitalizzassero sul nome di Elvis Presley, Parker chiamò Harry «l’Orso» Geissler, il ricco faccendiere la cui compagnia, la Factors, si era fatta un nome
vendendo prodotti legati a Star Wars, Farrah Fawcett e Sylvester Stallone. Parker e Geissler strinsero un accordo telefonico e il giorno seguente il Colonnello volò a New York per ottenere il contratto, che
comprendeva un anticipo di centomila dollari alla firma, poi si recò dritto a Memphis.
Elvis era morto da meno di ventiquattr’ore e il Colonnello aveva già guadagnato 750.000 dollari. Era in un momento di grazia.
La mattina del 17 agosto 1977, la grande novità a Memphis era la morte di Elvis Presley. «La morte ruba la corona del rock’n’roll» si leggeva nel titolo in prima pagina dell’edizione mattutina di «The
Commercial Appeal». Il giornale citava le parole del medico personale di Elvis, il dottor George Nichopoulos, secondo cui l’artista quarantadueenne era probabilmente morto per un attacco di cuore, ma la causa precisa del decesso non sarebbe stata nota finché non fosse stata completata l’autopsia.

La cugina di Elvis, Donna Presley Early, si trovava nella camera da letto della nonna con lo zio Vernon e altri due parenti, quando il Colonnello Parker entrò con addosso un berretto da baseball, pantaloni khaki e una camicia hawaiana a fiori. Si stavano consolando a vicenda, soprattutttto la nonna, Minnie Mae, che Elvis aveva soprannominato «the Dodger», la furbastra.
La famiglia stava scegliendo le canzoni per il funerale. «Il Colonnello Parker era presente, ma non aveva molto da dire» ha raccontato Early. «Non era tipo da rivelare le proprie emozioni, perciò non piangeva per niente, ma era evidente che fosse turbato.»
Al contrario, Vernon era sconvolto e spaventato. «Hanno ucciso mio figlio» ripeté più volte. «Hanno ucciso mio figlio.»
Chiesero al Colonnello Parker di portare la bara, ma lui rifiutò, dicendo che essendo stato in viaggio non aveva i vestiti adatti. Nessuno gli suggerì di andare a comprare quello che gli serviva in un negozio di Memphis.
Durante la veglia, Parker parlò a Vernon del contratto con la Factors e gli disse che avrebbe avuto bisogno dell’autorizzazione a continuare a rappresentare gli interessi degli eredi di Presley. Non è chiaro quando Vernon firmò le carte con la Factors, ma i documenti del tribunale mostrano che l’accordo divenne effettivo il 18 agosto, il giorno del funerale.
Alla cerimonia funebre Parker indossò lo stesso berretto da baseball, la stessa camicia hawaiana e gli stessi pantaloni kakhi. Sua moglie Marie non si recò a Memphis per partecipare, ma centinaia di fans e di celebrità lo fecero, compresi il cantante soul James Brown, Caroline Kennedy, Ann-Margret, George Hamilton, Sammy Davis Jr., Chet Atkins e il governatore del Tennessee Ray Blanton, che stava per entrare nel mirino di un’indagine del Dipartimento di Giustizia condotta da Hickman Ewing.
La settimana dopo, «Newsweek» dedicò al musicista un servizio di quattro pagine. Lo definì «più di una superstar pop» e disse che aveva cambiato per sempre il corso della musica popolare.
Considerate le orde di fans calate su Memphis, la rivista scrisse che il Colonnello Parker aveva fatto in modo che davanti a Graceland degli ambulanti vendessero magliette di Elvis Presley a cinque dollari l’una. Una casalinga di trentasette anni di Waldorf, nel Maryland, che era corsa a Memphis per il funerale, disse: «Non fa alcuna differenza quello che scrivono su Elvis, che sia vero o falso. Non ho altri idoli».
Subito dopo il funerale, il Colonnello Parker tornò a Los Angeles, dove iniziò a consolidare in fretta la presa sull’eredità di Presley. Trattò con la RCA Records per produrre un doppio LP, "Elvis in Concert". Secondo i termini del contratto, un anticipo di 225.000 dollari sarebbe andato agli eredi di Presley, un altro identico al Colonnello Parker, altri 50.000 dollari alla sua All Star Shows.
Quattro giorni dopo il funerale, Vernon firmò un contratto che consentiva a Parker di amministrare l’eredità. Secondo l’accordo «In quanto amministratore del patrimonio di Elvis, con la presente le esprimo la mia gratitudine se vorrà continuare ad agire secondo i medesimi termini e le medesime condizioni delineate nell’accordo contrattuale siglato con Elvis in data 22 gennaio 1976; con il presente accordo la autorizzo a parlare e siglare contratti in mia vece in tutte le questioni che pertengono a questo accordo. Mi affiderò al suo buon giudizio per mantenere viva l’immagine di Elvis tra i suoi molti fans e gli amici».
James Kingsley, giornalista di «The Commercial Appeal» che aveva stretto un’amicizia intima con Elvis, telefonò al Colonnello Parker nel suo ufficio di Los Angeles per interrogarlo sull’accordo.
«Sarò impegnato a badare all’eredità di Elvis» gli rispose Parker. «Un tempo si trattava di Elvis e il Colonnello… adesso si tratterà di Elvis, il Colonnello e Vernon Presley».
Kingsley gli chiese dei venditori ambulanti fuori da Graceland e Parker gli rispose che la famiglia non c’entrava nulla.

Il giorno della morte di Elvis, il dipartimento di polizia di Memphis indicò come causa del decesso un arresto cardiaco oppure un’overdose accidentale, più tardi nello stesso giorno, si smentì il riferimento all’overdose. Il dottor Jerry Francisco, primario di medicina legale, dichiarò in seguito che la causa del decesso era stata una «aritmia cardiaca». Disse che non c’erano prove di tossicodipendenza cronica. Il dottor Francisco affermò: «La conclusione più probabile, completati tutti gli esami, è che le cause siano naturali».
Nelle settimane successive alla morte di Elvis, il Dipartimento di Giustizia diede un giro di vite sull’indagine Jetstar e il gruppo di truffatori legati alla mafia noti come «la Fratellanza». Secondo documenti confidenziali dell’FBI, il gruppo era responsabile per «miliardi di dollari di transazioni economiche fraudolente» verificatesi in banche di tutto il mondo. Il rapporto elencava i nomi di oltre trenta istituti bancari indicati come «soggetti», ovvero complici della cospirazione, oppure come «vittime», nel senso che avevano ricevuto transazioni finanziarie fraudolente dalle banche «soggetto».
Il 13 ottobre, gli elementi del caso Jetstar furono presentati alla giuria di Memphis, che emise per sei uomini rinvii a giudizio sigillati. Con gli agenti dell’FBI già sul posto, due degli uomini, Frederick Pro e Philip Kitzer, furono arrestati subito dopo che la sentenza di condanna con diciassette capi d’accusa fu emessa alla corte federale, il 18 ottobre. Furono preparati mandati d’arresto per altri quattro uomini, tutti prontamente catturati. Quando i sospettati
riuscirono a uscire su cauzione, gli agenti dell’FBI avvertirono Vernon dei recenti sviluppi e gli suggerirono di prendere precauzioni extra per salvaguardare la propria sicurezza.
La morte di Elvis impedì la sua imminente apparizione al Las Vegas Hilton in agosto e i privilegi del Colonnello Parker nell’albergo furono revocati. Barron Hilton non aveva più bisogno dei suoi servigi da consulente che gli costavano 50.000 dollari l’anno.
Come risultato, il Colonnello iniziò a lavorare nell’ufficio di Los Angeles. Si tenne alla larga da Memphis e quand’era necessario conferiva con Vernon al telefono.
Con l’inizio del nuovo anno, Vernon fu assediato da reclami presentati all’amministrazione dell’eredità di Elvis da singoli e società. La banca di Elvis, la National Bank of Commerce, fece causa a Vernon per ottenere un milione e 400.000 dollari sulla base di tre cambiali. La madre di Ginger Alden denunciò Vernon per una cifra di quasi 40.000 dollari perché sosteneva che Elvis avesse promesso di pagarle l’ipoteca che gravava sulla sua casa.
Perfino Priscilla avanzò rivendicazioni sul patrimonio. I documenti della corte competente in materia di successione mostrano che la donna chiese 356.000 dollari come saldo della parte in contanti del suo accordo di divorzio da 750.000 dollari. L’ammontare avrebbe dovuto essere versato in rate mensili di 6.000 dollari, con saldo il primo agosto 1982.
L’aprile precedente alla morte di Elvis, Vernon, facendo le veci del figlio, aveva firmato una cambiale per 494.024 dollari sulla villa di Graceland per garantire il pagamento delle rate mensili a Priscilla. Era richiesto dalle leggi californiane che stabilivano che i pagamenti relativi ai divorzi esigessero un deposito di sicurezza quando il coniuge che li versava viveva in un altro Stato. La rivendicazione di Priscilla comprendeva anche la richiesta di metà del denaro ricevuto dalla vendita del mobilio nell’ex abitazione della coppia a Los Angeles, il cui valore veniva stabilito a 500.000 dollari; una percentuale del cinque per cento delle azioni della Elvis Presley Music e della Whitehaven Music; e un assegno di 4.000 dollari al mese per il mantenimento di Lisa Marie.
Tutte pessime notizie per Vernon. Secondo il resoconto finanziario presentato dagli eredi al tribunale competente, Elvis possedeva tre conti presso la National Bank of Commerce, per un totale di 1.900.000 dollari.
L’elemento più interessante del resoconto era la rivelazione che Elvis, insieme a Frank Sinatra, possedesse azioni (696) della Del Webb Corporation, una società ad azionariato diffuso coinvolta nelle operazioni di numerosi casinò di Las Vegas. Nel 1969, quando Elvis aveva avuto i suoi primi ingaggi in città, Del Webb possedeva il Thunderbird e il Sahara. Non si sa quando Elvis acquistò le azioni degli alberghi, ma è evidente che avvenne tra il 1969 e il 1977. Elvis non aveva l’abitudine di comprare azioni, perciò è dubbio che quelle di Del Webb fossero il risultato di una transazione in denaro; più probabilmente, le ricevette come parte di un baratto.
È interessante che una delle cause intentate contro gli eredi provenne da "1103 Imports", un’impresa di commercio all’ingrosso di diamanti che aveva i propri uffici presso il Thunderbird. La compagnia affermò di essere in credito di oltre 13.000 dollari per preziosi acquistati da Elvis tra il novembre e il dicembre del 1976.
Oltre ai problemi economici, la spada di Damocle sempre sospesa sul capo di Vernon era l’imminente processo per il caso Jetstar, di cui era testimone chiave, secondo i documenti dell’FBI. Con una parola giusta pronunciata sul banco dei testimoni, avrebbe potuto far cadere una serie di tessere del domino, dando il via a una reazione a catena che avrebbe non solo toccato la fortezza clandestina della Fratellanza, ma anche il sancta sanctorum delle maggiori famiglie
criminali d’America.
Quando Elvis aveva iniziato a indossare giubbotti antiproiettile portando con sé un arsenale di armi da fuoco, negli ultimi anni della sua vita, la gente lo aveva schernito e aveva riso alle sue spalle, dicendo che era paranoico, strafatto di droga. Nessuno prendeva sul serio le sue paure. Adesso Vernon subiva lo stesso trattamento. Tutte le volte che diceva che la morte del cantante non era stata naturale, le persone – perfino i parenti – distoglievano lo sguardo, come se l’imbarazzante paranoia del figlio avesse contagiato il padre con pensieri privi di senso.
Quando Frederick Pro mancò di presentarsi a un’udienza di routine fissata per il febbraio 1978, il vice procuratore federale Hickman Ewing emanò un mandato d’arresto nei suoi confronti. Ancora una volta l’FBI consigliò a Vernon di prendere delle precauzioni speciali: adesso Pro era un fuggitivo e avrebbe potuto succedere qualsiasi cosa. Nel frattempo, Philip Ktzer patteggiò con il procuratore federale di Louisville, dove era stato anche incriminato per reati collegati al crimine organizzato.
In maggio, Frederick Pro fu arrestato a Los Angeles e tradotto a New York, dove rispose delle accuse di racket collegate alle banche off shore. Dopo diversi mesi di trattative, Pro accettò un accordo di patteggiamento, in seguito al quale tutte le accuse in sospeso contro di lui furono trasferite presso la giurisdizione di New York.
Sistemati due, ne mancavano quattro, ma per Vernon era di ben poco conforto. I processi contro Pro e Kitzer erano stati di fatto spazzati sotto il tappeto. Vernon era grato che gli fosse stato risparmiato di comparire in tribunale, ma c’erano ancora quattro casi in corso e stava diventando sempre più evidente che qualcuno aveva l’influenza per allontanarli da Memphis.
Il nome di Elvis era stato tenuto fuori dai giornali, ma anche quelli delle famiglie organizzate coinvolte, così come ogni menzione alla Fratellanza. Vernon non era un uomo di mondo, ma riconosceva i guai quando li vedeva.

Poco dopo la morte di Elvis, il Colonnello Parker commissionò allo scultore Carl Romanelli la realizzazione di una statua dell’artista destinata all’atrio del Las Vegas Hilton. A settembre, Vernon e Priscilla si incontrarono a Las Vegas per l’inaugurazione dell’opera, un bronzo alto circa un metro e ottanta che raffigurava il Re con una chitarra. Con l’aria emaciata e fragile, Vernon posò per i fotografi insieme a Priscilla e Barron Hilton. Lo stress traspariva con chiarezza dal suo volto tormentato.
Il Colonnello programmò per Vernon delle interviste con la stampa insieme a William Morris, per 25.000 dollari l’una ma, prevedibilmente, nessuno accettò. Quello stesso mese lavorò insieme al proprietario della Factors, Harry Geissler, per tentare un giro di vite contro i venditori ambulanti di souvenir di Elvis. Gli avvocati per conto di Geissler inviarono ciò che negli ambienti legali si definisce una «lettera dissuasoria», che minacciava di portare in tribunale chiunque non avesse presentato un «resoconto completo» delle vendite non autorizzate. Pochi venditori ambulanti la presero sul serio.
Nel novembre del 1978 Parker siglò un altro accordo con la RCA Records con cui la casa discografica accettava di pagargli 175.000 dollari per «servizi extra per i costi della promozione e del merchandising». Il contratto reca la firma di Parker, ma non quella di Vernon, che a quanto pare non fu mai informato della sua esistenza.
A gennaio del 1979, Joseph Evans, giudice del tribunale competente in materia di successione, si rese conto che occorreva fare qualcosa per proteggere i diritti di Lisa Marie nei confronti del patrimonio. Incaricò Priscilla, la National Bank of Commerce e il commercialista di Elvis, Joseph Hanks, di supervisionare la gestione dell’eredità di Lisa Marie.
Quello stesso mese la cugina di Elvis, Donna Presley Early, iniziò a lavorare per Vernon nel suo ufficio di Graceland. Era cresciuta in Missouri, ma a dieci anni aveva iniziato a visitare con regolarità la villa durante l’estate, per trascorrere del tempo con lo zio. Adesso che Vernon aveva bisogno di un aiuto fidato in ufficio, Donna fu lieta di fargli quella cortesia.
«Lo zio Vernon era un persona piuttosto austera e non lo conobbi intimamente finché non iniziai a lavorare con lui… allora ci affezionammo molto» raccontò Early.
Un giorno, mentre era sola in ufficio, Vernon entrò e si sedette alla scrivania accanto alla sua. Ci posò sopra i piedi ed emise un sospiro struggente. Guardò fuori, verso il Giardino della Meditazione, dove Elvis era stato seppellito. «Non riesco a credere che il mio bambino giaccia là fuori nel terreno gelido mentre quei figli di puttana dei responsabili se ne vanno in giro liberi» disse.
Early pensò, be’, soffre per il lutto, e commentò: «Sì, lo so. È terribile pensare che lui non c’è più mentre noi siamo ancora qui».
Vernon le scoccò un’occhiata severa. «No, non mi capisci.»
«Di che cosa parli?» chiese lei.
«Sto parlando della morte di Elvis e delle persone che l’hanno ucciso.»
«Che cosa intendi?»
«Intendo dire che Elvis è stato assassinato».
Early allungò la mano verso il telefono, dicendo: «Dobbiamo chiamare la polizia».
«No, posa quella cornetta.»
«Dobbiamo dirlo a qualcuno» fece lei.
«No, dobbiamo affrontare tutto questo come Elvis avrebbe voluto che facessimo».
Early sapeva che cosa intendeva. Quando Elvis aveva ricevuto le minacce di morte di cui l’FBI era stato informato, lei si trovava a Las Vegas. «Ero nella stanza» ha raccontato. «Elvis disse: “Ho detto ai ragazzi che se quel tipo mi uccide dovranno farlo fuori, perché non voglio che un figlio di puttana sieda al banco dei testimoni e diventi famoso per avere ammazzato Elvis Presley”».
Vernon proseguì la conversazione: «Me ne occuperò in modo che resti in famiglia, come Elvis avrebbe voluto».
«Hai delle prove?» domandò lei.
«So chi è stato e ne ho le prove.»
Quel giorno Early andò a casa – viveva con i genitori in una casa mobile parcheggiata dietro a Graceland – e raccontò alla madre il dialogo avuto con Vernon.
«Sì, lo so» replicò la donna. «Me ne ha parlato.»
«Non dovremmo fare qualcosa?»
«No, lasciamo che se ne occupi Vernon» disse sua madre. «Se sono in grado di arrivare a Elvis, possono arrivare anche a te».
Vernon non se ne occupò mai. Diversi mesi dopo quella conversazione, morì per quello che il medico legale stabilì essere stato un infarto. Era la stessa causa del decesso indicata per Elvis.
Ancora una volta, l’amministrazione dell’eredità di Elvis Presley fu gettata nel caos. Il Colonnello Parker volò a Memphis per il funerale. Un altoparlante emetteva canzoni di Elvis mentre Vernon veniva deposto a riposare nel Giardino della Meditazione di Graceland.
Parker incontrò Priscilla e le disse che gli sarebbe servita una lettera per continuare a gestire il patrimonio. Il giorno seguente, Priscilla inviò una missiva, firmata anche da Hanks e da un rappresentante della National Bank of Commerce, indirizzata a Parker presso la All Star Shows di Madison. La lettera lo ringraziava per il lavoro che aveva fatto per l’amministrazione del patrimonio e disse che in quanto co-esecutori testamentari tutti e tre volevano che «le cose continuassero come prima e come stabilito secondo la lettera di Vernon Presley del 23 agosto 1977».

La morte di Vernon mandò nuovamente in crisi il caso Jetstar. Quella primavera, due degli altri uomini usciti su cauzione non si presentarono in tribunale e si diedero alla macchia, provocando l’ennesimo ritardo nel processo, mentre gli agenti dell’FBI cercavano gli imputati mancanti. La morte del testimone chiave del governo significò ulteriori rimandi mentre i procuratori si affannavano a mettere in piedi un caso che fosse possibile portare davanti al giudice senza la testimonianza di Vernon.
Con il trascorrere dei mesi, Priscilla si interessò di più agli aspetti economici dell’eredità. E rimase sbalordita vedendo in quale maniera era stato gestito il denaro di Elvis. I debiti superavano i contanti a disposizione e, a parte la casa e una piccola quantità di azioni, la maggior parte dei beni di Elvis erano vincolati a giocattoli da uomini come automobili, motociclette, aeroplani e armi da fuoco, incluse diverse mitragliatrici. Per dirla in maniera semplice, di soldi ce n’erano davvero pochi.
Priscilla si recò da Hanks e dal rappresentante della banca e tutti insieme chiesero al giudice competente in materia di nominare un tutore legale per Lisa Marie. Il giudice scelse un giovane avvocato di Memphis il cui nome sembrava uscito dritto dritto da una pièce di Tennessee Williams: Blanchard Tual. Il 5 maggio 1980, Tual venne incaricato di agire da tutore di Lisa Marie e indagare sullo stato finanziario dell’eredità, con l’intento di proteggere gli interessi della bambina. In particolare gli fu ordinato di indagare sulla relazione tra il Colonnello ed Elvis e sugli accordi finanziari di Parker rispetto all’amministrazione dell’eredità dopo la morte dell’artista.
Per l’intera estate, rimasero tutti sulle spine. Infine, dopo un’indagine di cinque mesi, durante i quali il Colonnello Parker non aveva avviato nuovi progetti collegati a Elvis, Tual sottopose al tribunale il suo rapporto.
«Tutti gli accordi intercorsi tra Parker e Presley dal 1967 in avanti… sono stati scorretti, dal momento che l’ammontare delle commissioni era eccessivo» scrisse Tual in ciò che equivaleva a un feroce attacco contro il Colonnello. «Parker, sia durante la vita di Presley sia nel ruolo di amministratore del patrimonio ereditario, si è reso colpevole di self-dealing e abuso dell’autorità di cui era in possesso e ha violato i suoi doveri sia verso Presley, quando quest’ultimo era in vita, sia verso l’amministrazione dell’eredità».
Permettendo a Parker di controllare a piacimento gli aspetti finanziari del patrimonio, sostenne Tual, il tribunale aveva «letteralmente fatto perdere all’amministrazione dell’eredità, e in sostanza a Lisa Marie Presley, milioni di dollari». Tual chiese alla corte di porre rimedio alla situazione ordinando che tutte le royalties derivate dagli investimenti finanziari di Elvis venissero versate direttamente all’amministrazione dell’eredità e non a Parker, che la
commissione al cinquanta per cento detenuta dal Colonnello venisse cancellata dal tribunale e che l’amministrazione dell’eredità facesse causa contro Parker presso la corte federale per impedirgli di disporre di ogni bene derivato dalla "Boxcar Enterprises". Era la prima volta che il Colonnello veniva attaccato pubblicamente.
Il rapporto colse alla sprovvista la stampa di Memphis. Erano parecchi gli avvocati della città che si erano costruiti una carriera attraverso ampollose e infuocate dichiarazioni rilasciate sulle scalinate che portavano in tribunale, ma il mite Tual, con la sua aria da secchione, non era uno di loro. Il Colonnello Parker era la figura più minacciosa dello show business. Nessuno, nemmeno Elvis, aveva mai osato sfidarlo.

Il rapporto fu una deflagrazione. I giornali di Memphis erano sempre andati d’accordo con il Colonnello, ma quando i giornalisti cercarono di contattarlo per chiedergli un commento sulla relazione – Ci dica che non è così, Colonnello!, era il ritornello – lui non li richiamava. I media a livello nazionale si misero a loro volta a inseguire Parker, ma lui riuscì a evitarli tutti. I portavoce del suo ufficio dissero che era malato ed era tornato a casa per rimettersi.
«The Commercial Appeal» inviò il reporter William Dawson a Los Angeles per rintracciare lo sfuggente Colonnello. Prima il giornalista si recò presso la sede hollywoodiana della RCA Records. Le sue fonti gli avevano riferito che Parker possedeva un piccolo gruppo di uffici al settimo piano, ma quando Dawson giunse lì scoprì che il nome di Parker non era presente nell’elenco all’ingresso. Una guardia di sicurezza disse al giornalista che Parker si recava di rado in ufficio e al momento non c’era nessuno. E anche se ci fosse stato qualcuno, proseguì la guardia, non gli sarebbe servito a niente, perché il Colonnello e il suo staff ricevevano solo su appuntamento.
Alla fine, il giornalista individuò la casa di Parker a Palm Springs. Era un edificio bianco con le finiture blu, riparato dalla strada da un muro bianco con una recinzione blu di ferro battuto. Un cartello avvertiva i visitatori che il cancello era elettrificato. Quando premette il tasto del citofono, il giornalista non ottenne risposta, ma dopo essere rimasto per un po’ al cancello, vide due donne sbirciare fuori da una porta socchiusa sul fianco della casa. Una delle donne uscì e gli chiese che cosa volesse. Il reporter disse che desiderava parlare con il Colonnello, e lei replicò che era un’infermiera ed era lì per prendersi cura della moglie di Parker, che era malata. Disse che il Colonnello si trovava a Los Angeles e non era possibile contattarlo. Il giornalista non riuscì mai a parlare con Parker, ma tornò a Memphis e scrisse un articolo sul «Manto di segretezza» che circondava il manager.
A dicembre, Tual tornò in tribunale e chiese al giudice di concedergli il potere di espandere la sua indagine. Beecher Smith, l’avvocato che rappresentava Priscilla, e i co-esecutori testamentari protestarono, affermando che era responsabilità loro, e non di Tual, curare gli interessi della figlia di Elvis, allora dodicenne. Tual accusò Smith di aver cercato di «insabbiare» la sua indagine.
Tual disse al giudice che secondo lui gli esecutori testamentari, a eccezione di Priscilla, avevano «paura» del Colonnello Parker. Definì la sua relazione di settembre solo il «primo passo» e disse che il caso comprendeva molte cose che bisognava «esaminare».
Fu un’udienza controversa. Infiammato di giusta indignazione, Tual difese appassionatamente Lisa Marie e i suoi interessi. I giornalisti dissero che a volte Smith «tremava» di fronte al giudice; lo supplicò di porre fine all’indagine di Tual, criticandone il rapporto e accusandolo di avere avuto una reazione eccessiva. Tual contrattaccò: «Nemmeno una volta ho usato la parola “negligenza”, anche se avrei potuto farlo; nemmeno una volta ho usato le parole “colossale negligenza”, anche se avrei potuto farlo; non ho mai usato la parola “illecito”, anche se avrei potuto».
Il giudice Evans ascoltò gli argomenti di Tual e quelli di Smith. Elvis Presley era probabilmente l’artista più famoso al mondo. Il Colonnello Parker era quasi altrettanto famoso. Nessuno nell’ambiente musicale aveva mai sentito parlare di Evans, ma gli era stata affidata la responsabilità di proteggere gli interessi di una bambina che sembrava davvero avere bisogno della sua protezione. Infine, il giudice Evans, in un momento di esemplare giurisprudenza del Sud, conferì a Tual il potere di richiedere al Colonnello Parker di fornire alla corte un resoconto completo della sua situazione finanziaria, compresi i dati fiscali. L’autorità concessa a Tual comprendeva il potere di esaminare i registri della "Boxcar Enterprises" e gli accordi finanziari del Colonnello con la "Factors". Era l’equivalente legale di un allenatore di football che faceva entrare in campo il suo migliore terzino dicendogli forza, ragazzo, vai!

- continua -
[Modificato da marco31768 05/08/2023 16:01]
05/08/2023 15:56
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8. Il Re è morto: lunga vita al manager

- seconda ed ultima parte -

Il Colonnello Parker non fu l’unica persona collegata a Elvis a finire sotto attacco. Mentre il giudice Evans stava sollevando un polverone in tribunale, il medico personale di Elvis, il dottor George Nichopoulos, veniva portato di fronte alla commissione medica dello stato con l’accusa di aver prescritto dosi eccessive di medicinali che provocavano dipendenza a nove pazienti, tra i quali l’artista.
Nichopolous testimoniò in merito all’abuso di farmaci di Elvis, confermando i sospetti sulla sua dipendenza da un vasto assortimento di sostanze. Nichopolous raccontò che una volta, dopo essere rientrato dalla California, dove aveva fatto iniezioni di Novocaina, Demerol e steroidi per uno stiramento alla schiena, Elvis era tornato a Memphis con una dipendenza dal Demerol ed era stato ricoverato all’ospedale Battista per disintossicarsi. Il medico difese le
prescrizioni fatte in gran quantità dicendo che stava cercando di controllare il problema di droga del cantante attraverso una riduzione terapeutica. La commissione medica dichiarò Nichopolous non colpevole delle accuse più gravi mosse contro di lui, ma lo trovò colpevole di avere prescritto eccessive sostanze che provocavano dipendenza. La sua licenza venne sospesa per tre mesi e per tre anni dovette rimanere sotto supervisione.
Tra il pubblico dell’udienza c’erano gli investigatori dell’ufficio del procuratore federale e generale. All’insaputa di Nichopolous, il procuratore generale aveva deciso di avviare un’indagine sulla tossicodipendenza di Elvis e sulle attività del medico. Sarebbe stata l’unica collegata alla morte di Elvis.
Dato che alcuni membri della cerchia ristretta del cantante si erano trasferiti sulla costa occidentale, i detective Larry Hutchinson e David McGriff volarono a Los Angeles insieme a Bobby Armstead, un sergente del dipartimento di polizia, per interrogare potenziali testimoni. Nell’elenco avevano l’ex guardia del corpo Red West, l’ex road manager Joe Esposito e l’ex ragazza di Elvis Linda Thompson.
«In California tutti hanno un agente» dice McGriff, ridendo nel ricordare i salti mortali che dovettero fare per fissare gli interrogatori. «Ci sembrava comico… dava l’impressione che fossero tutti indaffarati e non credo che fosse quello il caso.»
L’ultima persona nella lista era il Colonnello Tom Parker. Con loro stupore, riuscirono a contattarlo senza problemi. Parker accettò di incontrarli nella loro stanza d’albergo a Beverly Hills. Dopo quello che avevano passato cercando di fissare gli interrogatori con gli altri, furono piacevolmente sorpresi che lui avesse acconsentito all’appuntamento.
All’ora prevista, il Colonnello Parker giunse in hotel con abiti casual e stringendo un enorme sigaro. Non arrivò solo: con lui c’era George Fenneman, l’annunciatore che aveva affiancato Groucho Marx nel celebre show televisivo degli anni Cinquanta, "You Bet Your Life". McGriff e Hutchinson non se ne resero conto, ma Parker era giunto preparato ad affrontare un gioco d’azzardo assai rischioso.
Era impensabile per lui anche solo considerare di rinunciare all’occasione di giocare d’azzardo con gli investigatori di Memphis. Per questa performance, il Colonnello avrebbe recitato la parte di Groucho e il suo amico, George Fenneman, avrebbe interpretato se stesso. Il nome dello show era "You bet your life" (e in effetti il Colonnello stava esattamente «scommettendoci la vita»)… e il tormentone era la stessa battuta che Groucho e Fenneman avevano
utilizzato nella loro trasmissione: «Pronuncia la parola segreta e vinci cento dollari».
Gli investigatori di Memphis lo torchiarono chiedendogli se fosse a conoscenza del fatto che Elvis assumeva droghe. Lui rispose di no, non molto. Passava la maggior parte del tempo in California e a Las Vegas. Gli fecero domande sui suoi rapporti con il suo entourage. Qualcuno che ne faceva parte lo incoraggiava ad assumere droghe? Parker rispose che non ne aveva proprio idea.
Gli chiesero se Elvis avesse avuto contatti personali con lui durante i due anni trascorsi sotto le armi. Per niente, disse. Elvis gli aveva telefonato due o tre volte e gli aveva spedito forse un paio di lettere.
Il Colonnello raccontò agli investigatori che quando Elvis si era recato a trovarlo a casa sua, a Palm Springs, nel 1974, lui aveva pensato che forse qualcosa non andava. Disse che Elvis aveva ammesso che stava assumendo droghe, ma lo aveva ammonito di non interferire con la sua vita privata.
Nel corso dell’interrogatorio, il Colonnello fu affabile e cordiale e diede agli investigatori l’impressione di non avere nulla da nascondere. Alla fine del colloquio, invitò i detective a tornare a Palms Springs in auto con lui. Avrebbe cenato a casa di George Hamilton ed era certo che il celebre attore sarebbe stato felice di averli come ospiti. Gli investigatori declinarono l’offerta.
«Parker mi parve un gentiluomo in tutto e per tutto» disse McGriff in un’intervista, nel 1997. «Fu estremamente tranquillo, rilassato, quasi come se stesse per dirci quello che doveva e fosse molto a suo agio nel farlo. Non lo sorpresi mai a mostrare inquietudine o a cercare di rispondere evasivamente. Dopo l’interrogatorio me ne andai convinto che il Colonnello avesse risposto sinceramente alle nostre domande. Certo, magari ce ne sarebbero state altre cinquanta belle grosse che non avevo posto e che gli avrebbero creato problemi.»
Pronuncia la parola segreta e vinci cento dollari!
Durante l’interrogatorio, i detective non pronunciarono mai la parola segreta e tornarono a Memphis convinti che non ci fosse motivo di convocare il Colonnello come testimone dell’imminente processo al dottor George Nichopolous. Erano certi che non avesse incoraggiato Elvis a usare droghe e che fosse così lontano dalla vita quotidiana dell’artista da non poter contribuire al caso in alcun modo.
È interessante chiedersi quanto sarebbe cambiato se gli investigatori avessero pronunciato la parola segreta e il Colonnello avesse aperto lo scrigno delle rivelazioni sull’uso di droghe di Elvis. Poteva anche essere un truffatore, ma era un truffatore onesto che non svicolava mai dalle scommesse. Non è impossibile che Parker ne avesse avuta una in corso riguardante l’interrogatorio. Fenneman non aggiunse solo un tocco teatrale, servì anche da testimone.
In base al lavoro investigativo dei detective, in maggio Nichopolous fu condotto di fronte a una giuria di Memphis. Al processo, a rappresentare il medico fu un rinomato avvocato del Tennessee, James Neal, che si era fatto un nome come procuratore durante il Watergate. Neal dipinse Nichopolous come un medico premuroso e zelante, che aveva gestito come meglio poteva le necessità di Elvis. La giuria ritenne Nichopolous non colpevole e l’uomo poté riprendere a esercitare la professione medica.
Quando è stato intervistato nel 1997, McGriff era ancora in servizio come poliziotto assegnato alla "Drug Task Force", uno speciale braccio investigativo composto da agenti dell’FBI, della DEA ("Drug Enforcement Agency", l’agenzia antidroga), dell’ufficio dello sceriffo della contea e del dipartimento di polizia di Memphis. In effetti, l’intervista è stata ritardata perché McGriff era impegnato in un’operazione di sorveglianza sotto copertura.
Dopo avere chiesto di essere sostituito, McGriff ottenne dal suo superiore il permesso di essere intervistato in un ristorante della zona orientale di Memphis. Quando gli fu chiesto se pensava che sul caso fosse stata fatta giustizia, McGriff ponderò la domanda per un momento, poi disse che riteneva di no.
«Non farò commenti sulle persone a cui è stata o non è stata resa giustizia… giustizia non fu fatta» disse.

Il Colonnello Parker non cercò di sfuggire a Blanchard Tual né tentò di opporsi all’ingiunzione del tribunale, ma chiese a Tual di firmare un accordo di riservatezza prima di consegnargli i suoi rendiconti finanziari. Tual tenne più o meno per sé ciò che pensava nei mesi in cui investigò ulteriormente sulla struttura finanziaria del patrimonio Presley e sul rapporto tra l’artista e il Colonnello. Non indisse conferenze stampa e rifiutò educatamente di concedere interviste.
Qualsiasi cosa Priscilla e il Colonnello si aspettassero dal tutore nominato dal tribunale, è sicuro che rimasero scioccati dalla profondità e dall’intensità della relazione conclusiva, lunga 85 pagine, che l’avvocato consegnò alla corte il 31 luglio 1981. Il «Press-Scimitar» del mattino seguente creò l’atmosfera titolando: «Il rapporto sostiene che gli accordi stipulati dal manager defraudarono Elvis».
Tual riferì al tribunale che secondo le sue indagini il Colonnello Parker e la RCA Records avevano insieme sottratto al patrimonio di Elvis due milioni e settecentomila dollari. In particolar modo criticò i sei accordi siglati durante «l’acquisizione» del 1973 da parte della RCA.
«I dirigenti della RCA dovettero rendersi conto che gli accordi collaterali con Parker erano in sostanza una bustarella per lo stesso Parker… affinché controllasse Elvis negli anni a venire senza verifiche.»
Tual sollecitò il tribunale a ordinare che gli amministratori dell’eredità di Presley non siglassero alcun nuovo contratto e smettessero di ottemperare alle richieste di pagamento di Parker. Suggerì anche che facessero causa alla RCA per tentare di bloccare l’accordo di acquisizione del 1973 e far revisionare le operazioni commerciali della RCA con l’amministrazione dell’eredità.
«Il Colonnello Parker ha violato consapevolmente (la fiducia di Elvis) e ha continuato ad abusarne fino alla sua morte» disse Tual. «Ci sono prove che indicano che sia Parker sia la Rca sono colpevoli di collusione, associazione a delinquere, frode, rappresentanza ingannevole, cattiva fede e abuso dell’autorità di cui erano in possesso… [Gli accordi] erano contrari all’etica professionale, ottenuti in maniera fraudolenta e contrari a tutti gli standard
dell’industria. Tali azioni perpetrate ai danni dell’idolo della musica folk americana più celebre di questo secolo sono oltraggiose ed esigono che chi le ha commesse ne sia ritenuto pienamente responsabile.»
Com’era successo durante gran parte del procedimento, gli amministratori dell’eredità di Presley rimasero senza parole. Beecher Smith, avvocato che li rappresentava, disse ai giornalisti di non avere commenti da rilasciare. Jack Magids, un avvocato di Memphis assunto da Parker come rappresentante, dichiarò loro che il Colonnello smentiva tutte le accuse contenute nella relazione.
Il giudice Joseph Evans assimilò il contenuto di tale relazione poi, il 14 agosto, due giorni prima dell’anniversario della morte di Elvis, lesse la sua decisione a un’aula zeppa di fans del Re, alcuni dei quali avevano guidato fin lì da molto lontano.
Evans disse: «La corte trova che i compensi ricevuti dal Colonnello siano eccessivi e tali da scandalizzare la coscienza della corte».
Con ciò, ordinò agli amministratori dell’eredità di intentare causa contro il Colonnello Parker entro quarantacinque giorni per recuperare «le somme che si stabilirà siano dovute e vadano versate all’amministrazione del patrimonio». Come incentivo speciale, il giudice ordinò che Tual facesse da consigliere associato nell’azione legale.
In seguito, James Chisum, giornalista di «The Commercial Appeal», parlò con alcuni spettatori in aula.
«Dovrebbero impiccarlo» dichiarò una donna.
«Chi?» domandò il reporter.
«Parker» disse lei.
Il giorno dopo, il Colonnello ruppe il lungo silenzio che si era autoimposto telefonando a James Kingsley di «The Commercial Appeal».
«Sono pronto a difendermi pienamente da tutte le accuse mosse contro di me e prenderò gli ulteriori e adatti provvedimenti legali che avrò a disposizione» dichiarò al giornalista.
Disse che il rapporto di Tual lo aveva «scioccato» e negava qualsiasi illecito.
In seguito, il Colonnello fu intervistato da Randell Beck, un giornalista del «The Memphis Press-Scimitar». Dopo aver messo in dubbio le conoscenze possedute da Tual in merito all’industria musicale, smentì che Elvis fosse un individuo facilmente manipolabile, come lo aveva descritto il tutore. Parker affermò che il cantante era lunatico e inaffidabile.
«A volte fare in modo che [Elvis] andasse avanti era davvero penoso» dichiarò.
Per la prima volta nella sua vita, il Grande Colonnello Parker si trovava con le spalle al muro, e a ficcarcelo era stato uno sconosciuto avvocato di Memphis troppo coraggioso o troppo stupido per comprendere l’enormità delle sue azioni. Era come Davide contro Golia, e il vecchio, pingue Colonnello sapeva che nessuno lo avrebbe preso per il Davide della situazione.

A peggiorare ancora di più la situazione per il Colonnello erano le notizie riguardanti il proprietario della Factors, Harry «l’Orso» Geissler, che di fronte a un tribunale del Delaware si era dichiarato colpevole delle accuse di una frode postale che coinvolgeva società collegate ai film "Superman", "Star Wars" e "Grease".
«Variety», pubblicazione specializzata nel mondo dell’intrattenimento, scrisse che Geissler aveva fatto oltre duecento cause nel tentativo di proteggere l’immagine di Presley, ma quella sua presunta autorità gli era stata tolta da una corte d’appello che aveva deliberato che il diritto esclusivo di pubblicizzare la propria immagine detenuto da una celebrità non poteva venire ereditato e terminava al momento della sua morte.
Entro il giugno del 1982, Priscilla aveva intentato due cause contro Parker: una, a Memphis, nel tentativo di revocare il cinquanta per cento delle royalties di Elvis; l’altra, a San Francisco, in cui lo accusava di aver truffato l’amministrazione dell’eredità per oltre cinque milioni. Entrambe le cause furono ordinate dal giudice Joseph Evans.
L’asse ereditario di Presley non era l’unica persona giuridica a intentare cause. La RCA ne avviò una a New York, chiedendo alla corte di convalidare l’accordo di acquisizione del 1973 e di vietare all’amministrazione dell’eredità di Presley di citarli in giudizio per le royalties perdute. Nell’elenco degli accusati figurava chiunque fosse stato coinvolto nel procedimento presso il tribunale di Memphis: Priscilla Presley, Joseph Hanks, la National Bank of Commerce,
Blanchard Tual e il Colonnello Parker.
In quella telenovela, l’unica persona a non venire querelata era il giudice Joseph Evans.
Il Colonnello Parker rispose con una causa tutta sua. Il 12 marzo 1982, il settantaduenne Parker depositò presso un tribunale di Stato di Las Vegas una causa che sfidava l’amministrazione dell’eredità di Presley per ottenere il controllo del patrimonio di Elvis. In essa, Parker descriveva il suo rapporto con il cantante come quello di un «socio», descrisse il loro accordo di lavoro come una «joint venture».
Non era una strategia nuova. Fin dal primo giorno aveva firmato le lettere che spediva «Elvis e il Colonnello» e aveva prodotto materiale pubblicitario che conteneva riferimenti a «Elvis e il Colonnello». Parker era più di un manager. Era il pazientissimo «socio» di una joint venture durata decenni.
Nella causa, Parker disse: «In riconoscimento delle doti uniche del Colonnello, come apprezzamento della lealtà del Colonnello verso Elvis, e come incentivo al Colonnello affinché continuasse e ampliasse i servigi del Colonnello, Elvis e il Colonnello concordarono che dal 2 gennaio 1967 in poi Elvis e il Colonnello avrebbero condiviso equamente il godimento di tutti gli utili derivanti dai contratti cinematografici di Elvis e tutte le royalties relative ai pagamenti assicurati dal contratto discografico con la RCA».
Nell’azione legale, Parker accusò i co-esecutori dell’eredità di interferire con il proseguimento della sua operazione di joint venture e chiese al tribunale del Nevada di concedergli l’autorità di controllare i beni oggetto dell’eredità allo scopo di «cessare gradualmente» gli affari dell’attività imprenditoriale congiunta.
Inoltre, disse che, per bontà d’animo, aveva anticipato a Elvis la somma totale di un 1.6000.000 dollari dalle ricevute della joint venture, perché all’epoca l’artista aveva più bisogno di quei soldi di lui. Adesso i soldi li voleva, anche se al momento non esistevano, e anche se appartenevano a una bambina di dodici anni che aveva perso il padre nelle circostanze più traumatiche che si potessero immaginare.

Smarrito tra i titoloni della battaglia sull’eredità di Presley c’era il caso Jetstar, che ancora girava a vuoto e aveva subito una serie di ritardi, nessuno dei quali contrastato con molto entusiasmo da quando non c’era più il testimone chiave. I due imputati che si erano dichiarati colpevoli, Frederick Pro e Philip Kitzer, avevano già scontato la pena ed erano stati rilasciati. Gli imputati che restavano erano ancora fuori su cauzione e una volta alla settimana si presentavano alle loro compagnie di fideiussione. Da quando la giuria aveva confermato le incriminazioni erano passati cinque anni e il Dipartimento di Giustizia non aveva portato alla luce nuove prove relative al caso.
Il caso Jetstar non era il solo al centro dell’attenzione. Nei primi anni Ottanta, altri sviluppi significativi influirono sul Colonnello Parker, seppur indirettamente. Il 7 aprile 1982, mentre i procuratori stavano preparando il caso Jetstar, l’ex giudice della Corte Suprema Abe Fortas morì, ponendo fine a tutte le speranze delle autorità di esplorare la sua connessione con Elvis e il Colonnello o di rivelare fino in fondo il rapporto tra l’ex abitante di Memphis e gli interessi legati al gioco d’azzardo a Las Vegas.
Nello stesso periodo, il Dipartimento di Giustizia strinse la morsa sul boss mafioso della Louisiana Carlos Marcello, catturato durante un’indagine federale, in codice l’indagine Brilab (abbreviazione di bribery and labor, corruzione e lavoro), e lo accusarono di avere tentato di corrompere un giudice federale che stava per presiedere un caso di racket ed estorsione che coinvolgeva alcuni dei suoi collaboratori.
Marcello fu giudicato colpevole il 19 aprile 1983 e condannato a dieci anni nel penitenziario federale di Texarkana, in Texas. Ridotta la pena per buona condotta, fu rilasciato nel 1989 e gli fu permesso di tornare in Louisiana, dove morì nel 1994.
Dopo avere scoperto a quanto poco ammontava l’eredità, Priscilla Presley cercò delle maniere di aumentarne il valore, anche se era impegnata nella battaglia legale con il Colonnello. Graceland era stata chiusa dopo la morte di Vernon nel 1979, ma le spese per la manutenzione della villa superavano i 30.000 dollari al mese, che dovevano essere pagati con i profitti derivati dalle royalties che continuavano a giungere per i dischi incisi, calate a poco più di
340.000 dollari all’anno.
Dopo la morte di Elvis e di Vernon, Priscilla aveva chiesto consiglio a vari amici e collaboratori. Quando uno dei suoi principali consulenti, il finanziere texano Jester Maxfield, rimase ucciso in un incidente aereo a settembre, Priscilla si recò a Kansas City per incontrare uno dei suoi dipendenti: Jack Soden, agente di borsa di trentacinque anni. Priscilla espose a Soden tutti i problemi economici dell’amministrazione dell’eredità, che non era povera né ricca: più o meno, se la cavicchiava, annaspando un anno dopo l’altro. Alla donna serviva un piano che le avrebbe permesso di rendere redditizio il patrimonio. Altrimenti, l’illustre carriera del padre avrebbe lasciato ben poco di concreto a Lisa Marie.
Soden suggerì di aprire Graceland al pubblico. A Priscilla parve una buona idea. La riferì agli altri co-esecutori e insieme decisero che Graceland sarebbe diventata la nuova attrazione turistica di Memphis. Per supervisionare il progetto fu assunto Jack Soden. Nel giugno dell’anno successivo, la tenuta di Graceland, con i suoi tredici acri, aprì le porte ai fans dell’artista scomparso, per 7.50 dollari a testa. Con altri 4 dollari, i fans potevano vedere anche l’autobus e gli aerei.
«Non prendemmo mai in considerazione di vendere Graceland» raccontò Priscilla a Steve Tompkins, un giornalista di «The Commercial Appeal». «Aprire [Graceland] al pubblico era l’ultima cosa che volevo fare… Penso che aspettammo quanto potevamo nella speranza che ci sarebbero stati altri redditi ad aiutarci.»
L’amministrazione dell’eredità spese 500.000 dollari per preparare la villa al pubblico, ma la risposta fu talmente grande che l’investimento iniziale fu recuperato nel giro di cinque settimane dall’apertura. Il primo anno, oltre mezzo milione di visitatori varcarono i cancelli di Graceland. Alla fine del decennio, attirava ormai 600.000 visitatori l’anno. Prevedibilmente, Jack Soden fu nominato direttore esecutivo di Graceland.
A novembre del 1982, quando ormai era evidente che Graceland sarebbe stata un’attrazione turistica di successo, venne annunciato – prematuramente, a quanto si scoprì – che il Colonnello Parker e l’amministrazione dell’eredità di Presley avevano raggiunto un accordo extragiudiziale nella lunga battaglia per il controllo del patrimonio rimanente dell’artista. C’erano ancora alcune questioni da appianare tra le due parti, e anche da lavorare per la causa della RCA Records.
A giugno, il Colonnello Parker, la RCA Records e l’amministrazione dell’eredità conclusero formalmente il loro scontro legale. Secondo i termini dell’accordo, il rapporto manageriale tra il Colonnello e l’amministrazione venne rescisso. A Parker fu permesso di tenere le royalties incassate prima del 1982. Gli amministratori dell’eredità acconsentirono ad acquistare da Parker la sua parte della "Boxcar Enterprises" per 225.000 dollari, il marchio registrato della "Boxcar, «Always Elvis» per ulteriori 100.000 dollari e gli altri beni della società per 25.000.
La RCA accettò di versare all’amministrazione dell’eredità ogni anno per dieci anni, 110.000 dollari e acconsentì a pagare al Colonnello 2.000.000 di dollari per gli oltre 350 film e filmati televisivi, e tutti gli originali delle registrazioni realizzate da Elvis.
In sostanza, il Colonnello accettò di accordarsi per poco più di 2.300.000 dollari. Dopo tutti gli epiteti e le minacciose azioni legali, tutte e tre le parti – Priscilla, il Colonnello e la RCA – decisero di porre fine alla disputa in termini amichevoli, e Priscilla e la casa discografica continuarono la loro relazione d’affari.
Il Colonnello dovette fare i bagagli, ma non senza un accordo segreto, secondo le fonti, che proibiva all’amministrazione dell’eredità e a Parker di parlare in pubblico dell’altra parte senza che quest’ultima ne concedesse l’autorizzazione.

Durante il resto degli anni Ottanta, il Colonnello mantenne un basso profilo. Non godeva di buona salute. Aveva avuto un infarto diversi anni prima e nel 1981 riportò una frattura alla spalla destra cadendo nell’ascensore del palazzo della RCA a Los Angeles. Mentre giaceva indifeso sulla soglia dell’ascensore, incapace di rialzarsi, le porte lo colpirono più volte con forza sufficiente a rompergli la spalla.
Quando compì settantasette anni, Barron Hilton diede una festa per lui al trentesimo piano del Las Vegas Hilton. Parteciparono circa cento persone, compresi Priscilla e i suoi genitori, il signore e la signora Joseph Beaulieu, il cabarettista Rodney Dangerfield e Al Dvorin.
«Anche se ho settantasette anni, non me li sento» dichiarò il Colonnello agli ospiti. «Lascio semplicemente che il mio corpo mi dica che cosa fare.»
Al party non era presente Marie Parker, la moglie, afflitta da una grave malattia alla quale infine soccombette circa cinque mesi dopo la festa, il 25 novembre 1986. Da diversi anni versava in gravi condizioni. Morì nella loro abitazione di Palm Springs e fu sepolta nel mausoleo dello Spring Hill Cemetery di Madison, nel Tennessee. La sua cripta si trova molto in alto rispetto al suolo, nella porzione all’aperto del mausoleo. L’iscrizione dice semplicemente: «Marie Frances Parker, 18 maggio 1908 – 25 novembre 1986». Niente frasi affettuose. Nessun «Riposi in pace» o «Moglie amorevole».
Il posto accanto alla cripta di Marie non è occupato e non mostra nomi, presumibilmente era destinato al Colonnello.
L’ultima dimora di Marie ha un non so che di desolante, racconta l’eterna solitudine del suo strano viaggio di vita al braccio del Colonnello.
Nel corso della battaglia legale con la RCA, Parker aveva usato la salute cagionevole di Marie come scusa per non potersi recare a deporre a New York. Con una dichiarazione giurata scritta, disse che la moglie era «in stato comatoso» e si trovava sotto sorveglianza medica continua.
Un anno dopo, diventato sempre più solitario, il Colonnello fece uno dei suoi rari viaggi a Memphis per visitare Graceland, dove rimase per due giorni ospite di Jack Soden. Da Memphis si recò in auto a Nashville per visitare l’ultimo luogo di riposo di Marie e ispezionare il suo ufficio a Madison, decidendo di convertirlo in un museo di reperti messi da parte nel corso della sua lunga carriera.
Mentre si trovava a Nashville, si fermò in una tipografia a ritirare numerose locandine di Elvis che aveva ordinato per un’imminente mostra che si sarebbe tenuta a Las Vegas. Pat Embry, reporter del «The Nashville Banner», lo incontrò nel negozio e gli fece un’intervista concordata frettolosamente sul posto. Parker raccontò a Embry il suo pellegrinaggio alla villa di Elvis e commentò:
«Può riferire che il Colonnello ha detto che stanno facendo un bellissimo lavoro a Graceland».
In agosto, ormai settantottenne, Parker spuntò a Las Vegas per il decimo anniversario della morte dell’artista. Gonfio e fiacco, ma con indosso un elegante cappello bianco da cowboy, tenne una conferenza stampa all’Hotel Las Vegas Hilton, dove aveva allestito una mostra, nella suite di Elvis che costava 2500 dollari a notte.
Per cinque dollari, il pubblico poté visitare l’esposizione di foto, manifesti e cimeli, che durò una settimana. Non c’era nulla in vendita: gli oggetti si potevano solo vedere. Il Colonnello dichiarò ad «Associated Press» che anche se Elvis era morto da dieci anni, non aveva lacrime. «Non c’è nulla per cui piangere, tutto è motivo di grande felicità» disse. «Ora che non c’è più, io sono il suo portavoce, e questo mi aiuta a vendere qualcuno dei suoi cimeli.»

Negli ultimi anni della sua vita, il Colonnello Parker apparve di rado in pubblico e concesse poche interviste. Durante una di queste, rilasciata nel 1990 a Woody Baird, giornalista di «Associated Press» di Memphis, Parker affermò che non avrebbe potuto far niente per tenere Elvis alla larga dalle droghe. «Prendeva le sue decisioni e convincerlo a cambiarle non era possibile.»
Ciò che sembrava irritarlo più di tutto era il flusso costante di articoli sui tabloid secondo i quali Elvis era vivo e vegeto. In un’intervista del 1995 con Mike Weatherford del «Las Vegas Review-Journal», Parker disse che di recente alcuni fans gli avevano raccontato di conversare ogni settimana con il cantante durante alcune sedute spiritiche. I fans offrirono al Colonnello un biglietto aereo così che potesse partecipare a una delle sedute e parlare con l’artista di persona. Parker rispose: «Ecco il mio nuovo numero. La prossima volta che Elvis si fa vedere, dateglielo e ditegli di telefonarmi».
Due anni dopo la morte di Marie, il Colonnello Parker sposò Loanne Miller, sua assistente di vecchia data. Si erano conosciuti nel 1969 quando lei lavorava come segretaria per il direttore della pubblicità dell’Hotel International, che all’epoca stava per aprire. Aveva circa venticinque anni in meno del Colonnello, pertanto quando si conobbero Loanne ne aveva trentacinque. In seguito aveva collaborato con lui come impiegata del Las Vegan Hilton e della RCA Record Tours, e aveva lavorato per lui dopo la morte del cantante.
Il Colonnello non perse mai l’entusiasmo per Elvis, o quanto meno il gusto di promuoverlo, ma quando negli anni Novanta Graceland arrivò a diventare un’impresa multimilionaria, le pacchiane esibizioni di fotografie-e-locandine del Colonnello parvero fuori luogo, e lui ne sembrò consapevole. Finalmente Elvis era diventato troppo grande anche per il Colonnello.
Quando le Poste degli Stati Uniti produssero un francobollo dedicato all’artista, nel 1992, il Colonnello si mise in fila a Las Vegas per essere tra i primi ad acquistarlo. Era anziano, con il volto chiazzato, e le ingiurie della vecchiaia ne avevano sformato il corpo, reso bulboso dagli oltre centotrenta chili. Si muoveva piano, aiutandosi con un bastone da passeggio, e mentre procedeva alla propria lenta andatura sembrava sul punto di crollare.
Un giorno smise di fumare sigari, e lo fece così, di punto in bianco. Successe mentre leggeva il giornale della domenica. Vide una pubblicità che recitava: «Smettete di fumare e guadagnate duecento dollari». E gridò a Loanne, che si trovava in un’altra stanza:
«Abbiamo appena guadagnato duecento dollari!»
«Come?» chiese lei.
«Ho appena smesso di fumare.»
Per settimane, il Colonnello telefonò agli amici chiedendo loro di andare a trovarlo a Las Vegas. Dato che erano le vacanze di Natale e che il nuovo anno era vicino, nessuno poteva mettersi in viaggio. La maggior parte doveva occuparsi della famiglia e degli affari. Era un brutto momento per andare a trovare qualcuno.
«È importante?» chiedevano.
«Beh, no» rispondeva lui. «Vieni quando puoi.»
Il Colonnello Tom Parker stava morendo e lo sapeva. Aveva ottantasette anni ed era ormai giunta la sua ora; sarebbe stato lui il primo ad ammetterlo.
Nonostante questo, aveva delle questioni aperte. Cose che aveva bisogno di dire. A parte la moglie, Loanne, non aveva nessun altro vicino. E quello che doveva riferire ai suoi amici di vecchia data, Loanne non avrebbe potuto capirlo: erano questioni da «pupazzi di neve».
Il Colonnello vide arrivare e concludersi il sessantaduesimo anniversario della nascita di Elvis. La Elvis Presley Enterprises festeggiò il compleanno l’8 gennaio a Memphis, come sempre, ma l’evento più importante dell’anno si sarebbe tenuto il 16 agosto, ventesimo anniversario della sua morte. Parker sapeva che non sarebbe vissuto abbastanza da partecipare a quella cerimonia. L’amministrazione del patrimonio Presley, ancora controllata da Priscilla, aveva una relazione di amore e odio con il Colonnello Parker. Avevano vissuto dei momenti difficili per il controllo dei beni di Elvis, ma alla fine dei giochi lui era ancora il Colonnello, l’uomo più strettamente collegato alla carriera del defunto artista, e l’amministrazione sapeva che non aveva nulla da guadagnare e tutto da perdere continuando una faida pubblica contro di lui.
L’atteggiamento dell’amministrazione nei confronti di Parker somigliava alla politica «niente si chiede, niente si dice» tenuta dall’esercito nei riguardi degli omosessuali. Il patto segreto degli amministratori con Parker stabiliva che nessuna delle due parti avrebbe mai commentato pubblicamente gli affari privati dell’altra. Né ne avrebbe messo in dubbio la condotta. Né avrebbe rivelato ciò che ne sapeva.
L’amministrazione dell’eredità aveva motivi per siglare quell’accordo. Dopo la sua morte, la popolarità di Elvis esplose. Quando Graceland fu aperta al pubblico, il primo anno oltre trecentomila fan pagarono per visitare la villa, dopodiché ogni anno Graceland attirò in media mezzo milione di visitatori. In America c’era una sola abitazione che ne attirava di più ed era la Casa Bianca. Qualsiasi fossero i sentimenti nutriti in privato dagli amministratori per Parker, avevano un enorme investimento da proteggere e lo avrebbero fatto meglio se non avessero distrutto la reputazione dell’uomo collegato più strettamente alla carriera di Elvis.
Tale riflessione economica era una ragione sufficiente a proteggere l’immagine pubblica di Parker, ma non era l’unica. Quasi fin dall’inizio erano circolate voci che Parker «avesse qualcosa» su Elvis, che lo stesse ricattando con un’informazione di natura sconvolgente.
Poi c’è la teoria secondo cui Parker ipnotizzava Elvis per farlo obbedire a ogni suo ordine. Una volta il Colonnello tentò di ipnotizzare Gordon Stoker dei Jordanaires, dicendogli che se fosse riuscito a ricordare che cosa gli avrebbe detto dopo averlo ipnotizzato gli avrebbe dato cento dollari. Stoker ce la fece e Parker gli diede i soldi.
Non è mai stato documentato che Parker avesse effettivamente detto a persone collegate a Elvis di conservare in un luogo sicuro informazioni incriminanti sull’artista, ma di sicuro fece credere alla gente che così fosse. Poi circolavano storie sui suoi presunti legami con personalità del crimine organizzato in Louisiana, in Florida e a Las Vegas. Senza mai dire chiaramente di avere contatti con i piani alti della mafia, fece credere alle persone di averli. Parker fece un lavoro magistrale enfatizzando le paure. Di fronte alla realtà del suo lungo legame pubblico con Elvis e alle voci dei danni che avrebbe potuto infliggere all’artista se fosse stato provocato, Priscilla non vedeva alcun vantaggio nel vedere il bluff del vecchio. Era più facile collaborare con lui che combatterlo.

Durante le sue ultime settimane di vita, Parker continuò a chiamare i suoi amici. Non la fece sembrare una cosa urgente, perciò loro continuarono a rimandare. Lunedì 20 gennaio 1997, il dottor Charles W. Ruggeroli, cardiologo che aveva curato Parker per problemi cardiaci congestizi, lo fece ricoverare al Valley Hospital di Las Vegas. La sua ultima malattia giunse senza preavviso.
Mentre si trovava in un’altra stanza, Loanne sentì un tonfo. Chiamò il Colonnello, chiedendo se fosse tutto a posto, ma non ricevette risposta. Quando andò in salotto a controllare, lo trovò collassato sulla sedia, con una pila di lettere natalizie dei fans in grembo. Era crollato mentre stava rispondendo alle missive.
Durante tutto quell’anno la salute del vecchio era peggiorata e pur non portandosi più addosso centotrenta chili abbondanti non era neanche lontanamente nel suo peso forma. Loanne lo portò in ospedale, dove il mattino dopo Parker ebbe un ictus. Alle nove e cinquantotto il dottor Ruggeroli lo dichiarò morto.
Le reazioni alla morte del Colonnello furono curiose. «Parker ha lasciato l’edificio», titolò l’«Entertainment Weekly». La rivista lo definì «il più famigerato manager nella storia del rock».
«Time» lo identificò come «impresario di Elvis Presley», l’uomo che «orchestrò la carriera del Re» arrogandosi percentuali esagerate.
A Nashville, dove Parker e Marie ebbero casa per molti anni, le reazioni furono più pacate. Il «The Nashville Banner» lo definì «la mente geniale» dietro Elvis e il «Tenessean» «il manager più noto nella storia della musica popolare».
A Las Vegas, l’ex responsabile delle relazioni esterne dell’Hotel Hilton e collaboratore di lunga data Bruce Banke dichiarò ai giornalisti del «Las Vegas Review-Journal» che Parker era «il promoter più sbalorditivo che [avesse] mai incontrato».
L’artista Wayne Newton disse allo stesso giornale che quando Elvis era morto, metà dell’esistenza di Parker se n’era andata insieme a lui. Adesso, con la morte del Colonnello, «il trapasso [era] completo».
Le riviste dedicate ai fans di Elvis non furono così gentili. In un necrologio intitolato «Sonofobituary», pubblicato su «Now Dig This», Gordon Minto descrisse Parker come un buffone di corte.
«Purtroppo, a quanto pare, qualcuno che lo piangerà c’è» scrisse. «…il mondo della musica pop ha perso il manager più famigerato e chiaccherato di sempre. Di sicuro non ci sarà mai più nessuno come lui… i cinici potrebbero dire che è davvero la fine di un errore (sic).»
L’immagine del Colonnello nei suoi ultimi anni è notevolmente diversa da quella che gli rimase appiccicata addosso per la maggior parte della sua vita. Parole come intimidatorio, burbero, egomaniaco non sembravano più adatte.
Negli anni da venditore ambulante indipendente di cimeli su Elvis, Paul Lichter ebbe diversi scontri con il Colonnello, ma ciò che ricorda di più di lui è il modo in cui rispose a suo figlio Tristan, allora ragazzino.
«Il Colonnello lo riempì di regali» disse. «Era un uomo estremamente generoso.»
Una volta Tristan riferì a Parker di essere un fan di Michael Jackson. «Non appena lo venne a sapere, il Colonnello gli mandò una splendida foto di se stesso e Michael Jackson sul balcone del suo appartamento a Las Vegas» ha raccontato Lichter. «Poi Michael Jackson inviò a Tristan un disco di platino di Thriller, invitandolo a una festa, tutto grazie al Colonnello.»
Il collaboratore di lunga data Al Dvorin condivide l’opinione di Lichter sul lato più gentile e premuroso del Colonnello. Dvorin si occupò della gestione quotidiana di molti tour.
«Mi faceva consegnare gli assegni» ha spiegato. «Pagavo le persone più di quello che guadagnavano, perché era la sua maniera di aiutarle. Quando uno dei promoter con cui lavoravamo passò un periodo difficile, fu il Colonnello a occuparsi di lui… era un brav’uomo, un buon amico, perciò non date retta alle stupidaggini fasulle che leggete sui giornali.»
Le maggiori critiche il Colonnello le ricevette non per la sua mancanza di generosità, ma per come gestì la carriera di Elvis. Keith Richards, chitarrista dei Rolling Stones, sostiene che fu «davvero scandaloso ciò che Parker fece a Elvis».
C’è chi concorda. Frances Presto, capo della Broadcast Music, Inc., ritiene che Parker gestì le finanze dell’artista in maniera «negligente». «Si faceva pagare cifre astronomiche per occuparsi di Elvis, molto più di quanto sia la
norma nel management, e gli affari di Elvis non furono gestiti adeguatamente» afferma. «Parker avrebbe potuto occuparsi meglio del problema di Elvis con la droga, invece mantenne una politica di non intervento.»
Per Marshall Grant, «il management di Elvis Presley è la maggiore tragedia della musica americana». Per coloro che conobbero il cantante agli inizi, e videro la brillante promessa della sua carriera, ciò che fece il Colonnello rimane imperdonabile. «Come manager, non ho mai avuto molto rispetto per [Parker]» dichiara Grant. «So che il Colonnello è morto e tutto quanto, e non [mi piace] parlare dei morti, ma nulla può sostituire la verità. Per me, il Colonnello non era un manager. Elvis si era fatto da solo… Non so perché non abbia detto “Ehi, ne ho abbastanza!”. Se il Colonnello Parker avesse compiuto il suo lavoro, si sarebbe assicurato che Elvis fosse in ogni accidenti di angolo del pianeta, che lui avesse o meno un passaporto. Conosco un sacco di agenti che non viaggiano con i musicisti. Aveva paura che qualcuno gli rubasse Elvis come lui lo aveva rubato a Bob Neal.»
Grant ritiene che Parker fosse sempre stato a conoscenza della tossicodipendenza di Elvis. «Ovvio che lo sapeva. Non ci sono dubbi. E non intervenne in alcun modo. Avrebbe potuto cercare di aiutarlo. L’unica cosa che gli interessava erano i soldi che Elvis produceva per lui. Non alzò mai un dito per migliorare la situazione.»

Quando era in vita, molte persone erano spaventate dal Colonnello: avevano paura di dire qualcosa che potesse offenderlo, paura di incorrere nelle ire dei suoi amici ai piani alti e anche a quelli bassi. Con la sua morte verrà riesaminato il ruolo che ebbe nella carriera di Elvis Presley. Nel corso degli anni, il Colonnello fece molto per proteggerlo da coloro che gli avrebbero fatto del male, e bisognerebbe dargliene il merito. Ma alla fine, il più grande dono che il Colonnello ha fatto a Elvis è stato morire, perché solo dopo il suo trapasso è divenuto evidente che Elvis non era affatto pazzo come la storia lo ha dipinto negli ultimi anni della sua esistenza. Il Colonnello Parker non era un uomo religioso. Non ci sono prove che abbia mai riconosciuto l’esistenza di un potere superiore. Non sorprende che abbia voluto che il suo funerale si tenesse al Las Vegas Hilton anziché in una chiesa. Fu appropriato che il suo
commiato prima di andarsene in un altro mondo si tenesse in un
casinò. I funerali si svolsero alle due e mezza del pomeriggio, il sabato dopo la sua morte. Il vistoso padiglione dell’hotel disse addio al Colonnello nella giusta maniera. Fu una delle poche volte in cui sotto i riflettori finì il suo nome. Loanne invitò numerosi vip alla cerimonia, ma si presentarono in pochi, ad eccezione degli anziani come Eddy Arnold. In tutto, parteciparono circa duecento persone. Molti si alzarono raccontando i ricordi che avevano di lui. A volte risero e fecero battute. A volte piansero.
Forse la sorpresa più grande fu la presenza di Priscilla Presley, l’ultima persona che ci si aspettava di vedere al servizio funebre del Colonnello. Certo, quello che tutti erano venuti a vedere, forse steso in una bara decorata stile «carro coperto» retta sulle spalle da una squadra di nani dal passo svelto, era il Colonnello Parker. Lui però spiccava per la sua assenza, essendo stato cremato prima della commemorazione.
La maggior parte degli amici a cui Parker aveva telefonato nei giorni che avevano preceduto la sua morte furono presenti al servizio funebre. Si sentivano in colpa per non averlo rivisto. Parlando tra loro, si resero conto che in molti avevano ricevuto la stessa telefonata. Di che cosa avrebbe voluto parlare? Li avrebbe in qualche modo contattati dall’aldilà per risolvere l’enigma?
L’anno successivo la sua scomparsa, Priscilla non avrebbe accettato di farsi intervistare sulle ragioni che la avevano spinta a partecipare al funerale. Anche lei aveva ricevuto una telefonata a cui non aveva risposto? A un certo punto, durante il servizio, Priscilla scoppiò a piangere, singhiozzando; alzando il tono della voce e facendosi sentire da tutti disse: «Non era parte dell’accordo!».
Piangeva perché Parker era spirato dopo essere stato per diversi anni in cattiva salute? O stava piangendo perché il Colonnello aveva promesso di liberarla dalla schiavitù alla sua morte e all’improvviso Priscilla si era resa conto che non sarebbe successo? Forse «l’accordo» a cui Priscilla si riferiva era che il suo incubo sarebbe terminato alla morte di Parker. Si era scordata che stava partecipando a un funerale in un casinò, dove le probabilità sono sempre a favore del banco?
Durante la commemorazione tutto filò liscio, anche se ci fu un momento d’imbarazzo quando a un giornalista di una rivista, che stava facendo domande, fu chiesto di lasciare la stanza. In seguito, il reporter avrebbe chiamato alcuni degli amici di Parker chiedendo se avessero informazioni su un’indagine per omicidio nella quale era coinvolto il Colonnello, in Florida, riferendo loro che girava voce che l’uomo avesse una ragazza, che era stata uccisa. Più tardi, quel giorno, le sue ceneri furono interrate ai Palm emorial Gardens, a Las Vegas. Non appena i partecipanti al funerale lasciarono il Las Vegas Hilton, i funzionari dell’albergo cambiarono il padiglione esterno per pubblicizzare un imminente incontro di pesi massimi.
Con sorpresa di molti, il Colonnello non scelse di riposare accanto a Marie, tumulata nel mausoleo dello Spring Hill Cemetery di Madison, nel Tennessee. Come il servizio funebre al casinò, la sepoltura non fu aperta al pubblico.
Andandosene, quel giorno, i partecipanti sentirono che era rimasto qualcosa di irrisolto. Chi si era aspettato una liberazione, non l’ottenne. Chi si era aspettato una busta sigillata, o una spiegazione, o una ragione, se ne andò a mani vuote.
Nei mesi seguenti, da Loanne ricevettero solo la richiesta di non parlare del Colonnello. In un certo senso, Parker si assicurò di avere l’ultima parola. Per come andarono le cose, nessuno poteva avere la certezza che non li contattasse dall’aldilà… in un anno, o dieci, o venti, per tramite di qualche messaggero con una busta sigillata in mano, e dentro parole demoniache cosparse di neve nera, che avrebbero cambiato radicalmente la loro vita.

C’è chi crede che il Colonnello Parker possedeva poteri soprannaturali e che un giorno risorgerà come una gigantesca, goffa fenice, accompagnato da un esercito di nani che ballano il tip-tap e, forse, insieme al Re in persona, per rivendicare il suo trono di più grande showman del pianeta.
Altri credono che il maestro delle truffe si sia incarnato nel corpo gonfio del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, probabilmente il più grande «pupazzo di neve» della storia americana.
Per molti versi, la storia del Colonnello Tom Parker è appena cominciata.


FINE
[Modificato da marco31768 05/08/2023 16:03]
05/08/2023 16:02
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