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PROPOSTA (dal blog-26 febbraio)

Ultimo Aggiornamento: 19/06/2007 18:49
30/03/2007 12:00
 
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elena
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re: dibattito
Val, mi associo: vedere nascere un fiore in Lombardia, dopo tanta m...a sarà grandioso... anzi, storico! Ma, tanto per restare in tema naturistico: va bene che la m...a serve (è un ottimo concime), però vediamo questa volta di lasciarla per terra... lì serve, nei fiori e/o sopra di essi NO! [SM=g27985]
A sabato... [SM=g27985]))
03/04/2007 13:20
 
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laura
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non violenza dal libro di capitini
1. ALDO CAPITINI: PRINCIPI DELL'ADDESTRAMENTO ALLA NONVIOLENZA
[Riproduciamo ancora una volta il testo del capitolo ottavo, Principi
dell'addestramento alla nonviolenza, del libro di Aldo Capitini, Le tecniche
della nonviolenza, Libreria Feltrinelli, Milano s. d. (ma 1967).
Successivamente il libro e' stato ristampato nel 1989 da Linea d'ombra
edizioni, Milano (con minimi tagli nella nota bibliografica). E' stato poi
integralmente incluso in Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, Protagon,
Perugia 1992 (alle pp. 253-347)]

Una parte del metodo nonviolento, tra la teoria e la pratica, spetta
all'addestramento alla nonviolenza. Le ragioni principali per cui e'
necessaria questa parte sono queste:
a) l'attuazione della nonviolenza non e' di una macchina, ma di un
individuo, che e' un insieme fisico, psichico e spirituale;
b) la lotta nonviolenta e' senza armi, quindi c'e' maggior rilievo per i
modi usati, per le qualita' del carattere che si mostra;
c) una campagna nonviolenta e' di solito lunga, e percio' e' utile un
addestramento a reggerla, a non cedere nemmeno per un istante;
d) la lotta nonviolenta porta spesso sofferenze e sacrifici; bisogna gia
sapere che cosa sono, bisogna che il subconscio non se li trovi addosso
improvvisamente con tutto il loro peso;
e) le campagne nonviolente sono spesso condotte da pochi, pochissimi, talora
una persona soltanto; bisogna che uno si sia addestrato a sentirsi in
minoranza, e talora addirittura solo, e perfino staccato dalla famiglia.
I maestri di nonviolenza si sono trovati davanti al problema
dell'addestramento, sia per riprodurre nel combattente nonviolento le
qualita' fondamentali del "soldato", sia per trarre dal principio della
nonviolenza cio' che essa ha di specifico. Si sa che le qualita' del
guerriero sono formate e addestrate fin dai tempi della preistoria e si
ritrovano perfino al livello della vita animale. Le qualita' del nonviolento
hanno avuto una formazione piu' incerta, meno consistente ed energica, per
la stessa ragione che la strategia della pace e' meno sviluppata della
strategia della guerra. Ma, prima che Gandhi occupasse il campo della
nonviolenza con il suo insegnamento, il piu' preciso e articolato che mai
fosse avvenuto, indubbiamente ci sono stati addestramenti alla nonviolenza,
contrapposti a quelli violenti; esempi di monaci buddisti, i primi
cristiani, i francescani, che hanno lasciato indicazioni preziose in questo
campo, che qui non e' possibile elencare. Ma basti pensare all'armonia della
posizione di Gesu' Cristo espressa in quella raccolta di passi che e' detta
"il discorso della montagna", dove e' il suscitamento di energia per
resistere, per incassare i colpi, ricordando il "servo di Dio" come era
stato espresso da Isaia (cap. LIII): "Maltrattato, tutto sopportava
umilmente"; l'enunciazione del rapporto con le cose, del valore della
prassi, ma anche l'elemento contemplativo, come un mondo migliore gia' dato
in vista all'immaginazione nelle beatitudini, messe giustamente in principio
perche' sono l'elemento piu' efficace nell'addestramento, anche piu' della
preghiera.
Gli Esercizi spirituali di Sant'Ignazio, il fondatore della Compagnia dei
Gesuiti, sono un testo famoso di addestramento spirituale, e il loro esame
puo' essere utile per vedere il carattere di quell'addestramento incentrato
sulla persona di Gesu' Cristo, sull'istituzione della Chiesa romana,
sull'obbedienza assoluta come se si fosse cadaveri: tali caratteri vanno
posti insieme con quelli dell'addestramento militare, che e' chiuso
nell'immedesimazione con un Capo o Sovrano, nella difesa di un'istituzione
che e' lo Stato, nell'obbedienza che e' rinuncia a scelte e ad iniziative;
"chiuso", perche' il metodo nonviolento non discende da un Capo, ma e'
aperto a immedesimarsi con tutte le persone, a cominciare dalle circostanti:
non fa differenza tra compagni e non compagni, perche' e' aperto anche agli
avversari che considera uniti nella comune realta' di tutti; ne' puo' fare
dell'obbedienza un principio di assoluto rilievo, perche' l'addestramento
nonviolento tende a formare abitudini di consenso e di cooperazione,
riducendo l'obbedienza a periodi non lunghi per i quali essa venga
concordata, per condurre un'azione particolare.
I piu' grandi valori spirituali escono da una concezione aperta, non chiusa;
essi sono per tutti, non per un numero chiuso di persone. Cosi e' per es. la
musica; essa parla come da un centro, ma il suo raggio e' infinito, oltre il
cerchio di coloro che in quel momento sono presenti: ci sono altri che
l'ascoltano per radio e altri, infinitamente, che potranno ascoltarla. Cosi'
e' l'azione nonviolenta: essa e' compiuta da un centro, che puo' essere di
una persona o di un gruppo di persone; ma essa e' presentata e offerta
affettuosamente al servizio di tutti: essa e' un contributo e un'aggiunta
alla vita di tutti. Questo animo e' fondamentale nell'addestramento alla
nonviolenza: sentirsi centro rende modesti e pazienti, toglie la febbre di
voler vedere subito i risultati, toglie la sfiducia che l'azione non
significhi nulla. Anche se non si vede tutto, l'azione nonviolenta e' come
un sasso che cade nell'acqua e causa onde che vanno lontano. Questo animo di
operare da un centro genera a poco a poco il sentimento della realta' di
tutti., dell'unita' che c'e' tra tutti gli esseri, un sentimento molto
importante per la nonviolenza, che e' incremento continuo del rapporto con
tutti.
*
Elementi storici, ideologici, psicologici dell'addestramento
Entriamo ora nell'esame dei vari elementi che compongono l'addestramento. E
vediamo come primi due elementi storici, uno particolare ed uno generale:
a) nella situazione storica in cui si vive bisogna accertare cio' contro cui
si deve lottare nonviolentemente: un'oppressione, uno sfruttamento,
un'ingiustizia, un'invasione ecc.; questo accertamento e' uno stimolo per
raccogliere le energie e per indurre ad un attento esame della concreta
situazione;
b) l'elemento storico generale e' la persuasione del posto che oggi ha la
nonviolenza nella storia dell'umanita': se si tiene presente il quadro
generale attuale si vede che ai grandi Stati-Imperi politico-militari che si
stanno formando, bisogna contrapporre, come al tempo dei primi cristiani, un
agire assolutamente diverso, una valutazione dell'individuo, una fede che
congiunge persone diverse e lontane. Sentire che questo e' il momento per
l'apparizione e il collegamento del mondo nonviolento fa capire che oggi non
valgono piu' le vecchie ideologie che assolutizzavano la patria: oggi la
patria suprema e' la realta' di tutti, da cui viene il rifiuto di
divinizzare gli Stati e i loro Capi, di bruciare il granello d'incenso in
loro onore.
Anche gli elementi ideologici sono essenziali nell'addestramento:
a) lo studio delle teorie della nonviolenza, la lettura dei grandi episodi e
delle grandi campagne, l'escogitazione di casi in cui uno potrebbe trovarsi
per risolverli con la nonviolenza; l'informazione su cio' che e' stato
finora fatto con il metodo nonviolento e le frequenti discussioni con gruppi
nonviolenti e anche con estranei alla nonviolenza, per ricevere obbiezioni,
critiche, disprezzo o ridicolo;
b) il mutamento della considerazione abituale della vita come
amministrazione tranquilla del benessere: il sapere bene che in questa
societa' sbagliata i nonviolenti sono in un contrasto, che la loro vita
sara' scomoda, che e' normale per loro ricevere colpi, essere trattati male,
veder distrutti oggetti propri.
Da questi due elementi ideologici conseguono due tipi di esercizi:
1. il primo e' la meditazione (che puo' essere fatta dalla persona singola o
dal gruppo nonviolento in circolo silenzioso) di qualche evento culminante
delle passate affermazioni della nonviolenza. Esempi: Gesu' Cristo al
momento dell'arresto, quando riaffermo' chiaramente la sua differenza dal
metodo della rivolta armata; la marcia del sale effettuata da Gandhi; la
visita di San Francesco al Sultano per superare le crociate sanguinose;
l'angoscia dell'aviatore di Hiroshima;
2. il secondo e' la scuola di nonviolenza istituita appositamente (come
hanno fatto i negri d'America) per abituarsi a ricevere odio, offese,
ingiurie, colpi (esempi: parolacce, percosse, oggetti lanciati; essere
arrestato, legato).
Vediamo ora alcuni elementi psicologici:
a) il nonviolento e' convinto che la cosa principale non e' vincere gli
altri, ma comportarsi secondo nonviolenza; nelle dispute il nonviolento non
vuota tutto il sacco delle critiche, delle accuse, degli argomenti a proprio
vantaggio, e lascia sempre qualche cosa di non detto, come un silenzioso
regalo all'avversario; naturalmente evita le ingiurie, quelle che si
imprimono per sempre come fuoco nell'animo dell'avversario, e che pare
aspettassero il momento adatto per esser dette. Il nonviolento pensa che
l'avversario e' un compagno di viaggio; e puo' avere fermezza e chiarezza,
senza amareggiarlo;
b) il nonviolento e' convinto che non e' la fretta a vincere, ma la tenacia,
l'ostinazione lunga, come la goccia che scava la pietra, come la cultura che
cresce a poco a poco, come il corallo (il paragone e' del Gregg) si forma
lentamente ed e' durissimo. La pressione nonviolenta e' lenta e
instancabile: e' difficile che se e' cosi, non riesca. Perde chi cede, chi
si stanca, chi ha paura;
c) il persuaso della nonviolenza, formandosi, viene collocando la
nonviolenza al contro delle passioni, degli altri affetti, dei sentimenti;
cioe' non e' necessario che egli faccia il vuoto nel mondo dei suoi
sentimenti, perche' il vuoto potrebbe inaridire la stessa nonviolenza; ma
egli stabilisce, con un lungo esercizio di scelte e di freni, la prospettiva
che mette al centro lo sviluppo della nonviolenza, e tutto il resto ai lati;
d) l'interno ordine psicologico puo' essere aiutato dalla persuasione che la
nonviolenza conta su una forza diversa da quella dei meccanismi naturali (la
scienza non dice di aver esaurito l'elenco delle forze che agiscono sulla
realta'): questa forza diversa puo' essere chiamata lo Spirito, puo' essere
personificata in Dio, e la preghiera e' uno dei modi per stabilire e
rafforzare il proprio ordine interno;
e) un altro elemento di forza interiore e' quello conseguito con decisione
come voti, rinunce, digiuni: sono eventi importanti che influiscono sulla
psiche, le danno il senso di una tensione elevata, la preparano a situazioni
di impegno.
Da questi elementi psicologici conseguono importanti modi di comportamento:
1. la costante gentilezza e pronta lealta' verso tutti; la gentilezza e'
un'espressione della vita nonviolenta, come una volta l'eremitismo era una
posizione della vita religiosa; gentilezza vuol dire anche tono generalmente
calmo e chiaro della voce;
2. la cura della pulizia personale, degli abiti, delle cose circostanti;
essa suscita rispetto verso se stessi e rispetto negli altri verso il
nonviolento, mentre e' facile destare violenza contro chi e' sporco, puzza,
non si lava ed e' trascurato nel vestito e nelle sue cose;
3. un buon umore e spesso lo humor (dice giustamente il Gregg che
corrisponde alla "umilta'" raccomandata un tempo). Insomma il nonviolento
lascia ridere gli altri su di se', e si associa spesso a loro;
4. l'attenzione a mantenersi in buona salute e capaci di resistere agli
sforzi, mediante la sobrieta', regole igieniche, cure, e' utile al
nonviolento per possedere una riserva di energia per affrontare prove
straordinarie.
*
Gli elementi sociali
Gli elementi sociali hanno importanza preminente nell'addestramento.
Vediamone alcuni:
a) Una prova di apertura sociale e' la nonmenzogna. E' noto quanta
importanza abbia la veracita' nei voti gandhiani, nei voti francescani. San
Francesco una volta accetto' che fosse messo un pezzo di pelliccia
all'interno della tonaca dove questa urtava sulla sua piaga, purche' un
identico pezzo di pelliccia fosse messo all'esterno, nella parte
corrispondente. La nonmenzogna rende gli altri potenzialmente presenti alla
propria vita, stabilisce che cio' che uno pensa, e' potenzialmente di tutti.
b) Un addestramento di alta qualita' sociale e' l'unirsi con altri per
costituire assemblee periodiche per la discussione dei problemi locali e
generali, per esercitare il controllo dal basso su tutte le amministrazioni
pubbliche. I nonviolenti sono i primi animatori di questa attivita' aperta
che comprende tutti, e fa bene a tutti, e che si realizza con la regola del
dialogo di "ascoltare e parlare".
c) Un'attivita' particolare esercitano i nonviolenti per diffondere tra
tutti la lotta contro la guerra, la sua preparazione e la sua esecuzione.
d) I nonviolenti impiantano un'attivita' continua di aiuto sociale nel mondo
circostante, sia associandosi nei Pronti Soccorsi, sia realizzando
iniziative di visite ai carcerati, di aiuto agli ex-carcerati, di visitare
malati, di educazione e ricreazione dei fanciulli, di educazione degli
adulti, di cura dei vecchi, di aiuto alla salute pubblica, di amicizia con i
miseri. I nonviolenti fanno le loro campagne nonviolente, movendo da una
normale attivita' di servizio sociale precedente alla campagna e tornando ad
essa, appena finita la campagna con successo o no: e' anche un modo per
ritemprare le forze, per non incassare inerti una sconfitta.
e) Il Gregg ha molto insistito, anche in un saggio speciale, sull'importanza
del lavoro manuale nell'addestramento alla nonviolenza perche' crea un senso
di fratellanza nel fare qualche cosa con gli altri ben visibilmente, e
abitua alla disciplina, a sottomettersi pazientemente ad uno scopo.
f) Un altro elemento sociale e' il cantare insieme, fare balli popolari,
passeggiate ed esecuzioni e sport collettivi, mangiare insieme.
g) Qualcuno suggerisce anche di sostituire a quello che e' l'orgoglio dei
soldati per le glorie del loro "reggimento", l'affermazione di cio' che il
gruppo nonviolento ha fatto. Ma fondamentale e' far comprendere che le
azioni nonviolente sono per tutti, e, non soltanto per il centro che le
promuove.
h) Affiancata all'addestramento nella nonviolenza, e' la conoscenza di
leggi, per il caso dell'urto con la polizia o lo Stato, con arresti,
processi, prigionia.
L'addestramento e' necessario per dare una solida preparazione alle
situazioni. I nonviolenti debbono avere una serie di abitudini consolidate e
possedere una serie di previsioni di probabili conseguenze delle loro azioni
nonviolente. Il Gregg cita l'utilita' dell'imparare a nuotare come segno dei
passaggio al possesso di un'abitudine, della paura iniziale e dell'aiuto
venuto anche da altri nell'addestramento. Chi ha provato che cosa sia la
prigione per un notevole periodo, sa quanto sarebbe utile prepararsi a.
sdrammatizzare l'avvenimento nel proprio animo, visitando le prigioni,
aiutando gli ex-carcerati ecc. Anche la nonviolenza e' certamente
danneggiata dagli improvvisatori, da coloro che pretendono di creare tutto
sul momento; che sono quelli che si stancano prima. E la nonviolenza, se per
un quarto e' amorevolezza, e per un altro quarto e' conoscenza, per due
quarti e' coraggiosa pazienza.
E' stato detto giustamente che gli iniziatori del metodo scientifico non
potevano prevedere quali risultati esso avrebbe dato; e cosi' sara' del
metodo nonviolento.

04/04/2007 14:35
 
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nunzio
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Laura! Mamma mia cosa hai riportato!! Grazie.
12/04/2007 15:26
 
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mario ciancarella
[Non Registrato]
cari compagni
Cari/e Compagni/e,


Sto tornando. Sarei tornato molto piu’ in fretta del previsto, grazie al progresso della medicina ed alla abilita’ del personale medico di Pisa, se non fose intervenuta una fastidiosa infezione sulla ferita, ora in via di soluzione, ma che mi ha costretto ad una cura da cavallo di cortisonici e antibiotici. Cosi’ sono stato costretto a lavorare (perche’ non se ne puo’ fare a meno) ma con una condizione di assoluta prostrazione fisica che mi ha impedito di lavorare con voi. Ma veniamo a noi. Ho trovato con mia sorpresa poche pernacchie alla mia proposta politica e piuttosto molte aspettative intorno alla possibilita’ di una costruzione di “un progetto politico” che nasca a sinistra e dalla base, senza vergognarsi della propria ispirazione comunista.

Allora: alcune cose nuove mi sembra si siano verificate in questi giorni. E non e’ sfuggito ai piu’ attenti come la “gaffe” di Turigliatto e Rossi (che sembra ormai lontana anni luce) anche non si fosse consumata non avrebbe cambiato assolutamente la voglia dei conservatori di questo “centrodestra” (e di una preoccupante aliquota del “centrosinistra”) di ammonire il governo su un eccesso di deviazione verso le idee e le attese la sinistra radicale e antagonista. Un ammonimento finalizzato ad aggredire ogni e qualsiasi apertura a criteri di civilta’ piu’ avanzate che non siano le teorie di Bush sul controllo del mondo o di questa Chiesa sul controllo delle coscienze. Ma e’ anche accaduto che la Presidente del Congresso statunitense ha iniziato la lotta aperta alla politica del suo Presidente.

E cosi’ cari compagni/e sembra proprio che abbiamo una sponda “antiamericana” (visto che come tali sono marchiati tutti i critici della politica di Bush) all’interno dello stesso Congresso USA. Ma sulle posizioni dei Democratici Americani, di fissare cioe’ una data di ritiro delle truppe americani dai teatri delle guerre in atto e prima ancora di fissare una “exitstrategy”, sembra che gli italioti della politica, da destra e da sinistra non abbiano nulla da dire o da rivendicare. Se e’ possibile chiedere la fine delle ostilita’ piu’ inutili che la storia ricordi da parte dei Democratici statunitensi, perche’ il nostro diritto a rivendicare l’uscita dai medesimi conflitti dovrebbe essere censurato come “antiamericano”? Perche’ si viene accusati di collusione con il nemico per la liberazione di un ostaggio, ed e’ consentito alla ineffabile Condoliza Rice di trattare con le fazioni piu’ contrarie alla occupazione statunitensi in Iraq al fine di poter sviluppare una exitstrategy indolore.

Possiamo dunque ripartire da qui, da una rivendicazione di piena legittimita’ a costruire il nostro destino politico (quella che si chiama sovranita’), per proporre chiari progetti politici di alternativa.

E veniamo dunque a noi. Sceglierei di analizzare soprattutto la “reprimenda del Governo statunitense” e le marce per la sicurezza a Milano.

La prima ci dimostra che basta davvero molto poco a urtare, agendo minimamente con una cultura di sinistra e di indipendenza, la suscettibilita’ del dominus statunitense, ancora insofferente ad ogni anelito di autonomia e sovranita’ di quei paesi che continua a considerare satelliti. E questo fortunatamente ha risvegliato un animo, se non proprio di sinistra almeno di indipendenza, che necessariamente alberga anche nel “baffo nazionale” (D’Alema), il quale ha saputo ricordare come siano stati proprio gli americani a costruire un mostro come Bin Laden, armarlo ed addestrarlo. E lo hanno fatto – ma questo D’alema non lo ha detto esplicitamente, proprio perche’ i Talebani contrastassero “l’invasore sovietico”, reo di essere intervenuto in Afghanistan per sollecitazione del Presidente di quella Nazione, angosciato dalla crescente pressione politica ed ideologica dei talebani e dell’integralismo religioso di cui essi si facevano portatori. Forse anche in questo dunque il vecchio regime sovietico era un po’ piu’ avanti rispetto al presuntuoso occidente, anche se le soluzioni di forza adottate in quella circostanza si rivelarono non meno perniciose e perdenti di quanto non appaiono oggi quelle speculari dell’Occidente. O no?

Ma questo ci dice e costringe a porre come elemento discriminante di qualsiasi progetto di governo di una sinistra realmente alternativa la denuncia e la ridiscussione di tutti i condizionamenti internazionali della nostra sovranita’, sia che essi vengano dal dominus sia che vengano dalle alleanze, i cui trattati vanno necessariamente rivisitati senza per questo dover accettare di essere etichettati come “antiamericani” o ”antioccidentali”. Se la lealta’ come alleati si trasforma in pavida sudditanza allora romepere tale condizione e’ un criterio di Liberazione e di Civilta’, non un segno di inaffidabilita’ internazionale.

Non e’ accettabile che si venga rimproverati per avere avviato trattative con gli avversari in Afghanistan, mentre si consumano altre trattative (forse molto meno dignitose) con gli insorgenti integralisti islamici in Iraq!!

E non fa male richiamare qui un tratto politico (scovato dalla impagabile Laura) che riferisce ad un intervento del 1969, in Parlamento, dell’attuale Presidente della Repubblica, che pure gia’ nel PCI non era certamente un “falco” (le sottolineature sono mie):
"Camera dei deputati 29 aprile 1969, parla l'attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano: La situazione è torbida, onorevoli colleghi; evidenti sono le spinte repressive e reazionarie,le provocazioni e gli intrighi che partono da determinati ambienti delle classi dirigenti e dell'apparato dello Stato. Non è facile dire dove queste spinte possano in ultima istanza condurre. Non si tratta di intessere romanzi, come talvolta ci si accusa di fare, su presunti pericoli di colpi di Stato . Si tratta di guardare in faccia a quel che di torbido e pericoloso vi è nella situazione e di intervenire con decisione, facendo appello , tra l'altro, a quelle forze legate agli ideali della Resistenza, lealmente impegnate a difendere la Costituzione, che esistono in ogni settore dell'apparato statale, anche se spesso sono mortificate e scavalcate dagli elementi più reazionari che si annidano nei diversi corpi dell'organizzazione dello Stato .Guardare in faccia a quel che di torbido e pericoloso (pericoloso per lo stesso avvenire democratico del nostro paese) vi è nella situazione anche in rapporto a disegni ed intrighi autoritari che possono concepirsi oltreoceano, in ambienti politici, militari e spionistici americani, e procedere per i canali della NATO, di quella organizzazione dell'alleanza atlantica che noi denunciamo come fonte permanente di limitazione e di insidia per la sovranità e lo sviluppo democratico del nostro paese .”
La seconda riflessione parte da Milano (manifestazioni sulla sicurezza). Milano ci dimostra quanto possiamo essere ammalati, anche a sinistra, di Berlusconite e del servilismo preteso dal dominus statunitense, e cioe’ infettati da quella tendenza ad intervenire “chirurgicamente su quelli che definiamo e sentiamo come mali”, senza avere la capacita’ ed il coraggio di abbozzare neppure una analisi minimale sulle ragioni delle emergenze contro cui si pretende di operare con il braccio forte della repressione e della violenza militare.

Bisogna saper dire, a sinistra e da sinistra, che ogni fenomeno sociale ha delle cause ben precise, che non puo’ essere attribuito sic et simpliciter ad un DNA deviante delle fasce sociali interessate. La violenza, questa insopportabile violenza, che sta massacrando la nostra capacita’ di tolleranza e di dialogo, nasce infatti proprio all’interno e come conseguenza diretta del modello di vita globalizzato e fondato sulla maggior ricchezza (di risorse e di diritti) di pochi in danno della maggior poverta’ di molti – un modello che ci viene imposto dai criteri di vita statunitensi - e dalla pretesa di egemonia del capitale e del profitto sul sociale e sull’umano.

E’ la assenza di prospettiva e speranza di dignita’ di una vita ordinariamente normale cio’ che getta singoli, ceti sociali e persino interi popoli, nella braccia e nelle affabulazioni della violenza. Cosa volete che gliene possa fregare ad un giovane, privato di ogni prospettiva di stabilita’ di lavoro e certezza di diritto, della tranquillita’ dei borghesi benestanti? Nulla. La violenza, alimentata da questa insicurezza, diventa l’unica sua arma per affermare la sua esistenza, il suo diritto ad una identita’. Ed e’ in questa condizione che possono lavorare a piene mani quei costruttori di “anticorpi”, attraverso la manipolazione, di cui ho gia’ parlato rappresentandovi la cultura stessa del potere. Indurre affabulatoriamente questi soggetti svantaggiati alla utilizzazione della violenza diventa la cosa piu’ facile del mondo, lasciandoli convinti di aver maturato proprie determinazioni positive, mentre invece sono stati resi inconsapevolmente funzionali (trasformandoli da virus che erano in vaccini) alle esigenze di stabilita’ del potere e dei potenti.

Ma cosa volete che interessi alle masse diseredate, e deprivate di diritti e prospettive delle Banlieu parigine o delle periferie delle nostre megalopoli (cosi’ come alle masse degli “erranti” per il mondo, deprivati di radici e identita’, rapinati di ogni risorsa per la affabulazione di un “viaggio della speranza” piu’ falso di ogni estasi stupefacente) - genti rese “non persone” ancor prima che “non cittadini”, e quindi prive di ogni garanzia e tutela di diritti -, cosa volete che interessi a costoro della tranquillita’ dei “cittadini a pieno titolo” benestanti e coccolati dalla legge, che siano essi francesi o di qualsiasi altra nazione in cui siano capitati e si sentano come “ospiti non graditi”? Nulla vi dico. La violenza, alimentata dalla loro insicurezza, diventa l’unica arma per affermare la loro esistenza, la loro identita’ e il loro diritto ad “esserci”, in qualche maniera, all’interno dell’immaginario collettivo, e dunque di imporsi alla attenzione generale liberandosi dalla indifferenza che li opprime e li uccide. Ed anche loro sono soggetti affatto manipolabili, per ottenere attraverso l’impiego di violenza la presunta legittimazione del sistema ad arroccarsi e difendersi.

Cosa volete che che interessi ad un bambino palestinese, nato nella deprivazione del diritto alla casa ed allo studio, alla identita’ ed alla appartenenza, della sicurezza del popolo israelita? Nulla, vi dico. La violenza, alimentata dalla insicurezza, diviene l’unica via, pur affabulatoria, di un riscatto negato e della “nullita’” in cui e’ stato costretto a vivere. Anche la dignita’ religiosa gli viene scippata e derisa con l’umiliante prepotenza di una passeggiata sulla spianata delle moschee. Ed ecco allora che la religione, le religioni laiche o confessionali che siano, “quando diventano strumento di oppressione e di negazione di diritti”, tornano ad essere comunque un oppio dei popoli, e dopo averli drogati perche’ fossero soggiacenti, torna a drogarli suggerendo loro improbabili rivolte in nome di un dio che diventa falso ed ignobile (quale che sia il nome che gli si attribuisce) perche’ si astrae dal destino degli umani e ne pretende il sacrificio per riscatti senza garanzie.

E non vi sembra, per di piu’, che e’ proprio nella identica logica violenta di questi poveri (che qualcuno vorrebbe guidata da un malanimo endogeno quando invece essa e’ nutrita da ingiustizie ed insicurezze) che noi, avvertendo minacciata la nostra personale sicurezza e la pacifica convivenza cui eravamo abituati, reagiamo invocando interventi statali anche violenti (purche’ si dimostrino efficaci) di organi e apparati di Ordine Pubblico, che ripristino il nostro diritto a non vederci espropriati di quella tranquillita’ e di quelle sicurezze che ritenevamo acquisite in maniera stabile per le nostre esistenze? Dunque il processo di violenza e’ il medesimo, solo che i poveri, non essendo dotati di apparati istituzionalmente predisposti all’impiego della violenza, alla fine cercano di ristabilire da soli una giustizia sociale che avvertono aggredita e tradita. Noi possiamo invece ancora ritenerci buoni perche’ la violenza pretendiamo che venga esercitata dai nostri apparati, quando non invochiamo la liberta’ di porto e d’uso personale delle armi per farci giustizia da soli.

E’ questa analisi che mi sembra sia mancata a Milano, nella sinistra e nelle manifestazioni delle sue espressioni che avrebbero voluto contrapporsi al “grido di dolore ed alla invocazione di sicurezza” che veniva dalla destra Morattiana e Berlusconiana. Perche’ tutto quello che abbiamo detto potrebbe essere riletto nell’ottica della spirale che sempre la violenza innesca. Ed affidare allora le soluzioni dei conflitti sociali, innescati dalle ingiustizie, al puro uso della violenza istituzionalizzata attraverso la sola azione repressiva delle Forze dell’Ordine, senza riuscire a sviluppare e proporre analisi ovvero ad individuare percorsi per ricondurli nell’alveo della legalita’ democratica, significa alla fine chiedere a queste forze (comunque armate, nonostante la “smilitarizzazione” della Polizia, intervenuta tuttavia in un ben diverso contesto culturale e sociale di lotta e di partecipazione democratica) di tornare ad assecondare solo i primordiali istinti repressivi e violenti degli apparati in armi degli stati autoritari e violenti.

Come se da Genova (e prima ancora dalle manifestazioni represse dei disoccupati napoletani) ad Aldrovandi non avessimo gia’ avuto premonizioni e segnali preoccupanti di dove conduce una politica di “mano libera” degli operatori della sicurezza in campo di ordine pubblico. Ed e’ sempre molto piu’ facile ricondurre una polizia democratizzata (o meglio “democratizzanda”) verso una polizia di stampo cileno, che non il contrario. Lasciare dunque che il conflitto sociale, la insicurezza sociale che si va diffondendo, siano solo visti come problemi di ordine pubblico e non di legalita’ democratica, di democrazia incompiuta e quindi ancora da costruire attraverso il riconoscimento di diritti (che percio’ stesso ingenerano doveri, con buona pace dei benpensanti che invocano doveri senza riconoscere diritto alcuno), significa abbandonare qualsiasi prospettiva pacifica nel nostro futuro.

Ditemi infatti quale influenza abbia mai avuto sul fenomeno della criminalita’ organizzata di stampo mafioso la pura e semplice repressione, ditemi quale influenza abbia mai avuto sul fenomeno dei crimini di stato e delle guerre, il loro puro ripetersi e rinnovarsi in nome di una pace declamata ma mai analizzata e definita come reale obiettivo da perseguire, costruire e adattare per raggiungerla effettivamente.

Ora e’ evidente che se nelle classi dirigenti di un Paese si annidano le piu’ bieche aspirazioni di impunita’ rispetto al patto sociale fondamentale che e’ la Costituzione e le Leggi che ne derivano; se esse costruiscono una societa’ organizzata solo a garantire la propria immunita’ ed impunita’ in ogni crimine che abbiano commesso o abbiano in animo di commettere (dal falso in bilancio alla evasione fiscale come sottrazione di risorse alla costruzione del welfare, fino alla depredazione e all’avvelenamento delle risorse naturali) piuttosto che rendere molto piu’ severe le aggressioni al bene pubblico ed al diritto delle fasce piu’ deboli; se esse hanno maggiore riguardo al risultato economico che non alla sorte umana e sociale dei propri Cittadini, umiliandoli costantemente come fossero ancora sudditi, tutto questo non potra’ che ingenerare delusione e disincanto in popolazioni che si sentono sempre piu’ ai margini della convivenza e che alla lunga e ordinariamente reagiranno con comportamenti devianti ed infine violenti non appena siano individuati come manipolabili. In questi casi siamo certi che il “bisturi” possa essere piu’ efficace di interventi di piu’ ampia analisi e respiro terapeutico, che sappiano “ripudiare la violenza come strumento di soluzione” (vedi costituzione art 11) pur non negando che in specifiche circostanze possa essere necessario l’uso consapevole ma circoscritto del bisturi?

Dunque il secondo compito di un progetto di sinistra, e nato da una sinistra orientata dal comunismo, sara’, o dovrebbe essere a mio parere, quello di tornare ad assumere la responsabilita’ ed il carico dei destini delle popolazioni, facendo necessariamente una scelta di parte per i poveri ed i meno abbienti in nome della solidarieta’ come questione di civilta’ (come d’altra parte lo fanno i potenti, avidi di autorita’, di arbitrio insindacabile e di impunita’, di sempre maggiore arricchimento ed egemonia sociale quando scelgono di essere contro i poveri, in nome del profitto), e definire finalmente a “quale pace riferiamo quando parliamo di pace”. E questo non e’ un buon pensiero religioso, carico di fatalismo o di buone intenzioni, ma e’ la rivendicazione di un pensiero forte che sappia farsi carico della responsabilita’ di costruire un futuro “diverso”. Perche’ se e’ vero che “un altro mondo e’ possibile” esso necessariamente dovra’ essere costruito con i poveri ed a partire dai poveri, e non mai per i poveri o peggio indifferenti alle loro aspettative.

E’ infatti uno sciocco e vuoto aforisma rivendicare un pacifismo non violento che non sappia assumere la condizione di conflitto comunque esistente tra i diversi e che caratterizza qualsiasi circostanza della vita umana.

Dobbiamo saper definire la Pace. Poiche’ essa puo’ avere vari volti: anche i cimiteri infatti sono apparentemente luoghi di pace. Ma e’ una pace mortuaria in cui il conflitto (che e’ vita) ha ceduto il passo al nulla (che e’ la negazione e la sopraffazione contro la vita).

La pace e’ una condizione ed un obiettivo di un pensiero e di una scelta nonviolenta, mentre la guerra e’ solo uno strumento ed un percorso di un pensiero di potere ed una aspirazione di egemonia. Dunque pace e guerra sono due elementi e due concetti non commensurabili, e dunque non opponibili tra loro, come se la pace fosse solo la assenza della guerra o l’antitesi alla guerra.

Non e’ un caso che coloro che la fanno, la guerra, si propongano spesso, ed abbiano sempre rivendicato di essere, come coloro che piu’ di altri perseguirebbero una aspirazione alla pace, ingannando i semplici e fingendo essi stessi di non mentire (“fare la guerra per ristabilire la pace”, un assioma che se non si fosse tragicamente rinnovato dalla storia e nella storia sarebbe ridicolo e risibile). Essi infatti hanno elaborato il concetto di “nemico”, come colui nel quale – in quanto diverso e “minus” rispetto a noi - risiedono tutte le responsabilita’ di una guerra potenziale, che andra’ dunque fatta (ed alla quale bisognera’ costamente essere preparati: “si vis pacem, para bellum”) nella esigenza di riconquistare una pace stabile e duratura, attraverso la eliminazione fisica del nemico.

La Pace vera possibile e’ invece il luogo in cui la assunzione delle ragioni reali di una tensione e di un qualsiasi conflitto sociale consentono di comporre i contrasti attraverso il ripudio della violenza, con la accettazione della diversita’, la adozione di strumenti e percorsi nonviolenti per la convivenza con “l’avversario”, e non piu’ con il “nemico”.

Dunque finiamola di definirci “pacifisti e nonviolenti” solo perche’ dalla agiatezza delle nostre condizioni (acquisite sul sacrificio di tanti, come e’ stato per la Resistenza) traiamo ragione per rinnegare, e solo apparentemente, la violenza: ma in realta’ per condannarla solo quando essa sia esercitata dai poveri. In realta’ noi, non acquisendo le ragioni dei poveri e dei diseredati e non facendoci a loro vicini se non simili, conveniamo semplicemente con i potenti per escludere i poveri dal diritto del ricorso a quella stessa violenza che tuttavia intendiamo esercitare o che lasciamo esercitare a piene mani ogniqualvolta ci sentiamo espropriati di un nostro diritto, fino a dichiarare legittima la “guerra preventiva”, cui affidiamo titolazioni suggestive come “enduring freedom”, “giustizia infinita” e simili amenita’.

Lasciamo cosi’ che si organizzi e si consumi, in un complice e ambiguo silenzio, la violenza dei potenti e rifiutiamo assolutamente di analizzare le ragioni di una violenza che nasca invece tra i poveri e dai poveri a causa delle vessazioni subite e sia rivolta contro di noi e il nostro stile di vita che li affama e li scippa di diritti, dignita’ ed identita’. E’ questa la Pace che intendiamo declinare ed affermare?

Una pace puerile, che non sappia assumere il compito di riscatto degli oppressi, e’ dunque una pace mortifera e mortuaria, che pretende una docilita’ servile dell’altro, in cambio di una rinuncia a somministrargli una morte violenta.

Una cultura adulta sulla pace e per la pace e’ quella che assume invece pienamente la categoria di ogni conflitto e cerca per ciascun conflitto emergente di comprenderne le ragioni profonde per individuare una terapia, nonviolenta e fondata su percorsi e strumenti pacifici; ma che sappia al tempo stesso individuare ed aggredire le radici profonde del male. Perche’ pace non e’ l’antitesi di guerra, ma e’ antitesi di ansia e ricerca del potere insindacabile, arbitrario, arrogante e violento. Essa e’ infatti frutto di dialogo, confronto rispettoso, attenzione all’altro ed accoglimento della diversita’ di cui egli e’ portatore. Ma e’ anche un luogo che non dimentica e non rinuncia all’analisi dei processi di ingiustizia, e individua ed interpreta processi terapeutici del conflitto che sappiano tener conto delle aspettative dell’altro e non pongano il proprio punto di vista come un “assoluto irrinunciabile”. E’ soprattutto una cultura di civilta’.

La cosa che andrebbe pretesa dai nostri futuri rappresentanti istituzionali, parlamentari e governativi, e’ che ogni intervento, dal programma di Governo alla interrogazione, sappia porre come antefatto la costruzione della Pace e la rivendicazione piena di sovranita’. Cosi’ come si impone oggi che ogni farmaco inserito sul mercato dia in chiaro le specifiche dei principi attivi, delle sostanze componenti, degli usi terapeutici e delle eventuali controindicazioni o effetti collaterali. Perche’ richiedere simili garanzie ad una aspirina e non richiederlo ad ogni atto parlamentare, vero farmaco per la terapia di ogni condizione sociale parossistica o comunque patologica?

Dunque i nostri due compagni di strada – Rossi e Turigliatto - si sono rivelati piuttosto degli “utili inconsapevoli del potere”, agendo ma senza imporre un piu’ ampio dibattito sulle loro motivazioni profonde. Divenendo inconsapevoli complici di un braccio di forza con i “fantasmi di una cultura di sinistra” che altri, temendo quella cultura piu’ di un avversario concreto, avevano gia’ in animo di ingaggiare con un Governo “pericolosamente sbilanciato”, a loro modo di sentire, verso i nuovi equilibri che quella cultura di sinistra rischiava di imporgli. Nella loro posizione istituzionale hanno mancato di impostare un qualsiasi confronto dialettico stringente sui temi fondamentali della sovranita’ e della violenza, per relegarsi ad un ben misero ruolo di disfattisti in nome della propria estrazione movimentista.

Poi ho letto con interesse e sottoscritto con convinzione la petizione per una nuova etica in politica, a partire dalle condizioni di trattamento economico dei Parlamentari, e notato come, quando c’e un richiamo vero e profondo alla eticita’ di un progetto, la gente sia sempre disponibile a sostenerlo. Dalla famosa discesa in piazza intorno al Palazzo di Giustizia di Milano contro il decreto “colpo di spugna” per i reati di tangentopoli emanato dal Ministro Biondi, se non vado errato, ai vari girotondi, purtroppo divenuti molto presto luoghi di esclusiva cura di immagine per alcuni piuttosto che di elaborazione delle idee di tanti.

Quindi credo ancor piu’ fortemente che sia possibile proporre ed imporre un cambiamento dal basso, purche’ gli spazi che vengono aperti ad una attesa partecipazione popolare non si richiudano subito dopo in steccati e recinti di appartenenze autoreferenziali e minimalisti. Che non si riducano alla pura affermazione della propria diversita’ ma sappiano divenire provocazione articolata alla Politica, anche utilizzando con astuzia i mezzi ordinari che il potere usa efficacemente con scopi tutt’affatto diversi.

Per fare questo c’e’ bisogno di alcuni punti di riferimento ben fissi e cioe’ l’ancoraggio ai valori della sinistra storica comunista e la apertura verso le piu’ attuali interpretazioni di un marxismo non riconducibile al socialismo reale, sovietico o Putiniano che sia.

Avevamo parlato di Berlinguer e della sua intervista sulla questione morale. Bene io proverei a riprodurlo quell’intervento, farne una specie di “santino” e riproporlo come metro di confronto e di verifica a chiunque incontriamo sulla strada. Per chiedere a ciascuno: “Ti ritrovi in questi messaggi? Pensi che sia giusto arrendersi all’evidenza del loro tradimento e della apparentemente devastante diffusione di quel tradimento per una resa incondizionata al liberismo selvaggio ed al profitto personale, sottratto ad ogni regola e controllo politico, oppure ritieni che sarebbe comunque necessario provare a contrastarlo?”

Ed e’ li’ che potremmo ritirare fuori la storicita’ di una lotta comunista, nata dal “che fare?” di Lenin scritto quando la cultura dominante non conosceva neppure una vera esperienza di democrazia, e non c’erano fax, telefoni e computer per trasmettere e diffondere le idee.

Eppure ciascuno strizzo’ il proprio cervello e si mise a disposizione perche’ il pensiero nascente comunista potesse essere dibattuto dai contadini russi, quasi “in tempo reale” come siamo usi dire oggi, dalle sterminate praterie del Don fino alla dacia della piu’ profonda taiga siberiana. Perche’ se una realta’ ci ha consegnato la storia della rivoluzione russa, come di ogni altra rivoluzione, e’ che il Popolo ha rivendicato i cambiamenti proposti (che fino al giorno prima apparivano come pura utopia) e promosso subito dopo quella rivoluzione di fronte alla sprezzante negazione di dialogo e disponibilita’ dei poteri. Una rivoluzione esplosa ben prima di quando Lenin avesse programmato la sua auspicata rivolta popolare. Questo ci dice che non bisogna dare solo parole alla gente, ma valori veri dai quali ciascuno possa sentirsi rappresentato pienamente come Persona e di cui dunque senta ii dovere di riappropriarsi senza timidezze, per diventarne portatore in prima persona. Perche’ come diceva Lenin, avendo imparato dal Popolo, “una forza materiale – il capitalismo ed i suoi strumenti ed eserciti – puo’ essere battuta solo da una forza materiale, ma i valori spirituali divengono una forza materiale quando le masse se ne appropriano”. A noi invece hanno fatto robustissime trasfusioni di fatalismo etico, per cui “e’ stato sempre cosi’”, “non e’ possibile cambiare la storia del mondo”, “ciascuno si ritagli la propria nicchia di sopravvivenza e cerchi di tirare a campare”, “di valori e di idee non si e’ mai saziato nessuno”, e via dicendo chi piu’ ne ha piu’ ne metta.

Il nostro problema e’ “come (che) fare”, dunque, oggi, per innescare i germi di una nuova “rivoluzione” che sappia riferire anche a tutte le conquiste culturali intervenute, come la “nonviolenza” e la dinamica democratica.

Dovremmo partire, io credo, dalla perfetta individuazione del male, illuminandone la devianza, rispetto alla fisiologia di una cultura virtuosa di sinistra e di legalita’ democratica, per avere qualche speranza di attenzione e di innesco della necessaria contaminazione.

Sara’ necessario che tra noi nulla venga dato per scontato (solo perche’ a nostro giudizio “saremmo di sinistra”), ma ci sia condivisione (a seguito di un approfondito confronto) sui “nuovi fondamentali” di etica e di politica ai quali vorremmo uniformarci e sui quali ispirare la nostra azione. Non basta infatti, in politica come nella vita, presumere, per il solo fatto di essere degli umani, che la nostra esistenza, la sua evoluzione biologica e le sue espressioni siano costantemente ispirate ed orientate alla salubrita’.

Dentro ciascun umano puo’ svilupparsi, e in realta’ costantemente si sviluppano, forme di deterioramento e di patologie che vanno affrontate con assoluta lucidita’. Ma sara’ possibile diagnosticare tali devianti patologie e sperare di individuare le corrette ed efficaci terapie solo se avremo ben definito il quadro di salubrita’ e fisiologia ordinaria nel quale ricondurre i valori e la fisiologia ritenuti ottimali.

Ora stiamo bene attenti perche’ in politica e’ invalso l’uso davvero singolare di definire in modo sprezzante ogni indagine diagnostica come “dietrologia”. Proprio loro che, quando scoppia qualche evidenza di corruzione nei palazzi del potere, non dicono che possa trattarsi di un fatto “episodico” (come potrebbe essere una banale perdita di sangue dal naso) ma che a loro parere “e’ un fatto fisiologico” (come se perdere sangue dal naso fosse una questione ordinaria e quindi non necessitasse di alcuna diagnosi anche quando si ripetesse con preoccupante continuita’). La diagnosi e’ trasformata in “dietrologia”.

E’ quindi di questo che saremo accusati: essere dietrologi e inconsistenti, quando dovessimo tornare a parlare di sovranita’, rivendicando il diritto a che essa non sia ulteriormente limitata, o di legalita’ democratica.

Quando andassimo a criticare anche un nostro leader non tanto e non solo per i suoi comportamenti conclusivi – come una certa ritrosia a costruire le condizioni per “un altro mondo possibile” (come e’ accaduto ad esempio a Bertinotti all’Universita’) - quanto per gli itinerari e le frequentazioni a volte salottiere che potrebbero averlo indotto a quei comportamenti che alcuni di noi avvertono come “tradimento”. Non si tratta, nello specifico caso, di contestare le sue frequentazioni di Porta a Porta o di altri salotti, ovvero i suoi amichevoli colloqui e scambi di stima reciproca con un orrido personaggio qual’e’ il senatore Cossiga, oppure ancora di criticare le sue abitudini nel vestire, i suoi improvvisi innamoramenti di una nonviolenza esasperata quanto disincarnata dalla politica e dalla storia dell’uomo come puo’ esserlo il buddismo, quindi in buona sostanza di accusarlo per le sue frequentazioni con gli “avversari”. Si tratta piuttosto di rimproverargli di non aver saputo interpretare almeno fino ad oggi, dall’alto della sua funzione, almeno il suggerimento evangelico “se il tuo avversario ti chiede di fare un chilometro con lui, tu costringerlo a farne due con te”. I “compagni che sbagliano” non sono solo quelli che si adagiano a cullare sogni di violenza o di terrorismo, ma anche quelli che essendo in politica e dichiarando di aver fatto scelte di nonviolenza, a volte dimenticano di ascoltare la base, di lasciarsi interrogare da essa, ed affrontare insieme ad essa l’analisi delle condizioni reali esistenti, la diagnosi del male e la prefigurazione dei possibili percorsi terapeutici.

Quasi che non fosse vero anche per la politica, come in medicina, che ad ogni effetto e’ legata una ben precisa causa (come insegno’ agli albori della cultura medica il grande Plinio) e che individuare quella causa e’ fondamentale per comprendere e valutare quell’effetto e saper intervenire con efficacia. D’altra parte per gli amanti del pensiero religioso non e’ forse vero che nel Vangelo e’ scritto: “Vi riconosceranno dai vostri frutti”? E che cioe’ non esiste alcun frutto che non derivi da uno specifico seme e da ben precise pratiche di innesto o di ingegneria genetica? Non e’ allora forse giustificata ogni critica (pur potendo dissentire sui modi di quella critica) a chi dei compagni, dopo aver ambito a posizioni di rilievo e di prestigio all’interno dei palazzi del potere, non porti frutti o quantomeno germogli conseguenti ed omologhi alle idee ed ai valori per cui si candidava a rappresentare le nostre aspettative?

Dunque non temiamo e non disdegnamo di attuare una costante pratica diagnostico dietrologica alle cose che accadono, anche quando cio’ ci costringe a severe critiche verso i nostri compagni di strada e verso gli stessi leader del movimento. Diversamente lasceremmo che ad utilizzare simili pratiche assolutamente necessarie a qualsiasi progetto, non rimangano che gli uomini dei servizi e degli apparati che ne hanno fatto una scienza ed un’arte, fondate sulla acquisizione sistematica di informazioni, e sul monitoraggio degli effetti di qualsiasi terapia sociale sia stata da loro intrapresa.

Il punto fondamentale da cui partire diviene allora la definizione di “concetto di Legalita’” di cui vogliamo farci portatori. Non esiste infatti una unica legalita’ astratta che possa definire la bonta’ di una qualsiasi cultura politica, come non esiste una fisiologia astratta che possa definire la salubrita’ di un sistema biologico-umano. Anche i tumori hanno processi di ordinaria fisiologia, la stessa di un qualsiasi organo sano, ma essa si rivela orientata ad uccidere piuttosto che dare continuita’ alla vita.

Cosi’ e’ sempre esistita una “legalita’” funzionale alle caratteristiche del potere vigente. Lo “ius primae noctis” era una forma di legalita’ collegata alla cultura feudale che voleva i sudditi e le loro spose nelle mani e nel pieno arbitrio del signorotto di turno. Lo erano, forme di “legalita’”, anche le leggi che consentivano lo sfruttamento del lavoro delle popolazioni neroafricane strappate alle loro terre origini e culture e tradotte in schiavitu’ nelle nuove terre della conquista. Lo erano quelle che consentivano la utilizzazione del lavoro dei bambini in miniera e nella nascente industria (ma come accade ancor oggi nel mondo in quelle latitudini ed in quei Paesi che oggi arriviamo ipocritamente ad accusare non di “sfruttamento sistematico ignobile” della manodopera ma solo “concorrenza sleale” sul piano puramente commerciale), per cui i datori di lavoro potevano (e possono) sfruttare al massimo la capacita’ lavorativa senza offrire ne’ giusti salari ne’ condizioni di vita e garanzie ai propri dipendenti (adulti o minorenni che fossero o siano), molto vicini a condizioni simili allo schiavismo. Non e’ un caso che un premio Nobel per l’economia, ovviamente statunitense, sia tornato a tessere le lodi dello schiavismo, come forma di progresso e sviluppo del sistema economico. Naturalmente l’unico parametro di riferimento in questa prospettiva e’ il puro profitto, senza alcuna concessione al sociale ed umanitario.

Lo erano, forme di “legalita’”, quelle che consentivano l’annientamento delle etnie indio che in tutto il mondo non si assoggettassero alla conversione cristiana, lo erano quelle “Leggi cattoliche” che dispersero e perseguitarono gli ebrei molto prima che la follia nazista ne organizzasse lo sterminio sistematico per la soluzione finale della questione ebraica. Ma attenzione, quella nazista e’ definita oggi “follia” solo per la crescita di una cultura diversa fondata sulla dignita’ della Persona Umana, che esige dunque profondi cambiamenti nel potere e nella Legislazione e nella cultura di legalita’ democratica che ne definisce la natura. Gia’ sant’Agostino, infatti, in tempi in cui a nessun’altra istanza che non fosse il potere bisognava rispondere, sottolineava la meritorieta’ di chiudere gli ebrei nelle loro sinagoghe e dar loro fuoco per distruggere le une e liberarsi degli altri.

Ciascuna forma di legalita’ si fornisce poi di strumenti idonei e ad essa omologhi per esercitare in piena garanzia di continuita’ i comportamenti che le sono propri. Uno Stato autoritario ha necessita’ di una Magistratura controllata dal potere politico e di apparati di sicurezza finalizzati a contrastare la conflittualita’ sociale. Un Stato Democratico dovrebbe porre molta attenzione alla indipendenza dei poteri ed alla formazione dei propri funzionari di apparato secondo logiche di rispetto della Persona e dei suoi diritti. Invece accade che si pretenda di poter servire e sviluppare uno Stato dichiaratamente democratico con poteri e funzioni ancora collegate ad antiche culture di potere assoluto dei monarchi.

Queste forme di “legalita’” si collegano ad qualsiasi cultura in cui si affermi la superiorita’ di un individuo sull’altro, di un sistema sull’altro, di un genere sull’altro.

La donna, fino agli albori del novecento era definta “essere senza anima”, ne’ piu’ ne’ meno degli indios e dei bambini. Ed ecco perche’ il “delitto d’onore” ha potuto essere una esimente di responsabilita’ penale fino a qualche decennio fa, ed e’ stata cosi’ dura la strada per riconoscere lo stupro come “reato contro la persona”, piuttosto che contro la morale.

E’ su questa disparita’ di riconoscimento, e sulla negazione di una pari dignita’ umana, che si puo’ comprendere il perche’ oggi facciamo tanta fatica ad accogliere l’altro, diverso da noi per etnia o per genere e tendenza sessuale, a definire sistemi di Legalita’ che ne armonizzino l’inserimento e ne garantiscano la tutela, e ci orientiamo piuttosto per stabilire e costruire sistemi di contenimento della diversita’, di segregazione, di espropriazione e negazione di diritti (CPT). E noi spesso pensiamo che, per ottenere risultati efficaci, basti negare il diritto di esistere a questi regimi di “legalita’ del potere”, piuttosto che inventare e proporre percorsi in cui sia possibile far crescere la condivisione di cultura e civilta’ piu’ avanzate.

La cultura di Legalita’ per la quale dobbiamo batterci e che dobbiamo continuamente difendere e tornare a ridefinire quasi quotidianamente, per adeguarla alle insorgenze di nuovi diritti ed al bisogno di nuove garanzie e tutele, deve essere allora l’unico criterio che accerta l’evoluzione della nostra Civilta’: quella “Legalta’ Democratica” fondata sulla pari dignita’ di ogni essere umano. Cosa ben piu’ profonda della stessa indefinita “uguaglianza” fortunatamente proclamata dalla Rivoluzione Francese ma tuttavia non compiutamente definita da quella rivoluzione, ne’ correttamente interpretata dalle imposizioni “apparentemente egualitarie ed espropriatici di privilegi” volute dalle interpretazioni del socialismo reale sulla spinta innovativa della rivoluzione russa.

La Legalita’ Democratica ha in se’ un effetto immediato che e’ quello di spostare la sovranita’ da un soggetto unico “prescelto” ed insindacabile (il monarca) al Popolo, che conserva tutte le prerogative della sovranita’ ad eccezione dell’arbitrio irresponsabile e dell’autoritarismo nell’agire.

Perche’ ogni sistema di potere si fornisce non solo di uno strumento di Legalita’ istituzionale, ma anche di apparati di controllo e repressione idonei a garantirne la stabilita’.

Ecco perche’ e’ normale che un sistema autoritario si doti di polizie repressive e capaci di asfissiante controllo sociale, cosi’ come si doti di sistemi di Giustizia finalizzati a punire per salvaguardare il sistema.

Ora una cultura di Legalita’ Democratica ha bisogno degli stessi strumenti di salvaguardia, pretendendo pero’ che essi siano animati da culture e siano organizzati secondo criteri assolutamente dissimili e discontinui rispetto alla natura autoritaria.

La grande sfida che ci aspetta, allora, e’ quella di saper definire, per ogni tratto di percorso che andassimo a proporre, anche gli strumenti di verifica e di controllo per garantire che sia comunque rispettata sempre la Legalita’ democratica.

Da questo derivava ad esempio la mia vecchia proposta di un ordine del giorno parlamentare relativamente alle vicende di Vicenza, vicende che ormai l’informazione ha reso desaparecido dalla nostra attenzione quotidiana.

Detto tutto questo sproloquio, bisogna concludere che non possiamo presumere di essere i soli a detenere una vera sensibilta’ democratica. Molti altri stanno lavorando, in tutti i campi del pensiero e dell’agire, alla ricerca di equilibri piu’ avanzati di civilta’. E dunque le nostre proposte hanno il dovere di non apparire ne’ dogmatiche ne’ settarie, ma capaci di individuare prospettive di operativita’ su cui aggregare consenso ma per la costruzione di percorsi intentati e dunque aperti a qualsiasi contributo. Perche’ come diceva Togliatti “Bisogna convincere per vincere e non vincere per convincere”.

Ora si tratta di valutare, se condividiamo queste coordinate di percorso, quali ambiti di programma riteniamo di voler e saper impostare (sovranita’ ed alleanze, indirizzo e controllo dell’economia, emergenze sociali, problemi concreti) e costituire, per ciascun aspetto, un “tavolo di lavoro in rete” che si dia tempi e respiro ben determinati e per i quali ciascuno esprima il proprio diretto interesse per arrivare a proporre a tutti i collegati una prima idea di stesura. Non eviterei di invitare a partecipare quegli amministratori, parlamentari, funzionari, di cui possiamo conoscere un orientamento che condivida le nostre ipotesi di lavoro, per avere il loro contributo “paritario”.

Spero che questo “ritorno” non si trasformi in un mare di pernacchie sotto le quali seppellirmi, come sembra vorrebbero fare quegli strani interlocutori che dopo aver letto sui siti creati da Laura, il mio resoconto sulla strage del Monte Serra si sono lanciati in stroncature e richiami ai miei trascorsi giudiziari e militari (la presunta radiazione).

Accogliero’ comunque con attenzione e rispetto ogni vostra reazione.

Mario
13/04/2007 08:17
 
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intervista a berlinguer 1981
La questione morale
Enrico Berlinguer - Repubblica, 1981





Intervista a Enrico Berlinguer



«I partiti sono diventati macchine di potere»



«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer.

«I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».



Eugenio Scalfari

* * *

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...



Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.



Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.



Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?



Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.



Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.



Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?



Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.



Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.



Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?



Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.



Dunque, siete un partito socialista serio...

...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...



Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.



Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.



Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.



Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.



Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.



E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.

«La Repubblica», 28 luglio 1981


04/06/2007 11:15
 
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timori di riciclaggio a lucca
MEGA LIBRERIA A LUCCA

TIMORI DI RICLAGGIO

Sembra proprio che a Lucca voglia nascere una nuova megalibreria.

Molti auguri a qualsivoglia iniziativa economico commerciale che venga intrapresa nelle nostre Citta’, e dunque anche ai titolari della nuova iniziativa culturale e commerciale che prevede la apertura di una megalibreria (400 mq) nell’antica magione della famiglia Cenami. Forse qualche pregiudiziale riserva potrebbe venire solo dalla eventuale vittoria al ballottaggio dello schieramento di sinistra, “naturalmente” poco propenso ad avallare un libero mercato senza regole ne’ controlli.

Tuttavia non vi e’ chi non veda come anche uno schieramento di destra, pur guardando con simpatia ad iniziative imprenditoriali di tal genere, debba assolutamente garantire la Citta’ e la popolazione da iniziative avventuristiche o che possano nascondere timori di ulteriore infiltrazione di progetti e capitali di origine poco limpida. E’ doveroso ricevere dagli imprenditori e dare ai Cittadini certezze su questo aspetto, specie dopo la divulgazione del rapporto del GICO della Guardia di Finanza che, recentemente, sosteneva che la Toscana in genere rischia di essere terra utile al riciclaggio (si parla di cifre annue intorno ai 70 ml di Euro) e Lucca in particolare con quasi il 50% di tali importi, stimati sempre per difetto dagli apparati di garanzia della Legalita’ finanziaria.

Questo intervento non vuole essere allora un attacco a “persone”, ma la denuncia di un metodo che troppe volte a Lucca ha regalato amare sorprese: lo fu con la penetrazione di Casillo nel tessuto sociale ed economico di Lucca, utilizzando la presidenza della Lucchese Calcio, lo fu con la conquista della CRL da parte di Fiorani che gravemente attento’ alle risorse pubbliche e private del territorio. Va detto che in quelle circostanze, quando ancora quei personaggi godevano della ossequiosa attenzione dei mezzi di informazione e dei rappresentanti istituzionali, voci libere di Cittadini cercarono di sollevare – rimanendo inascoltate – la pubblica attenzione sulle potenzialita’ negative delle operazioni che venivano invece osannate. Speriamo che quei percorsi e quelle amare soprese finali non debbano nuovamente ripetersi.

Ebbene ci sono alcuni aspetti, anche in questa nuova vicenda, che potrebbero risultare preoccupanti nella operazione commerciale, qualora i minuti passaggi della iniziativa e della natura imprenditoriale non trovassero soddisfacenti spiegazioni. Essi possono riassumersi in questioni relative alla struttura societaria e questioni relative agli oneri che la societa’ andrebbe ad assumere.

La struttura societaria dice che l’operatore visibile (gia’ in passato incorso in qualche “problemino”, come dicono ormai le pubblicita’ di credito finanziario, e quindi non e’ questo a fare discrimine) e’ detentore di una quota pari all’incirca al 5% di una societa’ russa, con sede a Gorizia (una sede forse troppo vicina al confine, dunque, per non temere facili espatri ed immigrazioni di capitali non limpidissimi). Sarebbe necessario saperne dunque di piu’ e ricevere maggiori garanzie che non la sola amicizia dell’ex premier Berlusconi con lo zar russo Putin.

Gli oneri: si parla di sei addetti (tre su ogni turno lavorativo, evidentemente, dato l’annunciato orario di apertura intorno alle 15 ore giornaliere – dalle 9.00 alle 24.00 -) per i quali e’ necessario prevedere (in condizioni di regolarita’ lavorativa e dunque di riconoscimenti di straordinari, ferie, stipendi, 13^ e 14^ mensilita’ oltre ai versamenti fiscali e previdenziali) cifre non inferiori ai 2.000 Euro mensili. E’ poi evidente la necessita’ di un responsabile del punto vendita per il quale, alle condizioni di regolarita’ dette, non sara’ possibile scendere sotto un livello di 3.000 Euro al mese.

Detto che la dotazione strumentale fa parte dell’investimento iniziale, restano comunque le spese mensili di utenze ed abbonamenti software e quant’altro, stimabili nell’ordine di almeno altri 1.000 Euro al mese. Il tutto da’ un totale di circa 16.000 Euro al mese, cui naturalmente va aggiunto il costo affitto. Ora per una simile struttura storica e per la collocazione dell’area, a meno di un acquisto dell’immobile, non potra’ pensarsi ad impegni inferiori ai 12.000/15.000 Euro mensili, se non di piu’, con effetto a catena nell’innalzamento dei valori di affitto dei locali d’area negli immediati dintorni.

Cio’ porta la cifra finale di investimento mensile a circa 28.000/31.000 Euro mensili, il che per una Libreria che viaggia su guadagni medi del 25%, fino al 45% per le grandi catene, comporta la necessita’ di un livello di vendite mensili pari a circa 75.000/100.000 Euro, cifra che attualmente la Citta’ di Lucca non riesce a conferire neppure al complesso di tutte le attuali librerie in attivita’ messe insieme.

Sembra abbastanza per porre interrogativi ineludibili alle Istituzioni cittadine per sapere se abbiano vigilato e tenuto conto di tutti questi aspetti, oltre all’altro (“certamente” meno di interesse per chi e’ sempre pronto ad invocare il libero mercato) della probabile cancellazione delle attivita’ librarie attualmente attive in citta’.

Dunque all’alto rischio di una infiltrazione poco gradita di illegalita’ economico-finanziaria, che naturalmente aggraverebbe le condizioni di sicurezza sociale forse piu’ della massiccia presenza degli immigrati, non si avrebbero effetti di ampliamento delle attivita’ economiche e culturali gia’ presenti, ma la morte delle stesse, con la fine della ricchezza delle “diversita’ biologiche” determinate dal diverso sentire e dalle scelte conseguenti dei titolari che fino ad oggi le hanno caratterizzate. Dunque e’ anche un problema di “ecologia umana e culturale”

Certo questa “avventura” rilancia il tema di una litigiosita’ un po’ bottegaia tra i librai lucchesi che spesso ha spento sul nascere alcune lodevoli iniziative, anche pubbliche, come la mostra per ragazzi ed altre mostre librarie. Ma prima di affrontare i temi di un provincialismo che a lungo termine puo’ davvero risultare deleterio, andrebbero offerte risposte e garanzie su questi timori. Perche’, al di la’ di questa specifica iniziativa commerciale, se l’allarme del GICO e’ fondato bisogna ricordare che i capitali della criminalita’ possono essere investiti con assoluta indifferenza proprio per il costo iniziale pari a zero, ma poi una volta acquisito un territorio essi hanno bisogno di prosciugarne le risorse e lasciarlo alla fine privo di qualsiasi vitalita’.

Anche gli editori, forse conoscitori piu’ a fondo della correttezza commerciale di certi interlocutori, dovrebbero porsi almeno il problema se non corrano il rischio di creare, assecondando certe operazioni spericolate, condizioni di nuovi “buchi” e “perdite commerciali”, a fronte ed indipendentemente dalla insensibilita’ che pur essi hanno spesso dimostrato per le piccole realta’ di commercio librario, le quali rimangono comunque la spina dorsale della struttura distributiva del libro e della cultura.

C’e’ solo da augurarsi che i promotori di questa iniziativa commerciale abbiano avuto un confronto preventivo e serio sugli aspetti citati almeno con il Commissario Lococciolo e che questi, non avendone reso edotta la pubblica opinione o le forze politiche fino ad oggi, voglia almeno riferirne nei particolari ai sopravvenienti amministratori ed ai rappresentanti delle opposizioni (per come essi saranno determinati dalle imminenti elezioni di ballottaggio), e che non ci siano state influenze di uomini di apparato come e’ invece gia’ avvenuto con il Sindaco Fazzi, in circostanze apparentemente di sola natura calcistica ma infarcite di aloni di vendite di armi alle spalle.

Mario Ciancarella Ex libraio fallito
19/06/2007 18:49
 
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la sconfitta di zeno
LA SCONFITTA DI ZENO



Cari Amici,


La sconfitta del Generale Zeno Tascio merita (come avrebbe forse meritato anche quella del Generale Cementano) di essere raccontata nei particolari ed analizzata nel significato e nelle prospettive, non per soddisfare la curiosita’ di tutti voi (vi ridurrei cosi’ a semplici “tifosi supporter” cui offrire qualche argomento di chiacchiera al bar), ma per capire insieme come e perche’ anche questa vicenda sia collegabile all’impegno sulle stragi che vide impegnati me e Sandro Marcucci. E dunque per saper accordare questa consapevolezza condivisa con il lavoro politico che ancora si apre avanti a tutti noi perche’ la rivendicazione di Verita’ e Giustizia per ciascuna e tutte le stragi impunite abbia finalmente una valenza di concretezza istituzionale. In seguito, metteremo in rete, grazie alle collaborazioni preziose di tutti voi, anche l’ennesima lettera che si becchera’ il Generale Tascio dopo la sua sonora sconfitta. Con la lettera egli ricevera’ anche due “regalini”: il libro di Anna Harendt “La banalita’ del male” (che consiglio a ciascuno di avere nel proprio bagaglio personale) unito ad uno specchio con le “istruzioni per l’uso”.

Dunque in questo resoconto lavorero’ cosi’:

- Il dibattimento in Corte d’Appello di Perugia del 15-6-2007
- Genesi e natura di una querela
- Ruoli e funzioni del Generale Tascio nel quadro della devianza istituzionale politico-militare
- Prospettive di azione politica


- Il dibattimento in Corte d’Appello.

La giornata era iniziata in maniera preoccupante: il mio legale di fiducia nella specifica vicenda, l’Avv. Afredo Galasso, era impossibilitato a presenziare per la concomitanza di un altro dibattimento per fatti di Mafia a Sciacca ed aveva inviato un fax giustificativo con richiesta di rinvio.

Tuttavia la Corte aveva inizialmente discusso tutte le richieste di rinvio presentate dai legali delle varie cause tranne la nostra, e dopo aver accolto tutte le altre richieste, aveva fissato al pomeriggio la valutazione del nostro caso, per un eventuale dibattimento, facendoci cosi’ scivolare dietro tutte le altre cause in discussione. Avevo comunicato questo sospetto-certezza (che si volesse andare comunque al dibattimento anche con la nomina di un legale d’ufficio) allo studio di Galasso e questi mi aveva contattato subito dopo rassicurandomi che se io avessi insistito nella pretesa della assistenza del legale di fiducia e nel richiamare la motivazione giustificativa inoltrata via fax alla Corte dallo studio legale essi non avrebbero potuto non rinviare.

Cosi’ pero’ non sarebbe stato, ed i miei sospetti e timori alle 16.30 si sarebbero concretizzati con il rifiuto di accoglimento della richiesta di rinvio, con la perentoria tacitazione della mia richiesta di poter essere assistito dal legale di fiducia (Lei potra’ verbalizzare le sue dichiarazioni al momento opportuno, questa Corte ha valutato la richiesta di rinvio e non ritiene che sia sufficientemente motivata – almeno per giustificare l’impossibilita’ di nomina di sostituti in uno dei due dibattimenti – ed ha pertanto deciso di non accoglierla, nominando in aula un difensore d’ufficio – il quale ovviamente si sarebbe astenuto anche dal richiedere termini a difesa, che avrebbero automaticamente preteso il rinvio ma che avrebbero anche potuto essere concessi nell’ordine di un’ora, com’era accaduto a La Spezia nel 1982 - per la sua assistenza legale) e con la apertura del dibattimento.

L’ombra di “La spezia”, ai tempi del mio processo militare del 1982 (come potrete leggere quando completero’ lo specifico capitolo) tornava ad affacciarsi pesantemente anche in questa nuova sfida, almeno nelle intenzioni della Corte.

Questa volta ero almeno sicuro sulla circostanza che il mio legale non mi avesse giocato come avevano fatto invece i miei legali del tempo (Avv. Tarsitano per la direzione del PCI, on Fortuna per la segreteria del PSI, on Martinazzoli per la Direzione della DC) ed i riferimenti e garanti politici (on Baracetti per il PCI, on Valdo Spini per la segreteria PSI, on Maria Eletta Martini per la Direzione della DC) del mio mega pool difensivo politico-professionale che mi aveva invece svenduto agli interessi dei miei avversari.

Il patto a quel tempo era stato questo (come fu confessato dalla Martini ad un incredulo e giovane sacerdote amico Don Alessandro Bertolacci di Viareggio, che le poneva interrogativi scomodi sulla vicenda): Non presenza al dibattimento del pool di difesa con richieste di rinvio che si sapeva non sarebbero state accettate, e dunque abbandono della linea di difesa di svolgere un processo politico alla Forza Armata del tempo per il comportamento dei suoi vertici. Nomina di avvocati d’ufficio Manzella e Pelagotti del foro di La Spezia – referenti locali per la DC ed il PCI -. (ai quali sarebbe stata concesssa, in caso di richiesta di termini a difesa – come in realta’ avvenne – una sola ora di tempo), celebrazione del processo, assoluzione per “insufficienza di prove”, reciproca rinuncia a presentare motivazioni di appello e ….. ripresa in servizio del sottoscritto. Ma quest’ultimo impegno, il solo che competesse ai miei avversari, (confermato davanti a diversi testimoni civili nel successivo Ottobre dal Presidente di quella Corte, il Giudice Ciancaglini, che incontrando il sottoscritto a latere di un processo a Verona ad un altro militare democratico e venendo a conoscenza della mia perdurante condizione di sospeso dal servzio in attesa di appello, se ne usci’ candidamente con un “Ma perdio non erano stati questi gli accordi”) fu disatteso, ed essi approfittarono alla fine della formula “insufficienza di prove” piuttosto che ”per non aver commesso il fatto o perche’ il fatto non costituisce reato” (con le quali ogni azione disciplinare sarebbe stata inibita) per costruire un procedimento disciplinare farsesco e falso (ben consapevoli che non avrebbero mai potuto essere denunciati dai loro “complici politici” nello scempio dello Stato di Diritto che sia andava consumando).

In base a quel procedimento sarebbe stata poi proposta al livello politico la mia radiazione.

La mia sola fortuna fu che a quel punto i miei avversari ed i loro complici non avevano piu’ titolo per interventi diretti e la responsabilita’ della sottoscrizione della radiazione competeva al solo Presidente Pertini, il quale mi risulta l’abbia invece sempre rifiutata, costringendoli allo squallido falso su cui oggi l’Avv. Novani di Viareggio sta cercando di costruire l’impugnativa per nullita’ ed inesistenza della documentazione necessaria della radiazione stessa. Vedrete che anche questa volta ci sara’ una terribile coalizione di interessi politici militari (anche del nostro Governo di sinistra) per sostenere che quel falso sia invece un atto autentico. Chi vivra’ vedra’, ma ci saremo comunque divertiti molto.

Nella circostanza di Perugia l’obiettivo era il medesimo e cioe’ trasformare la “non procedibilita’ per difetto di querela” in “prescrizione del reato” cosi’ da essere legittimati a sostenere che il reato fosse stato comunque consumato, senza neppure entrare nel merito delle vicende contestate o consentirmi una qualsiasi controdedizione.

Questo avrebbe consentito ai miei avversari di sostenere che io mi fossi salvato da una punizione penale solo per la intervenuta prescrizione del reato. Infatti in questo Paese gli unici due personaggi per i quali dalla prescrizione dei reati contestati – e comunque accertati - tutti abbiano solo tratto (o siano stati costretti ed ammoniniti a trarre) conseguenti convincimenti di piena innocenza, sono stati solo l’on Silvio Berlusconi e l’on. Giulio Andreotti. Nel mio caso la prescrizione sarebbe stata inseguita (come al tempo lo fu l’insufficienza di prove) per avere poi mano libera in rilevanti richieste risarcitorie in sede civile, mentre qualsiasi altra successiva esternazione avesse voluto fare il Ciancarella sulle vicende stragiste (in particolare Ustica, il Monte Serra e la uccisione di Sandro Marcucci) esse sarebbero state tutte ricondotte a quella “natura diffamatoria” del soggetto “certificata dalla prescrizione presuntiva di pena, per una colpevolezza comunque ritenuta accertata dalla Corte di Appello di Perugia, pur senza aver mai potuto entrare in una articolata discussione del merito”.

E’ quanto il Gen Tascio ed il suo avvocato andavano fra loro bofonchiando per tutto il giorno, facendo molta attenzione che io fossi nei pressi e potessi raccogliere le prospettive delle pesanti conseguenze economiche che avrei dovuto attendermi dall’esito del processo.

Non sono state ore facili, ve lo garantisco, essendo costretto a rivivere uno sceneggiato gia’ vissuto e carico di conseguenze negative. Ma e’ qui, in quei frangenti, che la forza che mi ha trasmesso la vostra solidarieta’ ha avuto il sopravvento. Mi ha dato la capacita’ di non sfuggire piu’ gli sguardi da faina che il generale mi indirizzava, vedendolo ricostringersi ad abbassare a sua volta gli occhi man mano che riprendevo coraggio e lo sfidavo con sguardi lunghi e senza piu’ timore. Sentivo che, comunque fosse andata, dovevo rispondere anzitutto alla vostra fiducia ed alla vostra incrollabile determinazione democratica a pretendere verita’ e giustizia sulle stragi, come pure applicazione e tutela della formidabile Costituzione regalataci dalla Resistenza. Dovevo mantenere fissa davanti agli occhi l’immagine di Sandro ucciso per la sua limpida determinazione.

Di colpo andare avanti e’ stato piu’ semplice, perche’ il riferimento, grazie a voi, e’ tornato ad essere la giustezza di cio’ che stavo facendo e di cio’ che mi aveva condotto in quel luogo e non piu’ la minacciosa prospettiva di una conclusione penalizzante (per intervenuta prescrizione) di quel processo che si andava profilando.

Dunque questo mio grazie a tutti voi, per avermi saputo restituire a me stesso ed alla integrita’ dei valori che mi hanno sempre guidato, non e’ un puro esercizio di educazione formale. E’ la stessa gratitudine che sentii e che conservo per le presenze eteree delle vittime del Serra che mi si fecero presenti dopo il mio primo arresto. La nobilta’ delle cause per cui combattiamo non diventa svendibile alle paure delle contingenti aggressioni che possano essere subite, se qualcuno ti aiuta a tenerle davanti agli occhi con fermezza e certezza di aver lavorato per la cosa giusta. E d’altra parte nel Vangelo e’ scritto: “Quando vi trascineranno davanti ai Tribunali a causa del mio nome (Io sono la via, la Verita’, e la vita aveva detto altrove) non vi preoccupate di quello che direte. Lo spirito che e’ in voi vi suggerira’ quanto dovrete dire)”. Edc ancora aveva detto: “il discepolo non e’ piu’ del maestro. Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. Non abbiate paura, andate ed annunciate la Verita’”. Ma torniamo al procedimento.

Ho avuto molta fortuna, tra l’altro, grazie a tre assist notevoli ed inaspettati: due dalle legali rappresentanti dei miei due coimputati ma il primo (insperato e certamente piu’ determinante) dal Procuratore Generale della Corte d’appello. Questi, chiamato a pronunciarsi, dichiarava il suo profondo disagio nel sostenere la causa come proposta dall’appello del Pubblico Ministero, per diversi motivi:

1° La vicenda (relativa comunque “ad un reato eventualemente ampiamente prescritto” precisava) per come era stata definita dalla sentenza di primo grado (improcedibilita’ per difetto di querela) avrebbe potuto e dovuto tuttalpiu’ essere oggetto di impugnazione davanti alla Cassazione con la richiesta di rinnovazione inziale del dibattimento. E non come “appello”, perche’ cio’ costringeva la Corte a valutare (e la Procura Generale a sostenere) una responsabilita’ penale eventuale dell’imputato senza averne mai potuto ascoltare le controdeduzioni e senza aver mai potuto ascoltare neppure le motivazioni della parte lesa. Dunque un processo che sarebbe sfuggito ad ogni ordinaria procedura dibattimentale di accertamento.

2° Perche’ a fronte della lamentela della parte lesa sulla “improcedibilita’ per difetto di querela” resistevano forti e motivati dubbi sulla certezza del deposito della querela (nei tempi utili e necessari per la costruzione della imputazione), stante il rilievo che sulla querela – firmata si’ dal generale Tascio con firma autenticata dal suo legale, ed appuntata si’ con un timbro in gomma recante una data del Giugno 1993 – mancava tuttavia ogni prescritto riferimento al funzionario che l’avesse ricevuta, ogni riferimento alla catalogazione e protocollazione della stessa a cura dell’Ufficio, e soprattutto ogni riferimento al soggetto che l’avesse materialmente depositata.

3° Perche’ in mancanza eventuale di accoglimento della Corte della conferma auspicata dall’Ufficio della Procura Generale del verdetto di improcedibilita’ sentenziato in primo grado, non rimaneva alla sua funzione di accusatore che la richiesta di dichiarazione di “intervenuta prescrizione”, pur in assenza di qualsivoglia possibilita’ dell’imputato di offrire in qualsiasi fase del dibattimento le sue controdeduzioni.

Dunque di giudici ce n’e’. E non solo a Berlino, come scriveva Del Gaudio; ma anche in questo disgraziato Paese. Certo, nel medesimo ufficio della Pubblica accusa, si nasconde evidentemente qualche amico di personaggi come Tascio e dei legali che ne curavano l’immagine e l’onorabilita’, che ha ritenuto di “accogliere” una querela imperfetta, e forse presentata oltre tempo massimo, sulla quale costruire un processo falsificato ed alterato. Forse si sarebbe potuto chiedere al Procuratore Generale se non fosse possibile comunque risalire a ritroso per intercettare il giorno in cui quella querela fosse stata inserita nel Registro Generale, e da chi, onde avere la possibilita’ di chiedere conto a costui di eventuali discrepanze in ordine alla non regolare protocollazione dell’atto ed alla assenza di una relata di deposito che desse atto del soggetto depositante e del soggetto ricevente. E cosi’ pure di capire chi e perche’ avesse mantenuto in frigorifero l’appello fino alla piu’ ampia maturazione della prescrizione per poi riesumarla solo dopo le sentenze di proscioglimento per il Generale Tascio per le imputazioni relative ad Ustica. Ma forse di piu’ non era possibile esigere da un Procuratore Generale comunque intellettualmente onesto al punto di dichiarare il proprio “disagio” (che non e’ cosa da poco in una causa penale) nel sostenere la specifica accusa nella causa in discussione.

Il secondo assist e’ venuto dalla legale dello Sgherri Guido - il giornalista del Corriere di Perugia coimputato per i miei stessi reati, avendo redatto l’articolo da cui il generale Tascio traeva motivo di querela - che dichiarava come fosse praticamente evidente che il processo avesse di mira un solo preciso imputato (pur senza nominarmi), mostrando indifferenza per i coimputati. Infatti il suo assistito risultava deceduto gia’ da due anni, eppure la Corte non aveva dato alcun segno di averne registrato la conseguente uscita dal processo, ne’ aveva dato conto o chiesto ragione della materiale impossibilita’ di notificargli la convocazione per l’udienza in corso”.

Il terzo assist e’ venuto dalla legale del terzo coimputato, il direttore responsabile del giornale, Dott. Benincasa, il cui articolo era stato fonte della “presunta” querela del generale. La avvocatessa, nel ritornare con puntigliosa precisione sulle dinamiche della registrazione degli atti di querela, ha riproposto la sconcertante natura della querela del generale e la incertezza sulle circostanze e la data dell’effettivo deposito. Essa ha poi analizzato la ampia giurisprudenza di Cassazione che ne chiede e pretende la vincolante rispondenza a precise procedure, precisando che tale orientamento non e’ finalizzato “ad impedire la ordinaria tutela del proprio diritto da parte del querelante” quanto a “garantire la puntuale conoscenza degli addebiti da parte dei soggetti imputabili delle persone lagnanti e della corretta applicazione delle sequenze di procedibilita’. Non ultimo per consentire la legittima azione di rivalsa qualora il dibattimanto accertasse la insussistenza delle lagnanze relative alla querela”.

Ma il miglior assist, io credo, mi e’ stato offerto dallo stesso legale della “parte offesa”, e cioe’ del generale Tascio. Questi ha anzitutto depositato, nello stupito sconcerto del Presidente della Corte, le sentenze di proscioglimento del generale, in Corte d’Appello ed in Cassazione, per le imputazioni che gli erano state contestate in relazione alla vicenda di Ustica; ma, come ben sapete, non in ordine alla strage in quanto tale.

E questo, se mai ce ne fosse stato bisogno, non faceva che confermare il sospetto che avevo sottolineato nella mia memoria per il dibattimento (v. documento Tascio 2007), che la controparte volesse lucrare su una assoluzione che io per primo avevo pronosticato gia’ al Giudice Priore, stante la natura e la impostazione stessa delle imputazioni. E di fronte alle perplessita’ della corte veniva ribadito che le sentenze erano utili a dimostrare la infondatezza delle mie presunte accuse di coinvolgimento del Generale nell’omicidio di Marcucci (beh si’ quell’avvocato ha detto proprio cosi’ “omicidio” e non “presunto omicidio, come sostiene Ciancarella”) per le indagini che egli stava svolgendo sulla vicenda Ustica e sulle responsabilita’ che lui e Ciancarella contestavano al Generale in ordine alla strage. (Di tutto un po’ dunque, senza riferimenti, precisazioni, o accenni al convincimento piu’ volte ribadito in ogni sede ed anche direttamente al Generale, o nella memoria inviata alla Corte d’Appello di Perugia, che le accuse formulate contro il Generale, per come erano state confezionate, non avrebbero retto alla prova dibattimentale). E tuttavia, come avevo ulteriormente specificato nella memoria, si erano ben guardati dal depositare la mia lettera di sfida indirizzata al Gen. Tascio nel 1996 (vedi documento TASCIOLE).

Infine, forse per la supponenza arrogante con cui ritenevano di aver gia’ vinto la partita; ma facendo miserevolmente precipitare tutto l’impianto della contestazione ad una mera avidita’ economica, affermava di richiedere la applicazione della “prescrizione” anche allo scopo di “vedere garantito l’interesse del suo assistito ad ottenere in sede civile gli ordinari compensi di rivalsa”, per i quali non esitava ad allegare, depositandone la nota, le spese legali che sarebbero state pretese del proprio studio.

Vuoi vedere mi sono detto che ora il Generale “faina” pretenderebbe da me che sia io a coprire le spese che lui ha dovuto sostenere per la propria difesa relativamente ad Ustica? Beh il gnerale sarebbe stato un Illuso comunque, oltreche’ per la mia assoluta incapacita’ a rispondere di tali pretese, anche perche’ non credo che gli basterebbero 10 cause risarcitorie per coprire gli oneri di un pregevole quanto certamente dispendioso lavoro di difesa nelle imputazioni per Ustica.

Ebbene non sorprendetevi ma, come detto, pur in presenza cotanti depositi di documenti e presunzione di aver subito diffamazione per la quale dover essere tutelato, il generale ed i suoi legali si sono ancora una volta “dimenticati”, se non proprio ben guardati, dal depositare la mia lettera del Maggio 1998 in cui lo sfidavo a proporre querela, non su forzose ed arbitrarie costruzioni di una intelligence a fini diffamatori tra me ed un cronista di provincia (peraltro mai avvenuta), ma utilizzando piuttosto quella documentazione certa e non rinnegabile che andavo a consegnargli io stesso e nella quale lo sfidavo a rispondere puntualmente delle nefandezze di cui lo andavo accusando!

Ma glielo avevo pur scritto che, in virtu’ di quella che non io ma il dizionario di italiano definisce pavidita’, egli si sarebbe certamente ritratto di fronte ad una simile ed aperta sfida. Ed e’ rimasto ancora una volta con le sue sole ed inutili carte false in mano, sbugiardato dalle circostanze della produzione delle stesse indipendentemente dal merito. Cosi’ come accadeva quando veniva sbugiardato, documenti parlamentari alla mano, da Lino Totano o da me nelle estenuanti assemblee in cui riuniva il personale della 46^ per raccontarci le sue “documentate” bugie.

Il Presidente, subito dopo la esposizione della “parte lesa”, aveva chiesto a me, in quanto imputato, di fare dichiarazioni da verbalizzare. A quel punto avevo risposto che io avevo sempre espresso con consapevole liberta’ le mie idee, come d’altra parte avevo fatto nella memoria inviata alla Corte perche’ fosse acquisita agli atti. E che dunque ben volentieri avrei voluto fare dichiarazioni anche per contestare le ardite e non provate correlazioni tentate dalla parte lesa per costruire le ipotesi diffamatorie di cui venivo da loro accusato. E tuttavia rinunciavo a qualsiasi specifica dichiarazione, se non quella che vi rinunciavo per la circostanza per cui venivo impedito dal rlasciarle con la garanzia e l’assistenza legale del mio avvocato di fiducia, pur non volendo mancare con questo di rispetto per la giovane legale che aveva accettato il ruolo di legale di ufficio.

Vi assicuro che in quelle condizioni attendere per quasi mezz’ora la decisione della Camera di Consiglio e’ stato stressante oltre ogni dire. In quelle condizioni di caldo asfissiante per un’aula completamente esposta al sole di mezzogiorno, con il carico di caffe’ e di sigarette che avevo consumato e con il livello di stress crescente, non aver accusato nessun malessere ha ancora una volta certificato che quella valutazione di “eccellente struttura psicofisica” accertata nella selezione di ingresso in Aeronautica doveva essere ben fondata. Ero certo che si stessero cercando soluzioni alchemiche per avallare i desiderata del Generale. Ma non era cosi’.

“In nome del popolo italiano la Corte d’appello di Perugia” sentenziava infatti “di doversi confermare la sentenza di primo grado di improcedibilita’ della causa per difetto di querela”.

Mi sono ingiuriato per non possedere in quel momento un telefonino di quelli che permettono di fare fotografie digitali. Ma vi assicuro che non dimentichero’ mai il viso sconcertato e contrariato, che malcelava una furia incontenibile, del mio nemico generale Tascio. Mi ricordava il volto trasfigurato dall’ira di Jack Nicholson nella interpretazione del Colonnello dei Marines che vede la sua boria trasformarsi in ragione di carcerazione e di imputazione nel film “Codice d’onore”. Comunque i volti delle faine rimangono sempre abbastanza imperturbabili, se non agli esperti occhi dei loro avversari, e dunque ciascuno puo’ immaginare come meglio crede l’immagine di uno sconfitto incredulo e sconcertato dall’esito di una battaglia che presumeva arrogantemente di aver gia’ vinto a mani basse.

Il crollo della batteria del telefonino mi ha impedito di diffondere subito ed a tutti voi la notizia del bel risultato, e per questa mancanza di previdenza nel mantenere carico il telefonino chiedo davvero scusa a tutti.

L’importante ora e’ capire, metabolizzare, elaborare e proporre. Vado a provarci con le altre parti del documento.

- Genesi e natura di una querela.

E’ il Maggio 1993 ed il Movimento politico de La Rete, fondato da Leoluca Orlando, nella sua espressione cittadina di Pisa, indice una conferenza stampa, convocando con un comunicato la stampa locale e quella nazionale, per presentare la vicenda della morte di Alessandro Marcucci e del suo avvistatore di incendi Silvio Lorenzini, precipitati a bordo del piper su cui volavano in servizio antincendi per la Regione Toscana.

Le diapositive dei rottami del velivolo che saranno proiettate in conferenza stampa dimostreranno, secondo gli organizzatori della conferenza stampa, la natura omicidiaria della precipitazione del velivolo e la superficialita’ della indagine tecnica orientata a concludere per evidente “responsabilita’ del pilota” (Sandro Marcucci) che avrebbe “volato non rispettando le quote minime di sicurezza e non tenundo conto dei fenomeni di micrometeorologia che potevano verificarsi sul luogo dell’incidente a causa delle condizioni meteo”.

La conferenza stampa sarebbe stata introdotta da giovani ragazze militanti nel Movimento, ed il tema sarebbe stato svolto e presentato da Mario Ciancarella – gia’ candidato nel 1992 alle elezioni parlamentari nelle liste del Movimento -, ed il deputato in carica de La Rete, on Alfredo Galasso, avrebbe tratto le conclusioni della iniziativa.

Alcuni giornalisti intervengono alla conferenza stampa per conto di varie testate, altri decidono di costruire i propri articoli sulla base del solo comunicato di convocazione della segreteria locale del Movimento. Cosi’ decide di comportarsi ad esempio il giornalista Guido Sgherri, il quale, senza alcun contatto diretto con alcuno degli organizzatori, e men che meno con me (che lo avrei rinviato per qualsiasi dichiarazione alla celebrazione della conferenza stampa, con conseguente invito ad eventualmente intervenire) redige uno degli innumerevoli articoli (molto approssimati) che si sono registrati in tutti questi anni sulla vicenda.

Al termine della conferenza stampa, Alfredo Galasso, prendendo la parola, definisce quello che e’ stato mostrato come “l’omicidio di Sandro Marcucci e di Silvio Lorenzini” (cosi’ lo riprende il Tirreno del giorno successivo) auspicando che le funzioni politiche e giudiziarie vogliano e sappiano riaprire l’indagine sul disastro aereo.

Passano tre anni e solo sul finire del 1996 veniamo a conoscenza di una querela per diffamazione che il Generale Tascio avrebbe presentato nel Giugno 1993 alla Procura di Perugia. Alfredo Galasso assume la mia difesa e nella udienza preliminare davanti al GIP sostiene che la querela mostra tali e tanti aspetti dubbi sulla correttezza del suo deposito (data certa del deposito, mancata protocollazione dell’Ufficio, mancata indicazione del funzionario che avrebbe raccolto la querela e della persona fisica che la avrebbe depositata) da ritenere che manchino le condizioni di procedibilita’ per “difetto di querela”.

L’Ufficio del Pubblico Ministero si oppone a simile interpretazione sostenendo la perfezione del deposito ed il diritto del querelante a vedere salvaguardato un interesse legittimo e protetto, ed il GIP accoglie tale richiesta disponendo il rinvio a giudizio per il 20 Aprile 1998.

Alfredo Galasso non potra’ essere presente, in quella data, per un concomitante impegno di natura giudiziaria ed io non potro’ essere presente per impegni che mi porteranno in Sicilia a parlare con giovani studenti/esse di Sandro Marcucci e della nostra cultura della Legalita’ Democratica. Invio pertanto una memoria al Presidente del Tribunale motivando la mia assenza e specificando per quali motivi non avrei avuto problemi a rappresentare la insanabile inimicizia che mi contrapponeva al Generale Zeno Tascio.

Con un certo stupore engo informato da Alfredo che la causa era stata vinta: lo stesso Pubblico Ministero, in apertura di udienza, aveva infatti proposto (contro le tesi sostenute dal suo stesso Ufficio in sede preliminare) il “non doversi procedere per difetto di querela”.

E’ a quel punto che scrissi la lettera di sfida al Generale Tascio che tutti avete avuto modo di leggere (o potreste avere modo di fare oggi se ne aveste curiosita’), se ne avrete avuto modo e voglia.

Passano nove lunghi anni e solo alla fine di Maggio viene notificato all’Ufficio dell’Avv. Galasso l’intervenuto appello del Pubblico Ministero, in data 28 Maggio 1998, avverso alla sentenza del Tribunale in accoglimento delle sue stesse richieste. Quell’appello ha dunque giaciuto in silenzio per nove anni lasciando maturare ampiamente i tempi di una eventuale prescrizione, ma tuttavia e’ stato accolto dalla Corte di appello 2 Maggio 2007.

Questo l’iter seguito dalla querela intentata dal Gen. Tascio, con le conclusioni che conosciamo. Capire come e perche’ abbia potuto avvenire tutto questo e in questo modo diventa assolutamente urgente e necessario.

Per chi non conosca la mia versione di Ustica, fornita a Priore e raccontata nell’asfissiante testo che ho redatto su quella strage scellerata, bisognera’ ricordare che proprio dopo le prime audizioni di Priore, quindi tra il 93 ed il 94, un Carabiniere, tale Lampis, mi aveva rivelato in maniera davvero singolare di aver assistito ad un colloquio tra un suo direto superiore, l’appuntato Stivala, ed il Comandante del distaccamento Aeronautico presso Ca’ di Mare, in cui quest’ultimo avrebbe detto: “Abbiamo (Hanno) chiuso la bocca a Marcucci, ora dobbiamo (dovranno) chiuderla a Ciancarella”.

Ebbene voi forse non ci crederete ma questo “chiudere la bocca” e’ quanto ho sentito sibilare, riferendo a me, dal Gen. Tascio al suo legale nella interminabile giornata di Perugia. Dunque e’ ben possibile che quella condanna a vivere che spesso ho evocato raccontando la mia storia, potesse consistere nella speranza di attribuire un marchio infamante di diffamatore a chi andava rivelandosi un pericolo reale per la sicurezza dei responsabili della strage di Ustica. E qui emerge, in tutto il suo spessore di ignobilta’, la figura del Generale Zeno Tascio.

Noi, tanto Sandro che io cioe’, non abbiamo mai attribuito a questo personaggi ruoli superiori alle sue reali doti e capacita’. Ma di certo lo abbiamo definito puntualmente come persona disponibile, per interessi di carriera, e per natura autoritaria, ad assecondare i desiderata di quanti tra i suoi sovraordinati si mostrassero bisognosi di complicita’ a livelli inferiori.


- Ruoli e funzioni del Generale Tascio nel quadro della devianza istituzionale politico-militare

Di certo Tascio non e’ stato ideatore del progetto Ustica. Ma sono altrettanto certo che egli si sia dato disponibile prima a costruire la trappola in cui attirare Gheddafi e poi ad occultare le reali circostanze della caduta e del ritrovamento del MIG della Sila.

Non e’ un caso che nella mia lettera aperta pubblicata su IL TIRRENO del 28 Gennaio 1992, cinque giorni prima dell’omicidio di Sandro, io non scrivessi direttamente di lui, ma mi rivolgessi alle forze politiche – ed in particolare al Ministro della Difesa del tempo, l’on Rognoni – che fosse responsabilita’ diretta della politica l’aver consentito che si “costruissero i Tascio per nascondere la Verita’”. La specie dei Tascio infatti e’ stata ampiamente protetta nelle Istituzioni statali e negli apparati militari perche’ potessero essere utilizzati, con lusinghe e garanzie di impunita’, contro i “disturbatori del manovratore”.

La prova generale della sua affidabilita’ per quello che sarebbe stato poi il suo ruolo per Ustica, il nostro la aveva gia’ fatta quando venne chiamato a Pisa, lui che era ancora Colonnello per un comando di competenza di un generale, con il compito di realizzare e garantire il depistaggio sulle responsabilita’ per la strage del Monte Serra, e di stroncare il Movimento Democratico che ormai aveva pervaso ampiamente il personale nelle sue attese di democratizzazione delle Forze Armate, nello spirito democratico della Costituzione, e nelle proposte di percorsi idonei a realizzarla.

Non aveva esitato a fare l’una e l’altra cosa e la stelletta da Generale di Brigata aveva subito premiato lo zelo di Zeno, verso i suoi referenti, piu’ o meno occulti.

Non e’ un caso che Sandro, nell’intervista a cornice di quella lettera aperta, dicesse “Conoscevamo molto bene il generale Tascio, era disponibile a tutto pur di fare carriera”. Ed e’ su questa consapevolezza, argomentandola con minuti particolari, che avevo sfidato Tascio a proporre una querela piu’ sostanziosa e piu’ sostenibile di quella che aveva prodotto a Perugia.

Non e’ un caso che lui si fosse ritratto e che non abbia mai fatto menzione di quella lettera, perche’ avrebbe corso il rischio di scivolare su un terreno viscido sul quale ben piu’ difficile gli sarebbe stato sostenere la diffamazione in continuazione. Ma senza questo coraggio la sua tesi secondo la quale lo accuserei di una relazione diretta di responsabilita’ per la morte di Marcucci significa oltreche’ dire il falso, offendere la mia stessa intelligenza.

Che bisogno avrei di accusare lui, quando una simile e temeraria, quanto infondata accusa, sarebbe destinata a cadere trascinando con se’ la possibilita’ di accertamento delle cause e delle responsabilita’ per la morte di Sandro Marcucci?E’ proprio quello che e’ successo con Ustica, e che dunque sperava di poter rinnovare: e cioe’ se per Ustica il raffinato e micidiale depistaggio e’ consistito nell’indirizzare il Magistrato ad accogliere tesi spericolate di colpevolezza presunta e comunque non correlabile ad un fatto di cui non era stata definita la vera natura (una strage senza scenario e dinamiche comprovate cioe’) dalle quali il Generale e coloro di cui si rese complice nella strage potessero uscire indenni, nel mio caso l’operazione consisteva nel convincere il Magistrato che avessi voluto falsamente e calunniosamente attribuire a lui la morte violenta di Sandro sulla quale, in virtu’ dell‘ovvio e dovuto riconoscimento della infondatezza di tale tesi di responsabilita’ diretta di Tascio, non avrebbe potuto che cadere l’oblio e l’indifferenza per una vicenda che, come Ustica, rimanesse cosi’ nell’opacita’ dell’indefinito e della imperscrutabilita’. Non cadere in questa raffinata trappola costituisce la mia piu’ grande soddisfazione ed il mio orgoglio, perche’ la ultima sentenza lascia intatte le possibilita’ che, se un qualche giudice volesse o se si costituisse una volonta’ politica, si possano riaprire le indagini per strage nella vicenda Ustica, e per omicidio nella vicenda Marcucci, non tralasciando di rivisitare le altre scelleratezze militari dalla strage del Monte Serra, alla vicenda di Emanuele Scieri.

Oggi sono infatti legittimato ancor di piu’ a raccontare in ogni sede (sia essa l’ufficio di un P.M. o una audizione in Commissione Difesa) fatti e circostanze, dai quali trarre suggerimenti di percorsi di indagine e segnalare possibilita’ di accertamento non sminuite dal trascorrere degli anni.

Ricominciare dai fatti i ruoli e le funzioni rivestite da Tascio ad esempio nel 1980 (i suoi comportamenti e quelli delle strutture Aeronautiche da allora in avanti, come ad esempio la assoluta dissonanza dei comportamenti della Difesa Aerea rispetto alle sue ordinarie modalita’ operative – cio’ che io chiamo “i fondamentali di un apparato”), le possibili individuazioni dei responsabili politici che disposero la strage (il Gen Ferri, all’atto del suo rinvio a giudizio, disse infatti “Se mai avessimo mentito lo avremmo fatto solo in esecuzione di ordini superiori”. Ed aveva comunque ragione perche’ la macchina militare non e’ mai “autocefala”, anche se per gli ordini illeciti la Legge stabilisce il “dovere di disobbedienza e segnalazione”. E quei livelli superiori (superiori ad un Capo di Stato Maggiore. cioe’) non avrebbero potuto che essere i livelli politici di Governo.

Il compito che ci sta davanti e’ dunque un compito immane che ben difficilmente sara’ assecondato dagli uomini politici, troppo spesso coinvolti nella progressiva deriva antidemocratica e di corruttela del nostro sistema di rappresentanza. Ma dobbiamo provarci in tutte le maniere.

Riuscire a pretendere la “ri-apertura” effettiva delle indagini sulla strage di Ustica (una ipotesi comunque ancora attiva e pendente in qualche fascicolo abbandonato su polverosi scaffali di qualche Procura), riuscire a pretendere la riapertura delle indagini sulla strage del Monte Serra, sull’omicidio di Marcucci e di Scieri, riuscire a pretendere che la Politica si faccia finalmente carico di intervenire nella devianza strutturale di apparati e corpi armati dello Stato (cio’ che poi determina anche le ignobili pretese di irresponsabilita’ anche per quei militari esposti a radiazioni da uranio impoverito e deceduti senza riconoscimenti solo per aver cercato di servire il Paese secondo quanto veniva loro richiesto dal Governo e dal Parlamento – e nel caso del Kossovo si parla di guida politica del centro-sinistra!! -), riuscire a pretendere che per i comportamenti degli apparati al Social Forum di Genova, per i comportamenti che hanno determinato l’omicidio di Carlo Giuliano o di Aldrovandi i responsabili rispondano pienamente dei loro comportamenti criminali, significherebbe offrire la speranza al Paese di non essere piu’ impunemente aggredito nella sua ordinaria e pacifica convivenza “democratica e costituzionale”. Ma questo esige che siano compiuti atti politici propedeutici. Ed e’ quanto andro’ a presentare nel paragrafoi conclusivo di questo lungo ed estenuante intervento.


- Prospettive di azione politica.

Quando noi riferiamo ad Ustica o ad ogni altra strage impunita, spesso parliamo di “depistaggio” come se si trattasse di un reato preciso. Nel nostro immaginario collettivo esso costituisce un reato infame e gravissimo. Ebbene quel reato non esiste.

Se infatti apriamo il codice penale potremmo rimanere sorpresi ed esterrefatti: la fattispecie di reato di “depistaggio” non esiste, non e’ stata definita dal legislatore e ad esso non e’ avviamente correlata alcuna pena.

Ora quanto andremo a dire potra’ apparire ai piu’ garantisti tra noi come una prospettiva infelice ed inaccettabile, ma prima di alimentare la polemica vorrei che riflettessimo insieme sulla idea comune di “legalita’” che riteniamo di poter condividere.

Come ben vediamo in questi giorni il criterio di “legalita’” appare del tutto astratto da relazioni dirette con i criteri di “democrazia e costituzionalita’”. La “legalita’” viene cosi’ legata molto spesso alle pulsioni di piu’ vile interesse dei ceti dominanti contro coloro che ne disturbano o ne attentano il privilegio, comunque acquisito.

E’ in nome di quella generica “legalita’” che si sgomberano infatti oggi gli abitanti di abitazioni abusivamente occupate, dimenticando che la “legalita’ democratica e costituzionale” prevede e tutela anche il diritto di ciascuno alla abitazione ed al lavoro, ed e’ in nome di quella generica “legalita’” che si fronteggiano le “invasioni degli extracomunitari”, dimenticando che “la legalita’ democratica e costituzionale” garantisce e tutela i diritti fondamentali del Cittadino e della Persona, anche per la persona dello Straniero.

Insomma cari amici e compagni, noi siamo chiamati a saper declinare apertamente il concetto di “legalita’” cui intendiamo riferire, perche’ ogni regime ha una sua specifica “legalita’” e si dota degli strumenti e degli apparati idonei a perseguirla e a difenderla dai tentativi di mutarla (cio’ che un qualsiasi regime chiama “eversione”).

Era una forma di “legalita’” quella che stabiliva lo “ius primae noctis” del signore sulle mogli dei suoi servitori della gleba; era una forma di “legalita’” quella che regolava la condizione di schiavitu’, era una forma di “legalita’” quella che considerava la donna un essere inferiore e non degna del diritto di voto e dunque della partecipazione alla costruzione del proprio specifico futuro, era una forma di “legalita’” quella che considerava non punibile il delitto d’onore (specie se consumato contro la donna) o che riteneva lo stupro un delitto contro la morale e non contro la persona. E cosi’ via dicendo.

La differenza dei diversi regimi sta nei diversi valori di riferimento di ciascuno di essi e nel metodo conseguente di contrasto alla “illegalita’”. Per cui i regimi autoritari e violenti saranno alieni dalla certezza del diritto e dal rispetto della dignita’ personale dei suoi imputati e condannati, i regimi democratici dovrebbero imporre e dimostrare la propria superiore civilta’ dalla applicazione del diritto nel piu’ totale rispetto della persona dell’imputato o condannato e nella ricerca piu’ avanzata di certezza del diritto fondata sul valore preminente della persona umana. Ma il criterio della “legalita’” e della sua difesa, in astratto, e’ il medesimo.

La criminalita’ organizzata stessa ha infatti una sua concezione di “legalita’”, peraltro severissima con chi “sgarri”, come pure la societa’ carceraria si dota di un suo “codice” molto somigliante ad una forma pur primordiale di “legalita’”.

La “legalita’ democratica e costituzionale” dovrebbe dunque distinguersi dalle altre forme solo in virtu’ del valore dissuasivo e dunque preventivo della pena, della umanita’ nella applicazione della pena e nell’obiettivo di recupero dei colpevoli e dei devianti alla civilta’ della convivenza democratica, nella affermazione sacrale della Persona Umana.

Fuori da queste prospettive un criterio qualunquista di “legalita’” e di “garantismo”o predispone alla sua violazione sistematica da parte dei furbetti di quartiere per finire ai grandi corrotti e corruttori, agli stragisti ed ai depistatori, o risulta comunque inefficace per assicurare il rispetto del “diritto” nei rapporti civili e sociali.

Solo se decliniamo la parola “legalita’” con le aggettivazioni di “democratica e costituzionale” noi avremo dunque un comune quadro di riferimento sul quale verificare i nostri orientamenti e comportamenti. In questo quadro il doveroso “garantismo” verso gli imputati ed i responsabili di delitti o crimini, per assicurare comunque la tutela ed il rispetto della loro dignita’ di Persone, non puo’ o meglio non dovrebbe avere la prevalenza sul garantismo verso le vittime ed i loro diritti violati, o sulla difesa dllo Stato Democratico.

E’ in questo senso che noi, pur superando il sensazionalismo degli attuali processi mediatici per fatti di sangue e corruzioni di sistema, dovremmo saper essere inflessibili verso quanti, profittando delle loro condizioni di funzionari dello Stato, abbiano costruito condizioni illecite di arricchimento personale e di privilegio ingiustificato consumando crimini proprio all’ombra delle loro divise e funzioni.

Dunque ci sarebbe un “facile” punto di partenza per una politica supportata da una coscienza sociale condivisa o condivisibile nel merito di tali questioni, e sarebbe quello di impegnarsi a definire, in un organico progetto di legge, il “generico reato di depistaggio” come quel reato posto in essere (e che si realizza) dalla consumazione delle piu’ varie attivita’ (omissive, esecutive, di complicita’ diretta o passiva, di falsificazione e alterazione di documentazione, di falsa testimonianza o voluta diffamazione) finalizzate ad alterare uno scenario delittuoso per sottrarre alle indagini investigative i reali responsabili di un crimine.

Reato che dovrebbe poi prevedere un aumento di pena, da due a tre volte, rispetto a quelle previste per i singoli e specifici reati contestabili ad un normale cittadino (omissione, esecuzione di disposizioni illecite, alterazione e falsificazione di atti, falsa testimonianza e diffamazione) proprio quando a consumarlo fossero degli amministratori pubblici o dei funzionari dello Stato.

Un progetto legislativo che, quando quel reato di depistaggio si colleghi a fattispecie di strage prevedano pene detentive fino l’ergastolo, come atti direttamente correlati a quello di strage e funzionali all’occultamento delle responsabilita’ dirette in quella strage. E come lo e’ quel reato di strage, sarebbe necessario che anche il depistaggio ad essa collegato fosse dichiarato “imprescrittibile”.

Questa sarebbe una norma dall’enorme potere dissuasivo: infatti volete che un subordinato che oggi - a fronte di un ordine illegittimo di alterare alcuni atti (pur fossero collegati al fine di inquinare le indagini su una strage), e stretto tra il devastante potere ricattatorio del superiore e il suo poco coraggio di contestarne la legittimita’ degli ordini - non sia indotto a valutare con molto opportunismo la convenienza ad eseguire comunque l’ordine illegittimo, a fronte della garanzia di impunita’ che gli deriverebbe comunque, alla eventuale scoperta della sua attivita’ illecita’ di complicita’ nel depistaggio, dalla prescrizione del reato, praticamente garantita dalla lunghezza dell’accertamento penale e del dibattimento?

Sapete quanti imputati di reati collegati, nella indagine per Ustica, sono usciti dal processo in virtu’ della intervenuta prescrizione dei reati pur commessi e confessati?

Una simile norma metterebbe invece qualsiasi subordinato nella condizione di valutare con molta consapevolezza le conseguenze del suo operato e di essere consapevole dunque di poter essere chiamato a rispondere, al massimo livello di pena, e senza alcuna garanzia di prescrizione, delle conseguenze di tali suoi comportamenti.

“Caro Comandante, Lei mi sta chiedendo di costruire una falsa traccia di MIG libico, in funzione dell’occultamento di qualcosa che potrebbe avere a che fare con la strage di Ustica? Ma Lei capisce che solo per aver costruito quella traccia falsa io potrei correre il rischio, per tutta la mia vita residua, di essere chiamato a rispondere di depistaggio a fini di strage, e che per questo dovrei rischiare l’ergastolo? No grazie, Comandante, mi scusi ma proprio non posso”.

Questo sarebbe un tipico dialogo indotto da un efficace intervento legislativo sul depistaggio rispetto a quanto e’ sempre avvenuto o potrebbe ancora avvenire in occasioni di scelleratezze di stato, nella attuale condizione di assenza di definizione dei reati di depistaggio e delle pene collegate.

Ci sarebbe poi un’altra questione da risolvere con un simile provvedimento legislativo che consiste nel rimborso economico per danno all’erario.

Io credo che nessuno di noi sia oggi scandalizzato ad esempio dal sequestro di beni a condannati per reati di Mafia, e dalla destinazione sociale dei loro proventi. La cultura che guida una simile ipotesi legislativa e’ infatti quella che “il criminale mafioso abbia accumulato ricchezze e beni lucrandoli da attivita’ illecite e criminali, e dunque tali ricchezze non possano essere lasciate nella sua legittima disponibilita’ o in quella dei suoi parenti proprio in virtu’ della loro provenienza illecita”.

Ora dobbiamo anche sapere che una norma dello Stato pretende che il funzionario dello Stato, quale che ne sia il grado o la funzione, il quale si sia reso complice di pregiudizio in danno dell’erario statale, e’ tenuto al rimborso (ed in solido con lui anche gli eredi) delle cifre di tale danno.

E ancora che puo’ essere chiamato a rispondere di tale danno anche colui, che responsabile di un servizio o una funzione, non avesse presentato agli organi superiori una relazione su circostanze che “potrebbero, anche solo in via ipotetica, recare danno allo Stato” al fine di consentire agli organi di controllo e vigilanza di svolgere attivita’ di prevenzione.

Ebbene cosa ci impedirebbe allora di chiamare a corresponsabilita’ ed obbligo di rimborso, estensibile anche agli eredi, tutto l’ammontare del danno causato allo Stato dai funzionari che siano stati accertati con sentenze definitive come organizzatori, esecutori e complici depistatori in reati di strage?

Badate, in questa prospettiva non sarebbe sufficente calcolare solo le spese relative alle indagini (come quelle per il recupero dell’aereo di Ustica che si tento’ maldestramente di opporre ai generali imputati, ancor prima di una sentenza definitiva ed anzi in assenza di sentenze di proscioglimento, per quanto impugnate), e neppure il calcolo dei rimborsi riconosciuti ai familiari delle vittime, ma andrebbe valutata, come nel caso di Mafia, qualsiasi ricchezza e bene sia stato lucrato al riparo della propria posizione di funzionario, in base ad un semplicissimo ragionamento:

“Il tale funzionario, approfittando del proprio ruolo e funzione, ha commesso un reato di strage o depistaggio connesso, che solo quel ruolo e quella funzione gli hanno permesso di concretizzare. In quel ruolo e per quella funzione egli ha dunque maturato retribuzioni e livelli di assicurazioni pensionistiche che avevano gia’ pesato sui contributi fiscali versati dai cittadini, proprio contro coloro cioe’ contro cui egli ha consumato i sui crimini. Dunque al tal funzionario sono revocate tutte le somme versate per stipendi e competenze, ab inizio della sua carriera, e pretendiamo che egli ed i suoi eredi siano tenuti dunque a rimborsare allo Stato tali cifre ottenute per un servizio di garanzia mentre invece egli cospirava per aggredire la sicurezza dei cittadini, e che tali somme siano accumulate in uno specifico fondo a favore delle vittime. Che siano altresi’ cancellate tutte le garanzie pensionistiche maturate fino alla data della condanna, proprio per averle maturate, il soggetto, nel mentre ordiva il proprio crimine in danno dei Cittadini e dello Stato”.

Capisco che queste previsioni possano apparirvi da brivido, eppure ritengo che esse siano l’unico modo per garantirsi la dissociazione e la collaborazione con gli inquirenti in indagini per crimini scellerati come le stragi. Basterebbe prevedere che alcune di tali sanzioni, come le ultime relative alla restituito ab inizio degli stipendi ricevuti o delle condizioni pensionistiche, possano decadere o essere applicate in misura ridotta a fronte di una fattiva collaborazione al disvelamento ed alla ricerca di riscontri probatori per l individuazione delle dinamiche e delle responsabilita’ principali nella organizzazione ed esecuzione della strage.

Perche’ infatti dovremmo chiedere ad un funzionario infedele e criminale meno di quanto oggi conveniamo sia giusto chiedere ad un criminale mafioso?

Non e’ dunque facile concretizzare la solidarieta’, che pur sentiamo di offrire e condividere, con coloro che si scontrano con i poteri forti e criminali annidati nello Stato, con una comune azione politica, condivisa nel metodo e nelle prospettive. Perche’ spesso ci fermiamo ad una solidarieta’ superficiale ed emotiva con il soggetto vittima, come di fronte ad un malato terminale o ridotto in fin di vita da una aggressione, senza porci il problema di una terapia risolutiva e di una azione di prevenzione contro il ripetersi dei fenomeni aggressivi o delle cause delle patologie devastanti. E la sola idea di aggredire secondo principi di “legalita’ democratica e costituzionale” i responsabili dei crimini rischia di turbare la nostra natura di democratici.

Io non ho mai preteso di essere assecondato, ma ho sempre chiesto ai referenti politici che volta a volta ho avvicinato, cosa li ostacolasse dal confrontarsi sulla possibilita’ di applicazione di una assoluta severita’ verso i funzionari infedeli e responsabili di crimini infami. Ho ricevuto solo silenzi, distacchi, disinteresse progressivo, se non la aperta astiosita’ e la non dichiarata avversita’.

Ed abbiamo cosi’ assistito ad audizioni di Ministri della Difesa (in particolare il Generale Concione, primo militare ad assumere il dicastero, e proposto da un governo di centro-sinistra!) che non si sono limitati a riconoscere i fenomeni di ruberie e truffe consumate in reparti armati dello Stato, ma hanno chiesto comprensione per i responsabili in virtu’ della affermazione che il mondo militare aveva bisogno di non essere umiliato perche’ sarebbe portatore “di valori affatto diversi, da quelli pur nobili della Societa’ Civile”. Quasi che ci possano essere valori altri e diversi, per qualsiasi componente sociale della Nazione, dai soli e comuni riferimenti Costituzionali.

Cosi’ abbiamo avuto anche recentemente (si veda un poderoso articolo di Stella sul Corriere della Sera, si’ proprio quello della “Casta”, in cui si denunciano i privilegi insopportabili e gli sprechi ingiustificati della classe politica) militari che, nel mentre erano assenti da mesi dal servizio per le piu’ svariate malattie certificate da medici compiacenti, svolgevano altre intense attivita’ economiche e commerciali, fino addirittura allo spaccio di droga per il quale qualcuno era stato fermato durante una operazione di contrasto ad oltre mille chilometri dalla abitazione di residenza. Ebbene ciascuno di costoro e’ stato mandato assolto dai Tribunali Militari, per i reati contestati di “assenteismo”, ed e’ stato posto in condizione di pensione. Pensioni baby, naturalmente.

Certo fin quando un Procuratore Generale della Corte d’Appello potra’ inaugurare l’anno giudiziario militare ricordando quasi con nostalgia come le Forze Armate fossero state sentite per anni dai suoi uomini come una “beata insula, incontaminata dal contagio della Costituzione”, tutto potra’ succederci. E la lotta che noi iniziammo perche’ davvero “l’ordinamento delle Forze Armate si informasse allo spirito democratico della Repubblica” (art. 52 della Costituzione) sara’ una battaglia da combattere ancora tutta, e per intero.

E’ necessario dunque chiedere ai rappresentanti politici cosa li costringa ad un atteggiamento di pavidita’ e di soggezione di fronte ad uomini ed apparati che dovrebbero solo scattare sugli attenti di fronte al richiamo della lealta’ alla “legalita’ democratica” piuttosto che inalberarsi e ventilare minacciosi tintinnii di sciabole, e con i quali invece si ingaggiano duri conflitti solo in occasioni abbastanza meschine e lontane dagli interessi e dalla sicurezza dei cittadini, come nelle ultime vicende che hanno visto contrapposti uomini di Governo al Comandante della GdF Generale Speciale.

Io sento dentro di me la certezza che la “legalita’ democratica e costituzionale” abbia bisogno di una assoluta severita’ verso chiunque attenti alle sue caratteristiche fondamentali, quale ne sia il grado, il ruolo e la funzione. E penso che cio’ che e’ stato consentito al Generale Tascio non debba avere diritto di Cittadinanza in un Paese Democratico.

Perche’, aldila’ degli onest’uomini che io possa aver incontrato tra i Magistrati ed i Politici sul mio percorso, e’ comunque innegabile che Tascio abbia goduto di complicita’ interne alle Istituzioni ed agli Uffici anche in quest’ultima circostanza (con l’accoglimento di una querela difettosa, con il mantenimento al caldo del ricorso fino a farlo riemergere quando con l’intervenuta prescrizione speravano di ottenere il massimo – la certificazione di diffamatore per me e la possibilita’ di chiedere rivalse civili tali da distruggermi definitivamente – senza aver dovuto neppure mai confrontarsi con le mie controdeduzioni -), cosi’ come aveva gia’ ricevuto comprensione e piaggeria dai membri della “Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno del terrorismo e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili di strage” a fronte delle sue dichiarazioni reticenti e della evasione smaccatamente falsa dal dichiarare i propri compiti istituzionali.

Si tratta di rompere quella rivoltante consociazione tra poteri politici e mondo militare, per cui i primi pretendono che essi siano solo i pretoriani posti a garanzia della loro gestione del potere, dovendo pero’ offrire in cambio le piu’ ampie garanzie di impunita’ per qualsivoglia reato consumato contro la “legalita’ democratica e costituzionale” e sempreche’ non ostacolino le aspettative di potere incontrastato coltivate da coloro che dovrebbero essere i detentori delle funzioni rappresentative del “sovrano potere popolare”.

Si tratta di rompere il perverso meccanismo per cui il mondo militare oppone una sua presunta “alterita’” alla Societa’ Civile, nel timido silenzio del mondo della politica che consente a questa alterita’, anche sul piano del diritto e del rispetto della “legalita’ costituzionale e democratica”.

Dunque la vicenda Tascio contro Ciancarella non ci propone solo un esito favorevole a Mario, ma ci pone di fronte alla sfida di cio’ e di quanto intendiamo fare perche’ i Tascio siano contrastati all’origine del loro percorso e siano comunque inibiti dal perseguirlo con le garanzie di impunita’ di cui fino ad oggi hanno potuto ampiamente godere.

Grazie ancora a tutti, per la solidale vicinanza, per la tangibile forza a cui ho potuto attingere, nella speranza che il comune cammino non sia reso piu’ difficile da queste prospettive finali che ho comunque ritenuto corretto e doveroso proporvi perche’ fossero chiari gli obiettivi che mi prefiggo ed i percorsi sui quali da sempre oriento il mio agire.


Mario
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