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Le Senza-Nome

Ultimo Aggiornamento: 19/07/2008 22:46
10/06/2008 16:40
 
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Questo argomento mi esalta da morire!
Soprattutto perchè ho trovato questo pezzo meraviglioso sul libro "La Via dello sciamanesimo boreale", di Davide Melzi, che è davvero illuminante...
Avevo accennato qualcosa di questo argomento nell'articolo sulla Dama del Lago, la quale viene appunto ricordata con questo epiteto, mentre è raro che abbia un nome proprio (abbiamo visto che probabilmente Viviana/Nimue è un altro personaggio distinto, non legato particolarmente alla Dama del Lago, in quanto quest'ultima svolge un ruolo in funzione del proprio "titolo"), e a tal proposito riporto il pezzettino essenziale che avevo scritto:

"Queste particolarità ci suggeriscono che, in realtà, colei che si nasconde dietro all’epiteto di “Dama del Lago”, non sia tanto importante quanto il ruolo che ella principalmente rappresenta proprio in virtù di tale appellativo, poiché ella incarna lo Spirito delle Acque, l’altissima Dea terrestre/materna, lunare/acquatica, che non conosce nome eppure è chiamata con infiniti nomi."

Appunto, Colei che non ha nome ma che al contempo ne ha moltissimi.
Le fiabe soprattutto sono costellate di queste figure che vengono semplicemente chiamate "Vecchia", "Fanciulla", "Strega", ecc.
e in questo pezzo dal libro di Davide Melzi troviamo una spiegazione veramente meravigliosa su questo argomento:

"Mentre l'eroe ha quasi sempre un nome, l'eroina resta in genere anonima, 'bambina', 'ragazza', 'donna', 'vecchia'. Il mistero di questo nome tenuto segreto sembra investirla di una forza particolare. Nella sua bocca la parola acquista una virtù costrittiva. Il possedere un nome, infatti, delimita ed individua. Il non avere nome può permettere di essere tutto, di incarnare il non-manifestato, il non-individuabile, che sta metafisicamente prima e sopra tutti gli esseri."

Coloro che non possiedono un nome vero e proprio, quindi, non sono altro che Figure che portano con la loro stessa presenza l'Essenza del Tutto, la Grande Madre incarnata eppure completamente disincarnata, poichè indefinita e indefinibile... illimitata, infinita.
Coloro che non portano un nome sono coloro che hanno conosciuto la condizione di Libertà che sta "prima e sopra tutti gli esseri", e che di tale potere sacro sono portatrici. "Sacerdotesse" nel senso più letterale ed etimologico possibile.

D'altra parte esistono molte altre teorie che affermano il potere del nome, ed il potere che si acquista se si è in possesso della conoscenza del Nome...
Tuttavia forse questo potere è più limitato ad una sfera più comune e più "manifesta" (ovviamente manifesta), mentre il non avere nome sta ben oltre queste concezioni e questi poteri.
Sarebbe bello approfondire ulteriormente questo argomento!

Bacinissimi!
Violet





"Oltre ogni tempo e tuttavia nel cuore del tempo."
Haria

"Incappucciate e velate, con le trecce color notte, le Fate porteranno ciò che nessun profeta intuì."
Lord Dunsany

Il Tempio della Ninfa

10/06/2008 22:09
 
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Leggendo il pezzo sono giunta alla stessa domanda che ti sei posta tu: il potere del Nome nella mitologia e nella leggenda. Eppure secondo me non ha un' accezione positiva: conoscere il nome significa dominare, prevaricare. Ricordo per esempio che nelle leggende delle Salighe del Trentino si narra che queste creature non pronunciassero mai il loro nome, e coloro che tentavano di scoprirlo nonostante il loro silenzio venivano da loro per sempre abbandonati. Questo perchè queste donne straordinarie non volevano essere nominate, quindi dominate. Si dice che quando ad un cavallo viene dato un nome e questo al nome risponde, abbia perso ciò che di lui è selvatico. (non è la realtà, ma è semplicemente un detto, che però forse tutti i torti non li ha). Anche dare un nome alle cose significa averne in un certo senso 'possesso'. Per questo sono davvero affascinata da tutte quelle figure femminili delle storie, senza nome. Tutte diverse, ma Una.


la zia Artemisia






Quando le Donne non parlano,
la voce della Donna Selvaggia si tace.
E tace il naturale e il selvaggio nel mondo.
Tacciono i canti e le danze e le creazioni.
Tacciono l'amore, e le voci della consapevolezza.
CPEstes
)O(
11/06/2008 00:55
 
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Credo che dare un nome significhi portare in parola manifesta un'essenza, un insieme di vibrazioni non sempre manifeste.
Colei che non ha nome e al contempo ne ha molti è percepibile attraverso molte sfaccettature, non tutte verbali.
Proprio per questa sua caratteristica impariamo che per "Conoscerla" possiamo raggiungerla tramite uno dei suoi nomi ma anche tramite l'assenza di essi.
Lei ci insegna attraverso il suo Silenzio.. attraverso l'assenza di suono, attraverso il buio della grotta uterina.
Credo che portare dentro di noi un margine di questo "silenzio", di questa "parte non manifesta del tutto" sia già di per sè una cosa che ci rende sacre, quasi fossimo il suo Tempio.
E' una sensazione di riempimento e di assenza di contenuto che scuote fino alle ossa..
Questo è quello che mi ha ispirato la lettura delle vostre parole..
E'uno spunto meraviglioso su cui riflettere, hai ragione zietta, la libertà che deriva dell'assenza di un nome..






11/06/2008 01:23
 
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Anch' io ho una predilezione particolare per questo argomento [SM=g27817] è una delle cose che mi hanno colpito di più quando ho studiato lo sciamanesimo.
Secondo me si collega con l' idea di "vero nutrimento", se un' azione ti nutre profondamente e ti fa sentire l' unità con la Madre, i nomi, le distinzioni e i riconoscimenti esterni perdono significato

quale altro premio ti potrebbe interessare?

Nei testi di Carlos Castaneda si tratta spesso il tema della perdita dell' importanza personale,
sentirsi importanti significa sentirsi diversi, sentirsi appunto più importanti degli altri, e il nome proprio come anche l' appartenenza ad una famiglia, o ad un ceto sociale, spesso incrementano questo tipo di sentimento e ci vincolano, ci incatenano ad una forma e ad un modo di essere.

Riporto una frase tratta da "Una realtà separata" di Carlos Castaneda.

"Un' uomo di Conoscenza sceglie un sentiero che ha un cuore e lo segue; poi guarda e si rallegra e ride; e poi vede e conosce. Sa perchè vede che non c'è nulla che sia più importante delle altre cose. In altre parole un uomo di conoscenza non ha onore, famiglia, nome o patria, ma solo la vita da vivere."

questa fluidità, questa libertà dell' essere senza nome è secondo mè qualcosa che fa parte naturalmente dell' essenza femminile
la Madre o una madre donano senza aspettarsi ricompensa, senza il bisogno che qualcuno riconosca il loro nome, la loro individualità, donano perchè questo riempie il loro cuore.




Solo un' amore inflessibile verso ciò che da riparo ai suoi esseri può concedere libertà allo spirito di un guerriero
Carlos Castaneda

11/06/2008 04:52
 
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Nelle culture arcaiche, chiamare per nome significava chiamare all’esistenza, cioè creare. Con la parola si creava e si distruggeva. Con la parola si fissava il destino. La maledizione espressa era ineluttabile. La parola determinava: «il possedere un nome delimita e individua», come scrive Melzi.

Il nome indicava l’essenza vitale, rappresentava una forza vitale. Anche nel caso delle divinità, esisteva perfetta identità fra l’ente designato e il nome che lo designava: ad esempio, un nume e i suoi epiteti. Ogni singolo epiteto era un aspetto del nume, cioè il nume stesso. Attribuirsi un nome poteva permettere di acquistare le facoltà di chi lo portava: per esempio, una divinità o un antenato mitico. Conoscere il vero nome segreto degli dèi più potenti significava poter disporre dei loro poteri supremi ed esercitarli. Pronunciare il nome in un certo modo significava impadronirsi della persona che lo portava, o imporle la propria volontà. Certi nomi potevano essere pronunciati soltanto durante i riti sacri. Talvolta chi rinasceva dopo la morte iniziatica riceveva un nuovo nome, che conteneva ed esprimeva l’essenza della vita rinnovata. Questo avveniva anche agli iniziati alle società segrete. Cambiare nome sanciva la rinascita. Distruggere o cancellare il nome significava distruggere o cancellare ciò che esso designava.

La potenza formidabile contenuta nella conoscenza del nome, a causa dell’identità assoluta di questo con la persona, era tale da imporne la segretezza.

Scrive Davide Melzi: «Il mistero di questo nome tenuto segreto sembra investirla di una forza particolare.» Colei che è senza nome, o di cui non si conosce il nome, e che, al tempo stesso, ha molti nomi, custodisce forse il potere dei nomi: del proprio nome, e di molti altri nomi, forse infiniti altri nomi. Infatti, «Nella sua bocca la parola acquista una virtù costrittiva».

L’assenza di nome potrebbe collegarsi a un’altra forma di libertà, oltre alla Libertà descritta da Violet. Non avere nome, o non avere altro nome che il proprio titolo, potrebbe significare anche mantenere segreto il proprio nome vero per evitare di essere soggetti a poteri altrui, e questo potrebbe significare, letteralmente e metaforicamente, restare liberi, difendere e preservare la propria libertà, e la propria stessa vita.

Nel nostro mondo, i nomi sono usati per imporre il controllo della carta d’identità e della burocrazia, che è parte dell’Io, dei legami dell’Io. I nomi dell’Io ci chiudono in una gabbia che è burocratica, psicologica, ma forse anche magica. Per questo Castaneda, ricordato da Arcobaleno, insegnava a sottrarsi o sfuggire alla gabbia dell’Io anche cancellando, sostituendo o confondendo i «nomi burocratici», le «identità burocratiche». Al tempo stesso, il nome, ormai ridotto a vincolo burocratico, ha perso gran parte della sua magia. Anche il nome, nel nostro mondo, è ormai staccato dall’Armonia.

E se «Il non avere nome può permettere di essere tutto, di incarnare il non-manifestato, il non-individuabile, che sta metafisicamente prima e sopra tutti gli esseri», allora non avere nome corrisponde forse al vuoto che permette di entrare in contatto col Numinoso e di diventare Porta del Numinoso. E il nome che è soltanto titolo, «Dama del Lago», «Vecchia», «Fanciulla», «Strega» (e Merlino, per restare in ambito arthuriano), designa colei che è in contatto col Numinoso, portatrice del Numinoso. Forse questo si può collegare a ciò che ha scritto Acqua, e che io trovo molto bello, soprattutto nella sua conclusione: «una cosa che ci rende sacre, quasi fossimo il suo Tempio»… E’ molto bello…

Infine, la Dama del Lago, quale Senza Nome nel senso evocato da Violet, appare sfolgorante nella sua ineffabile potenza, esaltante agli occhi di coloro che la contemplano, anche se tentare d’immaginarla storicamente rende inimmaginabile ciò che dovevano provare all’epoca di Arthur coloro che si trovavano al suo cospetto…

Scusate per questi appunti disordinati, ma più ci penso, più l’assenza del nome suscita immagini e sensazioni difficili da definire…




E sempre il vento e l’ombra misuravano il tempo,
il sole portava riflessi come grate di gioia
alloggiata là fuori, incurante degli agguati—
quella che si sarebbe dovuta cercare.


Crevice Weeds






12/06/2008 00:23
 
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Credo che con il privarsi del nome si compia anche un passo di coscienza più ampia... chi abbandona il nome abbandona l'identità, abbandona la persona (ovvero la "maschera"), abbandona tutto ciò che sino a quel momento ha definito la propria vita...
certo abbandonare il nome è qualcosa che implica una rinuncia enorme, specialmente per come viviamo oggi e per i normali canoni che ci vengono impartiti sin dalla nascita dal mondo che ci circonda...
C'è chi basa tutta la propria esistenza sul nome... e nemmeno solo sul proprio... basti pensare l'importanza che hanno i nomi nel modo di vestire dei rinc...bambiti di oggi... le firme, le marche... tutto deve avere un nome ed in tali nomi assurdi, schifosi e sterili loro si identificano ancora di più... identificano la loro vita, associano la loro esistenza all'aspetto superficiale delle cose, al loro nome più squallido, alla materia... si vincolano con catene indistruttibili a ciò che è nome, ovvero identità, definizione, EGO, apparenza, ecc.
Per queste personcine anche solo l'idea di abbandonare il nome e tutto ciò che è ad esso collegato significa cessare di vivere... come del resto forse hanno già fatto, dato che una vita del genere equivale alla peggiore delle morti. Come si dice spesso "è morto ma non lo sa ancora".

Abbandonare il nome, per altri, potrebbe invece significare liberarsi di quelle catene, rompere tutta la superficie per sciogliere la propria identità nello Spirito immenso della Madre... senza perdersi completamente, ma, anzi, acquisendo una consapevolezza mille volte più immensa, più completa, meravigliosa...
Per questo a volte occorre sacrificare qualcosa per ottenere molto più di ciò che si E'. Qualcosa che inizialmente può sembrare estremamente importante... ma che poi non è altro che un muro...
e superando questo muro, ciò che si cela dall'altra parte, non lascia più spazio ad alcun dubbio o ripensamento... è Tutto ciò che esiste, è esistito ed esisterà...
c'è da chiedersi se questa consapevolezza sia possibile da contenere in un solo essere vivente, talmente è grande e infinita... ma queste sono cavolatine che la mia mente produce, e quindi non fateci caso! [SM=g27824]



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12/06/2008 01:04
 
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Forse si potrebbe dire che il nome, anzi, i nomi, un insieme di nomi per ciascun individuo, compongono una maschera, un involucro, un guscio di identità: come un’armatura semovente più o meno vuota. Se la si smonta si resta con poco.

In gran parte ciascuno si costruisce questa armatura, ma in parte viene costruita da altri e imposta a ciascuno. Dunque è qualcosa di cui liberarsi in qualche modo, o da cui affrancarsi, per poter essere se stessi, prima ancora di poter iniziare un percorso verso una maggiore consapevolezza, anzi, trovarsi almeno in parte è forse la prima cosa da fare per potersi poi incamminare.

Al tempo stesso, ricordo,, ancora una volta, «La strana storia di Garolfo», in cui l’identità costruita dai documenti, quindi dai nomi, è sì una maschera, ma una maschera usata consapevolmente per sfuggire «alle complicazioni burocratiche che è meglio evitare». Un modo per proteggere ciò che si è davvero e per condurre la propria ricerca, compiere il proprio percorso, indisturbati, almeno per quanto è possibile in un contesto «ostile». Mimetizzarsi non soltanto per sopravvivere, ma anche per custodirsi, coltivarsi, progredire, trasformare «segretamente» la propria esistenza.

«Sciogliersi nello Spirito immenso della Madre»… «Se sia possibile a un solo essere contenere una consapevolezza tanto vasta, forse infinita»… Non sono affatto «cavolatine», ma temi e problemi antichi, affrontati in tanti modi, proponendo tante diverse «soluzioni». E per alcuni sono forse esperienze ineffabili…

Ma forse non avere definizioni, non avere risposte, non avere soluzioni, o non averne di presunte definitive, di precostituite, è una ricchezza, perché apre infinite possibilità di ricerca, offre a ciascuno infinite vie da percorrere per liberarsi delle armature di ogni genere, e forse meglio si adatta, proprio per queste infinite prospettive di possibilità, alla consapevolezza che intuisci, Violet… Una consapevolezza di cui, mi piace pensare, abbiamo dentro di noi una scheggia di luce, una favilla di cui cercare di perrcepire il calore, una favilla da custodire e da alimentare, affinché possa diventare fiammella, se non fuoco…

Forse…

[SM=g27822]









E sempre il vento e l’ombra misuravano il tempo,
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12/06/2008 12:00
 
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In genere diamo un nome alle cose perchè siano coglibili dalla nostra parte umana, noi diamo un appellativo per poter riconoscere a livello "materiale" e superficiale ciò di cui stiamo parlando. Il linguaggio serve principalmente per cogliere le cose intellettualmente ma alla fine non è altro che una convenzione fra un gruppo di esseri umani.
La parola "nome" deriva dal latino nomen, derivante a sua volta dal greco "conoscere" da cui mente, intelletto, gnosi. Il nome quindi, parrebbe una forma riservata all'intelletto, anche se profondo, e al fatto ci afferrare le cose (cum + gnosco dove cum ha significato pressappoco di portare verso di sè, di mezzo o strumento - scusate ma il mio latino è un po' arrugginito- ).
Quando scrivo qualche racconto o cosa simili detesto dare nomi ai personaggi, perchè appunto il nome ha la proprietà di delimitare, di decidere "questo sì, questo no".
Il nome come avete già detto ha potere, forse perchè evochiamo pronunciandolo ciò che rappresenta; come recita anche il disegno in copertina di "All'origine delle parole" Nomina sunt numina e quindi, forse, nominando qualcosa andiamo al di là delle semplici vibrazioni sonore, ma tanto per cambiare, come diceva Alessandro, anche il nome in questi tempi ha perso significato e ci ritroviamo intorno nomi cretini che designano cose sterili (ipse dixit Violet [SM=g27824] ).
Lei non ha nome perchè non può essere delimitata, possiamo conoscere a poco a poco vari suoi aspetti, studiando ed assimilando i suoi vari volti come Aphrodite o Iside o Inanna ed ogniuna di loro contiene in sè le altre e la totalità che la Dea incarna...forse sotto questo punto di vista le varie forme con cui è stata adorata la Divinità sono delle "persone" ovvero delle maschere che servono a farci cogliere la perfetta ed ineffabile energia primaria che anima il mondo...
Mumble..rifletto, e mi complimento per la scelta del argomento che tanto per cambiare è splendido! [SM=g27838]

Per altro sono molto d'accordo con le "cavolatine" di Violet [SM=g27824]


...per lasciare agli esseri umani la scelta di scomparire nel tempo dell'eternità o vivere nell'eternità del tempo.

Haria

13/06/2008 12:08
 
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il discorso sul potere del nome affascina anche me ed è inoltre riscontrabile in diverse civiltà e religioni, in questo articolo si possono leggere alcuni brevi passaggi a tal proposito:

L'OSCURO POTERE DEL NOME

"Nominare" le cose non è un semplice esercizio di fantasia, ma un momento fondamentale della creazione e/o della scoperta del mondo. Nella Bibbia leggiamo: Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti li uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome: Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche (Genesi, 2, 19-20): di ciò si ricorda Giovanni Pascoli, quando parlando del fanciullino (cioè di quella parte di fanciullo che resta per sempre nell'animo dell'uomo e che si realizza compiutamente nel poeta) lo definisce l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente: ciò permetterebbe interessanti riflessioni sul valore del nome, del dare nomi per il bambino e per il poeta!
In tutte le culture religiose conoscere il nome significa conoscere l'essenza e pronunciarlo equivale ad evocare e ad impadronirsi della forza di chi tale nome porta: in ciò sta la ragione del divieto biblico circa il dire invano il nome di Dio (Esodo, 20, 7). La cultura classica ci ha lasciato molteplici esempi dell'importanza dei nomi degli dei: valga per tutti , la celebre invocazione del Coro dell' Agamennone di Eschilo: Zeus, qualunque mai sia il tuo nome, se con questo ti piace essere chiamato, con questo ti invoco (vv.160-162).
Per gli uomini l'inizio della vita coincide con l'assunzione di un nome. Ma ciò vale anche per l'ingresso in realtà completamente nuove: il farsi monaco, frate o suora; l'aderire a qualche setta o a qualche società segreta, ecc… Sull'importanza magica del nome scrive cose illuminanti James G.Frazer nel suo Il ramo d'oro,particolarmente in relazione all'uso del doppio nome presso la civiltà egizia e quella indiana:
Ogni egiziano riceveva due nomi conosciuti rispettivamente come il vero nome e il nome buono, o come il nome grande e il nome piccolo: e mentre il nome buono o piccolo era pubblico, il nome vero e grande si teneva nascosto con ogni cura. Il bambino bramino riceveva due nomi, uno per l'uso comune, l'altro segreto, conosciuto soltanto dal padre e dalla madre. Questo secondo nome non si usa che nei riti, come nel matrimonio. Quest'uso è destinato a proteggere la persona dalla magia, poiché un incantesimo diventa efficace soltanto in combinazione col nome vero.

fonte:QUI


Ho trovato molto interessante soprattutto la prima parte, in cui parla della Bibbia, in quanto non mi ci ero mai veramente fermata a riflettere, e la cosa che mi ha colpito è in effetti che il nome di Dio resta segreto, ma Dio invece da nome a tutte le creature create. Quindi è molto interessante il discorso sul dare nome=creare (non avendo avuto studi classici in materia di etimologia delle parole sono però putroppo abbastanza ignorante, quindi mi scuso se ho detto strafalcionerie).



[SM=x728044]

13/06/2008 15:32
 
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La Divinità non può avere nome, per quanto detto più sopra... è impossibile, infatti, definire l'indefinibile, "finire" e nominare l'infinito e l'innominabile.
E ogni Donna o Uomo che nel suo Percorso riesce a raggiungere non solo la consapevolezza della propria parte sottile, ma anche quella sublime dello Spirito, ovvero della Grande Madre da cui tutto ha origine, perde come lei il nome, oppure ne assume forse più di uno a seconda degli aspetti, come la Madre stessa, che non può essere chiamata in modo definito...
Ora mi rendo anche conto del perchè io non abbia mai amato chiamare la Dea con i nomi che la mitologia le ha dato Sono nomi splendidi, ma non sono mai riuscita a percepire davvero la sua infinita grandezza e Bellezza chiamandola con uno dei suoi nomi... mi sembra di definirla, di limitarla... per questo forse molti popoli si limitano a chiamarla appunto Grande Madre... o Madre di Tutti o con altri bellissimi nomi che descrivono appunto la sua infinita Presenza.
E mi rendo anche conto ora che molti nomi che noi percepiamo come semplici nomi, perchè sono in una o più lingue che non conosciamo, sono in realtà nomi che letteralmente significano semplicemente "Grande Madre". Mi viene in mente, per esempio, la Estsanatlehi della tribù Navaho e Apache... sembra un nome proprio, e bellissimo, ma nella loro lingua significa, appunto "Madre di Tutti". Oppure la Pacha Mama o tantissime altre manifestazioni della Dea nelle diverse culture.
Dovremmo magari fare delle ricerche etimologiche sui nomi delle Divinità, specie le più arcaiche. Forse scopriremmo proprio la loro disidentificazione, ovvero la mancanza del nome proprio che le caratterizza... poichè Esse/Essa non sono/è nominabili/e altrimenti.

[Modificato da stregaviolet )O( 13/06/2008 15:33]


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Il Tempio della Ninfa

13/06/2008 20:32
 
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D'altra parte tutti i nomi vogliono dire qualcosa o si riconducono a qualcosa di più generale, sia quelli di divinità che in genere sono legati a fenomeni naturali, sia quelli di persone comunemente usati...solo che noi per l'appunto siamo abituati a considerarli come nomi propri. Condivido la tua attitudine, Violet, nel non riuscire ad entrare bene in "contatto" con i vari nomi, è molto più congeniale al mio modo di essere chiamarla nei modi che hai detto anche te...
Forse abbiamo bisogno di nomi e definizioni perchè non ne siamo parte, non la viviamo, se no, basterebbe il solo pensiero o la sensazione senza nessun'altra indicazione...
Continuo a dire che è un argomento affascinante [SM=g27817]


...per lasciare agli esseri umani la scelta di scomparire nel tempo dell'eternità o vivere nell'eternità del tempo.

Haria

13/06/2008 23:51
 
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sicuramente mi trovate d'accordo nel chiamarla semplicemtne Grande Madre o Madre, nemmeno io riesco ad associarla perfettamente con i vari nomi che le vengono di volta in volta attribuiti.
E' affascinante la tua puntualizzazione Violet, che probabilmente in ogni lingua il nome della Dea porterebbe alla disidentificazione, sarebbe davvero una ricerca interessante



[SM=x728044]
14/06/2008 02:58
 
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Anch’io non amo dare nomi ai personaggi, e ancor meno amo le descrizioni dell’aspetto fisico e dell’abbigliamento, a meno che siano concise e intense, relative a dettagli particolarmente significativi.

Lo svuotamento di senso del nome e della parola descritto da Violet, per cui i nomi e le parole diventano catene di cui è necessario liberarsi, e la loro riduzione a etichette per designare le cose, di cui ha parlato Elke, sono il rovesciamento della parola sacra e divina a cui il mondo moderno ha portato.

Rispetto alla Dèa e alle esperienze ineffabili, come la conoscenza dell’Anima e lo scioglimento nello Spirito, nel senso descritto da Violet, osservo che pur essendo, appunto, cose ineffabili, se ne è sempre scritto, e se ne scrive tuttora, tantissimo, più o meno bene, ovviamente, e credo che questo sia significativo della complessità sia delle cose ineffabili, sia della parola e del nome. L’ineffabile chiede proprio in quanto tale di essere espresso in qualche modo, e il linguaggio chiede di staccarsi dai suoi referenti e di diventare autonomo, significativo in se stesso e di per se stesso: anche questo si collega al potere magico e creativo della parola.

Forse proprio per questo, attraverso la poesia, o prose particolarmente ispirate, si può in qualche modo alludere all’ineffabile. La parola è dono della Musa, il potere magico e creativo le deriva dal Numinoso, dunque è sacra, o lo era, perché nel mondo moderno, in cui la Natura viene distrutta poco a poco e la connessione al Numinoso s’indebolisce sempre più, anche la parola, il nome, hanno perso quasi completamente la loro sacralità e il loro potere magico e creatore. Forse tentano di ritrovarlo, come accade nella poesia, staccandosi dai loro referenti per riacquistare la loro autonomia e ridiventare significativi in se stessi, senza rinviare ad altro: in un certo senso, a loro modo, ineffabili.

Come scrisse Walter Otto nel suo «Le Muse» (Roma, Fazi, 2005, p. 85), la Musa «stessa è il canto. In definitiva, ovunque qualcosa venga cantato, il cantore mortale, dal momento in cui riceve la voce, è un ascoltante; poiché è la dea stessa che canta nella sua voce. E perciò il canto e la parola hanno un significato tale, come solo ciò che è davvero divino può avere: sono la rivelazione dell’essere delle cose e perciò tutt’uno con l’essenza stessa delle cose, perché senza il canto la creazione non sarebbe compiuta, il mondo non sarebbe completo». Il titolo non abbreviato di questo bellissimo libro è, infatti, «Le Muse e l’origine divina della parola e del canto».

Scrive Mario Negri («All’origine delle parole», Milano, Edizioni della Terra di Mezzo, 2002, pp. 8, 9): «Alcune parole, se pronunciate in un certo contesto e se riferite al senso originale che esse possedevano nei tempi antichi, potrebbero quindi non essere dei suoni che rappresentano le cose, ma dei mezzi evocativi che potrebbero richiamare od allontanare le energie a cui esse si riferiscono. […] La parola aveva quindi un tempo un grande valore; chi conosceva i nomi delle forze che potevano essere evocate con certe parole ne conosceva la potenza intrinseca, l’energia nascosta che, grazie al nome, diventava manifesta e operativa».

Da un lato, come Violet e come Elke, mi viene spontaneo dire la Dèa, la Madre o la Grande Madre, o anche Colei Che Ha Molti Nomi. Dall’altro, sono incantato dalle parole, dalle loro forme, dai loro suoni, dai loro molteplici significati, dalle loro concatenazioni, e quindi sono estremamente affascinato dagli epiteti delle divinità: ad esempio, quelli di Aphrodite. E una ricerca etimologica sarebbe interessantissima.

Anche a questo proposito, cioè sugli epiteti della Dèa e sull’impossibilità di definire il Numinoso, si trova qualcosa in Mario Negri (pp. 56, 57), secondo cui la molteplicità degli dèi, dei loro attributi e dei loro nomi, è ricchezza, è completezza, di contro al monoteismo, che è estremamente limitato e limitante: «La Divinità assumeva quindi innumerevoli forme e funzioni, sempre positive ed armonizzanti ma che potevano a volte apparire addirittura in contrasto tra loro, e ad ognuna di tali forme e funzioni potevva essere dato il nome di un Dio.
«Esisteva la Dea del raccolto, il Dio che guidava le anime dei morti, la Dea della caccia, il Dio dei naviganti, la Dea della sapienza, il Dio dell’ebbrezza, il Dio degli artigiani, quello dei mercanti, quello dei contadini e via dicendo.
«Poiché per i popoli arcaici ogni atto della vita dell’uomo e della donna era sacro, vi era un Dio od una Dea, ovvero una forza ed una energia non materiale, che rappresentava o forse era la perfezione di ciascuno di tali atti».

Non vi sembra che questo si possa in qualche modo ricollegare alla Dama del Lago, anzi alle Dame del Lago, quali sacerdotesse della Dèa, e alle diverse funzioni che in quanto tali svolgevano?






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16/06/2008 20:29
 
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a mano a mano che leggevo ciò che avete scritto mi si svelava nella mente l'immagine dell'universo...l'immagine di un oscurità intervallata da piccolissimi puntini luminosi, piccole stelle come diamanti che non lasciano intendere che il buio predominerà e con esso il silenzio, ma quel silenzio prima della creazione, un silenzio che sa di attesa...
ecco forse una divinità senza nome ci svela quella fase interiore che preannuncia un illuminazione creativa, è quella parte divina che portiamo dentro di noi, che non riusciamo a controllare a definire sotto il velo di un nome, è quella parte che custodisce tutte le possibilità è in sè la totalità...
ma sono molto vicina al pensiero di Elke quando suggerisce che ci si avvicina alla totalità solo scomponendola.

___________________________________________________
...nel richiamo di sensazioni persiste il sogno..
17/06/2008 00:42
 
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L’argomento è veramente affascinante e ognuno di noi vede con profondità un aspetto fondamentale della discussione e ci arricchisce tutti
Il nome, la parola che designa un oggetto animato e non, un concetto semplice o articolato, la distinzione dell’uomo tra tutto il creato conosciuto dall’uomo stesso.
Ma Lei non è definibile perché?
Elke dice che scomponendola si può conoscere la totalità
Mi gira nella testa che forse “scomparendo” si può conoscere la totalità.
Cioè rinunciando al nome proprio o delle cose per entrare nella dimensione del non nome dove Tutto e Nulla coincidono.
Evidenzierei due fasi:
• La fase della conoscenza segreta e profonda del nome in quanto essenza stessa del creato e quindi parte fondamentale del potere sulle cose
• La fase della comprensione che la conoscenza per quanto profonda non basta, che il potere ssulle cose non ti permette di far parte delle cose stesse.
Quindi per far parte di una cosa non bisogna possederla , conoscerla. Forse basta accettala e perdersi in essa senza porsi limiti o domande.
In fondo è quello che succede con l’amore: conosciamo una persona e poi l’accettiamo incondizionatamente, nel bene e nel male in quanto il sentimento che si prova e senza condizioni e la persona diventa un qualcosa in cui perdersi dimenticando se stessi.
Purtroppo l’amore terreno se il perdersi non è reciproco porta a dei bruschi risvegli.
Mi rendo conto che la strada è lunga e raggiungere anche solo la prima parte del viaggio forse non fa parte di questa sola vita.
Questo è solo un misero tentativo di esprimere quel vagito di pensiero che è nato leggendo le vostre parole spero nella vostra comprensione
08/07/2008 23:11
 
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Credo che figure senza nome abbiano un carattere archetipico, non collocabile e quindi senza tempo. La parola "vecchia" o "fanciulla" delimita il personaggio solo in parte: incarnano l’essenza delle varie facce di un qualcosa infinitamente più grande. Il nome di una divinità ne delinea solo un aspetto.
Il nome permette di conoscere, portare alla coscienza determinati significati.
Forse, per quanto riguarda i nomi di persone, si è sempre creduto nel suo potere ingabbiante perché la persona si identifica con il nome stesso; non a caso alla domanda: “tu chi sei?” Solitamente la prima cosa che a una persona vien da pensare è il proprio nome, ma il nome è solo una parola. In realtà non è una risposta perché il nome in sé non dice niente (non comunichiamo niente) e solo noi sappiamo che tipo di essenza c’è dietro il nostro nome.
Il nome è sinonimo di individualità, la nostra individualità egoica che si contrappone all’unità (senza-nome) indefinita, eterna.
Altri nomi, come le etichette, sono ancora più limitanti. Le persone riescono a crearsi delle etichette e ad identificarsi in esse, arrivano ad auto convincersi di essere quello che in fondo sanno di non essere. L’essenza più profonda, in questo modo, viene ancor più seppellita.
Il nome in sé può essere sia positivo che negativo perché, o ci si da appellativi partendo dalla consapevolezza di quello che si è oppure ci si identifica, attraverso nomi-etichette, a quello che non si è.
Credo che sia impossibile non avere una personalità (quindi una maschera) l’importante è essere consapevoli di cosa ci sta sotto, osservarsi onestamente.
Ci sono poi dei momenti in cui si sente maggiormente di essere parte di un tutto più vasto, l’anello di un’interminabile catena, quasi come se la mostra piccola personalità si sciogliesse temporaneamente … barlumi di consapevolezza forse …

Tellus



Con il nostro pensiero noi creiamo giorno per giorno il mondo che ci circonda
Marion Zimmer Bradley

Ogni momento governato dall’anima è sicuramente un “occasione speciale”
Clarissa Pinakola Estés


09/07/2008 02:09
 
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Spero di non andare troppo fuori tema, ma questa frase di Fabiola:

«In fondo è quello che succede con l’amore: conosciamo una persona e poi l’accettiamo incondizionatamente, nel bene e nel male in quanto il sentimento che si prova e senza condizioni e la persona diventa un qualcosa in cui perdersi dimenticando se stessi»,

mi ricorda una frase di un precedente intervento di Violet, sempre in questa discussione:

«Abbandonare il nome, per altri, potrebbe invece significare liberarsi di quelle catene, rompere tutta la superficie per sciogliere la propria identità nello Spirito immenso della Madre... senza perdersi completamente, ma, anzi, acquisendo una consapevolezza mille volte più immensa, più completa, meravigliosa...»

Sono cose diverse, rapporti diversi, piani diversi, ma in entrambi i casi si tratta, mi sembra, di modificare o di abolire l’identità insieme al nome, per giungere, attraverso l’accettazione dell’Altro, a una consapevolezza diversa, o superiore, che include anche una consapevolezza diversa di se stessi.

Perdersi e dimenticarsi, scrive Fabiola; sciogliersi senza perdersi completamente, scrive Violet. Suggerirei anche: sciogliersi e perdersi, non per annullarsi o dimenticarsi, come invece avviene nascondendosi dietro le maschere dei nomi e chiudendosi nelle gabbie delle identità, bensì per ritrovarsi diversi, cioè trasformati; ritrovarsi non annullati, ma cambiati, «dilatati», attraverso l’esperienza dell’Alterità, ovvero, mi sembra, il «non-manifestato» e il «non-individuabile» cui allude Davide Melzi: attraverso l’incontro e la fusione con la persona amata, nell’amore; attraverso l’incontro e la fusione con «lo Spirito immenso della Madre», nella ricerca spirituale, se così si può dire senza cadere in una definizione troppo limitante.

Ecco, volevo soltanto accennare a questa possibilità: perdersi, ossia liberarsi dell’identità, in un certo senso morire, per ritrovarsi diversi, in qualche modo trasformati, cioè forse rinascere…

E ritornando alla Dama del Lago, forse anche in lei l’assenza del nome, la perdita del nome, o la rinuncia al nome, può rimandare a una metamorfosi, una rinascita… Liberandosi dell’identità, morendo, trasformandosi, rinascendo, una giovane donna è divenuta una sacerdotessa senza nome, «la Grande Madre incarnata eppure completamente disincarnata, poichè indefinita e indefinibile... illimitata, infinita»: la Dama del Lago…








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09/07/2008 19:56
 
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Che splendido intervento alessandro... veramente bellissimo...
E sono certamente d'accordo con te su quanto hai scritto (e su quanto si può apprendere da certi libri e autori che tu stesso hai citato). Anzi... non solo si tratta di un perdersi consapevole, ma forse si tratta di un abbandono totale che permette di raggiungere una consapevolezza infinite volte superiore a quella che possediamo. Ciò che si perderebbe, quindi, non sarebbe altro che un limite... però il solo fatto che, ora come ora, questo limite è tutto ciò che abbiamo e che "conosciamo" siamo restii ad abbandonarlo e ne abbiamo paura... parliamo di perdita quando poi in realtà ciò che si trova al di là di questa "perdita" è l'Infinito... è il sentirsi finalmente parti vere della Madre... cosa può essere un nome o un'identità individuale a confronto...?
una frase che ho letto da poco proprio nel libro della Divakaruni sulle Spezie è pronunciata dall'Antica, la Prima Madre dell'Isola delle Spezie, la quale dice che dalla perdita "più grande" viene la felicità più grande...
E credo che sia veramente così...




"Oltre ogni tempo e tuttavia nel cuore del tempo."
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Lord Dunsany

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Sì, penso che sia proprio come dici, Violet. Perdersi senza consapevolezza, senza ritrovarsi, sarebbe follia, non conoscenza. E per «sentirsi finalmente parti vere della Madre» occorre la capacità dell’abbandono totale, come nell’amore, e questo fa paura, forse anche perché non si riesce a immaginare od intuire «la felicità più grande» oltre il limite.

Da sempre trovo nei libri tracce che conducono verso questa conoscenza. È un richiamo antico. Ci sono costanti nelle descrizioni dei momenti in cui vi si accede, e al tempo stesso ciascuno la vive in un modo proprio, ciascuno si apre alla conoscenza della Madre in un modo che almeno in gran parte è soltanto suo, perché la Madre include tutto e offre infinite possibilità. Mentre l’identità è una gabbia che esclude o nega tutte le altre possibilità, liberarsi dell’identità per andare oltre implica appunto superare un limite, e forse sapere di essere ben altro che un nome o una identità permette al tempo stesso di continuare a servirsi dell’uno e dell’altra, conoscendone i limiti senza esserne limitati, per esempio quando è necessario «mimetizzarsi» (come Garolfo, come la donna di conoscenza che non si presenta certo al mondo in quanto tale) per custodire la ricerca e la conoscenza, e proteggerle da chi non le può comprendere.

Invece di essere limitati a un unico aspetto della realtà, si ha forse la possibilità di conoscere più aspetti diversi, intuendo che esistono infinite altre possibilità, alcune conoscibili, innumerevoli altre inconoscibili. Esistono tanti sentieri, ciascuno dei quali conduce ad una porta, e forse ognuno deve trovare il proprio. Talvolta può capitare di intuire la vicinanza della porta, o sentire di essere sul sentiero adatto. La lettura e la scrittura sono sentieri da non abbandonare mai, credo, neanche quando arriva il tempo di affiancarvi altri cammini. Comunque, immaginare la possibilità di giungere alla porta, e intuire ciò che accadrà una volta varcata la soglia, o divenire per un momento, spontaneamente, inaspettatamente, abbastanza ricettivi da percepire un riverbero—un minimo, fugace riverbero di Armonia—sono gioie ineffabili, che anche in seguito continuano a diffondere la loro luce, seppure più fioca, ma sempre abbastanza intensa per aiutare a rischiarare o a disperdere l’oscurità del Nulla allorché si addensa.






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13/07/2008 21:57
 
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un argomento appassionante, mi scuso se ripeterò ciò che avete detto meglio di me.
biblicamente dare il nome significava prendere possesso, Abram diviene Abramo quando lascia Ur dei Caldei obbedendo al volere divino, ma la cosa si ripete per re e profeti, persino per Cristo il nome viene dato a sua madre, Maria, da Dio stesso tramite l'arcangelo Gabriele. Interessanti sono i nomi proprio di queste creature, arcangeli, che designano la loro funzione/missione. Angeli, diceva sant'agostino, era semplicemente il loro ufficio.
la damnatio memorie egizia consisteva nel cancellare il nome del defunto: se nessuno si ricordava di te, non esistevi più.
penso al modo latino di chiamarsi: nome proprio, nome della gens di appartenenza, nome della famiglia.
Il nome è come un lasciapassare, per la nostra cultura, senza non sei nessuno.
nelle fiabe, mondo parallelo e inconoscibile attraverso il quotidiano, tutto salta e la prima cosa che viene lasciata nell'ombra è proprio il nome di alcuni personaggi, per evidenziarne la natura inconoscibile per intero, mentre il fatto che per altri lo si dica immediatamente dà modo di comprenderne il destino.
Dio si presenta a Mosè come "Io sono colui che sono", non ha nome, è tutto, è ovunque.
I 99 nomi di Allah dicono che il cuore dell'uomo nel segreto conoscerà il centesimo.
La Madre è una senza nome per antonomasia, perché è nel tempo e fuori del tempo, nel cuore dell'uomo e fuori della sua esistenza, è l'alba e il tramonto, ieri e domani, perché Madre non ha bisogno di nome, ma solo di silenzio.
Nel silenzio ci farà udire il nome che desidera da noi, per oltrepassare il varco dell'inconoscibile e prenderne parte.

Scusate le mie riflessioni forse confuse.



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