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URANIO IMPOVERITO ANCHE IN SARDEGNA

Ultimo Aggiornamento: 29/07/2007 21:49
22/06/2007 22:04
 
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Uranio impoverito, cinquanta morti
Tra poligoni e missioni
altri soldati mandati allo sbaraglio






Antonio Caruso, funzionario del Sismi, in servizio in Somalia e Bosnia nella seconda metà degli anni Novanta: deceduto nel 1999 per un tumore al cervello. Roberto, caporalmaggiore di Taranto: in missione in Kosovo, morto qualche mese fa per tumore. Così come Paolo, sottufficiale messinese che aveva prestato servizio nei Balcani: scomparso un anno fa. Sono gli ultimi tre casi di militari morti a causa della probabile contaminazione da uranio impoverito: sconosciuti fino a ieri, perché in questi casi il riserbo sembra d'obbligo. Soprattutto da parte dei vertici militari italiani.

Invece i numeri e i nomi vengono fuori: con gli ultimi tre, i casi di decesso fra i soldati sono cinquanta, a cui si devono aggiungere almeno tre civili. Senza contare il numero di militari malati e l'aumento delle malformazioni alla nascita (due quelle gravissime e accertate) causate, si sospetta, dall'uranio impoverito. Definito «presunto killer» nel “Libro nero” presentato dall'Ana-Vafaf, l'Associazione nazionale per l'assistenza delle vittime appartenenti alle Forze armate.

«Il denominatore comune di tutte queste morti risiede nel fatto che nessuno di loro, come i colleghi e contrariamente a quanto fatto dai reparti americani con oltre sei anni di anticipo, aveva adottato misure di protezione»: la denuncia è del presidente dell'associazione, Falco Accame. Che non è l'ultimo arrivato: ex ufficiale superiore di Marina, dimessosi nel 1975 per protesta contro la gestione autoritaria del potere nelle Forze armate, da allora in prima linea nel denunciare i rischi per la salute legati all'esposizione di proiettili all'uranio impoverito: «Ma le protezioni sono rimaste spesso solo sulla carta, anche dopo l'emanazione delle prime norme italiane risalenti al 1999: lo hanno denunciato moltissimi reduci». E ai militari in partenza per la Somalia si diceva di stare attenti alle zanzare o ai morsi dei ragni.

Questo nuovo libro è un vero e proprio dossier: «Ci aspettiamo che sia acquisito agli atti della Commissione parlamentare di inchiesta, perché la base dei dati ai quale sta facendo riferimento è assolutamente vaga: basti pensare al fatto che le vittime per il ministero della Difesa restano ancora 28». Vige il silenzio sulla maggior parte dei casi, anche sul riconoscimento di quelli accertati: «La vedova dell'ufficiale Caruso ha lamentato il fatto di essere ancora in attesa, dopo otto anni, di una risposta da parte della Difesa sul riconoscimento della causa di servizio al marito».

E la Sardegna, da sempre fucina di soldati per l'esercito italiano e storicamente asservita alla presenza delle truppe Nato impegnate nelle esercitazioni nei poligoni sparsi sul territorio? È presente in questa lista di vittime in maniera determinante e spaventosa. «L'unica verità contenuta in quel grande imbroglio che è il primo rapporto Mandelli», dice Mariella Cao, portavoce del comitato “Gettiamo le Basi”, «è che la percentuale più alta fra i soldati colpiti da tumori e leucemie riguarda i militari sardi». Per la cronaca: la commissione guidata da Franco Mandelli fu istituita nel 2000 dall'allora ministro della Difesa Mattarella. Non super-partes, quindi, e neanche fu coinvolto il dicastero della Sanità: nel primo rapporto definì praticamente innocua l'esposizione dei soldati all'uranio impoverito e solo nel terzo auspicò «ulteriori indagini».

Torniamo alla Sardegna. Mariella Cao e “Gettiamo le Basi” sono impegnati da anni sul campo, per quanto possibile, con il coinvolgimento diretto degli abitanti dei paesi che gravitano attorno ai poligoni sardi. L'idea di fondo è semplice: se si può parlare di Sindrome del Golfo o dei Balcani si deve parlare anche di Sindrome di Quirra. Non è un caso che a questa situazione particolare si faccia oggi riferimento anche a livello nazionale.

«Vuole sapere quanti sono i casi - fra morti e malati - di cui siamo a conoscenza solo per il poligono di Quirra? Diciannove: soldati di leva che hanno prestato servizio solo lì dentro, a contatto con i proiettili utilizzati esclusivamente per le esercitazioni interforze». L'ultima morte per tumore, sulla costa est dell'isola, «è quella di Massimo, nel luglio 2003: nello stesso periodo si sono ammalati altri due ragazzi».

Li chiama per nome, Mariella Cao: a testimonianza del fatto che i soldati morti e quelli ammalati non sono solo numeri. Perché poi ci sono i casi di Capo Frasca: «Maurizio Serra e Gianni Faedda, soldati di leva in servizio praticamente contemporaneamente, e il maresciallo Lorenzo Falzarone»: tre nomi che si aggiungono alla lista dei decessi sospetti nella basi in Sardegna. Gli altri, da Fabio Porru a Marco Diana e fino a Salvatore Vacca e Valery Melis, erano stati anche in missione. Dalla Somalia all'ex Jugoslavia - territori in cui la Nato ammise di aver usato munizioni all'uranio impoverito - e sempre senza protezioni: ci sarà pure una responsabilità da parte dell'Esercito italiano, se gli americani nello stesso periodo le protezioni le usavano.

Quello di Valery Melis, secondo Cao, «è il caso emblematico». Al militare di Quartu Sant'Elena, morto il 4 febbraio del 2004, fu diagnosticato un linfoma di Hodgkin nel 1999: era appena rientrato dalla sua quarta missione, l'ultima al confine fra il Kosovo e la Macedonia. Nei cinque anni seguenti Valery portò avanti la “sua” battaglia: contro la malattia ma anche e soprattutto contro l'indifferenza dello stato maggiore della Difesa.

Il giorno dopo i funerali, l'allora ministro Antonio Martino disse: «La tragedia di Valery è ben presente all'interno dell'amministrazione della Difesa: non possiamo ridare la vita al soldato Melis, ma sarà trovata una soluzione soddisfacente». E invece: «La famiglia di Valery», dice Cao, «ha ottenuto un riconoscimento da 250 euro al mese: è questo il valore della vita di un soldato?».

Soldati in missione e militari dentro i poligoni. E fuori, nelle zone limitrofe? La risposta è ancora peggiore, se possibile. Il riferimento, per “Gettiamo le Basi”, è l'indagine epidemiologica commissionata dalla Regione e pubblicata nel gennaio 2005. Viziata, secondo Cao: «Innanzitutto prende in esame 10 comuni, per un totale di oltre 21mila abitanti: molti di questi centri, però, non sono per nulla interessati dall'attività del poligono di Quirra». Nel periodo fra il 1997 e il 2001 l'aumento di casi farebbe segnare una crescita della mortalità causata da forma tumorali attorno al 15 per cento, con punte verso l'alto o verso il basso a seconda della malattia specifica.

«La Regione individuava, in quell'area estesa, 10 casi di decesso per la patologia non Hodgkin e 36 per tumori al sistema emolinfatico. Fra il 1998 e il 2001, però, la Asl certificò che di quelle dieci morti sette si erano verificate a Villaputzu, una a Muravera e un'altra a San Vito. Fra i tumori emolinfatici, la quota è di 14 per Villaputzu e 12 per Muravera e San Vito». In una porzione di territorio molto ristretta rispetto a quella analizzata dalla ricerca regionale: «Segno che la correlazione è altissima», dice Cao, «e che se esaminate nel dettaglio sono cifre spaventose». Senza considerare l'aumento del 330 per cento dei casi di diabete: percentuale riferita al dato sardo, già ai primi posti a livello mondiale, e certificato da uno studio canadese che lo metterebbe in relazione con la presenza di uranio.

Dati che riguardano la zona attorno a Quirra. Con un avvertimento: «Decimo e Capo Frasca non sono mai entrate nel campo di indagine, mentre per Teulada e La Maddalena si registrano forti percentuali di tumori ai polmoni». Ma anche di questo si parla poco. «I militari hanno comunque una struttura interna che tende a fare quadrato», dice ancora Cao, «ma i civili? Sa cosa mi disse un pastore poi morto per un cancro al quale chiedevo di denunciare la sua situazione? Mi disse queste parole: “E poi a noi chi ci difende? Per loro meno siamo meglio è”».
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