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"Io, faccia a faccia coi killer di mio padre"

Ultimo Aggiornamento: 01/05/2006 15:55
01/05/2006 15:55
 
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da Repubblica.it

Esce il libro inchiesta della figlia di Guido Rossa
che ha incontrato gli uomini del commando
"Io, faccia a faccia
coi killer di mio padre"
Il delitto nel 1979: Sabina era un'adolescente. "C'era
un doppio livello, l'ordine dell'esecuzione venne dall'alto"
di WANDA VALLI

GENOVA - Le Brigate Rosse hanno ammazzato suo padre, Guido Rossa, operaio del Pci e sindacalista, all'Italsider di Genova, il 24 gennaio 1979. Lei, Sabina, per più di venticinque anni ha taciuto, ha tenuto per sé rabbia e dolore. Poi ha scelto di andare a parlare con i terroristi, per capire, per dare una risposta alla storia di una morte che, per le Br, è stata "un incidente". La scelta di Sabina è diventata un libro "Guido Rossa, mio padre", scritto con il giornalista Giovanni Fasanella.
È un'indagine, durata un anno e mezzo, che apre nuovi, impensabili, scenari, umani e politici. Per provare a capirli, bisogna tornare all'inizio, a quella mattina di gennaio. Sabina Rossa ha 16 anni, esce di casa alle 7 del mattino per andare a scuola. Passa vicino all'auto del padre, ma non vede, chiuso lì dentro, il corpo senza vita di quell'uomo che lei adorava. "Sì, ci capivamo con un'occhiata, io e papà" ricorda adesso, mentre tiene fra le mani fogli di appunti e il libro con la copertina rossa.
Il titolo "Guido Rossa, mio padre", l'ha scelto lei, precisa, mentre ti guarda con gli occhi scuri ereditati da lui. A scuola, Sabina intuisce che è successo qualcosa, ma non vuole capire. È sua madre a dirle "hanno ammazzato papà". Sabina si chiude in se stessa, domanda una cosa, una sola: "Chi è stato?" "Le Brigate Rosse".
Sabina, ai funerali, si ritrova davanti una folla di 250.000 persone che grida "Guido è vivo e lotta insieme a noi", e pensa: allora perché lo hanno lasciato solo? È la stessa domanda che la spingerà a cercare i terroristi. "Per Eleonora, la mia bambina di quattro anni. Adesso vede il nonno in fotografia, sa solo che gli hanno sparato", spiega e poi delinea il ritratto di un padre giovane - Guido Rossa aveva 44 anni quando lo ammazzarono - che adorava i bambini, un padre che è un educatore severo, di rigorosi principi.
A 8 anni Sabina conosce il significato della parola "consumismo", sa già che i giocattoli possono essere pochi. Sono princìpi che restano, commenta "e così io sono un po' seriosa, non un'estroversa, non una burlona, sto attenta prima di parlare".
Suo padre le manca ancora, moltissimo, ma, dice: "In fondo, fino a 16 anni l'ho avuto vicino, è in quell'età che si forma una persona". Lo afferma serena, Sabina Rossa, diventata senatrice dei Ds, dopo dodici anni da insegnante precaria e poi di ruolo. Un'altra decisione maturata a lungo. La rabbia in cui si era isolata, finisce con la scelta di andare a parlare con i brigatisti. "Anche papà, se l'avessero solo ferito, credo si sarebbe confrontato con loro, sarebbe uscito dal ruolo di vittima. Io sono andata al suo posto".
Dopo la sua indagine, Sabina Rossa è convinta di un fatto: "C'erano due livelli nelle Br", e il più alto e segreto, con molti collegamenti di diverso tipo, ha come persona di riferimento proprio Moretti. Che avrebbe ordinato a Dura di uccidere, all'insaputa degli altri. "Ma papà - dice Sabina - non era in guerra con nessuno, quella mattina è uscito di casa con il sacchetto della spazzatura in mano, era solo un operaio". La sua colpa era l'aver segnalato, tre mesi prima, Francesco Berardi, il postino Br dell'Italsider. Lo ha fatto solo "perché serviva una denuncia firmata", le hanno spiegato magistrati e carabinieri, e molti esitavano.
Nel faccia a faccia con i brigatisti, garantisce Sabina Rossa, non ha provato odio, agli incontri è sempre andata da sola, "è stata una prova importante, l'ho superata, ora sono molto più serena, più forte". Significa perdono? Sabina è laica, "ma se è vero che, quando una persona non odia più e riesce a avere una sorta di dialogo, questo equivale a un perdono, allora sì". Suo padre, faceva parte del nucleo del Pci che doveva sorvegliare che cosa accadeva in fabbrica: "Forse sapeva molte più cose di quanto immaginiamo, così l'hanno ammazzato". Lui, operaio, sindacalista, appassionato di montagna. Lui, Guido Rossa, suo padre.
(1 maggio 2006)



Nel libro della figlia di Guido Rossa l'incontro con Vincenzo Guagliardo
uno dei tre membri del commando che assassinarono il sindacalista
E il brigatista confessò a Sabina
"Davanti a te mi sento in colpa"

Così, nel suo libro Sabina Rossa ricostruisce il colloquio con Vincenzo Guagliardo, uno dei tre br che spararono a suo padre. All'incontro era presente anche Nadia Ponti, moglie di Guagliardo, brigatista condannata come lui all'ergastolo.
L'ho affrontato da sola, così come, in assoluta solitudine, mio padre andò incontro al suo destino, la mattina del 24 gennaio 1979. Ho suonato il campanello. Mi ha aperto una signora di mezza età, piccola di statura, dall'aria gentile, occhi azzurri e capelli di un grigio chiaro che le scendevano a caschetto sul viso. Portava un paio di occhiali e indossava uno scialle di lana color prugna. Mi sono presentata. Lei mi ha risposto: "Sono la moglie di Vincenzo. Entra pure". Quella signora dall'aria mite era Nadia Ponti. (...)
Sono entrata nel locale. C'era un signore, di spalle, in tuta blu e ciabatte, alto, dall'aspetto un po' curvo. Si è voltato e, porgendomi la mano, mi ha salutato con un mezzo sorriso: "Ciao, sono Vincenzo". Aveva baffi e occhiali, come lo avevo visto nelle fotografie pubblicate sui giornali. Ma dimostrava molto più dei suoi 57 anni: sul viso e sul corpo era ben visibile il segno del tempo trascorso in carcere. La persona che mi trovavo di fronte era ben lontana da quella che avevo conosciuto attraverso mille descrizioni, facevo molta fatica a immaginarla nelle vesti dell'ex terrorista condannato all'ergastolo. (...)
Quando stavamo per sederci attorno al tavolo, prima ancora che io riuscissi a dire qualcosa, lui mi ha chiesto a bruciapelo: "Tu lo sai chi sono io?". "Sì, lo so", gli ho risposto. E lui: "Io sono quello che ha sparato alle gambe!".
Lo so. Non ti preoccupare, so tutto. (...)
"Immagino che tu sia venuta qui perché vuoi sapere com'è andata quella mattina. Penso sia mio dovere dirti com'è andata. Non davanti ai giudici o nelle aule di tribunale, ma a te lo devo... Eravamo dentro il furgone. Ci siamo appostati la mattina presto...".
A che ora: le quattro? le cinque?
"Anche prima. La gente dormiva".
Ho letto che era molto buio. Avete rotto un lampione?
"No, non mi sembra, non me lo ricordo. Faccio fatica a ricordare, anche perché non ci ho più pensato... (...) Mi hanno avvisato quando stava arrivando tuo padre, che dev'essersi accorto di qualcosa. Probabilmente era sul chi va là ed è corso verso la sua auto. È salito ed era pronto a partire. Io l'ho raggiunto e ho sparato. I vetri del finestrino sono andati in frantumi. Ho infilato il braccio dentro la macchina e ho sparato ancora, a distanza ravvicinata, 15-20 centimetri circa. Ma lui ha avuto una reazione che non mi aspettavo, si è voltato verso di me e ha raccolto le gambe al petto, cominciando a scalciare. Io avevo la Beretta 81, calibro 7.65 con il silenziatore, ero sicuro di averlo preso perché l'ho sentito lamentarsi. Mi stavo ritirando quando è sopraggiunto Dura, che ha sparato ancora. Lui non doveva neanche intervenire, perché non aveva il silenziatore. Gli ho chiesto perché l'avesse fatto. E lui mi ha risposto: "Pensavo che tu non fossi riuscito a colpirlo... Comunque ho sentito un lamento strano, forse ora è morto". L'azione, raccontata così, sembra dilatata nel tempo, ma in realtà è durata pochi secondi".
Mio padre disse qualcosa, mentre sparavi?
"No, era sotto shock. E anche noi eravamo in preda a una forte tensione emotiva". (...)
Non credo alla spiegazione che ti fornì Dura: come poteva pensare che tu non avessi colpito mio padre, dal momento che gli avevi sparato prima dal finestrino e poi da distanza ravvicinata? (...)
"Se Dura avesse avuto, sin dall'inizio, l'intenzione di andare fino in fondo, non me lo ha mai detto. Forse ha agito così perché era molto teso. Non escludo questa ipotesi perché alcuni di noi erano su posizioni più intransigenti. Comunque, è andata così". (...)
Quando decideste di sparare a mio padre?
"Subito dopo quella sua denuncia di delazione. Poi è stato pedinato a lungo".
Lo avevate minacciato? Telefonate, bigliettini, lettere?
"No, noi no. Sarà stato qualche simpatizzante esaltato". (...)
Voi, intendo tu e Dura, facevate parte della colonna genovese?
"Non c'erano persone fisse nella colonna. Chi si trovava sul posto al momento, eseguiva l'azione. Non c'era una scelta degli elementi. Io ero già stato in carcere, poi sono uscito e ho compiuto l'azione".
Veramente, eri latitante. Non mi sembra la stessa cosa dire "ero uscito".
"Vabbè, sì... ero fuori".
Dopo l'assassinio di mio padre, Dura venne promosso, per così dire, a capo dell'esecutivo della colonna genovese?
"Non c'erano promozioni o capi. Facevamo parte tutti dell'organizzazione e avevamo tutti le stesse responsabilità". (...)
Mentre veniva processato, rivolto al pubblico, Berardi fece un gesto disegnando un cerchio intorno al suo viso. Sai che cosa significasse e a chi fosse rivolto?
"Credo a nessuno, e comunque il giorno dopo i giornali ne parlarono... Vedi, ci fu un altro episodio... doveva essere un ferimento ed è diventato un omicidio (...). Mi riferisco all'azione contro Pietro Coggiola, un capo della Fiat. Morì perché un proiettile gli recise l'arteria femorale. Nei confronti di tuo padre, in alternativa al ferimento, avevamo pensato a un altro tipo di azione dimostrativa. Volevamo sequestrarlo e appendergli al collo un cartello con scritto "spia". Ma poi forse ha prevalso l'idea di chi sosteneva un'azione più incisiva.
Vedi, se tuo padre fosse ancora vivo, se lo avessimo colpito soltanto alle gambe, io avrei con lui un confronto alla pari. Gli direi: tu hai agito seguendo le tue ragioni, io seguendo le mie. Ma con te, Sabina, è diverso. Davanti a te mi sento in colpa..."
(1 maggio 2006)
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Esos cueros llevan sueños al otro lado del mar... y un viento de arrabal
(Gotan Project)
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