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La problematica di recesso nella S.p.A.

Ultimo Aggiornamento: 10/04/2006 11:12
10/04/2006 11:12
 
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La problematica di recesso nella S.p.A.


Sommario: 1. Considerazioni introduttive; 2. Il recesso inderogabile; 3. Il recesso derogabile statutariamente; 4. Il recesso statutario; 5. Il ricorso alla disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 2437; 6. Il ricorso al trust; 7. Limiti, modalità e termini del recesso; 8. Considerazioni conclusive.

1. Considerazioni introduttive

La recente riforma del nostro diritto societario, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, ha introdotto, tra le altre novità, l’opportunità del recesso per statuto, che risulta essere del tutto indipendente dalle altre clausole previste dallo stesso codice civile. Come ben saputo, la normativa precedente consentiva il recesso solo in pochi casi, specificatamente individuati[1]; su posizione completamente opposta si pone invece la nuova norma, la quale tende a privilegiare la mobilità dell’investimento societario tramite l’ampliamento dell’autonomia statutaria. Invero, la riforma del diritto societario ha introdotto in materia di recesso del socio di S.p.A. una novità di assoluto rilievo: viene rimessa all’autonomia statutaria la possibilità di inserire liberamente in statuto ulteriori cause di recesso, oltre a quelle previste dalla legge. Si tratta di un riconoscimento dell’importanza che l’autonomia statutaria viene ad assumere nell’innovativo sistema architettato dalla riforma; è, dunque, possibile introdurre in statuto ulteriori e svariate cause di recesso (quali, ad esempio, la costituzione da parte dell’organo amministrativo di patrimoni destinati, l’arresto di alcuni componenti dell’organo amministrativo, la mancata conclusione di un determinato contratto o il suo rinnovo).

Altro innovativo cambiamento riguarda anche l’ammontare della partecipazione del socio: invero, mentre sotto la precedente disciplina il socio poteva recedere solo per tutte le su azioni, è adesso possibile che il socio possa recedere anche solo per una parte della sua partecipazione: la ratio di una tale disposizione va ravvisata nell’ammissibilità a priori della legittimità che un socio possa ad un certo punto decidere di voler rischiare meno, pur continuando a volere mantenere la qualità di socio di una società[2].

Si è posto in luce da più parti che la previsione di queste ulteriori cause di recesso nello statuto ed il loro effettivo esercizio da parte del socio (di minoranza o di maggioranza) possono comportare spiacevoli conseguenze soprattutto dal punto di vista della tutela della stabilità della società e dei creditori sociali. Per neutralizzare, o meglio limitare, tali spiacevoli inconvenienti è possibile fare ricorso a quanto disposto nell’art. 2347, ultimo comma, c. c. Così facendo, le singole ipotesi di recesso liberamente introdotte dall’autonomia statutaria dovranno essere accompagnate da un patto che venga ad escludere o a rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso da parte del socio. Altra strada percorribile per ovviare a detti inconvenienti, come avremo modo di vedere in seguito, sarebbe il trust, istituto di origine anglosassone in grado di trasferire al di fuori della società il problema della liquidazione delle partecipazioni sociali possedute dal socio recedente.

Inoltre, il legislatore, con tali nuove disposizioni, ha voluto anche evitare che possano prodursi situazioni di impasse decisionali[3], risolvibili con l’uscita del socio dissenziente in luogo dell’esercizio da parte di quest’ultimo della possibilità di impugnare le decisioni della maggioranza, ovvero di controllare l’attività degli amministratori e di denunciarne, eventualmente, l’operato al Tribunale.

Si badi, però, che il legislatore non ha voluto lasciare completamente libertà decisionale ai soci, in quanto, alla luce dell’attuale normativa, possiamo distinguere tre diverse categorie di cause di recesso:

o cause di recesso inderogabili, espressamente previste dal codice;

o cause di recesso previste dallo stesso codice e derogabili dallo statuto (cosiddette “cause di recesso derogabili statutariamente”);

o cause di recesso previste dallo statuto, in aggiunta alle fattispecie codicistiche (cosiddette “cause di recesso statutarie”).

Qui di seguito vogliamo analizzare le su elencate categorie separatamente, per ragioni di chiarezza espositiva.

2. Il recesso inderogabile

Le cause di recesso inderogabile sono per lo più elencate dal 1° comma dell’art. 2437 c. c., che attribuisce il diritto di recedere a particolari categorie di soci[4], ovverosia:

• i soci assenti o dissenzienti;

• i soci che si siano astenuti dalla votazione.

Il legislatore del 2003 ha notevolmente ampliato le fattispecie di cause di recesso rispetto alla previdente normativa; volendo fornire al lettore un’elencazione di esse, possiamo schematicamente riportarle così:

- trasformazione della società;

- il trasferimento della sede sociale all’estero;

- la revoca dello stato di liquidazione;

- l’eliminazione di una o più cause di recesso previste dal 2° comma dell’art. 2437 c. c. o dallo statuto;

- la modifica dei criteri di valutazione del valore dell’azione in caso di recesso;

- le modificazioni dello statuto riguardo i diritti di voto o di partecipazione.

Qualora si tratti di società quotate sui mercati regolamentati, ai sensi dell’art. 2437 – quinquies, possono recedere i soci che non hanno concorso alla deliberazione che comporta l’esclusione dalla quotazione.

Particolare menzione merita poi il 4° comma del su menzionato art. 2437 c. c., il quale fa salve “le disposizioni dettate in tema di recesso per le società soggette ad attività di direzione e coordinamento”. Il riferimento è all’art. 2497 – quater c. c., il quale, all’ultimo comma, richiama “a seconda dei casi ed in quanto compatibili, le disposizioni previste per il diritto di recesso del socio nella società per azioni o in quella a responsabilità limitata”, ma si preoccupa di dettare, al primo comma, tre ulteriori ipotesi di diritto di recesso inderogabile:

1. la trasformazione dell’ente che esercita la direzione o il mutamento del suo oggetto sociale[5];

2. la pronuncia a favore del socio con decisione esecutiva della condanna di chi esercita attività di direzione e coordinamento;

3. l’inizio o la cessazione dell’attività di direzione e coordinamento, quando non si tratta di una società quotata in mercati regolamentati “se ne deriva un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento e non venga promossa un’offerta pubblica di acquisto”.

In merito alle società a tempo indeterminato, onde evitare che la mancanza di un termine possa diventare un vincolo perpetuo, qualora le azioni non siano quotate in un mercato regolamentato, il socio ha diritto di recedere con un preavviso di 180 giorni, ovvero con il maggior termine previsto nello statuto, il quale, comunque, non può essere superiore ad un anno.

Da questa breve panoramica emerge con chiarezza il notevole ampliamento delle cause di recesso inderogabili, che, nella precedente disciplina, erano limitati al cambiamento dell’oggetto sociale, al mutamento del tipo di società, ovvero al trasferimento della sede sociale all’estero[6]. Inoltre, l’attuale disciplina vuole anche diversificare i casi, a seconda che si tratti di società con azioni quotate in mercati regolamentati o meno. Terzo e non meno importante elemento di attenzione è l’identificazione della categoria di soci con diritto di recesso: ed infatti, mentre l’attuale formulazione parla di “soci che non hanno concorso alle deliberazioni”, il previdente testo parlava solo di “soci dissenzienti”, il che, ovviamente, aveva generato in dottrina ed in giurisprudenza un dibattito non indifferente sull’argomento.

3. Il recesso derogabile statutariamente

Le cause di recesso derogabili statutariamente sono previste dal 2° comma dell’art. 2437 c. c., secondo cui “salvo che lo statuto disponga diversamente, hanno diritto di recedere i soci che no hanno concorso all’approvazione delle delibere riguardanti:

- la proroga del termine;

- l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari”.

Particolarmente interessante è la su menzionata seconda ipotesi, la quale offre maggiore tutela al socio che non acconsente all’introduzione –o alla rimozione – di clausole di prelazione o di godimento circa il trasferimento delle partecipazioni. Il discorso, in questo caso, va necessariamente combinato con il 2° comma dell’art. 2355 – bis c. c.[7], in base al quale sono inefficaci le clausole che subordinano il trasferimento delle azioni al mero gradimento degli organi sociali o di altri soci, se non si prevede anche l’obbligo di riacquisto oppure il diritto di recesso dell’alienante.

4. Il recesso statutario

Il 4° comma dell’art. 2437 c. c. offre la possibilità di inserire nello statuto clausole di recesso ulteriori rispetto a quelle previste dal codice civile, ma solo limitatamente alle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Qui il legislatore del 2003 introduce una differenza a livello normativo tra i due tipi di società, spiegabile solo se si tiene presente l’esigenza di evitare di alimentare negli investitori sintomi di incertezza, che potrebbero in effetti ingenerarsi qualora lo statuto autorizzasse facili uscite dalla compagine sociale[8]. Le cause statutarie di recesso non dovranno essere necessariamente correlate ad una deliberazione: si potrà infatti avere il caso in cui il verificarsi di un dato accadimento sia ritenuto da un socio incompatibile con la prosecuzione del rapporto societario[9].

Circa poi i soci legittimati al recesso, il comma 1 del più volte richiamato art. 2437 c. c. richiama in maniera indeterminata il diritto di recesso per la generalità dei soci “che non hanno concorso alle deliberazioni” su determinati argomenti: la norma, nella sua interpretazione letterale, sembra pertanto escludere che l’autonomia statutaria possa spingersi fino ad ipotesi di recesso ad personam.

Va inoltre notato che, mentre la correlazione fra recesso e delibera è espressamente prevista per i casi di recesso ex commi 1 e 2 art. 2437 c. c., essa non si rende necessaria nel caos di recesso statutario: questo lo si evince da un’attenta lettura dell’art. 2437 – bis, 1° comma c. c., secondo cui “se il fatto che legittima il recesso è diverso da una deliberazione, esso è esercitato entro trenta giorni dalla sua conoscenza da parte del socio”. La norma si presta ad alcuni interrogativi circa il venir meno dell’evento ritenuto causa di recesso dallo statuto: basterà tale circostanza a bloccare l’esercizio del diritto di recesso, analogamente a quanto avviene a seguito di recesso causato da delibera societaria ai sensi del 3° comma dell’art. 2437 – bis c. c.[10]? La dottrina si è interrogata su tale spinoso aspetto: da un punto di vista logico, per analogia a quanto previsto in tema di recesso ex delibera sociale, il verificarsi di una causa di recesso statutario dovrebbe perdere la propria efficacia, a meno che l’evento in causa sia di per sé irreversibile (ad esempio, il mancato raggiungimento di un dato obiettivo sociale entro un certo periodo temporale, oltre il quale è impossibile ottenere tale risultato) oppure “lo statuto non preveda esplicitamente «l’insanabilità» della causa di recesso”[11].

Ma cerchiamo adesso di esaminare alcune ipotesi di recesso. Al riguardo, va subito precisato che la libertà delle parti regna sovrana: lo statuto potrà prevedere senza limitazioni di legge varie ipotesi di recesso del socio. In tal modo, sarà possibile prevedere il diritto di recesso nel caso in cui si verifichi l’ingresso della società in mercati esteri, la revoca di alcune licenze od autorizzazioni, la mancata quotazione entro un determinato lasso temporale, la costituzione di patrimoni destinati ad uno specifico affare, il mancato compimento di determinate operazioni, ecc.[12].

Se la possibilità offerta dall’autonomia statutaria rappresenta una conquista di assoluto rilievo, molteplici sono le preoccupazioni che sorgono dal punto di vista della stabilità della società e della tutela dei creditori sociali. Dette preoccupazioni trovano il loro fondamento sulla duplice circostanza che il recesso può essere esercitato non solo dal socio (o dai soci) di minoranza, ma anche da quelli di maggioranza, e che l’esercizio del diritto può riguardare tutta o solo una parte delle partecipazioni sociali possedute dal socio[13]. A ciò si aggiunga anche il peculiare procedimento di liquidazione della partecipazione del socio; detto procedimento, cristallizzato nell’art. 2437 – quater c. c. , può condurre, ove la partecipazione del socio uscente non venga acquistata dagli altri soci o alienata a terzi o ancora liquidata attraverso riserve disponibili della società, alla riduzione del capitale sociale e, in alcuni casi, allo scioglimento della stessa società. Lo scenario può essere ancora più devastante nel caso in cui la società non si trovi in una florida posizione economico – finanziaria.

Quanto riferito fa avanzare dei dubbi in ordine alla bontà di dar corso all’autonomia statutaria per introdurre in statuto ulteriori ipotesi di recesso. Detta introduzione rimane rischiosa e, comunque, da attuare solo ove sia proprio necessario. A questo punto non resta che porsi una domanda: come è possibile neutralizzare – o almeno limitare – gli effetti negativi sulla stabilità della società e sulla tutela dei creditori sociali? Sono sostanzialmente percorribili due strade alternative, che esamineremo nei paragrafi seguenti.

5. Il ricorso alla disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 2437

In primo luogo, sarebbe possibile addivenire alla stipulazione di un patto che sia diretto ad escludere o rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso da parte del socio uscente. La previsione delle ipotesi di recesso liberamente introdotte in statuto dovrà essere accompagnata da un patto che stabilisca dei meccanismi utili e necessari al fine di neutralizzare – o almeno limitare – gli spiacevoli effetti connessi all’esercizio del diritto di recesso. Il patto, preferibilmente stipulato dalla società con tutti o singoli soci (o, eventualmente, con categorie di soci), verrà a porsi come deterrente per evitare facili recessi dalla società e come contro – bilanciamento allo smisurato ampliamento dell’autonomia statutaria realizzato attraverso la previsione di cui all’art. 2437, comma 4, c. c. Abbiamo detto che il patto dovrà essere stipulato o con tutti i soci indistintamente o con i singoli. Una tale scelta di negoziazione dipenderà dalle circostanze concrete e dagli interessi di cui sono portatori i soci della società. Il patto, in quanto avente come parte la società, potrebbe verosimilmente essere allegato allo statuto della società.

I meccanismi per ottenere l’esclusione del diritto di recesso del socio o rendere più gravoso l’esercizio di tale diritto sono i più svariati. Per quanto riguarda l’esclusione occorre distinguere se il socio con cui la società sottoscrive il patto è di maggioranza o di minoranza. In tal caso, ad esempio, se l’ipotesi di recesso consiste nell’ingresso della società nel mercato giapponese, l’esercizio del diritto di recesso potrà essere escluso in capo al socio (di minoranza) che abbia un particolare know how utile e necessario per permettere un ingresso ed una permanenza proficua della società in quel dato mercato.

Andando avanti, potrebbe rendersi più gravoso l’esercizio del recesso prevedendo nel patto alcuni meccanismi che facciano riflettere il socio circa la bontà della propria scelta. Si potrà ad esempio prevedere:

a. l’esercizio del recesso diluito nel tempo (ad esempio, un primo 10% liquidato immediatamente e il restante 90% dopo 6 mesi);

b. il pagamento di una sorta di penale alla società, la cui somma andrà a formare una riserva;

c. il procurare oppure restare garanzie alla società per determinate operazioni o anche concedere dei beni strategici per la società in comodato;

d. il ripianamento di parte delle perdite accumulate nel corso dei precedenti esercizi in proporzione alle azioni possedute;

e. l’effettuazione di una donazione alla società.

6. Il ricorso al trust

Altra via percorribile è quella della costituzione di un trust[14]. Il trust è un istituto di origine anglosassone, comparso in Italia dopo la ratifica della Convenzione de L’Aia nel 1985, che è strutturato in modo seguente:

• vi è un “settlor” (o “disponente”) che trasferisce la proprietà di alcuni beni (mobili, immobili, titoli di credito) al “trustee”, che è il soggetto che gestisce ed amministra detti beni;

• ai predetti soggetti si accompagnano uno o più “protector”, che hanno il compito di controllare l’operato del trustee e la compatibilità della sua attività con gli obiettivi prefissati dal disponente e, infine, i beneficiari, cioè i soggetti che trarranno profitto dal trust.

Nel caso di specie, il trust avrà la finalità esclusiva di acquistare le partecipazioni del socio uscente (nel caso in cui gli altri soci o i terzi non le acquistino), onde non far ricadere sulla società gli effetti negativi dell’esercizio del diritto di recesso: riduzione del capitale sociale ed (eventuale) scioglimento della società. Il disponente potrà essere la società od un terzo, che si spossessa di alcuni beni e li trasferisce ad una sorta di fiduciario (il trustee), il quale ne acquista la proprietà. Questi può essere una persona fisica o un’organizzazione e deve gestire ed amministrare detti beni in vista della realizzazione dello scopo del trust. Beneficiari del trust sono i soggetti che recedono, i quali vedranno liquidate le proprie partecipazioni direttamente dal trust. Così facendo, la società non dovrà in modo alcuno sobbarcarsi l’onere di intaccare le proprie riserve o addivenire alla pericolosa riduzione del capitale sociale, che può essere – soprattutto nel caso di una non florida situazione economico – finanziaria, il doloroso preludio allo scioglimento della società. L’operazione sembra giuridicamente fattibile, non venendo a contrastare con i principi generali del nostro ordinamento: unici problemi potrebbero essere rappresentati dai non irrilevanti costi di gestione del trust e dalla ancora scarsa familiarità con tale istituto.

7. Limiti, modalità e termini del recesso

Come abbiamo in precedenza visto, l’atto costitutivo non può escludere il diritto di recesso, o renderne l’esercizio più gravoso, quando le cause di recesso sono stabilite dalla legge in modo inderogabile, a pena di nullità delle relative disposizioni[15].

Il socio non può rinunciare preventivamente a tale diritto.

Inoltre, se la società, entro 90 giorni dall’assunzione della delibera che legittima il recesso, provvede a revocare la delibera stessa o decide lo scioglimento della società, il recesso non può essere esercitato e, se è già stato esercitato, è privo di efficacia[16].

Circa le modalità di effettuazione della comunicazione, il socio deve comunicare la sua volontà di recedere agli amministratori a mezzo di lettera raccomandata a con altre modalità (ad esempio, telegramma, telefax, notifica a mezzo di ufficiale giudiziario, e via di seguito[17]): la comunicazione, in ogni caso, deve essere sempre spedita alla società, qualunque forma essa assuma.

Non è ammesso il recesso tacito o presunto[18].

La riforma si è anche preoccupata di colmare una lacuna della precedente normativa inerente al contenuto della comunicazione. Infatti, se fino al 31 dicembre 2003 la legge nulla disponeva in merito al contenuto della comunicazione,dal 1° gennaio 2004 la legge precisa che la comunicazione del socio recedente deve contenere[19]:

• le proprie generalità;

• il domicilio per le comunicazioni inerenti al procedimento;

• il numero e la categoria delle azioni per le quali il diritto di recesso viene esercitato.

Controverso è se nella comunicazione il socio debba esporre o meno le proprie ragioni volte a giustificare il recesso[20]: sebbene a rigor di logica sembra del tutto impossibile che un socio non sia chiamato – seppur verbalmente – a giustificare la propria richiesta, la giurisprudenza prevalente sembra orientata ad escludere la necessità di giustificazione inserita nella comunicazione, “essendo i motivi irrilevanti”[21]. Infatti, il socio potrebbe anche sfruttare la modifica dell’atto costitutivo per liberarsi di una partecipazione non più gradita[22].

I termini massimi per l’esercizio del diritto di recesso sono i seguenti:

• se il recesso è legittimato da una delibera assembleare, entro 15 giorni dall’iscrizione della relativa delibera nel Registro delle Imprese[23];

• se il recesso è giustificato da un fatto diverso dalla delibera, entro trenta giorni dal momento in cui il socio ha conoscenza del fatto. Fa eccezione il caso in cui la società è stata costituita a tempo indeterminato: in tal caso, infatti, il diritto di recesso può essere esercitato in qualsiasi momento, ma con un preavviso di almeno 180 giorni. Lo statuto può tuttavia prevedere un termine maggiore, comunque non superiore ad 1 anno[24].

È infine controversa l’individuazione del momento in cui si determina l’interruzione del rapporto sociale e, quindi, la cessazione della qualità di socio:

• una prima tesi ritiene che il socio cessi di essere tale solo quando gli amministratori provvedono al rimborso di quanto dovuto a seguito del recesso[25];

• una seconda interpretazione, invece, lo fa invece decorrere dalla comunicazione agli amministratori della volontà di recedere[26].

8. Considerazioni conclusive

Da questa breve panoramica sul diritto di recesso del socio nella S.p.A. emerge in maniera chiara il maggior ruolo riservato dal legislatore del 2003 all’autonomia statutaria, la quale, per quanto concerne l’argomento ivi trattato, ha da un lato voluto facilitare l’uscita del socio dalla compagine sociale, ma dall’altro ha voluto tutelarne rigorosamente l’effettivo esercizio, sanzionando con la nullità ogni patto che tenda ad escludere ovvero a rendere meno gravoso l’esercizio di tale diritto.

Domenico Lamanna Di Salvo
Dottore Commercialista – Revisore Contabile
Docente presso la Libera Università di Bolzano

Bibliografia

AA. VV. , Diritto delle società. Manuale breve, Giuffré, Milano, II edizione, 2005

Adducci E. – Sparano R., Spa, maggior opportunità di recesso, in AA. VV., Società. Il dizionario della riforma, Italia Oggi, Milano, 2003

Adducci E. – Sparano R. , Spa, per il recesso spunta il trust, in “Italia Oggi”, 3 giugno 2004

Angelici C. , La riforma delle società di capitali, Lezioni di diritto commerciale, CEDAM, Padova, 2004

Campobasso G. F. , La riforma delle società di capitali e delle cooperative, UTET, Torino, 2003

Chiomenti, La revoca delle deliberazioni assembleari, Giuffré, Milano, 1969

Ferrara – Corsi, Imprenditori e Società, Giuffé, Milano, 2000

Grippo G. , Il recesso del socio di S.p.A. , in AA. VV. , La nuova riforma delle società, De Agostini professionale, Roma – Milano, 2003

Ianniello B. , La riforma del diritto societario, Ipsoa, 2003

Pau F., Spa, corsia preferenziale per l’exit, in “Italia Oggi”, mercoledì 1 luglio 2004

Presti M. – Rescigno M. , Corso di diritto commerciale, II, Società, De Agostini, Bologna, 2005

Tantini, Le modificazioni dell’atto costitutivo nella S.p.A., CEDAM, Padova, 1973



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[1] Sotto la previdente disciplina, l’atto costitutivo non poteva prevedere ipotesi di recesso ulteriori rispetto a quelle fissate dalla legge a pena di nullità: si veda, in giurisprudenza, Trib. Como, 11 ottobre 1993; Trib. Cassino 7 febbraio 1990. Lo stesso valeva anche nel caso in cui vi fosse il consenso di tutti i soci: App. Roma 18 luglio 1962. Addirittura, era considerata inammissibile dalla giurisprudenza anche l’applicazione analogica delle norme sul recesso a casi diversi da quelli espressamente contemplati: così Trib. Latina 9 luglio 1988; Cass. 28 ottobre 1980, n. 5790.

[2] In tal senso si esprime la Relazione Ministeriale al D. Lgs. n. 6 del 2003.

[3] La tutela dell’operatività societaria è, del resto, una delle priorità sancite a chiare lettere dalla Commissione CE nell’Action plan per la modernizzazione del diritto delle società ed il rafforzamento del governo societario nella UE, presentato a Bruxelles il 21 maggio 2003.

[4] Il codice parla di “soci che non hanno concorso alle deliberazioni”; ovviamente, una tale situazione si può verificare solamente o in caso di dissenso, o di astensione, ovvero di assenza. Per ulteriori dettagli al riguardo si rimanda a: Campobasso G. F. , La riforma delle società di capitali e delle cooperative, UTET, Torino, 2003, pp. 164 – 166.

[5] Dal 1° gennaio 2004 il recesso del socio è legittimato no già da qualsiasi tipo di cambiamento dell’oggetto sociale, bensì solo quando tale cambiamento determina un mutamento significativo nell’attività della società. La valutazione della significatività dovrebbe avvenire, a nostro modesto parere, in riferimento alla variazione del rischio ed alla variazione della convenienza dell’investimento. La dottrina è sul punto divisa, come del resto lo è la giurisprudenza, già sotto la vigenza della precedente disciplina:

• secondo una corrente di pensiero, il recesso spetta sia quando l’oggetto sociale viene mutato radicalmente, sia quando esso “viene anche solo esteso o limitato, tanto da eccedere semplici esigenze di specificazione, adattamento e completamento” (Cass. 29 ottobre 1971, n. 3050);

• secondo altra tesi, invece, il socio può recedere solo quando il mutamento dell’oggetto sia tale da modificare radicalmente le condizioni di rischio in presenza delle quali l’azionista aveva aderito alla società, e non in caso di semplice restrizione o ampliamento dell’oggetto stesso.

Al riguardo si rimanda a: AA. VV. , Diritto delle società. Manuale breve, Giuffré, Milano, II edizione, 2005, p. 136; Angelici C. , La riforma delle società di capitali, Lezioni di diritto commerciale, CEDAM, Padova, 2004, p. 112; Tantini, Le modificazioni dell’atto costitutivo nella S.p.A., CEDAM, Padova, 1973, p. 142..

[6] Art. 2437, 1° comma, c. c. (in vigore fino al 31 dicembre 2003): I soci dissenzienti dalle deliberazioni riguardanti il cambiamento dell’oggetto o del tipo della società, o il trasferimento della sede sociale all’estero hanno diritto di recedere dalla società e di ottenere il rimborso delle proprie azioni secondo il prezzo medio dell’ultimo semestre, se queste sono quotate in borsa, o, in caso contrario, in proporzione del patrimonio sociale risultante dal bilancio dell’ultimo esercizio”.

[7] Art. 2355 – bis, 2° comma, c. c. : “Le clausole dello statuto che subordinano il trasferimento delle azioni al mero gradimento di organi sociali o di altri soci sono inefficaci se non prevedono a carico della società o degli altri soci, un obbligo di acquisto oppure il diritto di recesso dell’alienante; resta ferma l’applicazione dell’articolo 2357. Il corrispettivo dell’acquisto o rispettivamente la quota di liquidazione sono determinati secondo le modalità e nella misura previste dall’art. 2437 – ter”.

[8] Ovviamente, il legislatore attribuisce agli stessi soci l’onere di rilevare gli eventi il cui verificarsi giustifica il recesso: tale operazione verrò poi fatta in sede di redazione dello statuto, quindi preliminarmente al nascere della società.

[9] A mero titolo esemplificativo, si pensi al disaccordo nascente su determinati piani di sviluppo della società, come l’apertura di nuove filiali in Stati extraeuropei, la liquidazione di società controllate estere, e via di seguito.

[10] Art. 2437 – bis, 3° comma c. c. : “…Il recesso non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia, se, entro novanta giorni, la società revoca la delibera che lo legittima ovvero se è deliberato lo scioglimento della società”.

[11] PAU F., Spa, corsia preferenziale per l’exit, in “Italia Oggi”, mercoledì 1 luglio 2004, p. 31.

[12] Cfr. Adducci E. – Sparano R. , Spa, maggiori opportunità di recesso, in AA. VV. , Società. Il dizionario della riforma, Italia Oggi, Milano, 2003.

[13] Così Grippo G. , Il recesso del socio di S.p.A. , in AA. VV. , La nuova riforma delle società, De Agostini professionale, Roma – Milano, 2003, p. 49.

[14] Per ulteriori dettagli su tale soluzione si rimanda al lavoro di Adducci e Sparano: Adducci E. – Sparano R. , Spa, per il recesso spunta il trust, in “Italia Oggi”, 3 giugno 2004, p. 33.

[15] Cfr. art. 2437, 3° comma e 6° comma, c. c.

[16] Cfr. art. 2437 – bis, 3° comma, c. c.

[17] Così Cass. 3 gennaio 1998, n. 12.

[18] Per le motivazioni di tale orientamento si rimanda a Cass. 19 agosto 1950, n. 2480.

[19] Cfr. art. 2437 bis, 1° comma, c. c.

[20] Sul punto si rimanda a. Ianniello B. , La riforma del diritto societario, Ipsoa, 2003, pp. 140 - 141

[21] Così Cass. 2 giugno 1983, n. 3770.

[22] Cass. 2 giugno 1983, n. 3770.

[23] Sotto la previgente disciplina, secondo la Suprema Corte, entro il suddetto termine la dichiarazione di recesso non deve essere semplicemente inviata, ma deve giungere a conoscenza della società: cfr. Cass. 3 gennaio 1998, n. 12.Inoltre, sempre da tale momento, la dichiarazione deve considerarsi irrevocabile: cfr. Cass. 27 maggio 1999, n. 5173.

[24] Cfr. art. 2437, 3° comma, c. c.

[25] Si veda al riguardo: Chiomenti, La revoca delle deliberazioni assembleari, Giuffré, Milano, 1969, pp. 129 ss. ; Ferrara – Corsi, Imprenditori e Società, Giuffé, Milano, 2000, p. 256; Presti M. – Rescigno M. , Corso di diritto commerciale, II, Società, De Agostini, Bologna, 2005, p. 185.

[26] Cfr. Cass. 18 marzo 1966, n. 765.




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