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>, le banche via via rinunciarono a chiedere i rientri e fecero anzi grossi prestiti, che contribuirono a fargli superare le gravi difficolta' e portarono alla fine al rovesciamento della sua situazione finanziaria: da un passivo di 4 mila miliardi il Cavaliere passo' ad un attivo che oggi si stima a 30 mila miliardi. Il <> fu fortemente condizionato dal mutato atteggiamento dei principali awersari politici, i ds, che passarono da un censurabile estremo ad un altro estremo non meno censurabile: dalla totale ostilita' di Occhetto, che voleva <> il Cavaliere, assunsero un atteggiamento di polemica blanda e in fondo amichevole, come risulta dalla linea adottata nelle due Giunte per le elezioni, in cui decisero di prendere per buono quel miserabile cavillo,aggirando in tal modo una legge dello Stato.

Quando il Cavaliere si vanta di essere un grande imprenditore, occorre osservare che, se non fosse stato per la prepotenza di Craxi, contro la quale inutilmente si scontro' l'opposizione di uomini politici civili - alludo a Martinazzoli ed ai suoi amici - egli non avrebbe avuto quelle concessioni televisive che hanno dato la principale spinta alla sua enorme crescita finanziaria; e quelle concessioni non hanno da fare coi rischi di mercato, sono invece simili ai brevetti (exclusive privileges) concessi dalla monarchia inglese alla Compagnia delle Indie per condurre affari anche illeciti restando impunita: Adamo Smith bollava quelle concessioni come un'infamia.

Ben diverso e' il caso dell'imprenditore che si afferma nel mercato senza prepotenze o appoggi di uomini politici. La fortuna finanziaria del Cavaliere e' stata quindi avviata da Craxi e in seguito - di nuovo: e' triste dirlo - assecondata dai ds, con la beffa che, cio' nonostante, essi sono stati continuamente vilipesi e bollati come nipotini di Stalin.

E stato affermato: D'Alema ha scelto la via dell'appeasement con Berlusconi perche' aveva l'idea della Bicamerale, che presupponeva buoni rapporti con lui: non poteva, da un lato fare la guerra al Cavaliere toccando proprio uno dei suoi principali interessi e dall'altro ottenere la sua collaborazione. Se e' cosi', allora l'errore e' stato proprio di avviare la Bicamerale con un personaggio come Berlusconi. Alcuni - io fui tra questi - lo misero subito pubblicamente in evidenza. D'Alema doveva rendersi conto che la Bicamerale poteva diventare una trappola quando Berlusconi gli chiese d'includere la riforma della giustizia nell'agenda, un punto fondamentale che in un primo momento non era previsto; era ovvio che la richiesta era da collegare coi problemi giudiziari del Cavaliere: interessi privati in atti di ufficio; niente meno: atti di ufficio riguardanti la riforma della Costituzione.

Purtroppo D'Alema non fece una piega e, senza pubbliche discussioni, incluse nell'agenda anche la giustizia. Questa, non c'e' alcun dubbio, da noi funziona malissimo, ma le riforme necessarie potevano - e possono - essere introdotte con leggi ordinarie. La Costituzione deve limitarsi ad affermare solo i principi generali, che sono quelli tradizionali della separazione dei poteri; e tale affermazione e' gia' contenuta nella nostra Costituzione.

Ogni volta che si rimette in discussione la questione del conflitto d'interessi Berlusconi obietta: ma io stesso ho presentato un progetto di legge che e' stato approvato all'unanimita' dalla Camera nel 1998: se il centrosinistra lo fara' approvare anche dal Senato la questione e' risolta. Ma il centrosinistra lo approvo' quando aveva adottato la linea dell'appeasement; questa linea e' venuta meno quando il Cavaliere rovescio' il tavolo della Bicamerale dicendo brutalmente che le riforme che lo riguardavano, quelle della giustizia, non gli davano sufficienti garanzie. E vero: D'Alema mise in evidenza che la Bicamerale era fallita per colpa di Berlusconi; ma, considerato il grande impegno che aveva profuso nel tentativo e considerata la figura infelice che il Cavaliere gli faceva fare tale e' la figura di un politico che mostra di fidarsi di un personaggio come Berlusconi - D'Alema non reagi' con sufficiente veemenza.

Era quello il momento di avvertire il Cavaliere che la linea dell'appeasement veniva necessariamente meno e che avrebbe appoggiato un progetto di legge serio per il conflitto d'interessi. Pare che intenda farlo nel prossimo futuro: stiamo a vedere.

Le ipotesi per risolvere la questione del conflitto d'interessi dei titolari di concessioni pubbliche sono diverse. Il progetto di legge proposto da Berlusconi nella formulazione originaria e' una beffa; una prima ipotesi e' appunto quella d'introdurre emendamenti sostanziali, inserendo la regola della incompatibilita'. In effetti, le ipotesi fondamentali sono due: ineleggibilita' al Parlamento o incompatibilita' con incarichi di governo.

Diversi politici preferiscono la seconda ipotesi, giacche' anche chi non e' parlamentare puo' ottenere quegli incarichi. In ogni modo occorre una norma <> per ben chiarire chi deve intendersi per titolare della concessione ed evitare il bis del cavillo escogitato dalle due Giunte per le elezioni. Ed occorre una norma che impedisca di aggirare le regole ricorrendo a parenti, come ha gia' fatto Berlusconi per mantenere la proprieta' del <>. Puo' darsi che la soluzione preferibile sia quella di stabilire l'incompatibilita', aggiungendo due norme, una <> ed una <>.

Chiarito tutto cio', si deve dire che, dopo le dichiarazioni riportate sopra, D'Alema non puo' rimanere inerte; la scelta di una delle alternative appena ricordate spetta al D'Alema politico, al suo partito ed ai partiti alleati. Mi rendo ben conto che il compito e' molto difficile; ma credo che D'Alema a sua volta si renda conto che oramai, per la sua stessa immagine, deve far seguire le azioni alle parole. Non e' detto che abbia successo; ma c'e' modo e modo di perdere: se si batte in modo serio, la sua azione puo' servire a rendere ben chiaro agli elettori, anche con riferimento all'esperienza della Bicamerale, chi e' Berlusconi.

Se D'Alema intende impegnarsi a fondo, credo di potergli assicurare la collaborazione, oltre che mia, delle persone che ho nominate prima, una collaborazione che puo' essere estesa anche ad altri membri del suo partito e dei partiti alleati. Credo che pochi, anche tra i critici di Berlusconi, si rendano ben conto del tremendo pericolo che corre la democrazia italiana se il Polo della liberta' vince le prossime elezioni. <>, aveva detto Previti (che in questo periodo si e' defilato).

Non occorre essere particolarmente pessimisti per prevedere liste di proscrizione e per ritenere che l'uomo fara' una bella riforma della giustizia che tenga il dovuto conto della sua posizione e di quella dei suoi soci piu' esposti mi riferisco a Previti e a Dell'Utri - e che cerchi di attuare due leggi: la prima, preannunciata quando era presidente del Consiglio, per riformare la stampa allo scopo di impedire le <> dei giornalisti; la seconda, una legge che fissi norme per selezionare buoni insegnanti e buoni libri di testo, mettendo al bando quelli che diffondono falsificazioni e veleni marxisti tra i giovani, come l'esaltazione della Resistenza e la denigrazione sistematica della patria: la Casa delle liberta', com'e' naturale, esige un giornalismo della liberta' ed una scuola della liberta'. (In nessun paese civile esiste un comitato pubblico per mettere all'indice libri scolastici <>; sono le associazioni di genitori e di studenti che hanno il diritto di formulare e rendere pubbliche le loro valutazioni. Ma forse Confalonieri ha ragione: siamo un paese semilevantino.)

No, non vedo il rischio di una dittatura vera e propria, vedo pero' il rischio di un regime a liberta' fortemente limitata, conforme agli interessi economici, istituzionali e culturali del partito-azienda e dei suoi alleati, con conseguenze reversibili solo con enormi difficolta' e in tempi non brevi anche dopo la fine del governo berlusconiano. Al tempo stesso, di nuovo, non occorre essere particolarmente pessimisti per immaginare come potra' essere l'azione di governo del padrone della Casa delle liberta': considerata l'incredibile varieta' dei suoi interessi - televisioni, banche, assicurazioni, immobili, attivita' commerciali e pubblicitarie - pare impossibile, per Berlusconi primo ministro, non incappare continuamente nella sua attivita' in qualche conflitto d'interessi.

Cosicche' se, come ha dichiarato, intendesse astenersi su ogni atto di governo dove fosse in gioco un suo interesse, dovrebbe, e' stato spiritosamente osservato, astenersi dal governare.

Questa situazione non condiziona solo il nostro paese; considerato l'infittirsi delle nostre relazioni in Europa e delle direttive emanate dagli organi europei, i nostri partner si renderebbero ben conto che il fenomeno Berlusconi non riguarda solo noi italiani, come finora hanno mostrato di credere, ma anche loro, cio' che renderebbe ancora piu' gravi le loro preoccupazioni derivanti dalle liaisons dangereuses con Bossi e, attraverso Bossi, con Haider.

Insomma, credo che non sia affatto esagerato mettere in risalto i due rischi tremendi - in una certa misura collegati che correrebbe il nostro paese se Berlusconi tornasse al potere: il primo riguarda il nostro sistema democratico, il secondo la nostra permanenza in Europa. Su questi due gravissimi rischi dobbiamo riflettere tutti, finche' siamo in tempo.



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Lettera di Sylos Labini a L’Unità
16 novembre 2001
Cari Ds manca ancora il rospo

I leader dei ds hanno detto che la perdita dei consensi dipende in primo luogo dalla
grave inadeguatezza dei programmi. Vero. Hanno detto anche che dipende dai litigi
interni. Anche questo è vero. Manca però il ROSPO: il grave errore di strategia
commesso quando, per avviare la Bicamerale, quei leader hanno cercato in tutti i
modi un accordo con Berlusconi, che doveva essere il socio di un’impresa tanto
ambiziosa quanto assurda: riformare la Costituzione, che era costata lacrime e sangue,
con la collaborazione di un personaggio che aveva gravi conti aperti con la giustizia e
che quindi avrebbe cercato innanzi tutto di informare a proprio vantaggio il sistema
giudiziario: se non avesse avuto soddisfazione, avrebbe fatto saltare il tavolo, com’è
accaduto e come alcuni avevano previsto fin da principio. Non si poteva, da un lato,
chiedere ed ottenere la collaborazione di Berlusconi per la Bicamerale e, dall’altro,
combatterlo, per esempio, sul terreno del mostruoso conflitto d’interessi. Ecco perché
i leader dei ds accettarono come buona la «finzione» - il miserabile cavillo - secondo
cui non era Berlusconi ma Confalonieri il titolare delle concessioni televisive,
aggirando così la legge del 1957 che stabiliva l’ineleggibilità dei titolari di
«concessioni pubbliche di rilevante interesse economico».
Accettato quel cavillo ed avendo così resa inutilizzabile la legge del 1957, i ds hanno
dovuto imboccare la strada della nuova legge. Nello sciagurato spirito della
collaborazione con Berlusconi fu preso per buono ed approvato, solo alla Camera, un
disegno di legge presentato dallo stesso Berlusconi e dai soci, fondato sull’idea
americana del blind trust un’idea ragionevole nel caso di titoli e di beni fungibili,
come i beni immobili, ma inattuabile - diciamo pure ridicola - nel caso di reti
televisive. Il disegno di legge non fu presentato al Senato e rimase con la sola
approvazione della Camera, viene tuttavia ripetutamente gettato fra le gambe dei ds
da Berlusconi e da chi sia pure non apertamente lo difende. Forte del tacito assenso
dei ds il Cavaliere è diventato sempre più sfrontato sul conflitto d’interessi ed ora ha
fatto presentare da Frattini un nuovo disegno di legge che è una vera e propria
burletta. Ha scritto giustamente Sartori che «in Italia sta scomparendo un principio
fondante della democrazia, la pluralità e la concorrenzialità degli strumenti
d’informazione». Dalla collaborazione con Berlusconi, che era l’inevitabile corollario
dello sciagurato errore strategico della Bicamerale, sono derivati vari altri «errori», fra
cui lo scarsissimo impegno nel ratificare in tempi brevi la convenzione italo-svizzera -
poteva essere approvata già nel 1998 - e la critica ai «demonizzatori» di Berlusconi,
come me e come diversi miei amici, tutti o quasi tutti dalla tradizione liberalsocialista
(saremmo dovuti essere cooptati nella «Cosa 2», mi pare, ma forse abbiamo capito
male). È vero almeno che «esagerando» nelle critiche a Berlusconi avremmo fatto il
suo gioco? No, non è vero: secondo uno studio serio di un centro torinese di ricerche
sui flussi elettorali la nostra azione, insieme con gl’interventi di Benigni, di Travaglio
e di Veltri e dei giornalisti dell’Economist, avrebbe spostato a favore del
centrosinistra, il minor male, da uno a due milioni di voti. Non chiedevamo né
ringraziamenti né riconoscimenti, ma almeno una qualche presa di posizione, nei fatti
e negli atti, che la nostra azione non andava duramente criticata, ma utilizzata: siamo
nella stessa barca. A giudicare da recenti dichiarazioni di diversi leader del
centrosinistra e dei ds in particolare sembra che ciò stia finalmente avvenendo.
Tuttavia, per contrastare con efficacia i reiterati attacchi di Berlusconi e di altri sulle
posizioni dei ds riguardanti il conflitto d’interessi e la «pigrizia» nella ratifica della
convenzione sulle rogatorie e per persuadere i votanti delusi ed amareggiati che
muteranno veramente la loro politica i leader ds debbono fare chiaramente ed
esplicitamente autocritica per quel grave errore strategico, magari invocando come
attenuante il fatto che il cinismo e la slealtà di Berlusconi hanno superato ogni limite,
sia pure riconoscendo che la politica non è un’attività per educande. Solo con una tale
autocritica - e non con la generica ammissione che errori sono stati compiuti - i leader
ds possono via via recuperare credibilità.



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Replica di D’Alema a Sylos Labini
L’Unità
22 novembre 2001

Gentile professore, in generale cerco di non replicare agli attacchi personali. Tendo
volentieri a discutere - questo sì - opinioni e punti di vista anche assai distanti dai
miei, ma di solito mi trattengo quando colgo nell'interlocutore un elemento di
pregiudizio.
Se nel suo caso mi sottraggo a questa consuetudine è per due ragioni: la stima che
nutro verso la sua figura di intellettuale e di studioso e, su un piano diverso, la
speranza di sgomberare il campo - chissà - una volta per tutte - dall'accusa che da più
parti mi viene rivolta di essere stato l'artefice di uno scambio inconfessabile e
immorale in materia di Costituzione e di conflitto di interessi con l'onorevole Silvio
Berlusconi. «Un pettegolezzo, invecchiando, diventa un mito» così scrive in uno dei
suoi illuminanti aforismi Stanislaw Lec. E questo mito mi viene fatto gravare sulle
spalle da diversi. Da alcuni per una concezione consapevolmente calunniosa della
lotta politica; da altri in buona fede, come nel suo caso, ma con non minore asprezza.
«D'Alema - lei scrive - ha come prima responsabilità quella di aver consentito che
venisse aggirata, con un miserabile cavillo, una legge del 1957 che stabiliva la
ineleggibilità di titolari di importanti concessioni pubbliche, e ha bloccato ogni serio
tentativo di risolvere il problema del conflitto di interessi; tutto ciò per portare a
compimento, niente meno, la riforma della Costituzione: con quel socio! Sembra
incredibile». Già, sembra incredibile; ma soprattutto ciò che lei scrive è falso, caro
professore. Ma procediamo con ordine.
Nel luglio del 1994 la giunta per le elezioni della Camera dei deputati rigettò a
maggioranza il ricorso contro la elezione a deputato di Silvio Berlusconi. I deputati
del mio partito (del quale ero segretario da pochi giorni) votarono ovviamente contro,
come gli altri parlamentari progressisti. Con la maggioranza si schierarono due
deputati del Partito popolare, allora sotto la guida dell'on. Buttiglione. Non vedo
proprio quindi che cosa mai avrei io consentito, in cosa potesse entrarci con la
Bicamerale la decisione del '94. In realtà ciò che si dimostrò allora è (come poi più
volte ho sostenuto) la insostenibilità di una norma che, in tempi di sistema elettorale
maggioritario, affida alla giurisdizione domestica e politica del Parlamento il giudizio
in materia di ineleggibilità. Anche per questo proposi in seguito una riforma che
consentisse il ricorso di fronte alla Corte costituzionale, cioè a un giudice
indipendente dalle parti politiche. E anche questo aspetto dimostra quanto fosse
necessaria una riforma della Costituzione. Per realizzare le riforme l'Ulivo indicò la
via di una commissione parlamentare in alternativa alla proposta della destra di una
Assemblea costituente. E insistemmo molto sulla necessità che le riforme non fossero
imposte dalla volontà di una maggioranza parlando - come recita il programma
elettorale dell'Ulivo - di «un patto da scrivere insieme». Continuo a pensare che
quella scelta fosse giusta e comunque quella linea politica, del dialogo e della
comune responsabilità di fronte alle istituzioni, ci consentì di vincere le elezioni del
1996. Non è affatto vero che l'istituzione della Commissione Bicamerale bloccò o
impedì l'esame di una legge sul conflitto di interessi. La legge venne discussa e
approvata all'unanimità nell'aprile del 1998. Certo, si trattò di quella legge che il
centro-sinistra considerò poi del tutto inadeguata a risolvere in modo efficace e serio i
nodi del conflitto di interessi. Ma non fui certo io ad imporla, né vi era alcun nesso
con la vicenda della Bicamerale che aveva tra l'altro già concluso i propri lavori. In
un bel libro di recentissima pubblicazione («Democrazia e conflitto di interessi. Il
caso italiano») Stefano Passigli, che pure ricostruisce in chiave fortemente critica
l'intera vicenda, ridicolizza la tesi dello scambio o «dell' inciucio» tra D'Alema e
Berlusconi. In effetti basta leggere gli atti del Parlamento per rendersi conto che
quella legge fu voluta dall'intero centro-sinistra; dal governo che fu attivamente
partecipe della discussione e della elaborazione del testo con il sottosegretario
Bettinelli, sino alle componenti più insospettabilmente anti-berlusconiane. Come
ricorda Passigli in sede di dichiarazione di voto l'on. Elio Veltri, braccio destro del dr.
Di Pietro, ebbe a dire «Questo testo non è molto distante dalla proposta di legge che
avevo presentato - abbiamo ottenuto garanzie maggiori nelle procedure - perché la
separazione della gestione fosse effettiva e il trust fosse effettivamente cieco». Nella
maggioranza dell'Ulivo la posizione più critica fu invece proprio quella dei Ds che
cercarono, almeno sul piano fiscale, di rendere la normativa meno "di favore" per il
proprietario di Mediaset. Se dunque errore vi fu, e certamente vi fu, esso rivelò un
limite culturale dell'intero centrosinistra. Ma i fatti smentiscono nel modo più netto la
teoria dello scambio Bicamerale/conflitto di interessi di cui sarei stato protagonista
io. Non mi sfugge tuttavia che, al di là dei fatti, il diffuso pregiudizio, il sospetto, il
disagio per la ricerca di una intesa costituzionale con la destra ha finito per incrinare
il rapporto di fiducia fra noi e una parte dell'opinione pubblica di sinistra. E ciò,
paradossalmente, è tanto più significativo proprio perché quel pregiudizio non è
fondato sui fatti né su una seria analisi politica della vicenda della Bicamerale. La
Bicamerale rappresentò infatti un momento indubbiamente positivo per l'Ulivo. Fu un
aiuto per il governo Prodi in quanto concorse ad un clima parlamentare favorevole
alle scelte difficili ma necessarie per la rincorsa dell'Euro. Fu un momento alto del
profilo riformista. Costrinse la destra a un confronto che ne stemperò il carattere
"eversivo" di forza di rottura istituzionale e fece emergere articolazioni e divisioni.
Soprattutto delineò un impianto di riforme - certo non privo di debolezze e
incongruenze - ma che avrebbe potuto rappresentare la base per una grande riforma
da fare in Parlamento e che segnasse un approdo sicuro della lunga transizione
italiana. Fra l'altro sul tema che ci appassiona, della incompatibilità e ineleggibilità, il
progetto della Bicamerale segnava un netto passo in avanti prevedendo la possibilità
di ricorso alla Corte Costituzionale. Fu Berlusconi a rompere e a far fallire il disegno
della Bicamerale. Prova questa indubitabile che nel progetto di riforme non si
nascondeva alcuna oscura concessione sui principi e sui valori, come pure invece si è
poi detto in questi anni. E da questa rottura comincia la sua rivincita. Anche perché
egli non pagò alcun prezzo e fu anzi aiutato dalla campagna sull' «inciucio» che,
sostenuta in modo aspro anche da una parte della opinione del centrosinistra, gli
spianò la strada scaricandolo di ogni responsabilità per aver fatto fallire le riforme
costituzionali.
La verità è che non pochi furono quelli che, anche nel nostro campo, tirarono un
sospiro di sollievo. E l'Ulivo, prigioniero delle divisioni e delle resistenze
conservatrici, finì per lasciare sbiadire via via (con l'eccezione della legge sul
federalismo) il suo profilo di forza riformista e di cambiamento sul terreno
costituzionale.
Resta in me la convinzione che ci abbia danneggiato di più - anche elettoralmente -
non averle fatte le riforme che avere cercato di farle con la Bicamerale. Ma lei dice:
«con quel socio!». Capisco il problema. E sarebbe troppo facile rispondere che le
riforme si fanno in Parlamento e i soci non li scegliamo noi ma il popolo italiano.
Questo non la commuove dato che come lei scrive nel suo libro non esclude - per una
comprensibile indignazione civile - di «dimettersi da italiano».
Ma questa è una via preclusa a chi ha scelto l'impegno politico, ha l'ambizione di
tornare a governare questo paese e intanto il dovere di concorrere a far vivere e
funzionare le istituzioni. Con questa destra, sulla quale il mio giudizio non differisce
molto dal suo, continuo a pensare che tra «l'inciucio» (che non ci fu ma apparve), e la
demonizzazione reciproca (che giova solo a Berlusconi) possa esserci una terza via
capace di unire la nettezza della contrapposizione politica, programmatica, etica
(quando ci vuole) alla necessaria comune responsabilità quando siano in gioco le
istituzioni e il bene dell'Italia.



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Replica di Sylos Labini a D'Alema
Noi Berlusconi l’Opposizione
L'Unità
24 novembre 2001
Nella lunga lettera pubblicata su l’Unità del 22 novembre D’Alema risponde alle
critiche da me sollevate alle sue scelte politiche nel libro-intervista «Un paese a civiltà
limitata» e poi in un articolo pubblicato su l’Unità del 16 novembre. Da principio
riconosce la mia «buona fede nel credere ad un pettegolezzo che invecchiando diventa
un mito, come scrive Stanislav Lec»; poi però si lascia un po’ andare e, riferendosi
alla posizione da lui presa consentendo che la legge del 1957, che stabiliva
l’ineleggibilità dei titolari di concessioni di rilevante interesse economico, venisse
aggirata con un cavillo (titolare delle concessioni tv sarebbe stato non Berlusconi ma
Confalonieri), afferma: «ciò che lei scrive è falso, caro professore» e ricorda, in primo
luogo, che «nel luglio 1994 la Giunta per le elezioni della Camera dei deputati rigettò
a maggioranza il ricorso contro la elezione di Silvio Berlusconi».
Subito dopo aggiunge: «I deputati del mio partito votarono ovviamente contro, come
gli altri parlamentari progressisti». Sono costretto a ribattere: no, caro presidente,
quello che scrivo non è falso e il suo ricordo non è esatto. A suo tempo, quando, per
far rispettare quella legge, io ed altri amici costituimmo un gruppo di pressione,
intorno al quale fu fatto un vuoto pneumatico, mi documentai con scrupolo; ho con
me vari documenti. Così, negli atti della Giunta per le elezioni della Camera di
mercoledì 20 luglio 1994 a pagina 3 risulta che l’unico oppositore fu il deputato ds
Luigi Saraceni, che, come dichiarò ad un mio amico del gruppo di pressione e come
mi ha confermato oggi per telefono, prese la decisione autonomamente: i suoi colleghi
ds votarono a favore. Tutto questo avveniva nel 1994, quando la maggioranza era del
cosiddetto centrodestra. Anche più grave è ciò che accadde dopo le elezioni del 1996:
allora la maggioranza era del centrosinistra ma non ci fu nessuna opposizione; anche
in questo caso ho gli atti della Giunta - martedì 17 ottobre, pagine 10-12. Del 1996 il
presidente D’Alema non parla. Di tutto questo scrissi diffusamente in un lungo
articolo apparso nel fascicolo 5 del 2000 della rivista MicroMega; debbo ritenere che
sia sfuggito alla sua attenzione.
Siamo d’accordo sulla regola, praticata dagli altri paesi europei, che sui ricorsi in
materia d’ineleggibilità il giudizio non deve essere affidato al Parlamento, ma ad un
organo esterno, come la Corte Costituzionale; questa esigenza, però, fu considerata in
seguito e non nell’avvio della Bicamerale. Desidero essere chiaro: non sostengo che ci
sia stato uno scambio Bicamerale/conflitto d’interessi. Sostengo una tesi diversa e
cioè che una volta scelta come prioritaria la linea della Bicamerale l’inevitabile
corollario - lo scrivo nel mio articolo su l’Unità - sarebbe stato quello di un
atteggiamento non ostile verso il Cavaliere: non si poteva, da un lato, chiedere la sua
collaborazione per riformare - niente meno - la Costituzione e, dall’altro lato,
combatterlo con la necessaria intransigenza. Questa è la mia tesi e non quella dello
scambio che necessariamente presuppone una sorta di trattativa. Un altro corollario -
anche questo scrivo nell’articolo - era quello di prendere le distanze dai critici duri e
intransigenti di Berlusconi, ossia da quelli che sono stati denominati i
«demonizzatori», una categoria alla quale appartengo. Vedo, con rammarico, che lei
non ha abbandonato l’idea che la «demonizzazione reciproca giova solo a
Berlusconi». Mi sembra evidente che la linea alternativa, quella della legittimazione
reciproca, è stata catastrofica per il centrosinistra ed ha giovato solo al Cavaliere, il
quale ha incassato i vantaggi della legittimazione offerta dai ds, ma li ha ripagati
continuando, anche più ossessivamente di prima, a definirli «comunisti», collusi con
le «toghe rosse» e quant’altro: in breve, la non demonizzazione è stata unidirezionale.
Quanto alla tesi che i demonizzatori avrebbero portato acqua al mulino del Cavaliere,
è una tesi smentita da un’analisi dei flussi elettorali diretta dal professor Ricolfi della
Facoltà torinese di sociologia, secondo cui l’azione congiunta di vari «demonizzatori»
ha spostato a favore del centrosinistra da uno a due milioni di voti pescandoli
principalmente fra chi pensava di non andare a votare: questo ha ridotto quella che lei
ha chiamato un’«incrinatura» - parlerei di una grave incrinatura - fra una parte
dell’opinione pubblica di sinistra e i ds. Non sarebbe allora il caso di riconoscere che
la critica dei demonizzatori va abbandonata? Che altro debbono combinare Berlusconi
ed il suo governo per convincere tutto il centrosinistra che è necessaria
un’opposizione intransigente? Lei, presidente D’Alema, riconosce che, nell’assai
ambizioso progetto di riformare la Costituzione, Berlusconi non era un socio
raccomandabile. Ma, osserva, le riforme si fanno in Parlamento e i soci non li
scegliamo noi ma il popolo italiano. Un tale ragionamento dà per certo che, non le
riforme in generale, ma - niente meno - la riforma della Costituzione non fosse in
alcun modo procrastinabile. Non è così: era sconsigliabile intraprenderla fino a
quando bisognava farla con un socio che aveva quel po’ po’ di conti da regolare con
la giustizia. Io, proponendo idee condivise da molti miei amici, le inviai una lettera
aperta pubblicata su Repubblica - certo se ne ricorda. D’altro canto, l’unica riforma
veramente urgente era quella riguardante la giustizia, per la quale quel pessimo socio
aveva evidenti interessi personali. Ma, a detta di numerosi giuristi e di magistrati, le
più importanti riforme in questo campo potevano e dovevano essere attuate con leggi
ordinarie, lasciando in pace la Costituzione. Verso la fine della sua lettera osserva,
rivolgendosi a me: «Lei non esclude - per una comprensibile indignazione civile - di
dimettersi da italiano. Ma questa è una via preclusa a chi ha scelto l’impegno politico
ed ha l’ambizione di tornare a governare questo paese ed intanto ha il dovere di
concorrere a far vivere e funzionare le istituzioni». È vero: io non escludo di essere
costretto a dimettermi da italiano. Ma per ora, come vede, non mi sono affatto
dimesso. E l’opposizione a questa destra, sulla quale il suo ed il mio giudizio non
differiscono molto (salvo che nell’idea che questa sia veramente una destra),
dev’essere netta ed intransigente proprio per salvaguardare le istituzioni. Dico questo
con una certa fiducia che anche su tale campo vitale le nostre differenze oramai non
siano grandi: penso che quel che ha combinato il governo Berlusconi nei suoi primi
centoventi giorni di vita abbiano fatto cadere ogni illusione, per via dell’assalto che
hanno dato proprio alle istituzioni, a cominciare dalla giustizia. Come lei sa, le
illusioni sono cadute anche nei nostri partner, in Europa e fuori, principalmente per il
mostruoso conflitto d’interessi, che a detta di intellettuali che ben possono essere
considerati di destra è all’origine del discredito - Sartori ha parlato di disprezzo - che
oggi all’estero ricopre, non l’Italia, ma Berlusconi e il suo governo. In Parlamento ed
a Pesaro ho notato segnali incoraggianti, come - faccio solo due esempi - la vigorosa
reazione agli attacchi alla magistratura e l’appoggio, da lei proclamato, alla proposta
del referendum volto ad abrogare la vergognosa legge sulle rogatorie, una proposta
lanciata da tre riviste della sinistra liberale (MicroMega, Il Ponte, Critica liberale),
alla quale auspichiamo che lei voglia aderire - proprio ieri abbiamo avuto l’adesione
di Sergio Cofferati. È da considerare anche la possibilità di cancellare le altre due
vergogne: la depenalizzazione del falso in bilancio e la gigantesca sanatoria fiscale
legata al rientro di capitali. Sì, discutiamo pure delle formule - socialdemocrazia,
liberalsocialismo - e, ancor più, dei programmi. Ma il cosiddetto popolo di sinistra
vuole comprendere se i ds sono disposti a fare un’opposizione robusta e non
oscillante. Anche qui qualche segnale positivo c’è: recentemente lei su Berlusconi ha
fatto dichiarazioni così dure che l’ottimo Giuliano Ferrara, che qualche mese fa
paragonò Bobbio e me a Goebbels, l’ha minacciata d’includerla nella mia stessa
categoria. Caro presidente, tutte le forze di opposizione sono nella stessa barca. Noi
non chiediamo a nessuno prebende o posti e neppure orologi d’oro. Ci muove
l’aspirazione a vivere in un paese dove non solo non venga la tentazione di dimettersi,
ma in cui si possa vivere bene e senza angoscia civile. Se in qualche modo possiamo
collaborare, eccoci qua.



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CORRIERE DELLA SERA
28 marzo 2006
MILANO - Non sarà che Prodi una volta arrivato al potere farà approvare «una norma come quella che proibiva la ricostituzione del disciolto partito fascista»? Perché, fuor di metafora, scriveva ieri Giuliano Ferrara sul Foglio , obbligare Berlusconi a scegliere tra il suo status di imprenditore e la politica vorrebbe dire «inaugurare un nuovo regime», sarebbe un «atto illiberale» che negherebbe «l’alternanza». Oggi Ferrara rincara la dose e pubblica un appello a Romano Prodi, firmato anche da Piero Ostellino e Sergio Ricossa, affinché il Professore «dichiari che nessuna legge a maggioranza priverà l’attuale premier della possibilità legale di fare politica e di accedere alle cariche pubbliche». Nell’appello si fa riferimento anche alla par condicio, «un modo imperfetto di correggere gli effetti di questa anomalia». Si materializza, insomma, il fantasma della «vendetta», che in molti vedono evocato soprattutto da Massimo D’Alema. Non a caso, nell’appello, si fa riferimento alle dichiarazioni del presidente ds, che al Mattino ha detto: «Non capisco perché Berlusconi, se davvero ama la politica, non possa cedere la proprietà delle aziende ai suoi figli». L’ipotesi non sconcerta Marco Rizzo, dei Comunisti italiani: «Se vuole fare politica, Berlusconi non può tenersi le reti televisive. L’anomalia è durata sin troppo e con una legge sul conflitto d’interessi si tornerebbe finalmente alla normalità». Accenti diversi da Gerardo Bianco (Margherita): «Berlusconi fuori dalla politica? No, non vorremmo proprio perderlo». Scherza, naturalmente: «Ma sono convinto che vadano evitate le leggi punitive, altrimenti finiamo anche noi per fare le leggi ad personam o, peggio, contra personam . Certo, una norma è necessaria, ma occorre trovare una soluzione che consenta a Berlusconi di continuare a fare politica». Quale sia questa soluzione, Bianco non lo dice e il nodo sta tutto in questo, visto che il centrosinistra finora ha evitato di sottolineare il problema, per non approfondire le divisioni interne. Per il riformista diessino Enrico Morando, occorre trovare «una buona legge, come quelle di altri Paesi: istituendo un sistema di incompatibilità e di blind trust , di modo che siano garantiti gli interessi dei governi e dei privati». Nessun intento punitivo ma, ricorda Morando, «non siamo riusciti a fare una legge tra il ’96 e il 2001, quando eravamo al governo, ora dovremmo pensarci. E, magari, presentarci agli elettori con una richiesta comune a tutta la coalizione». Per il deputato della Margherita Giuseppe Fioroni, comunque, la priorità è «il problema etico, di un Paese nel quale la confusione di interessi è diventata la normalità. Non si tratta di impedire a Berlusconi di far politica, ma di rimuovere un macigno e consentire a lui, come a chiunque altro, di fare politica senza sentirsi oppresso dalla palla al piede dei suoi interessi privati».

Alessandro Trocino

INES TABUSSO
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PERSEVERARE DIABOLICUM

Ultimo Aggiornamento: 28/03/2006 18:52
28/03/2006 18:52
 
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"Crediamo che sarebbe giusto da parte del leader del centrosinistra affermare che nessuna legge a maggioranza priverà della possibilità legale di fare politica e accedere alle cariche pubbliche l’attuale presidente del Consiglio, leader di Forza Italia e proprietario di Mediaset".
(Giuliano Ferrara, Piero Ostellino, Sergio Ricossa, "Appello a Prodi", 28 marzo 2006)



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PANORAMA
24 marzo 2006
SE IL CAVALIERE PERDE DEVE SCEGLIERE FRA POLITICA E TV
BRUSADELLI STEFANO intervista D'ALEMA MASSIMO

www.senato.it/notizie/RassUffStampa/060324/abodh.tif



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IL FOGLIO
27 marzo 2006
PRODI, D'ALEMA E LA LEGGE SUL CONFLITTO D'INTERESSI

www.senato.it/notizie/RassUffStampa/060327/acvz4.tif



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IL FOGLIO
28 marzo 2006
Ma b. può avere la rivincita?
La faccenda del conflitto d’interessi rischia di finire con un brutto colpo di ghigliottina

Roma. La premessa è che nel 2001 la maggioranza degli italiani ha trascurato la rilevanza politica del conflitto d’interessi legittimando Silvio Berlusconi a governare per cinque anni. Nel caso in cui cinquantuno italiani su cento decidessero il 9-10 aprile di consegnare il Cav. all’opposizione, sarebbe comunque il più potente strumento di regolarizzazione politica, e cioè il voto democratico, a dimostrare la scarsa consistenza dell’anomalia. Qualunque supplemento d’iniziativa di un’eventuale maggioranza di centrosinistra avrebbe le sembianze del provvedimento ad hominem (al limite della costituzionalità): un modo estremo per cancellare il Cav. dall’albo degli sconfitti che possono ritentare. Detto questo, Massimo D’Alema è chiamato a fare chiarezza con se stesso, con il programma elettorale dell’Unione e con la storiografia parlamentare. Venerdì scorso, su Panorama, il presidente dei Ds aveva proclamato la volontà di mettere mano alla legge sul conflitto d’interessi, lasciando in ombra il dubbio se a uno come Berlusconi verrà vietato di correre per palazzo Chigi o addirittura impedito l’accesso al Parlamento. Ieri D’Alema si è ripetuto sul Mattino, ma con due precisazioni confliggenti tra loro: “Non capisco perché Berlusconi, se davvero ama la politica, non possa cedere la proprietà delle aziende ai suoi figli. In ogni caso sarà lui a scegliere. Noi partiremo dal testo varato in Senato nel 2001, quel testo di cui Berlusconi impedì l’approvazione definitiva”. Il Cav. lamenta le “minacce” subite. Ma bisogna aggiungere altro. La sopraggiunta generosità con la quale D’Alema consentirebbe al Cav. di cedere Mediaset ai figli contrasta con il programma dell’Unione che a pagina 20 (capitolo “Risolvere il conflitto d’interessi”) promette: “Non risolveranno il conflitto le cessioni al coniuge o ai parenti e affini entro il secondo grado o a persona interposta allo scopo di eludere l’obbligo”. Prima contraddizione.

Un po’ di storia
Dopodiché bisogna tornare indietro, e ricordare che il testo del 2001 del Senato cui fa riferimento D’Alema è diverso da come lui lo raffigura ed è rimasto lettera morta perché l’allora maggioranza di centrosinistra non disponeva del tempo necessario per approvarlo anche alla Camera. Un provvedimento concepito in fretta e furia con le elezioni incombenti. L’allora segretario del Ppi, Pierluigi Castagnetti, disse: “Mi pare che realisticamente i tempi tecnici non ci siano. Se ci fossero, sicuramente andrebbero utilizzati”. Era il 1° marzo del 2001, i sondaggi avevano già condannato l’Ulivo, due mesi e dodici giorni dopo la Cdl avrebbe vinto le elezioni. Eppure il centrosinistra ci aveva provato. Aveva appena messo il timbro del Senato su una legge che stravolgeva in senso restrittivo il testo approvato alla Camera il 22 aprile del 1998 su proposta di Franco Frattini. Prodi sarebbe rimasto a palazzo Chigi fino a ottobre, la proposta di legge concepita da Forza Italia passò senza voti contrari (461 sì, un astenuto). Il Verde Marco Boato ne salutò la portata “morale, politica e istituzionale”. Riconosciuta tra l’altro l’incompatibilità fra cariche governative e cariche in società che abbiano rapporti di concessione nella Pubblica amministrazione, la legge prevedeva una procedura per separare la gestione dei beni dal titolare in conflitto d’interessi che avesse attività economiche sopra i 15 miliardi di lire. Tecnicamente: entro 45 giorni l’interessato avrebbe deciso se vendere il patrimonio o affidarlo a un trust scelto. Secondo questa legge, il Cav avrebbe potuto scegliersi il successore a Cologno Monzese oppure il gestore del proprio patrimonio. La norma gli avrebbe comunque impedito di possedere azioni quotate in Borsa e di votare su questioni che potessero coinvolgere la proprietà di famiglia. Nel caso di violazioni avrebbe subìto una pena pecuniaria pari al 10 per cento dell’ultimo introito pubblicitario mensile. La sinistra fu d’accordo e l’accordo fu rubricato sotto l’insegna del buon senso. Peccato che, fra un cambio e l’altro alla presidenza del Consiglio (dopo Prodi, D’Alema; quindi Giuliano Amato dopo la batosta rimediata dall’Ulivo alle regionali di aprile 2000), la legge sul conflitto d’interessi torni terribilmente d’attualità nel febbraio del 2001, a tre mesi dalle politiche. L’Ulivo trova improvvisamente necessario riscriverla, perché come dice D’Alema: “Berlusconi è ineleggibile”.
Il 7 febbraio del 2001 il presidente Ciampi ha appena sollecitato le Camere ad approvare la legge sul conflitto d’interessi prima del voto. La commissione Affari costituzionali del Senato sta riscrivendo il testo, e in una settimana conclude il compito. La nuova norma riguarda i patrimoni superiori a 15 miliardi di lire. Stabilisce che i componenti del governo non possono essere titolari di concessioni per l’emittenza televisiva (indipendentemente dal valore dell’emittente). Gli esponenti del governo “devono dedicarsi esclusivamente alla cura degli interessi pubblici”. La procedura scatta a 20 giorni dalla nomina a Palazzo Chigi, l’interessato (cioè il Cav.) può scegliere se alienare la proprietà o trasferirla a un gestore fiduciario. La novità è che non può più sceglierselo: deciderà tutto un collegio composto dal presidente dell’Antitrust, da quello della Consob e da quello dell’Autorithy per la regolamentazione del settore. In caso di violazione, una sanzione amministrativa pari al 50 per cento del fatturato dell’impresa in conflitto. Su queste basi la semplice esistenza del Cav. diventa un’anomalia. Prima che la legge giunga in Aula, il senatore Giulio Andreotti si dice “molto sorpreso” che non sia stato preferito il testo “equilibrato” già approvato dalla Camera: “Non aveva un sapore elettorale, né a favore né contro”. Il ministro dei Lavori pubblici Nerio Nesi aggiunge che “sarebbe stato più serio” affrontare la questione nel 1994: “Non dico di più”. Il 19 febbraio il provvedimento è nell’emiciclo di Palazzo Madama, contrastato da 1200 inutili emendamenti della Cdl. Relatrice è Ida Dentamaro dell’Udeur, il Cav. chiede di potere, al limite, indicare un amministratore patrimoniale scelto fra una rosa di nomi proposti dall’esterno. La risposta è no, non sono previsti né veti né gradimenti da parte sua. Anzi al diessino Stefano Passigli per poco non riesce il colpaccio: far votare un emendamento che inserisce la completa “ineleggibilità” (o in subordine l’“incompatibilità” con obbligo di vendita immediata e totale) per il politico esposto al conflitto d’interessi. Perfino Oscar Luigi Scalfaro, a quel punto, dice che “il discorso dell’incompatibilità bisognava trattarlo sin dall’inizio. Sollevarlo in limine mi pare sia una cosa forzata”. Il via libera dei senatori arriva il 27 febbraio, fra gli applausi di prammatica della sinistra, mentre Gavino Angius (Ds) abiura il voto unanime del ’98. Nei giorni seguenti matura la convinzione che, a poche settimane dal voto, il declinante Ulivo non può forzare i tempi per approvare alla Camera un testo che per il regolamento parlamentare è “di eccezionale rilevanza politica”. E ritorniamo così al Castagnetti mesto che ammette lo stallo. Di lì a poco (13 maggio), la Cdl vince e torna a governare. L’allora presidente di Rcs, Cesare Romiti, dirà al Foglio: “La costituzione non consente né di imporre a Berlusconi la cancellazione del conflitto, affidando la sua azienda al mercato e ponendo il ricavato in un blind trust, né di escluderlo dalla corsa per le cariche pubbliche”. Nell’arco parlamentare che va dal febbraio del 2002 al 13 luglio del 2004, la maggioranza berlusconiana vara una sua legge: il premier si tiene l’azienda ma non può gestirla, deve poi mollare la presidenza onoraria del Milan (e si sa quanto gli dolga). Nel frattempo (23 gennaio 2002) l’opposizione ha recuperato gran parte della propria defunta legge in una proposta parlamentare di 14 punti: l’alternativa è la solita: vendere o mollare a un soggetto scelto dalle Authority. Da notare che nel settembre del 2003 D’Alema aveva confessato la causa di quella promessa mancata dall’Ulivo: “Anche se avessimo fatto una legge sul conflitto d’interessi non avremmo risolto il problema. Berlusconi avrebbe fatto dono delle sue tv ai figli”. Proprio ciò che oggi gli consiglia di fare.


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Roma. Già bestia nera dei girotondini,
Massimo D’Alema crea sospetti anche
quando propone qualcosa che ai girotondini,
seppure in fase di gran riflusso (“i
movimenti hanno perso molta presa, i
partiti sono stati abili a capitalizzare tutto
ciò che abbiamo fatto, siamo stati esclusi
dalle liste elettorali”, ammette con
franchezza Francesco “Pancho” Pardi),
dovrebbe far molto piacere. Così è per la
proposta, sulla quale il presidente dei Ds
batte e ribatte da giorni e giorni, sul conflitto
di interessi che vuole costringere il
Cav. a scegliere tra il governo e l’impresa.
“Infatti io mi chiedo: qual è il motivo? Ma
se si tratta di un cambiamento di linea va
benissimo”, concede Pardi. Più secco
Marco Travaglio, che sull’argomento ha
pronto un saggio per il prossimo numero
di Micromega: “Quella di D’Alema è una
finzione. Si tratta di una proposta fatta
per lasciare esattamente le cose come
stanno”. Sostiene invece Pardi:
“Finalmente si è deciso a
fare quello che noi diciamo
da anni. Ma tireranno la faccenda
avanti così a lungo da
far morire il progetto. Vinte
le elezioni diranno: abbiamo
vinto, non ce n’è
bisogno”. E del resto,
sostengono i due –
tra i personaggi più
rappresentativi di
quello che fu il fenomeno
dei girotondi – la
stessa proposta formulata
da D’Alema è carente
e serve a poco.
Spiega Travaglio: “Il
conflitto di interessi
ci sarà sempre finché
Berlusconi
starà in Parlamento.
Anche da capo dell’opposizione:
se può conservare le televisioni,
che razza di opposizione farà? L’alternativa
secca è tra ineleggibilità o cessione
di tutte le quote. E non c’è bisogno
di una nuova legge, basta applicare quella
del ’57 – fatta da Mario Scelba, mica da
un pericoloso estremista comunista – che
stabilisce l’ineleggibilità per chi ha concessioni
pubbliche”. C’è chi fa notare che,
nonostante le televisioni, il Cav. è stato anche
battuto alle elezioni, il centrosinistra
ha vinto e poi ha perso, l’alternanza c’è
stata e (forse) ci sarà. “Sì, ma che fatica
dobbiamo fare per vincere! E poi è una
questione di pulizia istituzionale. Questo
contenzioso non ci doveva essere fin dal
primo giorno. E non è vero che l’alternanza
non ci sarebbe stata senza Berlusconi.
Casomai, è merito di Mario Segni. Berlusconi,
come al solito, ha usato il lavoro altrui”,
ribatte Pardi.
“Il blind trust non serve a niente”
Per Travaglio, “il blind trust nel caso di
Berlusconi non serve a niente. Lo ha detto
mille volte anche Fedele Confalonieri.
Va bene nell’edilizia o nella meccanica,
ma non in un’azienda mediatica. L’unico
modo di risoluzione del conflitto di interessi
è vendere per restare in Parlamento”.
Identica la posizione del professor
Pardi: “Il blind trust come soluzione è assolutamente
inefficace. Come si fa a far
dimenticare ai giornalisti che lavorano
per quel particolare telegiornale e che il
padrone è quello lì? Non è sufficiente.
Serve una soluzione più incisiva: Berlusconi
o fa il politico o fa il monopolista
della televisione”. Ma una decisione del
genere, presa da una maggioranza, che in
pratica impedisce al concorrente di tentare
la rivincita alle prossime elezioni,
non è illiberale? No, assolutamente no,
per Pardi. “Fin dall’inizio questa cosa non
andava. Che se ne accorgano solo dopo
dieci anni… Ecco, dal punto di vista logico
è proprio questo il difetto maggiore
della posizione del centrosinistra”.
E comunque un gesto apprezzabile, secondo
il professore fiorentino, sarebbe
“fare la legge sul conflitto di interessi entro
i primi cento giorni di governo: torniamo
così a essere normali”. Ma in ogni modo
Travaglio dice di vedere “una grande
linea di continuità tra D’Alema che va in
visita a Mediaset nel ’96, con Confalonieri,
e l’intervista di D’Alema a Panorama.
Anche se stavolta non può dire, come allora,
che Mediaset è un grande patrimonio
per il paese. E’ un patrimonio per gli
azionisti, casomai, per il paese il patrimonio
sono le concessioni”. Insomma, scommette
il giornalista, “non cambierà nulla:
fai due più due e vedi il solito D’Alema”.
Perciò, a pensar male, come al solito, s’indovina?
Pardi stringe le spalle: “Non pensiamo
affatto male, solo aspettiamo di vedere…”.



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Appello a Prodi
Il conflitto di interessi esiste ed è
difficile individuare norme giuste
per regolarlo. Silvio Berlusconi è titolare
del più visibile conflitto di interessi,
anche se non è l’unico soggetto
politico e sociale coinvolto in
questo genere di conflitto. La legge
approvata da un solo ramo del Parlamento
quando l’attuale opposizione
era maggioranza e quella approvata
dal Parlamento negli anni in
cui a essere in maggioranza era il
centrodestra non prescrivono la
vendita obbligata delle aziende della
famiglia Berlusconi, pena la
esclusione del leader di Forza Italia
dalla competizione per accedere
alle cariche pubbliche. Questa soluzione
è invece caldeggiata da anni
da gruppi convinti che non ci sia altra
scelta possibile. Oggi è diventata,
con alcune cautele, anche la materia
di pronunciamenti pubblici
della leadership del centrosinistra.
L’anomalia di un politico che è
anche editore televisivo esiste, è il
prodotto di cause storiche profonde
ma non configura alcuna illegalità
secondo la Costituzione e il diritto
ordinario, e con la fondazione di un
partito politico si è incardinata nella
situazione italiana senza mutare
la natura liberal-democratica del
nostro regime politico, che ha conosciuto
una formale alternanza di governo
e potrebbe tornare a conoscerla
il 9 aprile. La legge della par
condicio è stata un altro modo, ovviamente
imperfetto, di correggere
parzialmente gli effetti di questa
anomalia. A un’anomalia storica
non si può rispondere con un’anomalia
giuridica che dal punto di vista
di una società liberale avrebbe
un sapore estremamente ambiguo.
In sostanza: crediamo che sarebbe
giusto da parte del leader del centrosinistra
affermare che nessuna
legge a maggioranza priverà della
possibilità legale di fare politica e
accedere alle cariche pubbliche
l’attuale presidente del Consiglio,
leader di Forza Italia e proprietario
di Mediaset.
Giuliano Ferrara, Piero Ostellino, Sergio
Ricossa



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AMARCORD:


IL CAVALIERE INELEGGIBILE E IL D'ALEMA SMEMORATO
di Paolo Sylos Labini - novembre 2000

Alla festa dell'Unita' di Bologna D'Alema ha dichiarato (<>, 15 settembre 2000): <>. Successivamente, in un'intervista televisiva ha dichiarato (<>, 28 ottobre): <>. <>, domanda il giornalista, <>. Risposta: <>.

Nel 1996 alcuni intellettuali - io ero fra questi, gli altri erano Borrello, Bozzi, Cimiotta, Flores d'Arcais, Galante Garrone, Laterza, Pizzorusso, Visalberghi - organizzarono un gruppo di pressione per far rispettare la legge 361 del 1957,che stabiliva l'ineleggibilita' in Parlamento dei titolari di concessioni pubbliche di rilevante interesse economico e ci attivammo per far presentare ricorsi a chi ne aveva diritto; chiedemmo anche consigli a Ettore Gallo, che era stato presidente della Corte costituzionale. Data l'importanza della questione ci documentammo con scrupolo: per questo siamo cosi' bene a conoscenza delle vicende cui allude sommariamente D'Alema, il quale tuttavia parla solo della Giunta per le elezioni del 1994.

Quella Giunta, e' vero, era a maggioranza di centrodestra, ma i ds votarono insieme col Polo: l'unico voto contrario lo dette Luigi Saraceni, che agi' da cane sciolto e non fu riconfermato nella Giunta della successiva legislatura, quella del 1996; qui la maggioranza nella Giunta per le elezioni era di centrosinistra, ma - e' triste dirlo - i ricorsi furono respinti all'unanimita', nonostante gli appelli del nostro gruppo. Entrambe le volte i ricorsi furono rigettati con una <>, dice D'Alema, con un osceno cavillo, diciamo noi: ineleggibile non era Berlusconi ma ......Confalonieri.

Pertanto, le recenti dichiarazioni di D'Alema debbono essere interpretate come un riconoscimento che le precedenti prese di posizione - specialmente la seconda - furono due errori politici, da correggere dunque subito, malgrado le rilevanti difficolta'. La linea del gruppo dirigente dei ds allora era di un appeasement con Berlusconi; per i Popolari c'era anche il motivo di aiutare Cecchi Gori, che, nel suo piccolo, si trovava nelle identiche condizioni di Berlusconi - aveva gia' una rete televisiva, poi ne ottenne un'altra - e intendeva essere eletto in Parlamento. Quelli, come noi, che sostenevano che in un paese civile le leggi debbono essere rispettate da chiunque, amico o awersario, furono trattati come fastidiosi <>, che non comprendono nulla di politica.

Le responsabilita' dei ds nella progressiva affermazione di Berlusconi, che nel 1995 era in condizioni politiche e finanziarie quanto mai precarie, sono gravi. Ancora nell'ottobre del 1999 il circolo Giustizia e Liberta' di Roma in collaborazione con la rivista <> organizzo', al cenacolo della Camera un convegno sul tema <> invitando persone che potessero rappresentare il vertice dei ds: avemmo assicurazioni, ma non venne nessuno.

Al convegno, i cui atti furono pubblicati nel fascicolo di novembre della rivista, presentarono relazioni, oltre chi scrive, Vittorio Cimiotta, Alessandro Pizzorusso, Giovanni Sartori, Elio Veltri, Carlo Vallauri e svolsero interventi Roberto Borrello, Giuseppe Bozzi, Aldo Corasaniti e Primo Di Nicola. E bene parlare con grande chiarezza e senza peli sulla lingua: i ds hanno legittimato Berlusconi sul piano politico, contribuendo al suo successo - i milioni di voti, che comunque in una democrazia non possono legittimare chi ha violato le leggi, in qualche misura provengono, oltre che dal terribile potere persuasivo della televisione, anche da quella legittimazione, che ha rafforzato l'idea, gravemente fuorviante, che Berlusconi e' uomo di destra ed e' percio' che si contrappone alla sinistra. Ma qui destra e sinistra c'entrano ben poco: io sono in rapporti di stima e di amicizia con diversi uomini di destra che sono anche pi- di me critici del Cavaliere e lo considerano, come me, un pericolo per la democrazia. La legittimazione di Berlusconi operata dai ds e dai suoi alleati ha avuto effetti anche sul suo rafforzamento finanziario, proprio nel tempo in cui le societa' del Cavaliere erano oberate da debiti.

Secondo il giornale <> dell'8 luglio 2000, nel 1994 Berlusconi aveva un passivo di circa 4 mila miliardi e qualche banca, come il Credito italiano, cominciava a chiedere i rientri; in seguito, <
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