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DAL PROCESSO DI COGNE QUALCHE SPUNTO DI RIFLESSIONE: TELECAMERA DI CONSIGLIO (DI MARCO TRAVAGLIO)

Ultimo Aggiornamento: 28/03/2007 22:31
28/03/2007 22:31
 
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L'UNITA'
28 marzo 2007
Uliwood party
TELECAMERA DI CONSIGLIO
Marco Travaglio

Bisognerebbe distribuirla nelle università, la requisitoria del sostituto procuratore generale Vittorio Corsi di Bosnasco al processo di Cogne. Soprattutto la parte in cui il magistrato illustra la storia di questo processo celebrato negli studi di Porta a Porta, Costanzo Show e Matrix (Mentana aveva promesso di non occuparsi mai di Cogne: infatti…) e giunto irrimediabilmente deformato nelle aule di giustizia. Dalle parole di questo magistrato all’antica, studiosi e studenti trarrebbero ricchi spunti di riflessione sugli ultimi lasciti del berlusconismo: la tv giudiziaria e la giustizia televisiva. Grazie a Vespa, a Mentana e all’avvocato Taormina, la signora Franzoni è stata la cavia su cui, per 5 anni, si è sperimentato il modello di difesa berlusconiano su un cittadino comune. Con effetti devastanti per il cittadino normale ma soprattutto per quel che resta dell’informazione e della giustizia in Italia. Che poi le requisitorie dei processi d’appello alla Franzoni e a Berlusconi siano arrivate lo stesso giorno, è una di quelle astuzie della storia che portano a credere nella divina provvidenza. Cosa fa Giorgio Franzoni, padre dell’imputata, quando le cose per la sua «Bimba» si mettono male? Ingaggia un avvocato-deputato di Forza Italia, Taormina. «Voglio sentirgli dire - tuona al telefono - che aprirà un’inchiesta sui carabinieri», cioè sul Ris di Parma che ha il torto di indagare sulla figlia. Poi fa pressione su vari ministri di Berlusconi («Far intervenire il ministro della Difesa», «Nel governo abbiamo appoggi»). Sua moglie telefona alla segretaria del presidente della Camera Casini: «Mio marito conosce bene l’onorevole». Se Casini solidarizza pubblicamente con Dell’Utri alla vigilia della sentenza, darà una mano anche alla Bimba. Il resto lo fanno le interviste sapientemente dosate in tv e ai rotocalchi, le lacrime a comando («Ho pianto troppo?»), le gravidanze in serie, le foto in bikini col marito in Sardegna o nella piazza del paese, versione baby sitter con bambini, e le orde di tele-fans che sciamano verso il Tribunale di Torino, come nelle gite delle pentole e nelle visite alla Torre di Pisa, come i guardoni dei vip in Costa Smeralda. Nel processo berlusconizzato e lelemorizzato i fatti non contano più nulla. Conta il reality show. L’imputato non è più la mamma rinviata a giudizio e condannata a 30 anni in primo grado, ma tutti gli altri, puntualmente denunciati da Taormina: i vicini di casa, i pm e il gip di Aosta, il colonnello del Ris, i consulenti del Tribunale, i giornalisti non allineati. «Se i giudici non scagioneranno la Bimba, dovranno essere distrutti», annuncia il patriarca Franzoni, mentre il premier Silvio distrugge i suoi («cancro da estirpare», «doppiamente matti»), tempestandoli di calunnie, denunce, ispezioni, procedimenti disciplinari. Come i colleghi avvocati-deputati del Cavaliere, Taormina provvede alla difesa «dal» processo: tira in lungo, denuncia e attacca tutti, da Aosta chiede di passare a Torino, e da Torino a Milano, e alla fine risulta pure lui indagato per certe false impronte lasciate dal suo staff per depistare. «Questo dice allibito il Pg è uno dei casi più semplici di “figlicidio”: le statistiche dicono che sono una ventina l’anno, perlopiù commessi da madri. Tanti sono rapidamente chiariti e dimenticati. Per questo, dopo 5 anni, ancora ci si domanda se l’imputata è innocente perché non confessa, o perché si teme di ammettere che un delitto così orrendo sia stato commesso da una madre “normale”. Ma è il processo che è anomalo: la difesa l’ha imposto come se si venisse dal nulla, come se non ci fossero i fatti, le prove». I fatti, le prove: roba da tribunali, non da tv, nel paese che affida le sentenze a Vespa, Palombelli, Crepet; nel paese dove chi racconta il bonifico da 434 mila dollari Berlusconi-Previti-Squillante è un pericoloso eversore. La mamma di Cogne, intercettata, aveva persino confessato («Non so cosa mi è success… cioè, cosa gli è successo»). Ma nessuno, nelle 73 puntate di Porta a Porta, ne ha mai parlato. Sennò il presunto «giallo di Cogne» finiva subito. E magari, poi, toccava raccontare come Berlusconi e Previti corruppero un paio di giudici, o come Andreotti mafiò per 30 anni. Non sia mai.




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LA STAMPA
26/3/2007
IL PG: FIGLICIDIO
«È un caso di figlicidio». Lo ha detto il pg Vittorio Corsi al processo d’
appello per il delitto Cogne. «Un caso di figlicidio come purtroppo sono sempre
più frequenti, almeno una ventina all’anno»

IL PERITO CARLO TORRE NON SARA' ASCOLTATO
La Corte d’appello di Torino ha respinto la richiesta del difensore di
Annamaria Franzoni, Paola Savio, di sentire in aula il perito, professor Carlo
Torre. Inizia, quindi, la requisitoria del procuratore generale Vittorio Corsi.
Sabato scorso la difesa della Franzoni aveva depositato al tribunale una
memoria in cui si chiedeva di ascoltare nel dibattimento il professor Torre,
già perito della difesa prima dell’arrivo dell’avvocato Carlo Taormina, in
merito soprattutto all’arma del delitto che a suo parere sarebbe stato uno
scarpone. Un fatto, questo, che accrediterebbe la tesi difensiva che l’omicidio
sarebbe stato compiuto da una persona sconosciuta entrata nella villetta di
Cogne e non dalla Franzoni stessa.

PROCURATORE GENERALE: L'ARMA E' UN MESTOLO
«Depositerò brevi memorie sull’arma nel corso della mia discussione: la mia
tesi è che l’arma sia un mestolo o, una -mestola-, come dice Giorgio Franzoni
in una telefonata». Lo ha detto il procuratore generale Vittorio Corsi, questa
mattina, all’apertura della nuova udienza del processo ad Annamaria Franzoni, a
Torino. Il procuratore generale ha spiegato di non opporsi all’acquisizione
agli atti della nuova consulenza del perito Torre, che ha definito «una
relazione estremamente chiara e garbata» ma si oppone all’audizione in aula del
perito. Nella premessa alla perizia firmata dall’avvocato difensore Paola Savio
viene chiesta la ricusazione dei precedenti consulenti «i cui elaborati, scrive
la Savio, potrebbero non essere più utilizzati per motivi di opportunità» in
quanto indagati con Annamaria Franzoni nell’altro procedimento aperto presso la
procura di Torino denominato «Cogne bis» sulla presunta falsificazione di
tracce sulla scena del delitto. «Sembra che ci sia un’intenzione di repulisti -
ha detto in aula Corsi - come quando si scopano foglie secche in un giardino in
cui è arrivato un turbine di vento». Corsi ha anche definito la richiesta di
ricusazione dei consulenti in luogo di una revoca totale una «polpetta
avvelenata buttata alla corte».

LA DIFESA: NON CONSIDERARE GLI ALTRI CONSULENTI
L’avvocato Paola Savio, che al processo d’appello per il delitto di Cogne
assiste Annamaria Franzoni, ha sollevato dei dubbi sull’opportunità di
continuare a prendere in esame il lavoro dei precedenti consulenti della
difesa: alcuni sono stati indagati dalla procura di Torino per una presunta
manipolazione delle prove nell’inchiesta chiamata Cogne bis, mentre un altro,
in una sua lettera al precedente difensore, aveva espresso forti critiche alla
conduzione dei processi in Italia. «È voglia di repulisti» ha commentato, su
richiesta del presidente romano Pettenati, il pg Vittorio Corsi. «Ma io che
lavoro da mesi alla requisitoria come dovrei considerare l’operato di quei
consulenti?». Il nuovo collaboratore dell’avvocato Savio è il medico legale
Carlo Torre




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LA STAMPA
27/3/2007
Oggi il pg farà la sua richiesta
di pena. "In un'intercettazione
Anna Maria ha confessato"
ALBERTO GAINO

TORINO
«Intuirete la richiesta di pena solo all’ultimo minuto. Il mio cenno alle attenuanti generiche che Annamaria Franzoni non si sarebbe meritate potrebbe essere fuorviante. Citando un illuminante intervento del cardinal Tonini, ho parlato piuttosto di pietas, per la piccola vittima e per la madre in sé e la madre che a maggior ragione può aver ucciso il proprio bambino». Soltanto oggi, in mattinata, a conclusione della requisitoria che ieri lo ha impegnato per 6 ore, il procuratore generale Vittorio Corsi scioglierà l’enigma dell’accusa al processo d’appello. Scontato che intendesse confermare l’impianto della sentenza di primo grado, rimane da capire se anche i 30 anni (con rito abbreviato, praticamente il massimo) rifilati all’imputata stiano nelle intenzioni del pg. Pare di no.

«Vicenda semplice»
«Questa vicenda, per me, è uno dei casi più semplici di “figlicidio”. Le statistiche criminali ci dicono che sono una ventina l’anno. Per lo più compiuti da madri, raramente da padri. Tanti sono stati rapidamente chiariti e già dimenticati. Per questo, invece, dopo 5 anni, ancora ci si domanda se l’imputata è innocente, perché non ha confessato, perché si ha paura che un delitto così orrendo possa essere stato commesso da una madre normale. Anche il processo è stato anomalo: la difesa lo ha impostato come se si venisse dal nulla. Si è voluto un dibattimento pubblico per gridare la propria innocenza e per attaccare tutti, appoggiandosi a un avvocato forte e ben visibile anche fuori dell’aula».

«La confessione»
In primo grado le intercettazioni telefoniche e ambientali erano state trascurate. Corsi le ha valorizzate ascoltandole con attenzione e la sua requisitoria si appoggia a quanto dicono i Lorenzi-Franzoni dal giorno dopo il massacro di Sammy (pure lui lo chiama così). Le cita, ne ripropone l’audio in aula, vi costruisce attorno il suo impianto accusatorio. A cominciare da una conversazione del 3 marzo 2002 (a poco più di un mese dal delitto) in cui a lui pare di cogliere, da parte di Annamaria, una vera confessione in quel passaggio: «Cosa mi è succ...». Corsi: «Ricordo incontenibile. Ma si corregge subito: “Cosa gli è successo?”. Riferito a Sammy. Una rettifica priva di senso comune». Il pg la definisce una «reazione da corto circuito».

«Il primo febbraio Annamaria parla con il marito e racconta come ha immaginato Daniela Ferrod, la vicina di casa, nell’atto di colpire il piccolo. “Me la sono vista che gli tirava così! Che andava a cercarlo nel suo lettino e lo ha trovato lì”». Corsi rievoca la «rabbia allucinante» che Annamaria attribuisce alla vicina, la coglie come una seconda confessione mascherata. Poi cita il commento di Stefano Lorenzi: «Però, subito dopo, uno può tornare normalissimo e non ricordarsi niente».

«Il padre regista»
«Giorgio Franzoni il papà di Annamaria è di eccezionale intelligenza, anche pratica. Lui e Stefano hanno intuito sin dai primi giorni che si doveva convincere l’Italia con questo messaggio: una madre, bella e buona, parte di una famiglia numerosa e cattolica, non poteva aver fatto quella cosa lì». Stefano è descritto da Corsi come il marito soverchiato dai «sensi di colpa per averla lasciata sola con i bambini il mattino del delitto». «Tanto che lui poi dice “me lo sentivo”. Stefano collabora ad illustrare la cartolina della famiglia perfetta nel paradiso terrestre. Consiglia la moglie: “Bimba, non ti conviene dire che chiudevi sempre la porta di casa”. La incoraggia: “L’assassino è un malato, lavoraci sopra”. Stefano nega tutto, persino le crisi d’ansia di lei».

«Papà Franzoni è invece il patriarca che vede più lontano. E’ lui a dire, il 9 marzo 2002: “Se i giudici di Aosta non scagioneranno la Bimba dovranno essere distrutti”. Ha capito che la figlia l’ha combinata grossa, ma provvederà papà. Che si reca da importanti direttori di giornali, vanta appoggi politici contro il Ris. La moglie telefona alla segretaria di Casini e le dice: “Mio marito conosce bene l’onorevole”. E’ sempre il papà a scegliere Taormina: “Voglio sentirgli dire che aprirà un’inchiesta sui carabinieri”. A parlare di sfida da vincere con ogni mezzo, anche con quelli truffaldini (il martelletto da far ritrovare nella stradina). A ripetere, intercettato: “Dobbiamo prendere le contromisure, però se abbiamo fantasia possiamo in un certo senso mettere al riparo alcune cose”».

«Versa lacrime»
Per Corsi, Annamaria «versa lacrime, non piange»; «sa dissimulare con abilità» (cita Machiavelli); «ha sedotto milioni di persone in tv». E ha un «caratterino, sa recitare una parte con grinta». Ma «l’accusa non ha mai sostenuto che abbia commesso il fatto con lucidità. Dalla fermata dello scuolabus è corsa indietro sperando di riparare il danno. Solleva la coperta e...». «Il suo è stato un omicidio di impulso. E’ possibile - torna a dire - che non sia sia accorta sul momento, voleva assolutamente che Sammy si addormentasse, per poter accompagnare Davide allo scuolabus. Questa può essere la causa del delitto. Un atto di castigo».

Per Corsi è andata così quel mattino: «Stefano esce alle 7.35. Subito dopo lei va a svegliare Davide. E’ stanca, ha dormito malissimo, c’è stata la crisi di panico che ha fatto accorrere la guardia medica. Si è anche separata male da Stefano e ha una giornata pesante davanti a sé. Sola in quel posto bellissimo ma isolato. Se la sottraiamo alla vestizione di Davide, le rimangono 10-15 minuti a partire dalle 8, quando il figlio maggiore si siede a tavola a far colazione davanti alla tv (io dico che l’accende anche quel giorno)».

«Sammy la chiama. Le reinfila la casacca del pigiama al contrario. Il reggiseno manca all’appello. Scende, sgrida Sammy. “Devi dormire”. “Sei un testone”. Ha in mano un pentolino, perde il controllo, lo colpisce, 6-8 volte. In un tempo massimo di 20 secondi. Si veste, si lava le mani, esce seguendo Davide e lascia da qualche parte, fuori, l’arma del delitto dove qualcuno andrà a prelevarla. Solo in questo processo, contraddicendo 3 diverse dichiarazioni, Annamaria cerca di trattenere in casa il figlio maggiore sino alle 8.16, sostenendo che Davide salutò Sammy mentre dormiva. L’alibi della mamma. Davide l’aveva preceduta fuori da 4-5 minuti. Lo dice Stefano in un’intercettazione».

Le fratture in testa
«In quel margine c’è stato il tempo per uccidere. Al rientro Annamaria ha avuto altri 3 minuti per nascondere un po’ le cose». Poi, cambia registro: «Se ci dicesse quale oggetto ha usato non esiterei a chiedere le “generiche”. Io propendo per un mestolo o un pentolino di rame. Come sosteneva sino a pochi mesi fa anche il professor Torre. Ad Annamaria avrei voluto domandare di quel pentolino di cui parla, nei primi giorni dell’inchiesta, con suo padre. Un oggetto con scanalature. Compatibile con le fratture e le ferite al capo di Sammy».




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LA STAMPA
27/3/2007
L'accusa chiede 30 anni
per Annamaria Franzoni
Il pg: confermare condanna primo grado.
La Franzoni in lacrime: «Non ho ucciso mio figlio»


TORINO
È ripresa stamattina l'udienza del processo di appello ad Annamaria Franzoni, già condannata a 30 anni per l'uccisione del figlio Samuele. «È una richiesta che ho fatto a malincuore» ha detto il procuratore Vittorio Corsi al termine dell’udienza nella quale ha chiesto la riconferma della condanna data in primo grado.

IL PG: «DICA CON COSA HA UCCISO SUO FIGLIO»
«Invito per l’ultima volta Annamaria Franzoni a dire con quale oggetto ha colpito Samuele e dove lo ha messo. Chiedo ad Annamaria un segnale per chiudere questa vicenda in modo per tutti soddisfacente altrimenti non si può chiedere uno sconto di pena». Il procuratore generale Vittorio Corsi ha fatto il suo estremo appello all’imputata nel corso della sua requisitoria che si sta avviando alla fine. Per Corsi l’unica possibilità per ridurre la pena può essere «un atto di compassione per una madre che non ha più un figlio, atto che però è di competenza della corte. Qualunque pena - ha proseguito il pg - non riporterà in vita Samuele. Che senso hanno quindici, venti, trent’anni per una madre che ha distrutto la vita di suo figlio e la sua vita»

OMICIDIO DOVUTO A UNO SCATTO D'IRA
L’omicidio del piccolo Samuele Lorenzi è il prodotto di un «tremendo scatto d’ira non controllato», e non conseguenza di una patologia. Lo ha detto il pg Vittorio Corsi durante la requisitoria illustrando per quale motivo non ha chiesto lo sconto di pena per la seminfermità mentale. Per il magistrato «è stato lo scontro fra due testardaggini, quella di un bimbo che piangeva e quello di una madre che non stava bene e che ha perso la testa»

LA DIFESA: «CI ASPETTAVAMO TUTTO E NIENTE»
A chi le domandava un commento alla richiesta della conferma della condanna a 30 anni per Annamaria Franzoni, il suo legale, l’avvocato Paola Savio si è limitata a rispondere: «Non ci aspettavamo nulla, ci aspettavamo tutto. Non dico nulla, era normale che questa mattina succedesse un pò di tutto». Ed ancora sull’invito ribadito dal procuratore Corsi ad Annamaria Franzoni di rivedere la sua posizione processuale l’avvocato Savio ha semplicemnte risposto: «Era giusto farlo»

IL GIALLO LEGATO AL CALZINO SPAIATO
Nel delitto di Cogne c’è un mistero legato al ritrovamento di un calzino spaiato di Annamaria Franzoni: l’altro calzino potrebbe essere stato usato per cancellare delle macchie di sangue o addirittura per nascondere l’oggetto usato per uccidere Samuele Lorenzi. Ad affermarlo è stato il pg Vittorio Corsi alla ripresa della requisitoria. «Che fine ha fatto - ha detto - l’altro calzino? È stato usato per pulire o per nascondere il pentolino di rame?». Corsi è tornato anche a parlare dell’arma per una puntualizzazione: «Può essere stato un mestolo, una mestola come dice il papà di Annamaria, o un pentolino. Ripeto: puo essere. Non posso dirlo con esattezza. Del resto, Carlo Torre (consulente della difesa - ndr) non esclude un pentolino di rame. Ma una scarpa o un sabot dotato di carrarmato non possono essere stati usati: nelle ferite non ci sono tracce di terra».




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LA STAMPA
28/3/2007
COGNE: LA REQUISITORIA
"Per l’ultima volta: dica dov’è l’arma"
Il pg Corsi: ha ucciso suo figlio, merita 30 anni di carcere
ALBERTO GAINO


TORINO
Alla fine, il procuratore generale Vittorio Corsi ha lasciato ai giudici la pietas invocata dal cardinale Tonini e da lui evocata nel primo giorno di requisitoria contro Annamaria Franzoni. «Un atto unilaterale in tal senso compete alla Corte». Dice proprio così: unilaterale. Perché, l’imputata «si è cacciata in un vicolo cieco con il suo comportamento processuale». Corsi chiede la conferma della sentenza di primo grado: 30 anni.

Per il pg, che smentisce anche il proprio consulente tecnico Ugo Fornari, Annamaria non è e non era «seminferma nel momento di colpire». Zero attenuanti: sembra che gli dispiaccia. Lo fa anche capire: «Non posso dire io di aver preso la decisione a malincuore. Se avete inteso così, scrivetelo». Aveva parlato di «calcolo burocratico» prima di pronunciare la richiesta di pena che gela l’aula e la fa ripiombare per un lungo minuto in un silenzio assoluto, carico del pathos mancato nelle precedenti 9 ore di requisitoria.

«Calcolo burocratico»
Il ragionamento di Corsi: «Qualunque pena non riporta in vita Sammy». Poi: «Per fatti simili la pena è un calcolo burocratico. Che senso ha una condanna a 30-20-15 anni per una madre che ha distrutto la vita di un figlio e la propria?». La differenza c’è, eccome, e Corsi lo sa: «La invito per l’ultima volta a dire con quale oggetto ha colpito Sammy e dove lo ha lasciato.... Le chiedo un segnale di resipiscenza». Aggiunge nel brusio che scandisce l’attesa: «Se avesse detto qualcosa allora, oggi Annamaria avrebbe finito di pagare il suo debito, agli arresti domiciliari».

«Una scheggia di rame»
Il pg ha ripreso la requisitoria dall’arma del delitto, consegnando ai giudici l’ultima relazione del colonnello Luciano Garofano e del medico legale Roberto Testi. Per loro Annamaria ha colpito Samuele con «un pentolino di rame, di una certa consistenza e peso non modestissimo. Un oggetto che racchiude le caratteristiche desumibili dalle lesioni cutanee e ossee: base piatta, profilo rotondo, margini taglienti, con una protuberanza di forma triangolare e un lungo manico, di almeno 30 cm». Di rame perché nella testa della piccola vittima è stato rinvenuto un frammento del metallo «di dimensioni superiori ai 100 micron, osservabile anche ad occhio nudo». Corsi ne riprende un argomento: «Durante l’autopsia non è stato ritrovato del terriccio sul capo del bambino. Avrebbe dovuto essercene, se a colpirlo fosse stato uno zoccolo, calzato da un assassino venuto dall’esterno della casa».

Il lavoro dei Ris
«Un calzino bianco spaiato è sequestrato il 3 marzo 2002, un bel po’ dopo il delitto. I carabinieri del Ris vi riscontrano il profilo genetico della vittima». Si era già chiarito che non era un indumento del bambino. Corsi: «In istruttoria Annamaria Franzoni ha dichiarato: “Quel mattino indossai calze celesti, quelle che avete sotto sequestro”. Poi chiede agli inquirenti come fanno ad essere sporche le ciabatte, e non le calze». Pausa ad effetto. «Stranamente, per la fretta, quella mattina Annamaria si riveste con gli abiti del giorno prima, ma cambia i calzini. Stupisce il dato che aveva indossato, sommariamente, anche la biancheria del giorno prima». Passaggio: «Che fine ha fatto l’altro calzino, particolarmente sporco?». Si risponde: «Può darsi che sia stato usato per cancellare le macchie di sangue o, addirittura, per occultare l’oggetto adoperato per uccidere Samuele».

«Gli abiti della moglie»
«E’ pacifico che prima dell’arrivo della Guardia medica, quel mattino, Stefano Lorenzi sposti gli abiti della moglie nel bagno. Non sta bene che restino nella camera da letto, farebbero disordine. Ce lo dice lui. E la moglie, ore dopo, sale in bagno a vestirsi. Mi ha fatto riflettere: anche il pigiama avrebbe dovuto trovarsi in bagno». Per il pg «è un ulteriore elemento indiziante».

«Parlo del pigiama alla fine perché non ritengo - precisa - si giochi tutto sul fatto che l’assassino lo indossasse. Propongo modeste considerazioni al riguardo, valutate con la bloodstain pattern analysis». Sembra scegliere il profilo più basso nell’approccio al calcolo matematico per determinare la posizione dell’assassino in base a posizione, forma e consistenza delle tracce di sangue sulla scena del delitto.

Zona d’ombra
«Per noi l’assenza di tracce di sangue in un’area del letto di 1600 cm quadrati (calcolo del Ris) si spiega in un modo solo: l’assassino riempiva, standovi a cavalcioni, quella zona d’ombra. Lo dimostra il pigiama che l’omicida indossava tutto, casacca (due volte a rovescio: l’esterno dell’indumento a contatto con la pelle e il retro scambiato per la parte anteriore) e i pantaloni». C’è qualche novità. Corsi ragiona: «Un pentolino puoi occultarlo, un calzino farlo sparire, il pigiama no. Annamaria pensa di averlo lasciato sotto le coperte. In quel caso avremmo dovuto trovarlo non macchiato. I pantaloni lo erano di più. E sono stati rinvenuti separati dalla casacca, fra le pieghe del piumone. Come se l’imputata avesse cercato di nasconderli un po’». Il pg «recupera» anche gli zoccoli di Annamaria nei piedi dell’assassino.

Le condizioni mentali
«All’inizio del processo avevo chiesto un approfondimento psichiatrico rispetto alla prima perizia, condizionata da una Franzoni seduttiva (anche in quel caso). Ero convinto che l’imputata vi si sottoponesse e che si chiudesse il dibattimento in tre mesi. Invece è stato un grave errore». «Il mio consulente definisce il contesto patologico dell’omicidio in questo modo: Annamaria è uscita dalla stanza della nevrosi per entrare in quella della psicosi, uno sgabuzzino nero. Non chiediamo aiuto alla psichiatria per risolvere un caso che può essere più semplice. Lei ha ucciso in uno scatto d’ira esploso in un contesto ansioso. Non si ha bisogno di spiegarlo, come hanno ipotizzato i periti, con un disturbo crepuscolare orientato della coscienza. E’ stata spesa una bellissima immagine per darcene un’idea divulgativa: nelle ombre dell’aurora o del crespuscolo si vedono solo alcune cose. Vi si riconosce una compromissione del pensiero libero che molti autori preferiscono indicare come restringimento della coscienza».

«Fra gli scienziati non c’è accordo sulla durata di questo raro fenomeno. E Annamaria è stata vigile, determinata, sicura “dopo”». Per Corsi il suo «è stato un tuffo profondo, di immediata risalita a galla». Un leggero disturbo che non ne ha compromesso la capacità di intendere e volere. «I periti avrebbero dovuto contare su colloqui clinici con lei per approfondire. Né Annamaria né i familiari ci hanno parlato di altri episodi da porre sotto osservazione. Per loro una mamma sana non può uccidere. Lei lo ha fatto e non dobbiamo avere pudori che questa mamma sia normale. Anche se non ci piace l’idea».




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LA STAMPA
28/3/2007
L’uscita di scena tra i singhiozzi
"Non sono stata io"
Le lacrime alla richiesta della pena
MARCO NEIROTTI

TORINO
D’improvviso in piedi. Voce che trema, poi i singhiozzi che non argina più: «Volevo solo dire che io non ho ucciso mio figlio». E’ finita l’udienza. Il Procuratore Generale ha chiesto una condanna a trent’anni, niente attenuanti, come in primo grado, dopo aver ribadito a Annamaria Franzoni che lei imputata ha ancora tempo per dire qualcosa, per ammettere, accennare, lasciare intuire, concedere spazio a benevolenza processuale, non soltanto umana. Tutti pronti per uscire, telefonare ai giornali, commentare, fare collegamenti. Tutti sul capitolo chiuso. Invece l’avvocato Paola Savio annuncia: «La signora vorrebbe fare una dichiarazione». Ora sono tutte fronti fisse su di lei - giudici togati e popolari, giornalisti, parenti, pubblico - catturati da una svolta possibile e richiesta come ultima via di sollievo per ognuno dall’accusa.

La dichiarazione
E lei si alza, con il maglioncino grigio che la incornicia, lo stira dove scopre un lembo di schiena, si avvicina al microfono e, mentre sale il singulto che poi sarà pianto, spezzetta quelle poche parole: «Volevo solo dire che non ho ucciso mio figlio». Poi siede e aspetta, spalle scosse da tremiti e capo chino. Finché la seduta è tolta, la Corte esce. Alle sue spalle Stefano si prepara a partire, braccia nel giubbotto, lo chiude, si accosta al banco dove è lei. E lei, in lacrime, fugge via, sola, come non aveva mai fatto, senza marito né legali, senza alzare il viso, verso la porta alle spalle del lungo tavolo della giuria. D’improvviso incredula, sola.

Sola. Una solitudine sterminata. Con tono delicato il procuratore generale Vittorio Corsi ha per ore passato in rassegna perizie scientifiche e psichiatriche. Lei è sempre la stessa, all’inizio, la pacatezza di chi si domanda come tutte quelle cose c’entrino con la sua storia. Ma quando il Pg si avventura nella sua mente, sfoglia e scoriandola e riunisce i passi delle perizie, si fa più attenta e fissa con lo sguardo. Scuote il capo, bisbiglia qualcosa alla Savio. Di nuovo scuote il capo. Isteria, crepuscolo, psicosi, paranoia, border line. Un rosario di etichette sulla sua mente. La inquieta. Ride, serena, quando sente citare di una donna che confida: «Quando è in quello stato butta le pentole dalla finestra».

E’ l’unica serenità in questo giorno che conclude il passo d’accusa contro l’episodio di morte e contro la strategia dei vivi per la difesa. A fine udienza dice Paola Savio: «Voglio solo ricordarvi («volevo solo dirvi», ha appena frantumato con la voce Annamaria) che il difensore ha depositato un elaborato presso la Corte d’Assise. Spiace non poter sentire il professor Carlo Torre. Ma esiste comunque un elemento in più sul quale ragionare».

La difesa
Avvocato Savio, si aspettava una richiesta così forte? «Era normale che succedesse un po’ di tutto», dice crivellata di lampi, telecamere, flash. Il Procuratore Corsi ha proposto un’ultima chance di collaborazione: «Era giusto che l’accusa offrisse un’ancora». Se ne va con borsa e piccola valigia in mezzo al caos. Annamaria se ne va da un’uscita protetta. Pare stordita non tanto dal concetto di colpevolezza - quello dall’accusa se l’aspettava - quanto dall’assenza di sconti. Eppure Corsi ha ribadito che basterebbe un segnale «di resipiscenza», una frase, un particolare. Lei lo fissa quando spiega che l’unica strada sarebbe «un atto unilaterale di pietas per una madre che non ha più un figlio». Sono le attenuanti, che non ritiene di proporre.

Esce sola Annamaria. Sola perché c’è stato un altro processo in questa conclusione del Pg. Quello alla difesa, che ancora ieri, alla fine, era un esame dei ruoli della famiglia, del clan, del gruppo, con un «intelligentissimo» regista, papà Giorgio, un marito straordinario come Stefano nel sostegno, ma non così forte da contrastare la linea guida del suocero, un uomo più pacato e forse meno blindato nel gruppo, come Mario Lorenzi, papà di Stefano, che Corsi definisce più estraneo a scelte difensive disastrose. Lo definisce «semplice» e lui, semplicemente, in queste angosce, sorride rispettoso e chiosa: «Mi son preso dello stupido?».

I disturbi
Ora si aspetta una difesa che non può non rispettare Annamaria che si piange innocente e alla quale però farebbero eventualmente comodo i «disturbi» che l’accusa ha ritenuto ininfluenti. Rimane una amarezza che cinque anni sono riusciti a spalmare ovunque. La requisitoria del Procuratore finisce con una mano assassina, che deve essere punita con il massimo della pena, e, ricorda lui, due vittime: un bambino ucciso a tre anni e una madre oggi di trentacinque tenacemente incredula. Fa onore al magistrato il tono dolce e asciutto: «Qualunque pena non riporterà in vita Samuele».


INES TABUSSO
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