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La vita tra teatro e realtà

Ultimo Aggiornamento: 22/04/2018 17:46
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22/04/2018 17:46
 
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Sequenza del romanzo "I confini dell'infinito" (vol. III)
- Ti ammiro, Eugenio, sei una persona forte: un altro, fosse stato in te, non so se avrebbe sopportato una sventura del genere.
- Non sono forte: sono rassegnato, Ale. Arduino… probabilmente non lo rivedrò mai più. L’investigatore cui mi sono rivolto sta scoperchiando un vaso di Pandora: potrei dire che sperimento sulla mia pelle quanto avevo delineato a livello teorico.
- Perché rassegnato?
- Perché, col passare del tempo mi convinco sempre più che siamo pedine di un gioco più grande di noi. Il mio è fatalismo: ogni evento nell’universo, da quello all’apparenza insignificante, come una foglia che cade da un albero, alla rivoluzione che sovverte le sorti di un popolo appartengono ad un unico, grande disegno… il disegno di un destino schizofrenico.
- Che senso ha?
- Non vedi: da migliaia di anni l’umanità ripete i medesimi errori ed i medesimi orrori. Il mondo è un teatro della crudeltà dove vanno in scena omicidi, stupri, stragi, ladrocini, tradimenti… Sai che cosa è più terribile? Non che non si veda la fine di questo carnaio, ma che il pubblico sia sempre più indifferente. Il pubblico? Non esiste alcuna differenza tra attori e spettatori: sono ruoli intercambiabili. Hodie mihi, cras tibi, come dicevano giustamente i Romani. Ti pare che qualcosa sia mutato rispetto alle epoche passate? Be’, qualcosa sì, ad esempio oggi un gruppo di persone ha capito che cos’è veramente la storia, quella vera che si svolge dietro le quinte: un mostruoso genocidio. La vita è teatro? Sì e no. E’ come se, qualcuno prima di nascere ci promettesse che, una volta sul proscenio, potremo scegliere noi il ruolo e soprattutto come se ci fosse assicurato che è tutta finzione: se il gioco dovesse diventare troppo duro, potremo sempre interrompere la recita e ritornarcene nell’eden che abbiamo stupidamente abbandonato. Qui, però, scatta la trappola: una volta sulla ribalta, non si può tornare indietro, perché siamo costretti da Antonine Artaud ad interpretare il nostro ruolo sino alla fine, anche dovesse prevedere immani sofferenze. Il tutto è un po’ come certi spettacoli popolari nell’antica Roma dove il condannato a morte era un malfattore che sul palco era davvero strangolato dal boia: l’esistenza è una grottesca, brutale mescolanza di simulazione e realtà. Tra l’altro, è un copione che non abbiamo scritto noi e neppure scelto. Siamo marionette e ci vantiamo di essere chissà chi: “Io sono buddhista, io sono cristiano, io sono musulmano, io sono ateo, io sono agnostico…”, io, io, “io, il più lurido dei pronomi”, come scrive Gadda. Ci crediamo di essere qualcuno, ma siamo solo atomi del nulla cosmico.

Alessio era ammaliato dal discorso di Eugenio e non tanto per la disillusa logica che nutriva le argomentazioni, ma per il carattere discontinuo dell’esposizione. I nessi tra gli argomenti non erano esplicitati e più che agganci logici erano immagini fulminee, impietose folgorazioni.

- Naturalmente Antonine Artaud è metafora per Dio.
- Forse non è così importante come lo chiamiamo: Dio, fato, coscienza… Per carità, potrebbero avere ragione quelli che pensano ad una Coscienza transpersonale da cui origina l’intera realtà… In ogni caso, io ci vedo un regista, un regista cui manca qualche rotella… Santi numi, se mi sentisse Aurelio, anzi se mi sentisse Simone, sarei già finito sul rogo.
- Le tue considerazioni non mi sembrano blasfeme ma audaci senza dubbio.
- Sei benevolo, Ale. Sì, forse sono riflessioni audaci ed impopolari: suscitano spesso il risentimento e l’indignazione dell’uditorio durante le conferenze, poiché a nessuno piace che si abbatta l’idolo del libero arbitrio. A nessuno piace essere dipinto come un pupo siciliano in balia di un puparo pazzoide.
- Sei democratico, osservò con arguzia l’altro, giacché riesci a sminuire sia gli uomini sia il destino.
- Non sai quanto io mi dolga di essere approdato ad una visione così amara, ma vedi quando non ci si pasce più di illusioni…
- Aurelio distinguerebbe tra illusione e speranza, la vera speranza.
- Forse è una distinzione doverosa, ma per chi ha una comprensione più profonda dei problemi; io non ho ancora conseguito il suo grado.

Eugenio pronunciò l’ultima frase senza neanche una vena d’ironia, ma con sincero rammarico: egli si sentiva come uno che, mentre gli altri salpavano, gli occhi rischiarati da sogni radiosi, per una terra lontana, era costretto a restare a terra.

Alessio, al tavolino del bar, finì di sorseggiare la limonata, sbirciando ogni tanto oltre il patio: all’orizzonte i soliti aerei incrociavano indiavolati, spargendo i loro veleni su una popolazione ignara. Eugenio notò sul viso dell’amico un’espressione di stanca amarezza. Disse: - Ti capisco: è da decenni che perpetrano questo olocausto e non si vede via d’uscita. La gente ti prende per visionario, non appena accenni alla geoingegneria clandestina; le istituzioni ignorano o perseguitano gli attivisti. Viviamo in un mondo storto! Non so se ridere a crepapelle o disperarmi, quando sento certi “maestri” pontificare di risveglio delle coscienze, di evoluzione spirituale, di “magnifiche sorti e progressive”. Mi pare che la situazione sia destinata ad andare di male in peggio… Non affermo che è impossibile cambiare il corso delle cose, ma penso sia molto, molto difficile.

Era ormai tardi: sia Aurelio sia Eugenio avevano i soliti petulanti impegni che li attendevano. Si salutarono con affetto, affidando più agli sguardi che alle parole la vicinanza che li univa ad una medesima, per quanto diversa sorte. Alessio si incamminò verso l’auto sotto la luce granulosa del tardo pomeriggio, un chiarore afoso cui si incollavano i profili degli edifici e le fronde immobili dei platani. Ripensò al fatalismo di Eugenio e gli sovvenne un aforisma di Schopenauer: “Il fatalismo è una grande consolazione”. Già, una consolazione, come la fede per chi l’ha. Ci si può affidare solo a qualche conforto per resistere, ma fino a quando e perché?



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