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L’AMICIZIA SPIRITUALE di AELREDO DI RIEVAULX

Ultimo Aggiornamento: 10/08/2013 14:56
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10/08/2013 14:54

La specificità dell’amicizia spirituale

Aelredo: Sono molti quelli che abbracciamo con il nostro affetto, senza però introdurli nell’inti¬mità dell’amicizia, che consiste soprattutto nella ri¬velazione di tutti i nostri segreti e progetti. Come di¬ce il Signore nel Vangelo: “Non vi chiamo più servi”, “ma amici”. Poi aggiunge la ragione per cui ritiene di chiamarli amici: “Perché”, dice, “tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (cfr. Gv 15,15). E poco prima dice: “Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando” (Gv 15,14).

Con queste parole, come dice sant’Ambrogio, “ci ha dato un modello di amicizia da seguire: fare la volontà dell’amico, confidargli i nostri segreti e tutto quanto abbiamo nel cuore, non ignorare le sue cose più intime. Apriamoci a lui, e che egli ci apra il suo cuore. L’ami¬co, infatti, non nasconde niente. Se è sincero, rivela il suo animo, come il Signore Gesù rivelava i misteri del Padre”. Questo scrive Ambrogio. Sono dunque molti quelli che noi amiamo, però non a tutti conviene esporre in questo modo il nostro ani¬mo, né rivelare il nostro cuore, perché non hanno an¬cora un’età, o una sensibilità, o un criterio tale da renderli capaci di accogliere queste confidenze.
Marco: Non riesco neppure ad aspirare ad un’amicizia talmente grande e perfetta. A me e ad Luca basta quella che ci ha descritto Agostino: parlare e ridere insieme, scambiarsi con affetto dei favori; leggere e discutere insieme, scherzare insieme e fare cose serie; dissentire quando è il caso, senza rancore, come uno fa con se stesso, servirsi anche dei rarissimi contrasti per addolcire le molte cose su cui si è d’accordo; essere l’uno per l’altro maestro e discepolo; desiderare impazientemente chi è assente, accogliere con gioia chi arriva. Con questi e con altri segni che procedono dal cuore di chi ama ed è riamato, con il volto, con la parola, con gli sguardi e con mille altre espressioni di affetto si ravviva il fuoco che fonde gli animi e che di tanti ne fa uno solo. Questo ci sembra si debba amare negli amici. La nostra coscienza si sentirebbe in colpa se non amassimo chi risponde al nostro amore, e se non rispondessimo con l’amore a chi ci ama.
Aelredo: Un’amicizia così è puramente materiale, ed è tipica soprattutto dei giovani, com’era allora sant’Agostino e l’amico di cui parlava. Non è da rifiutare, tranne gli scherzi e le bugie, e nel caso non ci sia alcun comportamento disonesto. Un’amicizia del genere può portare ad una grazia più grande ed è come il principio di un’amicizia santa. Una volta cresciuti nell’amore e nel comune impegno nelle cose dello spirito, diventati con l’età più maturi e più seri e con i sensi spirituali più illuminati, questi amici potranno con un affetto purificato salire verso un traguardo più alto, partendo da una buona base. Del resto, non abbiamo già detto ieri che si può passare più facilmente dall’amicizia umana a quella per Dio, vista la somiglianza che esiste tra le due?

Come coltivare la vera amicizia

Adesso cominciamo a considerare come si coltiva l’amicizia. Il fondamento della stabilità e della costanza nell’amicizia è la fiducia: niente infatti è stabile se non è fondato sulla fiducia. Gli amici devono essere tra loro semplici, aperti, sensibili alle stesse cose, in sintonia: tutto questo riguarda la fedeltà. Non può essere degno di fiducia un carattere complicato e tortuoso. Anche quelli che non sono sensibili alle stesse cose, o non sono d’accordo su cose identiche, non possono essere stabili né fidati. Soprattutto si deve evitare il sospetto, che è il veleno dell’amicizia: non dobbiamo mai pensare male dell’amico, né credere o dare ragione a chi ne parla male. A questo dobbiamo aggiungere un parlare cordiale, un volto lieto, la dolcezza dei modi, la serenità dello sguardo, tutte cose che aiutano molto l’amicizia. L’espressione austera, severa, ha un suo decoro, conferisce solennità, però l’amicizia deve essere in qualche modo più rilassata, più libera e amabile, più disponibile alla serenità e all’indulgenza, senza però che questo si trasformi in superficialità o leggerezza.

La forza dell’amicizia sta anche nel mettere alla pari l’inferiore e il superiore. Spesso capita che una persona eminente accolga nella sua amicizia chi gli è inferiore per grado, ordine, dignità, o scienza. In questo caso bisogna disprezzare e stimare come inutile tutto ciò che non appartiene strettamente alla natura, tenendo costantemente fisso lo sguardo sulla bellezza dell’amicizia in sé, che non si addobba con vestiti preziosi o con gioielli, non cresce con l’aumentare dei possedimenti, non ingrassa nei piaceri, non si dilata con le ricchezze e non sale in dignità con gli onori. Così, tornando continuamente al principio e alle origini, dobbiamo considerare con intelligenza acuta l’uguaglianza che la natura ha stabilito, non i supplementi e le bardature che l’avidità ci offre. Quindi nell’amicizia, che è il dono migliore offerto insieme dalla natura e dalla grazia, chi sta in alto deve scendere, e chi sta in basso deve salire; il ricco deve sentire necessità, e il povero deve sentire la ricchezza; ciascuno deve scambiare con l’altro la propria condizione. È così che si realizza l’uguaglianza, come sta scritto: “Colui che raccolse molto non abbondò, e colui che raccolse poco non ebbe di meno” (2Cor 8,15). Non metterti quindi mai davanti all’amico, ma, se ti riconosci superiore in qualche cosa, hai un motivo in più per abbassarti subito davanti a lui, per dargli la tua fiducia, per lodarlo se è timido. E tanto più lo devi onorare quanto meno la sua condizione o la sua povertà lo richiederebbero.

L’esempio di Davide e di Gionata

Il magnifico giovane Gionata, senza tener conto né della gloria regale né del suo diritto al trono, fece un patto con Davide: l’amicizia rese il servo uguale al padrone, ed egli lo preferì a sé quando fu costretto a fuggire da Saul, suo padre, quando dovette nascondersi nel deserto perché condannato a morte e destinato ad essere ucciso. Umiliando se stesso per esaltare lui, disse: “Tu sarai re e io sarò secondo dopo di te”. Che splendido esempio di vera amicizia! Che incredibile meraviglia! Il re s’infuriava contro il servo e gli scatenava dietro tutto il paese quasi fosse un pretendente usurpatore; in base ad un semplice sospetto accusa di tradimento i sacerdoti e li fa trucidare; perlustra i boschi, fruga le valli, assedia con il suo esercito monti e rupi; tutti si impegnano a vendicare l’ira del re; soltanto Gionata, l’unico che aveva tutti i motivi per essere geloso di Davide, decise di resistere al padre, di mettersi dalla parte dell’amico, di offrirgli nella sventura il suo consiglio, e, preferendo l’amicizia al regno gli disse: “Tu sarai re, io sarò secondo dopo di te”.
È noto come il padre cercava di scatenare la gelosia del giovane contro l’amico, attaccandolo con insulti e spaventandolo con la minaccia di privarlo del regno e della dignità. Quando poi il re pronunciò la sentenza di morte contro Davide, Gionata non abbandonò l’amico. Perché, disse, Davide deve morire? In cosa ha peccato? Che ha fatto? Mettendo a rischio la sua vita ha sconfitto il Filisteo, e tu ne sei stato contento. Perché dunque deve morire? All’udire queste parole, al colmo dell’ira, il re tentò con la lancia di inchiodare Gionata al muro, aggiungendo alle minacce gli insulti: Figlio d’una donna perduta, non so io forse che tu prendi le parti del figlio di Iesse, a tua vergogna e a vergogna della nudità di tua madre? Quindi vomitò tutto il veleno che aveva dentro per infonderlo nel cuore del giovane, aggiungendo parole che avrebbero dovuto scatenare la sua ambizione, la gelosia, l’invidia e il rancore amaro: fino a quando vivrà il figlio di Iesse sulla terra, non avrai sicurezza né tu né il tuo regno.


Chi non sarebbe stato scosso da queste parole? Chi non avrebbe provato invidia? Quale amore, quale grazia, quale amicizia poteva resistere parole come queste senza esserne intaccata o sminuita o cancellata? Quel giovane pieno d’amore, fedele al patto dell’amicizia, forte di fronte alle minacce, paziente davanti agli insulti, disprezzò il regno e preferì l’amicizia, non si curò della gloria perché gli stava a cuore la grazia. Tu sarai re, disse, io sarò secondo dopo di te.
Dice Cicerone che si trovano persone che “ritengono ignobile preferire il denaro all’amicizia”, ma che è impossibile trovare “chi antepone l’amicizia al¬le cariche pubbliche, a quelle politiche, ai comandi militari, al potere e alle ricchezze così che quando vengono offerte loro da una parte queste cose e dall’altra il bene dell’amicizia, pochi scelgono quest’ultima. La natura infatti è troppo debole per disprezzare il potere. Dove si troverà”, dice, “chi anteponga l’onore dell’amico al suo”? Ecco, abbiamo trovato Gionata che ha vinto la natura, ha disprezzato la gloria e il potere, ha preferito al proprio l’onore dell’amico. Tu sarai re, disse, e io sarà secondo dopo di te.
Questa è l’amicizia vera, perfetta, stabile ed eterna: non la corrompe l’invidia, non la riduce il sospetto, non la dissolve l’ambizione. Questa amicizia messa alla prova non cadde; assalita non crollò; colpita da tanti insulti rimase inflessibile, provocata da tante ingiurie restò irremovibile. Va, dunque, e anche tu fa lo stesso. Se però pensi che sia duro o perfino impossibile preferire colui che ami a te stesso, cerca almeno di metterlo sul tuo stesso piano se ci tieni ad essere un amico. Chi infatti non mantiene l’uguaglianza con l’altro non pratica l’amicizia in modo giusto.
“Sii rispettoso verso l’amico come con un tuo eguale”, dice Ambrogio, “e non aver vergogna ad anticiparlo nel rendere un servizio. L’amicizia infatti non conosce la superbia. L’amico fedele è davvero una medicina per la vita, una grazia d’immortalità”.

L’amicizia e lo scambio dei favori


Vediamo ora come si deve coltivare l’amicizia riguardo ai benefici, e qui ruberò qualcosa dagli altri. Qualcuno ha detto: “Si stabilisca nell’amicizia questa legge: chiediamo agli amici cose oneste, facciamo cose oneste per gli amici senza aspettare la loro richiesta; non deve mai esserci indugio ma sempre premura”. Se per l’amico si deve essere disposti a perdere del denaro, tanto più si deve essere pronti ad usarlo per venire incontro alle sue necessità. Ma non tutti possono fare tutto. C’è chi ha molto denaro, chi è invece ricco di terreni e di case; uno è più bravo nel dare consigli, un altro lo è nel rendere onori. Considera con prudenza come devi comportarti con l’amico riguardo a queste cose. Sul denaro la Scrittura ha detto quanto basta: “Perdi pure, dice, il denaro per un amico (Sir 29,10)”. Ma poiché gli occhi del saggio sono nel suo capo (cfr. Qo 2,14), se noi siamo le membra e Cristo è il capo, facciamo quello che dice il Profeta: I miei occhi sono sempre rivolti al Signore, per ricevere da lui la legge della vita, della quale è scritto: “Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data” (Gc 1,5). E allora regala ciò che hai all’amico senza farglielo pesare, senza aspettarti una ricompensa, senza corrugare la fronte, senza voltare la faccia, senza abbassare lo sguardo; ma con aspetto sereno, con un volto raggiante, con parole amabili. Non aspettare neanche che termini la sua richiesta, va’ incontro a lui con benevolenza, così da sembrare che sia tu a dargli quanto ha bisogno senza che neppure te lo chieda. Un animo sensibile sa che niente fa arrossire quanto il dover chiedere. Poiché tu formi con il tuo amico un cuor solo e un’anima sola, sarebbe gravemente offensivo non mettere in comune anche il denaro.

Osserva dunque tra gli amici questa regola: ciascuno deve dare sé e le sue cose in modo che chi dà conservi il sorriso, e chi riceve non perda la sua tranquillità. Quando Booz si accorse dell’indigenza di Rut la Moabita, le parlò mentre raccoglieva le spighe dietro ai mietitori, la consolò, la invitò alla mensa dei suoi servi e, avendo riguardo, con cuore nobile, per la sua timidezza, ordinò ai mietitori di lasciar cadere apposta delle spighe perché lei le potesse raccoglierle senza sentirsi umiliata. Così anche noi dobbiamo indovinare con delicatezza le necessità degli amici, anticipare con il nostro dono una richiesta, e usare in questo uno stile che dia a chi riceve l’impressione che sia lui a fare un favore, non colui che offre il dono.
Marco: E noi religiosi, che avendo un voto di povertà non abbiamo il permesso né di ricevere né di dare alcunché, come possiamo vivere in questo senso la grazia dell’amicizia spirituale?

La reciprocità nel rapporto fra amici


Aelredo: “Gli uomini”, dice il Saggio, “farebbero una vita felicissima se togliessero di mezzo queste due parole: mio e tuo”. L’amicizia spirituale riceve certo un fondamento molto solido dalla scelta della povertà, che è santa proprio perché è volontaria. L’avidità rovina mortalmente l’amicizia, ed è certamente più facile conservare un’amicizia già iniziata quanto più l’animo è immune da questa peste. Però nell’amicizia spirituale ci sono altri benefici con cui gli amici possono far sentire la loro presenza e il loro aiuto. Prima di tutto devono essere solleciti l’uno per l’altro; devono pregare l’uno per l’altro; sentire ciascuno come propria l’umiliazione dell’altro, e gioire dell’altrui gioia. Ognuno deve piangere come proprio lo sbaglio dell’altro e considerare come suo il progresso dell’altro. Dobbiamo usare tutto quanto è in nostro potere per incoraggiare l’amico se è timido, per sostenerlo se è debole, per consolarlo se è triste, per sopportarlo se è irritato. Dobbiamo avere inoltre un tale rispetto dello sguardo dell’amico da non osare alcunché di disonesto o di sconveniente. Infatti, ogni sbaglio che uno fa ricade sull’amico, al punto che non è solo chi sbaglia ad arrossire e soffrire, ma l’amico che vede o sente quanto ha fatto l’altro se la prende con se stesso, come se fosse stato lui a sbagliare; e allora, se uno non ha ritegno per sé, deve averlo almeno per l’amico.
Il rispetto è il miglior compagno dell’amicizia; e dunque “toglie all’amicizia il massimo ornamento chi la priva del rispetto”. Quante volte l’ira che mi si è accesa dentro e che stava per esplodere all’esterno è stata soffocata e spenta da un semplice cenno del mio amico; quante volte una parola sconveniente che era già nelle labbra è stata repressa dalla severità di un suo sguardo. Quante volte, trovandomi a ridere in modo scomposto, o perso in inutili sciocchezze, ho ritrovato al suo solo avvicinarsi la dovuta serietà!

I consigli e la correzione fraterna

Inoltre, quando ci si deve persuadere di qualcosa, si accetta più facilmente il parere di un amico e lo si ricorda meglio, perché la forza di persuasione di un amico è davvero grande. Non abbiamo nessun dubbio, infatti, sulla sua lealtà, e non c’è alcun sospetto di adulazione. L’amico dunque deve consigliare all’amico ciò che è onesto, con fermezza, con chiarezza e libertà. Gli amici, poi, non vanno solo ammoniti, ma se è il caso devono anche essere rimproverati.

A qualcuno, infatti, la verità dà fastidio, e può anche darsi che il dirla susciti risentimento, come sta scritto: “L’adulazione genera amici, la verità genera l’odio; l’adulazione tuttavia è molto più dannosa perché, essendo indulgente con gli errori, permette che l’amico precipiti nella rovina”. Un amico è gravemente colpevole, e quindi soprattutto in questo va rimproverato, se disprezza la verità e si lascia indurre da adulazioni e attrattive a commettere cose gravi. Non è che sia proibito accontentare con dolcezza gli amici, e spesso anche di lodarli, ma in tutto va rispettata la moderazione, cosicché l’ammonizione deve essere priva di asprezza, e il rimprovero non deve diventare un insulto. Nell’accondiscendenza e nei complimenti deve sempre esserci un’affabilità dolce e onesta. Invece si devono eliminare con decisione le moine, che sono fonte di vizi e indegne non solo di un amico, ma anche di un uomo libero.
Se poi uno ha proprio le orecchie chiuse alla verità, da non poterla ascoltare neppure da un amico, allora si deve temere per il bene della sua anima. Per cui, come dice sant’Ambrogio, “se scopri qualche difetto nell’amico, correggilo in privato; se non ti ascolta, correggilo in pubblico. Le correzioni, infatti, sono buone, e spesso sono meglio di un’amicizia troppo silenziosa. Anche se l’amico si sente offeso, tu correggilo lo stesso. Anche se l’amarezza della correzione gli ferisce l’animo, tu correggilo lo stesso. È meglio sopportare le ferite inflitte dagli amici, che i baci degli adulatori. Correggi, dunque, l’amico che va fuori strada”.
Nel correggere si devono evitare soprattutto l’ira e il risentimento acido, perché non sembri che, più che correggere un amico, uno voglia dar sfogo ad un eccesso d’ira. Ho visto infatti alcuni che nel correggere gli amici facevano passare per zelo e per sincerità la loro amarezza e il ribollire dell’esasperazione. Questo modo di correggere, che segue l’istinto e non la ragione, non ha mai fatto bene a nessuno, anzi, ha fatto spesso molti danni. Fra gli amici non c’è nessuna giustificazione possibile per questo vizio. L’amico deve infatti entrare in simpatia con il proprio amico, essere condiscendente, sentire come suo il difetto dell’altro, correggere in modo discreto, facendo propri i sentimenti dell’altro. Lo deve correggere con la tristezza del volto, con parole che sanno di afflizione, anche con il pianto che interrompe le parole. L’altro non deve solo vedere, ma anche sentire che la correzione sgorga dall’amore, e non dal rancore. Se l’amico rifiuta una prima correzione, accoglierà almeno la seconda. Tu intanto prega, piangi, mostra un volto rattristato, ma conserva un affetto pieno di carità.
Devi anche scrutare come è fatto il suo animo. Ci sono infatti quelli che si piegano più volentieri alle amorevolezze, altri che non ci fanno alcun caso, e si correggono più facilmente con la disciplina o con le parole. L’amico dunque si deve adattare all’amico, regolandosi secondo il suo carattere. E visto che deve stargli vicino nelle avversità che lo colpiscono da fuori, deve affrettarsi ancor più ad andargli incontro nelle difficoltà che affliggono il suo intimo. “Se dunque è proprio dell’amicizia ammonire ed essere ammoniti, fare una cosa con libertà ma senza asprezza, sopportare l’altro con pazienza, ma senza risentimento, dobbiamo star certi che nelle amicizie non c’è una peste più grande dell’adulazione e del servilismo. Queste cose sono tipiche di persone superficiali e bugiarde, che dicono sempre quello che vuole l’altro, ma mai la verità”.
Non deve esserci dunque nessuna esitazione tra gli amici, nessuna simulazione, cosa che più di qualsiasi altra ripugna all’amicizia. L’amico ha diritto alla “verità, senza la quale lo stesso nome di amicizia non ha alcun valore”. Dice il santo re Davide: “Mi percuota il giusto e il fedele mi rimproveri, ma l’olio dell’empio non profumi il mio capo” (Sal 141,5). Chi fa il furbo e agisce con finzione provoca l’ira di Dio. Per cui il Signore dice per mezzo del Profeta: “Il mio popolo! Un fanciullo lo tiranneggia e le donne lo dominano. Popolo mio, le tue guide ti traviano, distruggono la strada che tu percorri” (Is 3,12).

Perché, come dice Salomone, il simulatore con le sue parole inganna l’amico. Si deve dunque praticare l’amicizia in modo che, se talvolta, per motivi precisi, si può ammettere la dissimulazione, non deve mai esserci posto per la simulazione.
Marco: Ma dimmi, come è possibile che la dissimulazione sia necessaria, visto che è sempre, almeno mi sembra, un vizio?
Aelredo: Ti sbagli, carissimo. Si dice infatti che Dio dissimula i peccati di chi sbaglia, non volendo la morte del peccatore, ma che si converta e viva.
Marco: Allora fammi capire che differenza c’è tra la simulazione e la dissimulazione.

La dissimulazione come forma di rispetto

Aelredo: La simulazione, direi, è un consenso ingannevole, contrario al giudizio della ragione. Terenzio ha espresso con molta eleganza il concetto nel personaggio di Gnatone: “Qualcuno dice di no. Dico di no. Dice di si? Dico di si. Alla fine mi sono imposto di dar ragione a tutti”. Può darsi che questo pagano abbia attinto dal nostro tesoro, esprimendo con le sue parole quanto pensa un nostro profeta. Infatti è chiaro che il profeta intende la stessa cosa quando fa dire al popolo perverso: “Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni” (Is 30,10). E altrove: “I profeti predicono in nome della menzogna e i sacerdoti governano al loro cenno; eppure il mio popolo è contento di questo” (Ger 5,31). Questo vizio è sempre detestabile, sempre e ovunque da evitare. La dissimulazione invece è una forma di sospensione, per cui la pena o la correzione vengono rimandate, senza per questo approvare interiormente l’errore, ma tenendo conto del luogo, del momento, della persona. Se infatti il tuo amico commette uno sbaglio in pubblico, non lo devi rimproverare subito e davanti a tutti; ma, considerato il luogo, devi dissimulare, anzi, per quanto è possibile, salva restando la verità, devi scusare quello che ha fatto, e aspettare di trovarti in un luogo privato e familiare per fargli il rimprovero che merita. Così, quando una persona è occupata in molte cose, e si trova meno disposta ad ascoltare, oppure per un qualche motivo è emotivamente turbata e piuttosto agitata, è necessario dissimulare, fino a quando, finita l’agitazione, sia capace di accettare il rimprovero con più serenità. Quando il re Davide, spinto dalla sensualità, aggiunse all’adulterio un omicidio, il profeta Natan, rispettoso della dignità del re, non andò subito né con l’agitazione nel cuore a rinfacciare a una persona così importante il crimine commesso, ma dissimulando tutto per un tempo conveniente, riuscì con la prudenza a strappare allo stesso re la sentenza che lo condannava (cfr. 2Sam 12,1 13).
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