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♥Parabola del seminatore

Ultimo Aggiornamento: 18/12/2008 13:41
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VANGELO DI MARCO

Capp. 4,9-1

Parabola del seminatore

*E di nuovo cominciò a insegnare in riva al mare. Ed essendosi radunata una grande folla intorno a lui, egli entrò in una barca e  se ne stava in mare, mentre la gente era a terra sulla riva. *E insegnava loro soprattutto in parabole e diceva loro nel suo insegnamento: *Ascoltate: Ecco, il seminatore uscì a seminare. *E nel seminare avvenne che parte del seme cadde lungo la strada e vennero gli uccelli e se lo beccarono. *E altro cadde sul suolo roccioso, dove non trovò molta terra e subito spuntò, non avendo fondo di terra, *ma levatosi il sole, riarse, e per mancanza di radici seccò. *E altro ancora cadde fra le spine; e le spine crebbero e lo soffocarono e non fece frutto. *E altro ancora cadde nella terra buona, e rese, crebbe e granì e produsse dove il trenta, dove il sessanta e dove il cento per uno. *E diceva: Chi ha orecchi per intendere intenda.

Nella parabola Gesù è di fronte alla folla, nell’atteggiamento del maestro che insegna stando seduto. La parabola del seminatore si apre e si chiude con l’imperativo dell’ascolto, perché ascoltare è insieme sentire e obbedire. “Chi ha orecchi per ascoltare ascolti”, la frase allude ad un ascolto attento, all’orecchio proteso per udire tutto distintamente senza perdere alcuna parola. E suggerisce l’importanza, ma anche la misteriosità di ciò che è detto. Qui “orecchio” sta per intelligenza: ciò che viene detto è, infatti, qualcosa da decifrare, e richiede l’attenzione della mente e del cuore. Disposizione che però non tutti hanno, vale a dire che esiste l’eventualità di non capire.

La parabola del seminatore è quindi importante, va decifrata, è oggetto di un discernimento: alcuni comprendono, altri no. Le parabole s’illuminano per chi è disponibile, restano oscure per chi ha il cuore indurito.

La parabola narra la storia di una semina: “Ecco, uscì il seminatore a seminare. E nel seminare…”. Una sola semina, lo stesso seminatore, lo stesso seme, gli stessi gesti, la medesima fatica, e tuttavia gli esiti sono diversi. Ad un’attenta lettura balza all’occhio che non il seminatore né il terreno sono al centro della parabola, ma il seme. Il seminatore compare all’inizio, poi non se ne parla più. E a parte il suo gesto iniziale, di lui non si dice nulla, né una parola né una reazione: sulla sua fatica, le sue speranze, le sue delusioni, la sua gioia per il raccolto abbondante. L’attenzione deve perciò concentrarsi sul seme; non sulle sue qualità, di cui nulla viene detto, bensì sulla sua sorte. Tuttavia, sarebbe fuorviante fermare l’attenzione esclusivamente sul seme, infatti, la figura del contadino svolge una funzione assolutamente necessaria alla narrazione.  Dicendo “uscì il seminatore a seminare”, la parabola fa subito intendere che le quattro scene di cui si compone non costituiscono quattro storie diverse, ma una sola: quella, appunto, di un contadino che getta il seme nello stesso campo e nello stesso giorno. Fuori metafora: le quattro vicende del seme rappresentano gli esiti doversi dell’unica seminagione fatta da Gesù. La parabola racconta la storia del suo ministero. E’ una parabola cristologia, anche se poi le successive comunità dei discepoli vi leggeranno la propria storia. Ma ritorniamo alla struttura della parabola. I primi tre quadri sono la storia di un ripetuto fallimento; caduto sulla strada o fra i sassi o fra le spine, il seme non frutta. Soltanto nell’ultimo quadro si legge che il seme, caduto sul terreno buono, porta molto frutto. L’evidente insistenza sulla sfortuna del contadino conferma quanto abbiamo già intravisto: e cioè che la situazione in cui la parabola va collocata è quella di una fatica che pare troppo spesso inutile e di un insuccesso della Parola che sembra totale o quasi. Tuttavia, le cose non stanno così, dice la parabola. E’ vero che ci sono gli insuccessi, anche ripetuti, ma è certo, sempre certo, che una parte del seme frutta. Quindi, fratelli e sorelle, questo è un invito alla fiducia. In questione non è precisamente la verità della Parola, bensì la sua efficacia. Ciò che fa problema non è la bontà del seme, ma la sua concreta capacità di portare frutto. Non raramente è più difficile aver fiducia nell’efficacia della Parola piuttosto che fede nella sua verità. In un certo senso, possiamo paragonare la parabola del seminatore ad una storia a lieto fine: dopo i ripetuti fallimenti, ecco il successo che ripaga della fatica. In ogni modo di fronte alla ripetuta constatazione che in molti terreni il seme non frutta, sarebbe logico chiedersi per quali ragioni questo accadesse. Domanda importante, alla quale il Vangelo risponde più avanti in 4,13-20.

Tuttavia, l’interesse prevalente della parabola è un altro, come dicevo all’inizio. Chiedersi perché i terreni non permettano al seme di fruttificare, è questione importante, che però riguarda gli altri. La parabola mira piuttosto non alle ragioni dei molti fallimenti, ma all’atteggiamento di fiducia che l’annunciatore della Parola deve assumere quando li incontra. Sottolinenando per tre volte l’insuccesso, Gesù mostra chiaramente la situazione storica ed esistenziale in cui la parabola va letta: una situazione nella quale il lettore cristiano non ha difficoltà a scorgere l’esperienza di Gesù e la propria.

Proprio per questo Gesù sposta l’attenzione dell’ascoltatore sull’abbondanza del raccolto: e lo fa con una serie di sottili contrapposizioni. Nei primi tre quadri la sorte del seme è descritta con “gli uccelli lo beccarono, il sole lo riarse, le spine lo soffocarono”. Invece, nel quarto i verbi sono all’imperfetto: “dava frutto, rendeva il trenta ecc…”. In tal modo la parabola invita il lettore a concentrare l’attenzione sul seme che cresce e porta frutto. Non solo, la quantità di seme caduta in terreno cattivo è espressa al singolare: una parte, un’altra parte. Diversamente, per indicare la quantità di seme caduta in terreno buono, è usato il plurale: altre parti. Sì, è vero che per tre volte il seme va sprecato, ma è ugualmente vero che la quantità non sprecata è molto grande. Ma è soprattutto l’abbondanza del raccolto che sorprende. Il trenta, il sessanta, il cento per uno è una proporzione altissima. Molto spesso si legge la parabola come se la fiducia richiesta al seminatore fosse innanzitutto rivolta al futuro. Se così fosse, il messaggio centrale della parabola sarebbe sostanzialmente ovvio. Al contrario, la fiducia richiesta riguarda il presente più che il futuro. Questo è forse il tratto più singolare dell’intera parabola. I ripetuti fallimenti e il successo non sono disposti su una linea temporale: ora è il tempo dell’insuccesso, ma il futuro riserva ampio raccolto; oggi si sperimenta il fallimento della propria fatica, domani invece se ne vedrà il frutto abbondante. La differenza come possiamo vedere, infatti, è tra terreno e terreno, non fra tempo e tempo. Vale a dire che nella stessa semina e nello stesso tempo fallimenti e successo sono la sorte del seme. Di fronte alla medesima Parola c’è contemporaneamente chi l’accoglie e chi la rifiuta. L’importante per chi facesse sua questa fiducia non pretenda che il seme crescesse sempre e ovunque. Piuttosto, la certezza che da qualche parte, già ora, esso dia frutto, offre la possibilità di accorgersene, non soltanto la pazienza di attendere. Comunque sia, non c’è ragione di scoraggiarsi, tanto meno di dubitare della presenza del Regno. La fiducia del contadino insegna a guardare di là dei fallimenti, per accorgersi che la Parola del Regno è qui, fra smentite e successi, già ora efficace. Vorrei rammentare a tale proposito una frase di Gesù in Giovanni 4,15: “Levate i vostri cuori e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”.

Fin qui il racconto parabolico: ciò che succede all’azione del contadino, succede all’azione di Dio. Ma perché mai la semina di Dio deve assomigliare a quella di un contadino? Non stupisce lo spreco di un contadino palestinese (questo era proprio il modo di seminare degli antichi palestinesi), ma quello di Dio sì. Il contadino eviterebbe lo sperpero, se potesse. Dio non dovrebbe evitarlo, proprio perché Dio? Così la domanda cruciale si ripropone, costringendoci a rileggere la parabola per accorgerci che essa non darebbe nessuna risposta, se non fosse collocata nell’evento di Gesù. E’ qui che si chiarisce. Nessuna parabola può essere letta diversamente. Perché altro è l’azione di un contadino, altro quella di Dio. Ed è soltanto la storia di Gesù che permette di cogliere le ragioni della somiglianza. La storia di Gesù, gesti e parole, croce e risurrezione, è la parabola che illumina tutte le parabole. Le parabole svelano pienamente il loro senso solo dopo la Pasqua. Se la semina di Dio non è diversa da quella del contadino, è perché all’origine dell’agire di Dio c’è una sovrabbondanza d’amore che sembra spreco e noncuranza, e che soltanto la croce di Gesù riesce a svelare nel vero senso: non sperpero o inefficace debolezza, bensì gratuità e luminosa rivelazione di chi è Dio. A questo punto la figura del contadino muta fisionomia: i suoi gesti non sono più quelli semplici e abituali di un contadino della Palestina, ma i gesti rivelatori della generosità divina, tanto disinteressata e traboccante da rasentare l’incuria e lo spreco; ciò è tipico dell’amore che non calcola.




 
  


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